Per azzerare i suicidi in cella va azzerato anche il carcere di Valentina Manchisi Il Riformista, 22 aprile 2022 A Barcellona Pozzo di Gotto una giovane donna si è impiccata ad un albero durante l’ora d’aria. È l’ennesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Una media di un suicidio ogni tre giorni. Una violenza psicologica sottaciuta perché nessun clamore e, soprattutto, nessuno sgomento scuote le coscienze e nessuno sforzo si compie perché ciò non accada. Di queste tragedie si parla solo nei salotti buoni con una semplice e perbenista presa d’atto. Un dibattito che sembra essere senza soluzione, rinviato, scomodo. Da anni Rita Bernardini, con scioperi della fame, iniziative e proposte di legge, afferma di non voler essere complice. Poche e semplici parole che rivelano una verità evidente e vergognosa: siamo assuefatti alla tragedia delle morti in carcere. Coloro che giungono ad una decisione tanto estrema sono persone che non reggono l’impatto con una realtà disumana o il protrarsi del doverci vivere o, anche, l’avvicinarsi di un fine pena oltre il quale non c’è nulla perché le porte del pregiudizio, fuori dal carcere, sono tutte chiuse e ricostruirsi una vita è assai arduo. La ragione di ciò è ormai ben nota: il nostro sistema carcerario non fornisce adeguati strumenti per far espiare una pena attuando un concreto recupero della propria vita e del proprio sé, ma esercita una forza indiscriminata e burocratica, quando la burocrazia ha ben poco a che fare con l’animo umano e lo sviluppo di esso. Come si può pensare che il tintinnare delle manette possa redimere una persona da un errore passato e accoglierla in un sistema di recupero? Quale logica minimamente più evoluta del codice di Hammurabi può far credere che chiudere una persona in quattro mura, magari sovraffollata con altri detenuti, magari in attesa di un processo e dunque presunta innocente, possa servire per ottenere scopi educativi? Le statistiche su misure alternative e detenzione in carcere mostrano da anni i risultati nei Paesi ove le prime prevalgono nettamente sulla seconda: il tasso di suicidi è più basso, così come il rischio di recidiva una volta scontata la pena. Eppure, ai “cittadini per bene che non hanno mai sbagliato” non basta. Il sentimento di vendetta supera il concetto di giustizia della pena. La sofferenza altrui, giustificata dalle esigenze cautelari o da una condanna, diventa una panacea per il sentore sociale, che è più semplice e politicamente fruttuoso educare alla forca piuttosto che ispirare alla legalità. La reazione a un morto suicida in un istituto penitenziario della Repubblica non può concludersi con un “se l’è cercata”, ma dovrebbe smuovere il nostro volere il meglio per ogni essere umano che, ontologicamente fallace, non merita solo parole e promesse perché questo non basta più e non deve bastare più. Ben vengano amnistie e indulti, referendum contro l’abuso della custodia cautelare, riforme dell’ordinamento penitenziario che consentano uno svuotamento - se pur solo parziale - delle nostre carceri, un diffondersi della cultura della legalità per far comprendere che i detenuti sono cittadini tanto quanto le persone libere, con gli stessi diritti fondamentali, il cui esercizio deve essere garantito e mai ridotto per colpa di prassi, falle organizzative e carenze di sistema; cittadini che, per la loro condizione, si trovano sotto la custodia dello Stato, cioè di tutta quella parte di cittadini liberi che nella tutela dei detenuti aspirano a un miglioramento dell’intera società. In luogo di una risposta carceraria che, da decenni, non è extrema ratio ma misura applicata di default, bisogna ambire a un carcere ridotto al minimo, per non dire azzerato, la cui struttura organizzativa sia in grado di dare vita a leggi vigenti da quasi cinquant’anni e di fatto mai applicate, in cui i detenuti possano trovare nei loro educatori, nei loro interlocutori, nei loro magistrati di riferimento quella prossimità che è l’unico strumento per svolgere un percorso che sia davvero individualizzato e che possa condurli a una piena, vera e consapevole riconciliazione. Mentre Oscar Wilde subiva una lunga carcerazione e rifletteva su di essa, scriveva che tutto ciò di cui ci si rende conto è bene. Un secolo dopo, Marco Pannella gli faceva eco sostenendo che l’amore è costanza dell’attenzione e intimamente condannando il non fare, il non occuparsi, l’ignorare col politicamente corretto. Solo trasmettendo il bene, a chi non lo conosce o lo ha perso, è possibile realizzare ciò che la Costituzione pone alla base del più semplice dei diritti umani: la solidarietà. Il dramma degli stupri in carcere: una legge sull’affettività può limitarli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2022 Quello di Regina Coeli è solo l’ultimo episodio. L’ultimo studio risale al 2010 e rileva che erano 3.000 ogni anno. Tante le iniziative legislative, l’ultima della Conferenza dei garanti presentata in Parlamento dal Lazio. Ristretto nel carcere di Regina Coeli, secondo quanto ricostruito, un uomo di sessant’anni sarebbe stato abusato da due giovani compagni di cella mentre tutti e tre si trovavano isolamento in quanto positivi al Covid-19. La procura ha aperto l’inchiesta, mentre il sindacato di polizia penitenziaria Sappe approfitta per dare la colpa alla sorveglianza dinamica che però c’entra ben poco. L’ultimo dato utile sugli stupri in carcere risale al 2010 - Si tratta dell’ennesimo caso riguardante un tema poco affrontato: gli stupri in carcere. Non esistono dati ufficiali sulla violenza sessuale dietro le sbarre, l’ultimo dato utile risale addirittura nel 2010, ricavato da una associazione sui diritti umani che si chiamava “EveryOne”. In quell’anno, risultata che lo stupro e la schiavitù sessuale sono stati la concausa del 40 per cento dei suicidi in carcere. Lo studio ha rilevato che erano 3.000 i casi di stupri in carcere ogni anno. I casi non vengono sempre denunciati, e le strutture mediche carcerarie non sono adibite al controllo dei sintomi come abrasioni anali o rettali. Non vengono fatte visite specifiche. Non solo. La mancanza di educazione sessuale e l’assenza di strumenti di prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale - in primis, i preservativi - hanno causato il proliferare di infezioni sessualmente trasmissibili, dall’epatite all’HIV. Nel 2015 la proposta di legge di Alessandro Zan sull’affettività in carcere si bloccò in commissione Giustizia - Ma ritornando agli stupri in carcere, una soluzione per aiutare a limitare o a contenere i casi di stupro o schiavitù sessuale è da ritrovarsi nella legge - mai ancora approvata - sul diritto all’affettività in carcere. Nel 2015, grazie alla proposta di legge presentata dal deputato del Pd Alessandro Zan sembrava fatta. Invece rimase congelata alla Commissione Giustizia. Poi c’è stata la volta degli Stati generali dell’esecuzione penale che, grazie al tavolo 6 coordinato da Rita Bernardini del Partito Radicale, è stata elaborata una proposta sul riconoscimento e all’esercizio del diritto all’affettività del detenuto. Attenzione. La definizione è molto ampia relativamente al termine affettività: non si tratta solo di rapporti sessuali con mogli, mariti e fidanzati, ma la possibilità di veder rispettato il diritto alla territorializzazione della pena, i permessi, aumentare i colloqui sia visivi che telefonici. Non è solo il sesso, dunque, ma la necessità di garantire ai detenuti la possibilità di passare del tempo con la famiglia come una qualsiasi persona fuori dal carcere. Ma tutto questo non è stato poi recepito dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, rimasta tutto incompleta. Una legge che contempli il diritto all’affettività potrebbe limitare i casi di stupro - Il tema della sessualità, però, è una parte importante dell’uomo e della donna, e deve essere quindi espressa. Una legge che contempli tale diritto, potrebbe far venir meno un elemento di tensione e quindi limitare i casi di stupro. L’ Italia, però, rimane uno dei pochi paesi in Europa (tale diritto esiste in 31 stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa) che non prevede alcuna disposizione in merito all’affettività in carcere. Eppure, ricordiamo, che c’è l’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo dove stabilisce il “diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali”; “il comportamento sessuale è considerato un aspetto intimo della vita privata”. C’è anche il diritto di creare una famiglia, stabilito dall’articolo 12 della stessa Convenzione. Il consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita. (Raccomandazione R (98)7, regola n. 68). Anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato di mettere a disposizione dei detenuti dei luoghi per coltivare i propri affetti (Raccomandazione 1340 /1997 relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e sociali). Inoltre, si è stabilito che questi luoghi per la vita familiare debbano essere accessibili a tutte le persone incarcerate e per tutti i tipi di visite: coniuge, figli e tutte le persone con permesso di visita, senza alcuna discriminazione (Consiglio d’Europa: Raccomandazione R (98)7 relativa agli aspetti etici e organizzativi nei luoghi di detenzione Consiglio dei Ministri). Da più di due anni c’è l’ennesimo disegno di legge, questa volta elaborato dalla Conferenza dei Garanti - Oramai più di vent’anni fa, in un articolo intitolato “Il sesso del prigioniero mandrillo”, Adriano Sofri l’aveva spiegato bene che “la privazione sessuale non ha bisogno neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è il cuore dell’afflizione. Tutto ciò ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e al dolore: e fa apparire l’ipotesi della possibilità regolata di una relazione sessuale come un cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere, cioè alla peccaminosa superfluità, dell’animale umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di ogni reclusione e di ogni castigo”. Da oramai più di due anni c’è l’ennesimo disegno di legge, questa volta elaborato dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. È stato sottoposto ai consigli regionali perché lo portassero in Parlamento. Detto, fatto. L’ultima in ordine di tempo è stata la regione Lazio. Naufragherà anche questa legge? Caiazza: “Giusto sottrarre alle toghe il monopolio del Dap, la politica non si faccia intimidire” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 aprile 2022 Il Presidente dell’Unione Camere Penali sulla proposta lanciata dal Cesp di trasferire il Dipartimento sotto il controllo di Palazzo Chigi. Ieri dalle pagine del Dubbio abbiamo lanciato e fatto nostra la proposta di Enrico Sbriglia e Alessandro De Rossi, rispettivamente Presidente e vice presidente del CESP, di prevedere la migrazione dell’intero Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal dicastero della Giustizia alla presidenza del Consiglio dei Ministro. Abbiamo chiesto un parere al Presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, che in questa intervista ci offre anche qualche riflessione sullo sciopero prima annunciato e poi congelato da parte dei magistrati contro la riforma di mediazione Cartabia su Csm e ordinamento giudiziario. Presidente Caiazza cosa ne pensa di questa proposta del Cesp? L’idea di affidare il Dap a Palazzo Chigi anziché a Via Arenula va approfondita ma condivido pienamente l’idea di fondo. Noi, come Unione Camere Penali, denunciamo da sempre quello che voi avete titolato come ‘monopolio dei magistrati al Dap’. Non si comprende infatti perché quel Dipartimento, come altri ruoli apicali all’interno del Ministero della Giustizia, debbano essere affidati a dei magistrati. Se vogliamo poi, il Dap rappresenta persino il caso più eclatante. Il vertice del Dap è chiamato ad occuparsi della gestione amministrativa delle carceri, quindi di personale civile, di Polizia Penitenziaria, delle condizioni detentive dei reclusi, di edilizia carceraria, e infine deve amministrare un bilancio di imponenti dimensioni. Si tratta insomma di un incarico di alta amministrazione, in uno dei comparti pubblici più delicati e peculiari. Quindi sarebbe auspicabile che a dirigerlo ci fosse finalmente una figura manageriale. Sicuramente la figura di Carlo Renoldi rappresenta un passo avanti rispetto al passato... La sua esperienza quale magistrato di sorveglianza è senza dubbio positiva perché come ha sottolineato anche il professor Giovanni Fiandaca è importante avere al vertice del sistema penitenziario “personalità votate alla prospettiva rieducativa”. Rimane però il problema, in linea generale, che a capo del Dap c’è sempre un magistrato. Questa idea diffusa ieri sul nostro giornale si tradurrà in una proposta di legge da sottoporre all’attenzione del Parlamento. Andando a toccare gli interessi della magistratura, secondo Lei ci sono i presupposti affinché possa essere ben accolta? Noto che appena si toccano temi che mettono in discussione l’ipertrofia dei ruoli della magistratura, la politica si intimidisce o viene intimidita. Appena infatti essa compie dei piccoli passi in avanti, come nel caso della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, sappiamo tutti qual è la stata la reazione della magistratura. Mi auguro che la politica sappia finalmente liberarsi da questa dimensione ancillare rispetto alla magistratura. A proposito di riforma e reazioni, Lei si è espresso ultimamente sulle “vere ragioni dello sciopero dei magistrati”. Però adesso l’iniziativa è congelata in attesa dell’Assemblea generale del 30 aprile. Come interpreta questa frenata? Probabilmente l’Anm si è resa conto di aver messo in scena una reazione totalmente insensata, nervosa, sopra le righe, rispetto alla modestia delle modifiche dell’ordinamento giudiziario apportate in sede parlamentare. Su questo giornale il professor Guzzetta si è chiesto se lo sciopero “politico” dell’Anm sia davvero legittimo in una cornice costituzionale... Ha ragione a porre questa questione. Ma a prescindere dalla questione di legittimità dell’iniziativa, a me preme sottolineare il significato politico di questo riflesso, l’idea che di giustizia, nel significato più ampio possibile, la politica possa parlarne solo con il consenso della magistratura o sotto sua dettatura. Non c’è dubbio che se ci fosse lo sciopero esso sarebbe fatto contro una scelta politica del Governo e del Parlamento. Qui non si sta discutendo degli stipendi o del trattamento pensionistico dei magistrati ma di un assetto ordinamentale. Ma accanto a questo Lei condivide il pensiero di coloro che sostengono che la magistratura non sia addivenuta ad una piena assunzione di responsabilità per la crisi che l’ha investita? Siamo in presenza di una vera cecità, di una totale mancanza di consapevolezza di quali siano le cause vere della crisi istituzionale della magistratura e di credibilità della funzione giurisdizionale per come viene esercitata agli occhi del cittadino. Lo si è visto anche dai sondaggi secondo i quali la fiducia è calata dal 70 al 35%. Non cogliere questo aspetto e non interrogarsi sul perché il cittadino non nutra più fiducia nei confronti dei magistrati, ad esempio rispetto al tema della mancanza di terzietà e a quello della irresponsabilità dei giudici, dà la dimensione della cecità autoreferenziale della magistratura italiana. Però è anche vero che in questi giorni l’Anm, respingendo l’accusa di voler far pressione sul Parlamento, sta ripetendo che le loro iniziative sono proprio rivolte ai cittadini affinché capiscano i motivi alla base della insofferenza che sta vivendo la magistratura rispetto a questa riforma... Anche quando il pool di Mani Pulite andò in televisione con le barbe incolte per protestare contro il decreto Biondi si disse che l’obiettivo era quello di spiegare ai cittadini. Io trovo che oggi come allora sia grave: la magistratura pensa di avere titolo per parlare al popolo. E ciò dimostra la dimensione politica che vogliono far assumere alle loro iniziative. Eppure i magistrati sono delle persone che hanno superato un concorso e che devono esercitare una funzione connessa alle competenze acquisite. L’unico modo che la magistratura ha di parlare con i cittadini sono i provvedimenti e le sentenze. Renoldi, La Fp Cgil dice: “Buona la prima. Ora costruiamo insieme il carcere del futuro” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 aprile 2022 “Apprezziamo che il nuovo Capo del Dap, Carlo Renoldi, abbia iniziato, mettendolo tra i primi atti del suo mandato, il confronto con le organizzazioni sindacali, dichiarando la volontà di trovare obiettivi comuni per costruire insieme il carcere dei prossimi anni”. Questo il commento della Fp Cgil al termine dell’incontro che si è tenuto ieri presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria tra il Capo del Dap e i sindacati della Dirigenza penitenziaria, delle Funzioni centrali e dei Dirigenti di Area 1. “Occorre ricostruire unità di visione e di intenti tra tutte le figure professionali che lavorano in carcere - prosegue la Fp Cgil -, dando un segnale di discontinuità con il passato e garantendo pari dignità, tutele e considerazione a tutti i lavoratori. Per fare questo il primo segnale di discontinuità con il passato deve essere evidenziato nelle politiche assunzionali, che devono essere implementate fino a colmare le gravi carenze negli organici che si registrano ad oggi, e nella possibilità di garantire adeguate progressioni in carriera, temi che richiedono una presenza costante del Capo dipartimento ai futuri tavoli di confronto che si terranno al Ministero della Giustizia”. “Tra le priorità da affrontare nell’immediato - aggiunge il sindacato - abbiamo segnalato anche la necessità di dare un quadro normativo di riferimento e un riconoscimento retributivo adeguato alla Dirigenza penitenziaria, aprendo finalmente il tavolo negoziale che possa portare alla definizione del primo contratto di lavoro. Tenendo conto anche della vacanza contrattuale che si protrae da 17 anni per colpa di scelte politiche scellerate, e l’urgenza di valorizzare il personale delle funzioni centrali, garantendo il turn over, risorse per la formazione, la rivisitazione dei profili professionali, la possibilità di progredire fino a una dirigenza di filiera e dando maggior chiarezza sul futuro, anche in considerazione della creazione del nuovo dipartimento del Ministero della Giustizia che si occuperà della gestione dei dati statistici”, conclude la Fp Cgil. Il Comitato anti-tortura invita a fissare un limite al numero di detenuti in ogni carcere coe.int, 22 aprile 2022 Il Comitato del Consiglio d’Europa sulla prevenzione della tortura (Cpt) ha invitato gli Stati europei con un sovraffollamento carcerario persistente a fronteggiare questo problema con determinazione fissando una soglia massima - da rispettare scrupolosamente - per il numero di detenuti in ogni istituto penitenziario e favorire il ricorso alle misure alternative alla detenzione. Nel suo rapporto annuale per il 2021, il Cpt sottolinea che sebbene, con il tempo, alcuni paesi abbiano compiuto progressi tangibili nella lotta contro il sovraffollamento delle carceri, questo problema persiste in un gran numero di sistemi penitenziari, in particolare nelle strutture che accolgono le persone in custodia cautelare. Inoltre, anche nei paesi in cui il sovraffollamento non risulta essere un problema in tutto il sistema carcerario, è possibile che alcune carceri, alcune aree di un carcere o alcune celle siano sovraffollate. “Il sovraffollamento carcerario compromette ogni sforzo volto a offrire un senso pratico alla proibizione della tortura e delle altre forme di maltrattamento poiché può portare a violazioni dei diritti umani. Mette in pericolo tutti i detenuti, soprattutto i più vulnerabili, tanto quanto il personale penitenziario, e compromette gli sforzi che mirano al loro reinserimento. I governi devono far sì che i detenuti abbiano spazio sufficiente per vivere in carcere dignitosamente e che le misure non detentive vengano utilizzate in modo adeguato, garantendo allo stesso tempo che il sistema penale offra alla società la protezione necessaria”, ha dichiarato il presidente del Cpt, Alan Mitchell. Il rapporto ricorda che il sovraffollamento carcerario è principalmente il risultato di politiche penali severe, di un ricorso più frequente e duraturo alla detenzione cautelare e a pene detentive più lunghe e di un ricorso ancora limitato alle misure alternative al carcere. Infine, il Cpt avverte che con la cessazione di misure severe per la prevenzione dalla pandemia Covid-19, il numero di detenuti è di nuovo in aumento in alcuni paesi, cosa che in futuro potrebbe aumentare il sovraffollamento nelle carceri. Nel 2021, il Cpt ha effettuato nove visite periodiche (in Austria, Bulgaria, Lituania, Federazione russa, Serbia, Svezia, Svizzera, Turchia e Regno Unito) e sei visite ad hoc per esaminare questioni specifiche (in Albania, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Grecia e Romania). Riforma del Csm, sulla legge elettorale si cambia ancora e rimangono le correnti di Marika Ikonomu Il Domani, 22 aprile 2022 Si è tornati al testo iniziale approvato dal Consiglio dei ministri sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, abbandonando così il compromesso raggiunto dalla maggioranza in sede di commissione. Un sistema che non contrasta l’influenza delle correnti perché prevede che i collegi vengano scelti con un preavviso di almeno quattro mesi. È in corso alla Camera la discussione sul disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. Dopo essere slittata a oggi la votazione sugli emendamenti per il passaggio obbligato dalla commissione Bilancio, l’aula sta esaminando i 220 emendamenti. Con un emendamento il parlamento è tornato al testo iniziale approvato dal Consiglio dei ministri sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, abbandonando così il compromesso raggiunto dalla maggioranza in commissione Giustizia. La Camera ha appena approvato con 278 voti a favore e 48 contrari l’emendamento presentato ieri dalla commissione. Un sistema che non contrasta l’influenza delle correnti perché prevede che i collegi vengano scelti con un preavviso di almeno quattro mesi. È in corso alla Camera la discussione sul disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. Dopo essere slittata a oggi la votazione sugli emendamenti per il passaggio obbligato dalla commissione Bilancio, l’aula sta esaminando i 220 emendamenti presentati dalle minoranze, Fratelli d’Italia e Alternativa c’è, ma anche da partiti che sono nella maggioranza di governo: Lega e Italia viva. Il passaggio in commissione Giustizia, lungo e complicato, aveva permesso di raggiungere un fragile equilibrio sul testo: ieri però la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha modificato parzialmente le disposizioni sulla legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Un intervento dovuto dalla mancata promessa della Lega di non presentare emendamenti in aula, dopo l’accordo di maggioranza, e dalle difficoltà di un sorteggio dei distretti elettorali. Fonti interne della maggioranza, come aveva scritto Domani, avevano però confermato la tenuta dell’accordo, sostenendo che gli emendamenti presentati dai due partiti presenti nel governo servivano solo a fissare alcuni principi politici. I lavori dovrebbero continuare al prossimo 26 aprile, data in cui è previsto l’ok al provvedimento. La maggioranza era riuscita a raggiungere un’intesa sulla legge elettorale del Csm, punto cruciale per disincentivare l’accordo tra le correnti della magistratura: il sorteggio delle corti d’appello per formare i collegi in cui i magistrati voteranno per eleggere i togati. Ma l’aula ha appena votato l’emendamento che modifica questo sistema. La decisione della Lega di proporre in aula diversi emendamenti, tra cui quello sulla legge elettorale del Csm - per introdurre il sorteggio temperato, l’estrazione a sorte dei singoli candidati - ha fatto saltare l’accordo portando così alla decisione della ministra di tornare a un sistema maggioritario binominale con correttivo proporzionale. Secondo il nuovo testo, modificato attraverso un emendamento della commissione presentato ieri sera, i collegi verranno scelti con decreto del ministro della Giustizia, sentito il Csm, almeno quattro mesi prima delle elezioni, “tenendo conto dell’esigenza di garantire che tutti i magistrati del singolo distretto di Corte d’Appello siano inclusi nel medesimo collegio e che vi sia continuità territoriale tra i distretti inclusi nei singoli collegi, salva la possibilità, al fine di garantire la composizione numericamente equivalente del corpo elettorale dei diversi collegi, di sottrarre dai singoli distretti uno o più uffici per aggregarli al collegio territorialmente più vicino”. Il sorteggio dei distretti era stato scelto per andare incontro alle richieste della Lega, che inizialmente aveva chiesto il sorteggio dei singoli candidati, ma la ministra e la presidenza della Repubblica sostenevano l’incostituzionalità. Si è poi raggiunto un compromesso che prevedeva il sorteggio dei collegi, criticato però dalla stessa Bongiorno che aveva sostenuto l’emendamento. “Chiamatelo ex Bongiorno”, aveva detto, dicendo che senza “l’effetto sorpresa” le correnti avrebbero comunque avuto tempo di organizzarsi. “Consapevoli dei limiti del provvedimento”, ha detto Bongiorno, “abbiamo proposto varie soluzioni che però sono state sistematicamente annacquate. Con spirito costruttivo proveremo ancora a migliorare il testo, pur coscienti che altre forze frenano il cambiamento. Una riforma troppo circoscritta e che cambia poco conferma quanto siano essenziali per voltare pagina i referendum sulla Giustizia”, ha continuato la senatrice della Lega. È stato respinto l’emendamento all’articolo 1 sull’eliminazione del cumulo delle indennità a prima firma Giusi Bartolozzi, del Gruppo misto, con 77 voti a favore e 274 contrari. La modifica mirava a togliere la possibilità di cumulare indennità e compensi per chi esercita contemporaneamente diverse funzioni. Una proposta di modifica appoggiata anche da Italia viva e Fratelli d’Italia. “C’è un bel che dire di volere operare una riforma della giustizia che stoppi il correntismo, limiti il collocamento fuori ruolo dei magistrati, separi le carriere e poi al contrario in aula non sostenere gli emendamenti che queste proposte vogliono attuare”, ha commentato Bartolozzi, dicendo che l’emendamento da lei proposto mirava a eliminare “ingiusti privilegi attualmente goduti dai magistrati fuori ruolo che in taluni casi arrivano a percepire 267 mila euro annui”. L’aula ha poi bocciato l’emendamento della Lega sulla separazione delle funzioni giudicante e requirente con 125 voti a favore e 246 contrari. Non è passata nemmeno la modifica proposta da Italia viva sulla responsabilità civile dei magistrati. Entrambi elementi oggetto dei quesiti referendari che si voteranno il prossimo 12 giugno. “I voti di oggi sono l’inizio del percorso della riforma sul Csm che dovrà essere completato al Senato”, ha commentato Bongiorno, continuando: “È evidente comunque che per imprimere un profondo e autentico cambiamento occorre votare per i referendum, a maggior ragione dopo la bocciatura dell’emendamento sulla separazione delle carriere”. Bongiorno: “Sul Csm sorteggio snaturato. La bandierina non ci serviva” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 22 aprile 2022 La senatrice leghista: “Il mio sì per salvare la riforma”. Martedì il via libera alla Camera. Respinti tutti gli emendamenti, martedì la riforma attende il primo sì della Camera. Tre mesi per trovare un accordo con la Lega sul sorteggio al Csm e non lo avete voluto più. Senatrice Giulia Bongiorno tempo sprecato? “La proposta della Lega è il sorteggio dei candidati scelti tra tutti i magistrati con requisiti minimi, come indubbia professionalità e assenza di procedimenti disciplinari. È l’unico meccanismo che consente di recidere il cordone ombelicale”. Quale cordone? “Tra eletto e corrente che lo ha sostenuto. Un vincolo di gratitudine che condiziona poi il consigliere nell’ esame delle pratiche”. Non è incostituzionale? “Anche la Costituzione si può cambiare. Ne parliamo da ottobre, avessimo agito con tempestività avremmo risolto. Ma per mesi non si è più parlato di Csm. Noi siamo stati costruttivi e abbiamo allora proposto di sorteggiare gli elettori. Con due vincoli: l’extra territorialità del candidato, in modo da valorizzare solo il curriculum, e, soprattutto l’effetto sorpresa: l’abbinamento candidato-collegio fatto al massimo 20 giorni prima così da rendere difficili gli accordi fra correnti. Ma questa idea è stata stravolta ed è arrivata una proposta ibrida”. Cosa intende per ibrida? “Sono stati eliminati i requisiti essenziali per l’effetto sorpresa. Avevamo la bandierina, ma era inutile e poco seria”. Non potevate dirlo prima? “È stato riformulato giovedì e subito in commissione abbiamo ripudiato la nuova versione. E al Corriere ho ribadito di chiamarla “ex-Bongiorno”. A questo punto il ministro ha pensato di tornare indietro e lealmente mi ha avvisato. Avremmo potuto far saltare il tavolo. Ma per salvare quel po’ di buono che c’è nella riforma, l’abolizione di nomine a pacchetto, il fascicolo del magistrato e la riduzione del passaggio di funzioni, abbiamo dato l’ok con Turri. È una riforma poco incisiva con alcuni piccoli interventi positivi”. Vi siete smarcati anche su separazione delle funzioni... “Né imboscate, né sorprese. La Lega non può tarparsi le ali sui referendum unica arma per un autentico cambiamento. Ma il ministro lo sapeva e anche le altre forze come il Pd che con il centrodestra sulla giustizia ha una distanza siderale. Di fatto l’impatto della riforma è assai circoscritto”. Ma all’Anm non piace. Si parla di sciopero... “Su un potere dello Stato che sciopera contro un altro resto perplessa. In ogni caso è una reazione spropositata proprio perché non è una riforma epocale ma un intervento blando. La posizione della Lega è diversa: il Csm va demolito e ricostruito”. Al Senato i numeri consentono maggioranze diverse. E c’è chi teme che sia un iter in salita per la riforma. Come vi comporterete? “Riproporremo miglioramenti. Ma perché parliamo solo di sistema elettorale e non di chi mandare al Csm? Mi piacerebbe che ci fossero gli esponenti più autorevoli della magistratura magari a fine carriera per sfuggire alle logiche dello scambio di favori”. Dicono che la Lega usi la giustizia come ricatto nella trattativa sul fisco. È così? “Ho condotto personalmente la trattativa sulla giustizia. Non si è mai parlato di fisco. Il baratto non esiste”. Parità di genere per i futuri componenti laici del Csm: le preoccupazioni di Fico di Liana Milella La Repubblica, 22 aprile 2022 I dubbi del presidente della Camera sull’applicazione concreta dell’articolo 30 della riforma, che fissa il principio della presenza “paritaria” tra uomini e donne. Il sottosegretario Francesco Paolo Sisto: “È un principio generale”. Ma si rischia il ricorso alla Consulta. Poche righe, all’articolo 30 della riforma del Csm, ma tali da destare i dubbi del presidente della Camera, Roberto Fico. Riguardano la parità di genere garantita, ma solo a parole, per l’elezione dei futuri componenti laici di palazzo dei Marescialli. Saranno dieci, anziché gli otto di oggi. E tra di loro dovranno esserci anche delle donne. Metà e metà sarebbe il massimo, ma anche un terzo potrebbe bastare. Certo non nessuna donna, proprio come nel Csm in uscita: otto laici, e tutti uomini. Per vedere delle signore bisogna guardare tra i consiglieri togati. E se ne trovano sei su sedici. Per evitare nuove sorprese, soprattutto il Pd ha spinto per inserire nella legge il principio della parità di genere. Ma cosa c’è scritto all’articolo 30? Eccolo: “I componenti da eleggere dal Parlamento sono scelti, nel rispetto della parità di genere garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione, secondo princìpi di trasparenza nelle procedure di candidatura e di selezione, tra professori ordinari di università in materie giuridiche e tra avvocati dopo quindici anni di esercizio effettivo, nel rispetto dell’articolo 104 della Costituzione”. La Costituzione parla chiaro. Articolo 3: “Tutti i cittadini sono uguali, senza distinzione di sesso...”. Articolo 51: “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza”. L’articolo 104 stabilisce che un terzo dei componenti del Csm viene eletto dal Parlamento. Sì, ma come arrivarci? Come farlo in concreto? Come essere certi che dalle urne piazzate nell’emiciclo della Camera esca un numero equo di uomini e donne? Qui s’innestano i dubbi di Fico, che ovviamente condivide il principio, ma si preoccupa delle modalità per metterlo in pratica. Che lo striminzito articolo 30 della riforma del Csm di certo non indica. Quando i dilemmi del presidente della Camera sono arrivati sulla scrivania dei relatori - il dem Walter Verini, Eugenio Saitta del M5S - non hanno trovato una risposta. Per certo proprio Verini è stato uno dei sostenitori più espliciti della necessità di inserire nella legge il principio della parità di genere. Che però manca di una declinazione concreta, efficace al punto da costringere i partiti ad accordarsi su una rappresentanza significativa e “paritaria” anche al femminile. Il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, avvocato di professione, alle obiezioni ha risposto così: “Questo è solo un principio generale”. Ma il rischio è che, senza regole certe e tassative, ancora una volta le donne finiscano discriminatore. Proprio com’è avvenuto nel 2018. A quel punto non resterebbe che utilizzare una sola via, quella della Corte costituzionale, particolarmente attenta alla tutela dei diritti delle donne, per sanare l’ennesimo vulnus. Perché di certo non basta che alla Camera ci sia la “stanza delle donne”, che alle pareti vede anche la foto della ministra della Giustizia Marta Cartabia come donna rappresentativa in quanto prima presidente della Consulta. Pagelle ai magistrati? Ecco perché al momento sono una chimera di Errico Novi Il Dubbio, 22 aprile 2022 Riforma Csm, pagelle per i magistrati difficili da realizzare. Il fascicolo informatico dovrebbe rivoluzionare valutazioni sulla professionalità delle toghe e scelta dei “capi”: ma ad oggi i server degli uffici giudiziari non comunicano fra loro, neppure all’interno dello stesso distretto. Non esiste l’infrastruttura tecnologica per sapere se un pm ha visto troppo spesso assolti gli imputati spediti a processo. Leggi Eugenio Albamonte, figura importante nella magistratura associata, e ti convinci che davvero il fascicolo informatico di valutazione “inventato” dalla riforma del Csm sia l’armageddon della magistratura. Interpellato dall’agenzia LaPresse sulle “criticità” che ravvisa nel testo, il segretario di “Area” ed ex presidente Anm cita tre punti ancora indigesti per le toghe: “Separazione delle funzioni inserita in modo drastico”, “ricorso eccessivo a sanzioni disciplinari di tipo simbolico e intimidatorio” ma, soprattutto, il “fascicolo del magistrato”, che veicolerebbe, per Albamonte, “un esplicito messaggio di mortificazione e punizione”. È lo spauracchio, appunto, l’incubo della magistratura. Ma davvero c’è da avere tanta preoccupazione, di fronte all’ipotesi, disegnata dalla legge delega, di una banca dati con gli “insuccessi processuali” di giudici e pm? Davvero si rischia, come sostiene l’Anm, di incoraggiare una “giustizia difensiva”, una magistratura ansiosa di rifugiarsi nella giurisprudenza consolidata, pur di evitare che si impenni la statistica sulle bocciature dei propri provvedimenti? Da una prima verifica oggettiva, la risposta è no, e il corollario è: se davvero si vuole rendere effettiva l’adozione del “fascicolo” nelle valutazioni di professionalità e nella scelta dei futuri procuratori capo (o presidenti di Tribunale), si dovrà scalare una vera e propria montagna di ostacoli. Perché? Semplice: allo stato attuale, non esistono gli strumenti, innanzitutto informatici, per attuare la norma in questione. Ad oggi, nel sistema giustizia, non è prevista neppure la comunicazione tra il server di un tribunale e quello della corrispondente Procura o della Corte d’appello. Figurarsi quanto sia lontana una infrastruttura in grado di assemblare statistiche globali su ciascuno dei 9.000 magistrati ordinari del nostro Paese, sugli esiti delle loro attività, sulle riforme in appello delle pronunce emesse in primo grado e così via. Non sarà impossibile, ma certo sembra difficilissimo. Partiamo dall’obiettivo della legge e ricordiamo innanzitutto una cosa: a promuovere la norma sul fascicolo di valutazione è stato un deputato in particolare: Enrico Costa. Responsabile giustizia e vicesegretario di Azione, Costa ha il merito di aver inserito nel ddl sul Csm proposte e modifiche tra le più incisive in assoluto. Sul fascicolo, ha ottenuto il via libera alla seguente previsione, inserita nella riforma all’articolo 3, comma 1, lettera h): andrà istituito il “fascicolo per la valutazione del magistrato, contenente, per ogni anno di attività, i dati statistici e la documentazione necessari per valutare il complesso dell’attività svolta, compresa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti (…) nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio…”. Attenti a quel passaggio: “Gravi anomalie”. È la chiave di tutto. Si vuol sapere, più di ogni altra cosa, se qualche magistrato è andato incontro con abnorme frequenza a “bocciature” dei propri atti, se un giudice ha visto riformate troppo spesso le proprie decisioni o se un pm è andato a sbattere con impressionante puntualità su assoluzioni degli imputati di cui aveva chiesto il giudizio, o anche su annullamenti delle misure cautelari invocate. Ecco: il cuore dell’obiettivo di Costa è questo. Ripetiamo la domanda: è realizzabile? E la risposta è appunto negativa se guardiamo ai mezzi tecnologici oggi a disposizione. Non esiste a via Arenula una banca dati che colleghi le statistiche provenienti dai diversi Tribunali, e ovviamente non ne ha una propria il Csm, a cui competono valutazioni e promozioni delle toghe. “Nel nostro distretto abbiamo stipulato protocolli d’intesa fra i capi di tutti gli uffici giudiziari proprio affinché sia possibile estrarre, su specifica richiesta, il genere di informazioni immaginate nella norma”, spiega un magistrato fra i più all’avanguardia nell’organizzazione giudiziaria, il presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli. “Ciascun ufficio giudiziario italiano ha il proprio server, isolato dagli altri. Sulla mancanza di connessione stabile e diretta fra Tribunali, Corti d’appello e Cassazione, si deve tener conto di un’esigenza: la sicurezza. Non si può mettere tutto in condivisione. Va costruita una banca dati nazionale su misura, garantita e protetta. Immaginare che possa essere agevole”, osserva Castelli, “sarebbe da ingenui”. Certamente non sottovaluta la questione Marta Cartabia. In una delle recenti riunioni di maggioranza sulla riforma del Csm, la guardasigilli ha detto, a proposito del fascicolo di valutazione: “Non sarà facile, c’è un’infrastruttura da costruire e ci sarà molto da lavorare per arrivarci”. Dopodiché ha “benedetto” e condiviso l’emendamento Costa. Ancora Castelli spiega: “Vanno tenute in conto le obiezioni sul rischio di reprimere, nei magistrati, libertà e sforzo di innovazione. Se emergesse una frequente caduta dei provvedimenti nei gradi o nelle fasi successive, si dovrebbe accertare se quel giudice, anche civile, o quel pm non abbia semplicemente guardato a una giurisprudenza diversa da quella prevalente: magari tra 10 anni la Cassazione ci farà scoprire che aveva ragione lui. Altro è se le bocciature dei provvedimenti non sono spiegabili con motivazioni del genere e vanno ricondotte a sciatteria: lì il fascicolo svelerebbe sì inefficienze e inadeguatezze”. Ma per arrivarci, appunto, come dice anche Cartabia, ci vorrà tempo, impegno. E, aggiungiamo noi, anche la volontà di abbattere qualche muro che finora, attorno alle verità oggettive della giustizia, il Csm è riuscito a tenere sempre ben in piedi. Ma col fascicolo informatico valuteremo davvero le toghe su basi reali anziché politiche di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 22 aprile 2022 È notizia di queste ore il via libera ad alcune norme inserite nella riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario su iniziativa del deputato di Azione Enrico Costa, e con il parere favorevole della ministra Marta Cartabia, che hanno suscitato severe critiche da talune correnti della magistratura. La prima concerne l’introduzione di una sanzione disciplinare tipizzata per il pm che abbia emesso o indotto ad emettere un provvedimento restrittivo della libertà personale al di fuori dei presupposti di legge, senza trasmettere al giudice “per negligenza grave ed inescusabile” elementi rilevanti ai fini della decisione. Il secondo emendamento, dirompente a parere di chi scrive e fortemente voluto e sostenuto anche dall’Unione Camere penali, propone di introdurre un fascicolo informatico (creando una banca dati) delle cosiddette performance del singolo magistrato, ai fini delle valutazioni di professionalità e del conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi. Trattasi, in pratica, di personalizzato compendio documentale e statistico dei risultati professionali del magistrato che permetta concretamente di valutare l’attività svolta, inclusa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo; la tempestività nell’adozione dei provvedimenti; la sussistenza di caratteri di significativa anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio. Questo dossier è ipotizzato in aggiunta a quanto già previsto dal D. Lgs. 160/2006 su “autorelazione”, atti e provvedimenti del magistrato e verbali d’udienza acquisiti ‘a campione’, “rapporto informativo” (redatto dal Capo dell’Ufficio), segnalazioni del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Una proposta che non è stata certo accolta con favore da alcuni settori della magistratura ma che lo scrivente aveva già abbozzato nel lontano 2020, allorquando rappresentava la necessità di trattare i Palazzi di giustizia al pari degli enti collettivi per ottimizzare i livelli di efficienza e produttività con l’introduzione di figure analoghe ai manager aziendali. Diversamente, il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino, ad esempio, solleva il dubbio - legittimo - che “una siffatta riforma” alimenterebbe “il conformismo giurisdizionale” rafforzando il “carrierismo”. Lo stesso dottor Musolino sostiene che un meccanismo valutativo così concepito condurrebbe il magistrato ad adeguare il proprio convincimento ad orientamenti maggioritari, in modo da ridurre al minimo la possibilità che proprie decisioni siano riformate in gradi successivi, abdicando così a compiere scelte coraggiose (nei termini di un’evoluzione del diritto) ovvero non in linea con la giurisprudenza prevalente, sebbene più calzanti o tutelanti delle parti processuali. La critica è stimolante e aiuta, per l’opposto, a ipotizzare ulteriori correttivi al sistema di valutazione del magistrato, introducendo semmai più elementi di carattere soggettivo che statistico. Il leitmotiv dell’onorevole Costa è l’emersione, in misura proporzionale e del tutto simmetrica, tanto delle inefficienze giudiziarie quanto di tutte quelle professionalità che in silenzio, abnegazione, spirito del dovere e lontane da palcoscenici mediatici, lavorano indefessi all’esercizio della giurisdizione e all’amministrazione della giustizia in nome del popolo italiano. In quest’ottica, dunque, di pura meritocrazia (“far emergere i bravi magistrati rispetto ai meno bravi”, spiega il parlamentare di Azione) si attesta l’intento riformatore, ben lungi dal voler introdurre forme di valutazione squisitamente aziendalistiche basate su numeri, statistiche e dati. Un quid pluris per consentire al sistema di essere maggiormente performante e, nel contempo, prudente ed equo. Del tutto sottoscrivibili le parole di Costa, il quale ha opportunamente sottolineato come “finora il 99 per cento di valutazioni di professionalità positive deliberate dal Csm” derivasse dal fatto che “in realtà non si guarda in concreto l’opera di quel giudice o di quel pm: gli si dà un voto positivo di natura politica”. Un emendamento che si auspica possa mantenere fino all’approvazione definitiva della riforma lo stesso ampio consenso ottenuto sin qui, grazie all’intesa della maggioranza delle forze politiche. Un emendamento che, insieme agli altri in materia di valutazione della professionalità dei magistrati (art. 3, ddl A. C. 2681) - come, ad esempio, quello che introdurrebbe una maggiore specificazione del giudizio di positività della valutazione (troppo generico per come ora formulato) nonché quello che vorrebbe attribuire un rilievo ai fini valutativi anche all’esistenza di procedimenti disciplinari definitivi a carico del singolo magistrato - si caratterizza per la ferma volontà di garantire (e ripristinare) trasparenza e rigore nel procedimento, indubbiamente delicato, di valutazione circa l’operato professionale degli appartenenti alla magistratura, giudicante e requirente. *Avvocato, Direttore Ispeg Violenza sulle donne: formazione sulla “vittimizzazione secondaria” per avvocati e magistrati di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2022 È quanto emerge dalla Relazione “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale” approvata ieri dalla Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere. La Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere ha approvato ieri all’unanimità la Relazione su “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”. “È una relazione - spiega la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione di Femminicidio - che giunge al termine dell’esame di un campione rappresentativo costituito da circa 1.500 fascicoli processuali di separazione con affido di minori e dei 40 casi in cui le madri hanno denunciato la sottrazione dei figli”. “Ciò che emerge dalla relazione - continua Valente - è che donne e bambini vittime di violenza domestica possono subire ulteriore vittimizzazione nel corso dei procedimenti giudiziari di separazione. Ciò conferma che occorre maggiore formazione da parte di tutti gli operatori per riconoscere la violenza domestica e una più ampia correlazione tra cause civili per separazione e penali per violenza domestica”. E infatti il testo dedica un paragrafo proprio alla “Formazione specialistica in materia di violenza domestica”, affermando che “appare fondamentale incrementare la formazione di tutti gli operatori sul tema della violenza domestica”. Occorrerebbe dunque prevedere: una specializzazione obbligatoria di tutti gli attori istituzionali coinvolti: forze dell’ordine, magistrati, avvocati, consulenti, operatori dei servizi sociali con corsi di formazione obbligatoria sugli indici di riconoscimento della violenza domestica e sulla normativa nazionale e sovranazionale in materia. Ma anche la formazione di liste di professionisti specializzati cui attingere in presenza di allegazioni di violenza. E infine percorsi di formazione condivisa tra magistratura forze dell’ordine, avvocatura, servizi sociali, servizi sanitari, centri e associazioni anti violenza, anche per la diffusione di conoscenze condivise per l’individuazione degli indici di violenza domestica. Si perché dalla Relazione emerge la mancata capacità dell’ordinamento e soprattutto degli operatori della giustizia, avvocati compresi, di individuare la violenza in comportamenti considerati - e sovente descritti dalla stessa vittima - come di mero conflitto familiare. Una deriva che produce “danni rilevanti, non solo nei confronti della donna che ha subito la violenza … ma anche nei confronti dei minori esposti alle medesime condotte violente”. Così per esempio accade che già al momento della proposizione della domanda di affidamento dei figli minori “gli stessi difensori della vittima, nell’atto introduttivo del giudizio, pur descrivendo condotte violente, le minimizzino ovvero le riconducano nell’alveo del conflitto tra coniugi o tra partner, non cogliendo le ricadute negative che queste condotte hanno avuto sui minori, giungendo quindi in molti casi a chiedere che venga disposto l’affidamento condiviso del figlio”. Dall’analisi dei fascicoli poi viene fuori una incapacità degli attori coinvolti nelle separazioni giudiziali con affidamento di minori (magistrati, avvocati, consulenti e servizi) di “riconoscere la violenza, di considerarla un discrimine ai fini dell’affido e della domiciliazione dei figli minori, di comprendere se è presente una specifica formazione in materia di violenza di genere, di accertare quanto venga rispettata in concreto la Convenzione di Istanbul che, ratificata con la legge n. 77/2013, è entrata a pieno titolo nel tessuto normativo italiano”. E proprio gli stereotipi di genere “purtroppo ancora presenti nella cultura di giudici, avvocati, consulenti tecnici e assistenti sociali” rendendo il percorso della vittima ancor più difficoltoso. “Quando sono presenti stereotipi molto radicati - si legge nella Relazione -, la violenza contro le donne non viene riconosciuta”. “La storia della violenza di genere, all’interno dei Tribunali - prosegue il testo -, è anche questo: è la storia di un non vedere, un non sentire, un non riconoscere. E’ anche la storia di una ricerca lessicale, molto faticosa, per non nominare la violenza, per trovare “parole altre” che spesso determinano una perdita di significato delle singole vicende: ecco che, dunque, la violenza diviene conflitto, la sindrome di alienazione parentale diventa violazione del diritto all’accesso, le madri, inizialmente qualificate come “alienanti”, oggi sono definite “simbiotiche”, la bigenitorialità cessa di essere un diritto del minore - e come tale concorrente con tutti gli altri diritti che lo riguardano come salute, cura, sicurezza - per assurgere a diritto assoluto della sfera adulta”. Un complesso di ragioni che si traduce nel fatto che “molte donne fanno più fatica a denunciare che a interrompere la relazione e la convivenza e preferiscono chiedere agli avvocati di depositare in tempi rapidi un ricorso consensuale anziché intraprendere un percorso penale”. Le denunce dunque continuano a “fare paura” e non sempre vengono viste come mezzi di tutela, le donne provano ancora un senso di colpa nel denunciare e “sono terrorizzate dal processo penale, ma anche dalle conseguenze che questo può avere sui propri compagni violenti”. Vivono l’ambivalenza che nasce dalla contemporanea presenza della necessità di proteggersi e dalla necessità di salvare (anche dentro di sé) quanto di “buono” c’è stato nella relazione evitando le conseguenze più gravi anche per i soggetti violenti che sono i padri dei loro figli. Per tacere del costo dei professionisti che le madri spesso più deboli economicamente devono sostenere per portare avanti l’azione giudiziaria (avvocati, psicologi, consulenti di parte). Inoltre, risultando spesso soccombenti in molti procedimenti, le madri devono sostenere anche gli oneri maggiori per le spese processuali quando non ne è prevista la compensazione. Sull’utilizzo dei compact disk musicali in cella per i detenuti in 41 bis ilpenalista.it, 22 aprile 2022 Cass. pen., sez. I, 2 marzo 2022 (dep. 15 aprile 2022), n. 14782. Con l’ordinanza in esame, la Cassazione si è pronunciata su una questione riguardante l’utilizzo in cella di compact disk (CD) musicali da parte dei detenuti sottoposti al regime penitenziario differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit. Il Tribunale di sorveglianza di Roma, infatti, aveva accolto il reclamo proposto da un detenuto sottoposto al regime penitenziario differenziato avverso la decisione del magistrato di sorveglianza che non aveva autorizzato l’acquisto e la detenzione di alcuni CD musicali e di un lettore digitale. Secondo il giudice, infatti, il divieto di utilizzare i CD e di ascoltare musica, attività rientrante nel trattamento rieducativo, poteva pregiudicare il diritto del detenuto allo stesso trattamento. Il Ministero della Giustizia, tramite l’Avvocatura dello Stato, ricorre in Cassazione denunciando la violazione degli artt. 35-bis, 41-bis e 69 ord. penit. e l’esercizio, da parte della giurisdizione, di potestà riservate agli organi amministrativi dello Stato. Secondo il ricorrente, inoltre, l’art. 40 reg. es. ord. penit. limiterebbe l’uso dei lettori CD alle sole ragioni di studio e lavoro, previa autorizzazione del direttore dell’istituto. Il giudice, quindi, avrebbe violato tale quadro regolatorio, configurando l’eccezionale possibilità di procedere all’acquisto di un lettore CD e di compact disk musicali come un diritto fondamentale del detenuto. La doglianza è parzialmente fondata. Secondo la Suprema Corte, tenuto conto che le norme dell’Ordinamento penitenziario fanno espresso riferimento all’impiego dei suddetti dispositivi per le sole esigenze di studio, lavoro o di consultazione di materiale giudiziario, le richiamate previsioni non valgono a stabilire “una preclusione assoluta di utilizzo dello strumento per finalità diverse dalla consultazione di testi”. L’interesse del detenuto, però, deve essere bilanciato con le esigenze di controllo dell’Amministrazione penitenziaria, esigenza particolarmente avvertita proprio nei casi in cui “il soggetto sia sottoposto a regime penitenziario differenziato”. L’art. 40-bisord. pen., infatti, prevede delle limitazioni volte ad impedire che il detenuto possa comunicare con l’esterno e mantenere un legame con l’ambiente delinquenziale di provenienza. Quindi, l’eventuale autorizzazione all’acquisto del lettore CD da parte del direttore dell’istituto dovrebbe assicurare la salvaguardia di tali esigenze di sicurezza, potendo tali strumenti essere oggetto di manipolazione. Da ciò deriva la necessità di assoggettare i CD ad adeguate verifiche. Il Collegio, però, osserva che, nel caso in esame, l’affermazione del Tribunale di sorveglianza, secondo cui le esigenze di sicurezza sarebbero soddisfatte attraverso l’acquisto di CD musicali, provvisti di marchio SIAE e sigillati, non accompagnata da un chiaro riferimento a un accertamento della situazione dell’istituto penitenziario, “finisce col tradursi in un apprezzamento astratto che rischia di vincolare la direzione del carcere a una prestazione, inesigibile, di adempimento non individuati nella loro concretezza”. Infatti, prima di riconoscere il diritto del detenuto di utilizzare i CD per uso ricreativo, il Tribunale deve verificare se tale utilizzo, non precluso in assoluto dalla normativa vigente, “possa comportare inesigibili adempimenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria, in relazione agli indispensabili interventi su dispositivi e supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione del carcere, di non consentirne l’utilizzo. Scelta che, implicando un apprezzamento della possibilità di soddisfare le esigenze ricreative dei detenuti alla luce delle risorse disponibili, rientrerebbe in un ambito di legittimo esercizio del potere di organizzazione della vita degli istituti penitenziari”. Pertanto, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso e annulla con rinvio l’ordinanza impugnata. Friuli Venezia Giulia. Carceri, SOS dal Garante: pesano Covid, affollamento e suicidi consiglio.regione.fvg.it, 22 aprile 2022 Il suicidio di un ospite del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, avvenuto lo scorso dicembre, è tra le pagine buie dell’ultimo anno nell’ambito delle competenze del Garante regionale dei diritti della persona. Proprio a tal proposito, nell’esporre la propria relazione all’Ufficio di Presidenza dell’assemblea legislativa del Friuli Venezia Giulia, Paolo Pittaro chiede maggiore attenzione per i suicidi, sia tra i detenuti che tra gli ospiti del Cpr ma anche tra gli agenti di polizia penitenziaria. L’ente di vigilanza, tra l’altro, segnala un aumento dei detenuti per reati collegati al gioco d’azzardo, specialmente a Trieste, fenomeno su cui si potrebbe intervenire con azioni preventive. “Il problema del sovraffollamento, troppo spesso, impedisce al personale in servizio di intercettare possibili richieste d’aiuto da parte dei detenuti - osserva il presidente del Consiglio regionale, Piero Mauro Zanin. Un fenomeno che sta dilagando a livello nazionale, in particolari nelle carceri, e che, per la prima volta, coinvolge anche la nostra regione con la tragedia registrata tra gli ospiti del Cpr”. “Un anno - prosegue Zanin - che per i detenuti è stato ancora più difficile: oltre alle condizioni di stress a cui sono già sottoposti quotidianamente, queste persone hanno dovuto affrontare anche l’emergenza Covid che ha limitato ulteriormente la loro libertà personale e la possibilità di ricevere visite dai loro cari. Una pandemia che li ha fatti sentire ancora più soli e distanti dalla comunità”. “Cercheremo, per quanto in nostro potere, di trovare delle soluzioni per la piaga del sovraffollamento che - conclude il presidente dell’Aula - inevitabilmente comporta il diffondersi di altre problematiche oltre a riflettere sulla necessità di sensibilizzare il territorio per avviare dei percorsi di reinserimento al termine della pena detentiva”. Ascolto, mediazione, facilitazione e conciliazione: sono queste le principali attività svolte dal Garante regionale dei diritti della persona, organo del Consiglio regionale che ha, tra le sue funzioni principali, quella di esercitare un ruolo di garanzia per bambini, adolescenti, persone private della libertà personale e a rischio di discriminazione. Nel 2021 - come emerso sempre dalla relazione esposta dal garante Pittaro all’Ufficio di Presidenza che l’ha approvata - sono state trattate 120 pratiche, la maggior parte delle quali già chiuse ed archiviate. Di queste, 65 hanno riguardato bambini e adolescenti, 13 le persone a rischio di discriminazione e 42 quelle private della libertà personale. Le segnalazioni sono partite principalmente da genitori e rappresentanti familiari, 29, e da associazioni, 24. Le funzioni di garanzia per le persone a rischio di discriminazione sono state complessivamente 13: 9 hanno riguardato cittadini italiani e stranieri, 2 enti pubblici e associazioni, 2 il mondo della disabilità. Per la privazione della libertà personale il Garante è intervenuto in 42 occasioni, spesso in vicende legate a detenuti, denunciando le criticità riscontrate nelle carceri. Case circondariali che, per il Garante, devono affrontare difficoltà nella gestione oltre che per l’inadeguatezza strutturale. Entrando nel merito, per la funzione di garanzia per i bambini e gli adolescenti, i funzionari del Servizio organi di garanzia hanno dovuto affrontare 65 segnalazioni; di queste, 37 sono emerse dall’ambiente scolastico, 24 da quello giuridico-amministrativo, 2 dai servizi territoriali e 2 dall’ambito familiare. Per questo ultimo punto si segnala un caso di diritto di visita ai figli di genitori separati e uno di violenza su minore, denunciato alle autorità competenti. Problematiche relative all’inserimento scolastico di alunni disabili, alla mancanza delle ore di sostegno previste, ai disagi della didattica a distanza causa Covid e al fenomeno del bullismo sono quelle emerse dal mondo della scuola. Per quanto riguarda le condizioni degli istituti penitenziari del territorio e del Cpr di Gradisca, la pandemia ha complicato una situazione già al limite. La diffusione del virus ha imposto ulteriori limitazioni, creando situazioni di incompatibilità per detenuti con gravi problemi di carattere sanitario, oltre alle difficoltà riscontrate dai familiari per ottenere informazioni sullo stato di salute di detenuti risultati positivi. Il maggior numero di segnalazioni è comunque pervenuto per via delle insufficienti condizioni detentive con segnalazioni di sovraffollamento carcerario, mancanza di personale, difficoltà di contenimento dei contagi da Covid, scarsità di acqua calda e di altri servizi. Treviso. Rivolta all’Ipm: a ognuno le proprie responsabilità di don Otello Bisetto* lavitadelpopolo.it, 22 aprile 2022 Alla condanna per le violenze, avvenute all’interno dell’Istituto penale minorile lo scorso 12 aprile, si unisce il monito a non dimenticare gli obiettivi rieducativi della pena. Dopo i gravi fatti accaduti nell’Istituto penale per minorenni di Treviso nella notte del 12 aprile, ai quali la cronaca locale ha dato moltissimo risalto, vorrei dire quanto sono triste e amareggiato, e ribadire che la violenza non può mai essere la strada giusta per risolvere i problemi. Non sta a me commentare quanto accaduto, per il fatto che non ero presente in quel momento. Come cappellano dell’Ipm, ho il compito di dialogare con tutti. Con i giovani detenuti, per ridare loro speranza e far loro ritrovare la fiducia che hanno smarrito. Con tutto il personale che lavora all’interno dell’Istituto (Polizia penitenziaria, educatori, sanitari e amministrativi), al quale offro la mia collaborazione e anche il conforto spirituale, e che merita tutto il mio rispetto per il compito delicato e difficile a cui è chiamato quotidianamente. In questo momento mi sembra un esercizio inutile chiamarci fuori dicendo: “Io l’avevo detto”. Ciò che è accaduto all’Ipm di Treviso, diventi, piuttosto, un’occasione in cui ciascuno assuma il suo compito in modo responsabile, per il semplice fatto che si tratta, comunque, di minorenni e proprio per questo vanno tutelati. Sul fatto che dei minori, o giovani, finiscano in carcere, mi permetto di dire che, probabilmente, anche la collettività si dovrebbe interrogare su quanto “non” sia stato attuato affinché ciò non accadesse. E una volta in carcere, possiamo ben immaginare che vi portino anche gli atteggiamenti devianti, tra i quali la violenza, che sono il loro “bagaglio” di esperienza. È solamente offrendo una vera opportunità di riscatto attraverso un percorso rieducativo che si può evitare l’irreparabile. Chi lavora in Carcere minorile sa perfettamente che questo è l’obiettivo che si persegue con ogni giovane che entra in carcere, e che solo un vero lavoro di squadra è la condizione necessaria affinché questo si realizzi. Vorrei qui soffermarmi su un aspetto problematico che grava sugli Istituti penali per minorenni in tutta Italia: la questione dei Msna (minori stranieri non accompagnati). Essendo minori non accompagnati, sono a carico dei Comuni ai quali vengono assegnati. Un cittadino deve lecitamente pensare che se i Msna sono a carico delle Amministrazioni locali, esse devono garantire tutto, come lo farebbe una famiglia che si fa carico dei propri figli. Vitto, alloggio, istruzione, formazione professionale, inserimento sociale e lavorativo. I Comuni hanno certamente più risorse di una normale famiglia e quindi per questi Msna dovrebbero esserci maggiori opportunità di inserimento, di crescita e di riscatto. Cosa non funziona perché, invece di aderire al “programma di inclusione”, alcuni minori non accompagnati entrano nella rete della criminalità organizzata? Posso dire che si tratta quanto meno di “inefficienze” del sistema Italia? E questa disfunzione, come tante altre di cui il nostro Paese è campione, non può sempre ricadere sul sistema carcerario. Infatti, ciò che è accaduto nel carcere minorile di Treviso mette in evidenza una situazione generale delle carceri italiane: le condizioni di promiscuità e di sovraffollamento. Il carcere non può diventare un “tritacarne”, un luogo dove confluiscono tutti i problemi e le contraddizioni che la società non ha affrontato, non ha saputo risolvere o delle quali non vuole farsi carico. Infatti, in carcere arriva di tutto (per esempio i tossicodipendenti e gli affetti da problemi mentali) che avrebbero bisogno di ben altro “percorso terapeutico” e invece vengono inseriti nel sistema carcerario che non ha le risorse (finanziarie e umane) per far fronte alla complessità di queste emergenze. Come si può pretendere che un carcere possa fronteggiare le tante situazioni di disagio, senza che tutto questo vada a incidere sul morale e sulla serenità del personale al quale si chiede troppo spesso di fare l’impossibile? Ecco, allora, la necessità di una riflessione seria di tutte le parti impegnate nel difficile compito di rieducare il detenuto e reinserirlo nella società civile, per fare in modo che il carcere non si riduca a “dormitorio”, o peggio a un “lazzaretto” dove parcheggiare “casi sociali irrisolti”. Il compito del carcere è di raggiungere gli obiettivi indicati dall’articolo 27 della Costituzione Italiana che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. *Cappellano dell’Ipm Melfi (Pz). Rivolte in carcere del 2020, la Cassazione conferma misure cautelari per 30 detenuti basilicata24.it, 22 aprile 2022 La Cassazione ha confermato trenta misure cautelari nei confronti di altrettanti detenuti nel carcere di Melfi che parteciparono alla rivolta del marzo 2020. Per il segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo “sono dunque ribadite le responsabilità oggettive degli autori della rivolta del 9 marzo del 2020 nella Casa circondariale di Melfi che ha seguito le altre che hanno interessato i penitenziari italiani nella primavera del 2020”. È il commento del segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo aggiungendo che “finalmente si fa chiarezza e verità su quanto è accaduto”. “Personale penitenziario e medici non solo a Melfi sono stati sequestrati e minacciati dai rivoltosi ma altrettanto è avvenuto in una quarantina di carceri del Paese, messi a ferro e fuoco, con danni per decine di milioni di euro. Il lavoro dei magistrati dell’antimafia che sono impegnati a ricostruire quei fatti, purtroppo “passati” per semplice protesta legata alle misure restrittive imposte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per il contenimento del Covid-19, inoltre avvalora la nostra tesi, peraltro diffusa in ambienti giudiziari, di una regia delle rivolte scoppiate quasi simultaneamente. Una regia - dice Di Giacomo - riconducibili a clan mafiosi, camorristi, ‘ndranghetisti e della criminalità organizzata secondo un preciso disegno di approfittare dell’emergenza sanitaria per muovere un attacco, senza precedenti, allo Stato. Se l’attacco non ha sortito i risultati voluti dai criminali è solo grazie al grande impegno e sacrificio del personale penitenziario che, come testimonia l’alto numero di feriti tra gli agenti, lo ha rintuzzato. Altro che agenti “picchiatori” dei detenuti: la verità di quei fatti va perciò raccontata agli italiani perché sappiano che nelle carceri non ci sono “angeli” da perdonare e per i quali il clima buonista diffuso da tempo vorrebbe procedere ad una sorta di “liberi tutti”. Siamo fiduciosi nel lavoro dei magistrati - continua Di Giacomo - per ristabilire completamente la verità della stagione delle rivolte e dell’operato della polizia penitenziaria. La sentenza della Cassazione pertanto è ancora più significativa in quanto cade in una fase di rischio altissimo di rinnovare la sfida allo Stato come testimoniano gli atti di violenza tra detenuti e contro il personale penitenziario, in quest’ultimo caso declassati a “fatti di ordinaria amministrazione” mentre le azioni annunciate dalla Ministra Cartabia - continua il segretario del Sindacato Penitenziari - vanno in tutt’altra direzione, quella dell’apertura di celle e portoni ai detenuti. Noi non ci stiamo a mettere sullo stesso piano i servitori dello Stato e i criminali che pretendono il controllo del carcere e sono un costante pericolo dell’ordine pubblico e la minaccia per la libera convivenza dei cittadini. Soprattutto dopo gli impegni solenni del presidente Draghi e del ministro Cartabia, è ora che ci si occupi seriamente dei problemi del sistema penitenziario senza illudersi che sfollando le celle, tutto si risolva di colpo”. Alessandria. Malato di Sla resta in carcere: il caso finisce in Parlamento di Floriana Rullo Corriere di Torino, 22 aprile 2022 Maximiliano Cinieri sta scontando una condanna a 8 anni per usura e estorsione: il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti scrive alla ministra della Giustizia. Finisce in Parlamento il caso di Maximiliano Cinieri. La vicenda dell’ex calciatore astigiano malato di Sla e detenuto in carcere ad Alessandria dopo la condanna in primo grado a 8 anni per usura e estorsione è al centro di un’interrogazione a risposta scritta presentata dal deputato Roberto Giachetti, di Italia Viva, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e al ministro della Salute Roberto Speranza. Nel documento depositato alla Camera, il parlamentare sollecita i titolari dei due dicasteri a chiarire “come intendano operare per garantire la salute del detenuto Cinieri” e vuole sapere “se ritengano di istituire un tavolo tecnico per superare le problematiche che si manifestano in caso di divergenza di opinioni fra i responsabili sanitari del carcere e i periti dell’autorità giudiziaria sull’incompatibilità delle condizioni di salute con la reclusione”. Per Giacchetti “la situazione di Cinieri è via via peggiorata nel corso della detenzione. La Sla infatti è una gravissima malattia neurodegenerativa progressiva. La forma che ha colpito l’ex calciatore è inoltre particolarmente aggressiva, tanto che in poco tempo è passato dalle stampelle alla carrozzina. Nonostante il medico del carcere abbia affermato che Cinieri si trova in una condizione per la quale è previsto il rinvio obbligatorio della pena per motivi di salute e che la casa circondariale non è la collocazione idonea per un detenuto con le sue caratteristiche cliniche, il gip di Asti ha ripetutamente respinto le istanze di arresti domiciliari basandosi su una datata perizia del medico legale da lui incaricato secondo il quale il recluso può ricevere cure adeguate nella struttura penitenziaria”. Intanto, dopo l’ennesimo no alla scarcerazione dell’uomo, che ormai non riesce nemmeno più a legarsi le scarpe da solo, il fascicolo di Cinieri è stato trasferito dal tribunale di Asti alla Corte d’Appello. L’avvocato difensore Andrea Furlanetto ha preannunciato una nuova istanza di scarcerazione, non appena la cancelleria della Corte avrà assegnato il caso ad una delle sezioni giudicanti. Su Facebook continua la battaglia della figlia Valeria e della moglie, Livia Rapè. Una petizione per chiedere di “Rimandare Max dalla sua famiglia”, 200 le firme. La vicenda di Cinieri è iniziata lo scorso agosto quando la Sla che ha colpito l’uomo, in carcere per estorsione e deve scontare una pena di otto anni, è peggiorata. Da allora la figlia Valeria e la moglie Lidia, sostengono che non ci siano le condizioni per farlo rimanere in cella. La malattia era iniziata nel 2019 ma la diagnosi di Sla è arrivata solo nel dicembre 2021. “Mio papà - spiega la figlia Valeria - non riesce ad usare più le mani nemmeno per legarsi le scarpe. Inoltre è su una sedia a rotelle”. Il presidente del tribunale, Girolami, aveva invece spiegato che: “Il Gip ha adottato il provvedimento a seguito e sulla base di quanto appurato dal perito da lui nominato d’ufficio, perito che dopo aver esaminato tutta la documentazione medica e visitato il detenuto, ha concluso per la piena compatibilità, al momento, delle condizioni di salute di Cinieri con la detenzione in carcere”. Non solo. “Contro la decisione del Gip del Tribunale di Asti la difesa di Cinieri ha proposto impugnazione e il Tribunale del riesame (organo collegiale) di Torino ha respinto l’impugnazione, confermando la decisione del Gip e confermando quindi la compatibilità delle condizioni di salute di Cinieri con la detenzione, sulla base di quanto affermato dal perito d’ufficio. È fuorviante ed errato quindi asserire che il Gip del Tribunale di Asti si ostina a tenere in carcere una persona che, a detta di tutti i medici, non vi dovrebbe stare per le condizioni di salute, come è fuorviante una ricostruzione parziale dei fatti, che ometta la notizia più importante, cioè il fatto che la decisione del Gip si fonda su una perizia medica d’ufficio di organo super partes ed è stata confermata dal Tribunale del riesame di Torino”. Bolzano. Nuovo carcere, il presidente Kompatscher incontra la ministra Cartabia Corriere dell’Alto Adige, 22 aprile 2022 Pochi segnali concreti per il nuovo carcere di Bolzano. È quanto è emerso nell’incontro a Roma tra Kompatscher, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, la sottosegretaria alle Finanze, Alessandra Sartore, presente la senatrice Julia Unterberger. Sul tavolo anche la competenza regionale per l’amministrazione della magistratura. “Il carcere di Bolzano è agli ultimi posti delle classifiche della qualità delle carceri. Questo l’ho fatto presente nella riunione di oggi (ieri), chiedendo di fare in fretta”. A dirlo è il presidente della Provincia, Arno Kompatscher che ha Roma, con accanto la senatrice Julia Unterberger, ha incontrato la ministra della Giustizia Marta Cartabia e la sottosegretaria alle Finanze, Alessandra Sartore. “È urgente - ancora Kompatscher - raggiungere un accordo sul valore di scambio della vecchia casa circondariale, per un allineamento delle stime. Inoltre, deve essere concluso un accordo aggiuntivo che garantisca che lo Stato si assumerà i costi nuovamente aggiornati della struttura che dovrà sorgere a Bolzano sud. Per questo ho chiesto che si svolga a breve un incontro tra Provincia e i ministeri della Giustizia e delle Finanze”. E tra le questioni sul tappeto c’è ancora il nodo di Condotte spa la società vincitrice del bando, nel lontano 2013, protagonista di una lunga e complessa vicenda giudiziaria, che oggi è in amministrazione straordinaria e ri- schia di non poter iniziare l’opera. Nell’incontro a Roma c’era anche il presidente trentino (e della Regione) Maurizio Fugatti. Con Cartabia è stata discussa la competenza regionale per l’amministrazione della magistratura. “Ci sono ancora una serie di accordi da concludere spiega Kompatscher. Si tratta di protocolli di attuazione pluriennali e del riconoscimento dei costi standard per l’amministrazione della giustizia, che lo Stato continua a pagare in Trentino-Alto Adige rispettivamente alle due Province”. Nel corso del colloquio, anche la senatrice Unterberger ha presentato una richiesta nei confronti del Consiglio superiore della Magistratura in merito al quale il Parlamento sta attualmente discutendo una legge di riforma. In pratica la Provincia vorrebbe essere coinvolta da quest’organo di autogoverno della magistratura ogni qual volta vengono adottate decisioni relative all’Alto Adige. “La ministra ha accolto questa richiesta - riferisce Kompatscher - e ora si verificherà se possa essere inserita nella riforma in fase di definizione”. Infine sono state trattate alcune norme di attuazione che necessitano ancora del parere degli esperti del ministero della Giustizia per poter essere inserite all’ordine del giorno della Presidenza del Consiglio dei Ministri. “La ministra Cartabia - ha concluso Kompatscher - ha assicurato che la tematica verrà trattata in tempi brevi”. Torino. La sartoria sociale che ridà vita agli abiti e speranza ai migranti di Federica Vivarelli Corriere di Torino, 22 aprile 2022 Vestiti cuciti a mano da donne già vittime di violenza. C’è Jenna: rimasta orfana, prima dimenticata e poi abusata dai familiari. Violentata, sfruttata, mortificata, accusata di diavoleria, scappata con i barconi e dopo dalla prostituzione. C’è Fatima: in fuga da un paese di guerre e violenze se non trova lavoro rischia di non avere i documenti e perdere quello che ha costruito finora con i suoi tre bambini. Storie che colpiscono allo stomaco raccontate così, tra una stoffa e l’altra. Perché ad un certo punto questi racconti sono diventati abiti. È partita in questi giorni la quarta collezione di “Colori vivi”: è l’autunno inverno, fatta di pantaloni a palazzo, camicie gialle, giacche color champagne. Tutto realizzato a Torino. Cuciti a mano, da cinque donne migranti e due italiane accumunate dall’essere state vittime di violenza. Vestire Colori Vivi vuol dire “indossare bellezza, perché vestirsi per queste donne è diventato un motivo per farsi belle. Per avere cura insomma - spiega Barbara Spezini, amministratrice delegata dell’azienda. Non vogliamo vivere solo di finanziamenti: vorremmo davvero riuscire a creare un mestiere”. Colori Vivi è un’impresa sociale, ma nasce prima come associazione: “Eravamo educatori e incontravamo queste donne in situazioni paradossali: dovevano trovare nel giro di sei mesi o un anno il lavoro, imparare una lingua, con il rischio di essere allontanate - spiega Spezzini -. Oggi si chiama Colori vivi è una sartoria sociale dove lavorano cinque donne migranti e due italiane accumunate dall’essere state vittime di violenza. Gli abiti sono cuciti a mano e tutto viene realizzato a Torino in Via Parini 9 innovazione sociale, ma è successo semplicemente che insieme ad altri educatori abbiamo deciso di unirci”. Nasce così l’associazione “Articolo 10”. Quello che garantisce il diritto d’asilo per la Costituzione italiana. “Dal 2020 siamo un business model replicabile. È un luogo di lavoro ma anche di formazione di alto livello - continua l’ad -. Siamo una sartoria sociale”. La nuova collezione ha l’aiuto di Alessandro Montanaro, coordinatrice di fashion design allo IED di Torino. I laboratori sono in via Parini 9, dove una volta c’era una sartoria militare. I vestiti sono realizzati da scarti di stoffe o di riciclo per un impatto minore sull’ambiente. Entrare in sartoria qui vuol dire macchine al lavoro, incrociare tanti sorrisi, tante lingue. “C’è energia e c’è accoglienza - puntualizza Spezini. È possibile toccare e provare i vestiti. Ci sono tutte le taglie ma non tutti i colori. Si consulta il campionario e viene realizzato. Si spreca decisamente di meno, oltre ad avere un ottimo prodotto fatto a mano”. I prezzi vanno dai 109 ai 136 euro per i pantaloni, 169 euro per le giacche, 149 per le camicie. “Ci siamo chieste se aumentare i prezzi per i costi che sono aumentati - spiegano dalla sartoria -. Ma poi abbiamo capito che in qualche modo dobbiamo contrastare questa guerra, questi sono gli strumenti che abbiamo a disposizione”. Basta nominare la “guerra” che subito l’atmosfera si fa tesa. “Non oso neppure immaginare cosa sta succedendo alle donne in Ucraina e alle storie che arriveranno qui”, spiega l’barbara con la voce rotta. Insieme a un appello alle aziende di Torino: “Assumete le nostre tirocinanti, sono davvero preparate”. Trani (Bat). Nel carcere la giustizia sia riconciliazione di Sabina Leonetti agensir.it, 22 aprile 2022 Un cappellano carcerario di lungo corso, don Raffele Sarno, ci racconta i suoi 30 anni di esperienza con i detenuti. Le criticità dei penitenziari, l’importanza dei volontari e la necessità di una giustizia che sia davvero “riconciliativa”. Da trent’anni a servizio dei detenuti nell’arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie. Don Raffaele Sarno, 64 anni, podista per passione (nella galleria fotografica alcuni scatti del suo pellegrinaggio a Santiago de Compostela), sa bene che anche in carcere “è sempre una corsa”, per abbattere il muro della diffidenza e del pregiudizio. Cappellano della Casa Circondariale Maschile di Trani dal ‘99, dall’agosto del 2021 ha iniziato il suo ministero anche nella Casa di Reclusione Femminile, su richiesta del vescovo Leonardo D’Ascenzo. “Negli anni - racconta don Raffaele - abbiamo dato vita ad una serie di progetti: dal sostegno scolastico per conseguire il diploma di maturità alle mostre di pittura, dal giornalino dei detenuti all’esperienza teatrale. Nella Parrocchia S. Cuore, dove sono stato trasferito, ho accolto detenuti in regime di semilibertà come volontari nella comunità, anche a servizio dei disabili. Dal 2009 con il progetto Terre Solidali abbiamo promosso l’agricoltura sociale sostenibile, puntando al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e di quanti sono sottoposti a misure alternative alla detenzione, fino al progetto del 2021 Un’altra terra”. Nel carcere di Trani la presenza di don Raffaele è segno di una Chiesa vicina agli emarginati. “La mia prima preoccupazione - spiega - è portare la Parola di Cristo e ogni settimana cerco di garantire a tutte le sezioni la celebrazione eucaristica. Nel carcere femminile la celebrazione è quotidiana, con una piccola riflessione sulle letture del giorno. Le ragazze sono molto attente, spesso anche attraverso un dialogo aperto che spezza il mio monologo. E poi procuriamo indumenti a chi non ha il supporto della propria famiglia, medicinali particolari non garantiti dall’infermeria, occhiali per chi non ha fondi, sostegno economico per piccole spese a volte indispensabili. Spesso contattiamo le famiglie, angosciate per l’impossibilità di avere notizie sulla salute dei propri cari e cerchiamo di favorire le misure alternative, in particolar modo i permessi premio, grazie all’accoglienza che garantiamo in parrocchia, nei locali messi a disposizione dalla Diocesi. Sono tanti i detenuti che così hanno potuto incontrare i propri cari, magari i figli minori, in ambienti più adatti”. Dora, tunisina di 33 anni, è in Italia dall’età di 12 anni con una zia ed è finita in carcere a soli 15 anni in Sicilia, per colpa di un incontro sbagliato. Da 6 anni è stata trasferita nel Carcere di Trani dove lavora come cuoca. Convertita alla fede cristiana, ogni pomeriggio trascorre quattro ore nei locali Caritas della Parrocchia S. Cuore, collaborando alla gestione del guardaroba e alla distribuzione degli alimenti e facendo da interprete nella lingua araba, quando occorre. “Sono rinata - racconta - da quando sono a Trani: l’esperienza precedente è stata punitiva, ma ora ho contatti con la mia famiglia in Tunisia e con mio fratello in Inghilterra e vorrei trovare l’amore vero, anche se non ho superato del tutto le paure del passato. Sogno di riabbracciare mia madre, che non vedo da 21 anni. Bisogna sempre fare attenzione a chi si frequenta: il viaggio potrebbe essere senza ritorno”. “I drammi veri della realtà carceraria - conclude don Raffaele - restano il sovraffollamento e la carenza di organico. Nell’ascolto di queste persone emerge una sofferenza estrema ed è per questo che bisogna passare da una visione carcero-centrica a una mirata all’accompagnamento al di fuori degli istituti. La “giustizia riconciliativa”, espressione squisitamente evangelica, non cristallizza il reo nella sua colpa, nella misura in cui egli è disposto ad abbracciare cammini onesti e trasparenti. Perché tutto questo di realizzi sono indispensabili strutture che supportino la persona in questa fase così delicata e quanto la Chiesa possa essere protagonista è facile intuirlo. Anche le nostre comunità, però, devono abbandonare lo stigma per essere autenticamente solidali”. Roma. “Destinazione non umana” al Teatro Tor Bella Monaca romatoday.it, 22 aprile 2022 Giovedì 5 e venerdì 6 maggio ore 21 al Teatro Tor Bella Monaca Fort Apache Cinema Teatro presenta “Destinazione non umana”, una favola senza morale scritta e diretta da Valentina Esposito, con Fabio Albanese, Alessandro Bernardini, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Christian Cavorso, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Massimo Di Stefano, Michele Fantilli, Emma Grossi, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi. Il progetto è stato realizzato con il sostegno di Ministero della cultura, Regione Lazio, Fondi Otto per mille della Chiesa Valdese. Fort Apache Cinema Teatro è un progetto che coinvolge attori ex detenuti o detenuti in misura alternativa (semilibertà, affidamento ai servizi sociali, affidamento in centri di prevenzione alla tossicodipendenza, detenzione domiciliare), che hanno intrapreso un percorso di professionalizzazione e inserimento nel sistema dello spettacolo, oggi professionisti di cinema e palcoscenico. Esperienza unica in Italia, Fort Apache Cinema Teatro è struttura permanente di accoglienza per coloro che escono dal carcere, punto di riferimento nel delicato passaggio dalla reclusione alla libertà (anche in termini di ricaduta e prevenzione della recidiva). “Destinazione non umana” vede in scena sette cavalli da corsa geneticamente difettosi che condividono forzatamente la vecchiaia in attesa della macellazione. Nel gioco scenico e drammaturgico, l’immaginifica vicenda di bestie umane diventa pretesto per una riflessione profonda sul tema tragico della predestinazione, della malattia, della morte, della precarietà e brevità dell’esistenza, della responsabilità individuale rispetto alle scelte maturate nel corso della vita. Destinazione non umana è una favola senza morale, amara e disumana quanto può esserlo una fiaba, costruita sulle solitudini alle quali ci costringe il tempo che viviamo e sul pensiero della morte, sul vuoto lasciato da chi se n’è andato, sul dolore, la rabbia, la paura. Sullo sforzo bestiale di vivere contro e nonostante la certezza della morte. In collaborazione con Ministero della giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Sapienza Università di Roma, Atcl - Spazio Rossellini Polo Culturale Multidisciplinare della Regione Lazio, Artisti 7607, CAE Città dell’Altra Economia di Roma. Genova. “Delirio di una notte d’estate”, i detenuti di Marassi in scena fino al 24 aprile di Silvia Isola primocanale.it, 22 aprile 2022 Lo spettacolo di Teatro Necessario alla Corte è una rivisitazione tratta da Shakespeare e vede sul palcoscenico detenuti e attori professionisti. Musica, ironia e una sottile e arguta riflessione sul tema delle droghe: sono questi gli ingredienti di “Delirio di una notte d’estate”, il nuovo spettacolo dei detenuti della casa circondariale di Genova Marassi che mattina e sera fino a domenica 24 aprile sono in scena al Teatro della Corte. L’allestimento, che porta la firma di Sandro Baldacci e Fabrizio Gambineri, è una rivisitazione del “Sogno di una notte di mezza estate” da William Shakespeare e, come in tutte le produzioni di Teatro Necessario, vede sul palco attori professionisti e attori detenuti. Sono diversi i valori di questo progetto, che dal 2005 opera all’interno del carcere: attraverso il teatro si stimola la riflessione sulle tematiche proposte nel testo che viene portato in scena, ma si cerca anche il confronto tra chi è detenuto, chi è attore e chi è spettatore, in un dialogo che prende vita specialmente nelle matinée dedicate alle scuole. Per quest’anno si è voluto puntare su un testo divertente, allegro, leggero, dopo due anni di pandemia che anche all’interno della struttura di Marassi hanno lasciato segno. Il motore dell’azione è Puck, interpretato da Igor Chierici che da diversi anni collabora con l’onlus genovese. “Puck è uno spacciatore depravato, un uomo che usa le sostanze ‘magiche’ - le droghe più che le pozioni e gli incantesimi - per far innamorare Ermia, Elena, Lisandro e Demetrio ma anche Titania e Oberon, sconvolgendo e ricomponendo gli equilibri di questo mondo onirico”. La trama mette insieme spacciatori, drag queen, malavitosi, teatranti improvvisati e gli innamorati delineati dalla penna di Shakespeare, ma il tutto ambientato ai giorni nostri. Igor Chierici, Cristina Pasino, Michela Gatto, Caterina Bonanni sono gli attori professionisti che hanno accompagnato i detenuti negli ultimi sette mesi di prove, per tre volte a settimana, a cui si è aggiunto Luca Cicolella, che nell’ultimo mese ha sostituito un detenuto che è stato rilasciato prima del tempo. “È stato un piacere per me e un onore entrare in corsa per dare una mano e riuscire a portare sul palco il frutto di un lungo lavoro dei colleghi, che per me sono tutti professionisti”, è il suo commento a Primocanale. E seppur entrato a contatto con la compagnia ‘scatenata’ nell’ultimo mese, Cicolella ha afferrato appieno il significato di questa esperienza. Un’esperienza che arricchisce attori, detenuti, ma anche il pubblico che esce dal teatro sempre con un bel ricordo e un miscuglio di emozioni. “Per me è stata la prima volta: confesso che 7 mesi fa quando sono entrata nutrivo qualche timore, perché comunque da giovane donna, in un ambiente maschile, in carcere non è scontato e non è una passeggiata di leggerezza”, spiega Caterina Bonanni, ultimo acquisto del cast che ogni anno si rinnova. “Mi porto dietro un’esperienza umana impagabile e incredibile che mi ha fatto crescere e mi ha fatto vedere la realtà sotto altri punti di vista e soprattutto i rapporti con i colleghi detenuti che ho avuto modo di conoscere come persone! Tutto questo miscuglio di sensazioni traspare e arriva anche alla platea: chi è seduto in sala solitamente esce profondamente colpito dallo spettacolo. “Lascia tanto colore, tanto entusiasmo e tanta voglia di rinascita, specialmente per i detenuti che hanno lavorato con noi in questi sette mesi e sono cresciuti tantissimo”, spiega Cristina Pasino, al suo quarto anno di esperienza in carcere. E i più attenti sono i ragazzi delle scuole, sempre curiosi e pronti a fare domande, senza pregiudizi. Appuntamento allora a teatro fino a domenica 24 aprile. Bologna. I “Quaderni di Teatro Carcere” per il cartellone di eventi La Soffitta unibo.it, 22 aprile 2022 Sul palco del teatro del DamsLab sarà presentata la rivista annuale del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna dedicato all’arte scenica e alla condizione professionale del Nuovo Attore, indagato attraverso contributi di studiosi e testimonianze di registi attivi anche al di fuori dell’ambito carcerario. Martedì 26 aprile, alle ore 17, al DamsLab (Piazzetta Pasolini, 5/b - Bologna), verrà presentato l’ultimo numero di “Quaderni di Teatro Carcere”, la rivista annuale del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, edita da Titivillus Mostre Editoria, dedicato all’arte scenica e alla condizione professionale del Nuovo Attore, indagato attraverso contributi di studiosi e testimonianze di registi attivi anche al di fuori dell’ambito carcerario. Ne parleranno la direttrice della rivista, Cristina Valenti, e gli studiosi dell’Università di Bologna Laura Mariani e Fabio Acca, con la dottoranda di ricerca Valeria Venturelli e con i registi Stefano Tè (Teatro dei Venti di Modena) e Paolo Billi (Teatro del Pratello di Bologna, direttore del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna). L’evento, a cura di Cristina Valenti, e inserito nel cartellone di La Soffitta 2022 - Bologna Crocevia di Culture, proseguirà poi con un focus sul lavoro del Teatro dei Venti di Modena, una delle realtà del Coordinamento Teatro Carcere, che opera nelle carceri del territorio: alle ore 18 è previsto il reading Tiresia: un estratto da Odissea Radio Live, un estratto del radiodramma prodotto dal Teatro dei Venti e andato in onda su Cosmic Fringe Radio nel 2021. In scena l’attore detenuto Aymen, affiancato da Massimo Don (assistente alla regia di Odissea e conduttore dei percorsi formativi in Carcere, nonché del progetto Odissea Radio). A seguire, il film “Odissea Web”, realizzato da Raffaele Manco e Stefano Tè, che documenta le prove da remoto con gli attori del Carcere di Modena e del Carcere di Castelfranco Emilia in tempo di lockdown, in vista della preparazione dello spettacolo Odissea, che ha debuttato in una prima versione itinerante tra le Carceri di Modena e Castelfranco Emilia nel 2021 e proseguirà con una nuova tappa dal 3 al 7 maggio 2022 all’interno della Casa di reclusione di Castelfranco Emilia nell’ambito di Trasparenze Festival. Suicidio assistito, la Lega la spunta: Pillon relatore ma non da solo, saranno in quattro di Giovanna Casadio La Repubblica, 22 aprile 2022 Martedì prossimo riprende al Senato il cammino parlamentare per la legge sul fine vita. Soddisfatto il senatore del Carroccio, ultra cattolico, promotore della battaglia contro il ddl Zan e contro l’utero in affitto. Con lui anche Maiorino (M5S), Biti (Pd) e Rizzotti (FI). Il dado è tratto: sarà il leghista Simone Pillon uno dei relatori della legge sul suicidio assistito che riprende al Senato, martedì prossimo, il cammino parlamentare. La Lega l’ha spuntata, dopo due riunioni di maggioranza, nelle quali sembrava che già al primo varco la legge fosse destinata a arenarsi tra i veti incrociati. Pillon, ultra cattolico, promotore della battaglia contro il ddl Zan sull’omofobia e della campagna contro l’utero in affitto per punire le coppie che vi fanno ricorso all’estero, dal momento che in Italia è una pratica vietata, è soddisfatto. Ha detto più volte che la formulazione della legge sul suicidio assistito così com’è, è pericolosa, potrebbe condurre a pratiche eutanasiche, e quindi va cambiata. Ma ora abbassa i toni e dichiara: “Potremmo fare un buon lavoro, se fossero confermati i nomi dei relatori ipotizzati. Le colleghe sono preparate, insieme verificheremo come si può migliorare”. Alle barricate contro Pillon infatti, i giallo-rossi hanno rinunciato solo dopo avere raggiunto un accordo su ben quattro relatori, due per ciascuna delle commissioni interessate all’esame, ovvero la commissione Giustizia e quella Sanità. E quindi nella quadriga dei relatori, oltre al leghista Pillon, ci saranno la grillina Alessandra Maiorino, la dem Caterina Biti e la forzista Mariella Rizzotti. Spetta ai presidenti delle commissioni indicare i relatori, che sono nella prima linea dell’esame di un provvedimento. Annamaria Parente, renziana, alla guida della commissione Sanità, ha scelto Biti e Rizzotti, che è anche medico. Andrea Ostellari, leghista, presidente della Giustizia, ha puntato su Pillon e ha acconsentito alla nomina di Maiorino. Non c’è ancora la formalizzazione delle nomine che sarà resa nota a stretto giro di posta. Sul ddl Zan contro l’omotransfobia, naufragato al Senato dopo un primo via libero alla Camera, proprio Maiorino è stata una delle pasionarie in scontri accesi con Ostellari e con Pillon. La sfida adesso è non rallentare l’iter della legge sul suicidio assistito, che la Camera ha approvato il 10 marzo scorso. Parente mira ad accelerare: “Va garantito un iter ordinato e senza forzature da nessuna parte: i quattro relatori possono assicurare sensibilità diverse con l’unico obiettivo si condurre in porto la legge”. Per il Pd poi, i diritti civili e i temi bioetici sono prioritari, tanto che mercoledì prossimo i Dem ripresenteranno il ddl Zan. Franco Mirabelli, vice capogruppo dei senatori democratici, avverte: “Spero che le discussioni non rallentino il percorso, che deve essere rapido, di approvazione definitiva della legge sul fine vita. Dobbiamo dimostrare che il Parlamento è in grado di fare le riforme e non possiamo lasciare che sia la Consulta a decidere su questi temi”. La strada per il fine vita è tutta in salita. Al Senato i numeri dei giallo-rossi sono più risicati che a Montecitorio. Inoltre Forza Italia è contraria, sia pure tra molti mal di pancia. In otto articoli, la legge sul suicidio assistito riprende le indicazioni della Consulta dopo la sentenza del 2019 sul caso Cappato, processato e poi assolto per avere aiutato nel suicidio medicalmente assistito Dj Fabo. Sono stati previsti molti paletti, tra cui il passaggio attraverso le cure palliative e il requisito di potere accedere al suicidio assistito solo se attaccati a macchine di sostegno vitale. Per i radicali e l’associazione Coscioni il vero vulnus è che la legge provochi discriminazioni tra malati terminali e chiedono perciò di allargarne le maglie. Per le destre, ma anche per i centristi come Paola Binetti, medico, cattolica, “è una pratica eutanasica”. Da cambiare radicalmente. Zan annuncia che il ddl contro l’omotransfobia sarà ripresentato al Senato di Vanessa Ricciardi Il Domani, 22 aprile 2022 Il 27 aprile scade l’embargo di sei mesi previsto a Palazzo Madama “dopo la tagliola” di Lega e Fratelli d’Italia. Erano intervenuti contro il testo il Vaticano e i gruppi Pro Vita, ma Zan specifica che non sarà fatto nessun un passo indietro, sarà presentato “lo stesso testo”. “Riprende la battaglia contro l’omotransfobia: ripresentiamo il ddl Zan mercoledì prossimo in Senato”. Lo ha detto il deputato del Partito democratico Alessandro Zan in una intervista a La Repubblica. Il disegno di legge contro l’omofobia si proponeva di prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza basate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità, ma è stato bloccato al Senato il 27 ottobre scorso. “L’ultima immagine - ha detto il deputato - è quella dell’applauso sgangherato e violento delle destre, da ultrà dello stadio, che ha fatto il giro del mondo, facendoci quasi vergognare di essere italiani”. Il 27 aprile scade l’embargo di sei mesi previsto a Palazzo Madama “dopo la tagliola”, spiega Zan e il Pd si prepara a farsi avanti di nuovo. La tagliola è la procedura parlamentare prevista dal regolamento del Senato all’articolo 96 sulla “Proposta di non passare all’esame degli articoli” infatti prevede che “Prima che abbia inizio l’esame degli articoli di un disegno di legge, un senatore per ciascun gruppo può avanzare la proposta che non si passi a tale esame”. Dopo lo stop non è possibile ripresentare il testo per sei mesi. La proposta di bloccare il disegno di legge era stata avanzata da Lega e Fratelli d’Italia ed era passata con 154 senatori a favore, 131 i contrari e due astenuti. All’epoca erano intervenuti contro il testo anche il Vaticano e i gruppi Pro Vita, ma Zan specifica che non sarà fatto nessun un passo indietro, sarà presentato “lo stesso testo, perché è quello che aveva avuto il via libera alla Camera a larga maggioranza, voluto da Pd, M5S, Leu e anche da Italia Viva”, sebbene il partito di Matteo Renzi all’ultimo minuto aveva deciso di proporre modifiche. La proposta di legge che era stata approvata in prima lettura alla Camera il 4 novembre ed è stata affossata prevede l’estensione dei cosiddetti reati d’odio per discriminazione razziale, etnica o religiosa (articolo 604 bis del codice penale), a chi compia discriminazioni verso omosessuali, donne, disabili. Nel dettaglio, il testo stabiliva la reclusione fino 18 mesi o una multa fino a 6 mila euro per chi commette o istiga a commette atti di discriminazione; c’è il carcere da 6 mesi a 4 anni per chi istiga a commettere o commette violenza, o per chi partecipa a organizzazioni che incitano alla discriminazione o alla violenza. Alle discriminazioni omofobe viene estesa un’aggravante che aumenta la pena fino alla metà. Il testo prevede una “clausola salva idee”, che fa salve “la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”. Il testo prevedeva inoltre che il 17 maggio divenisse la giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, dedicata a promuovere, anche nelle scuole di ogni ordine e grado, il rispetto e l’inclusione e contrastare pregiudizi e discriminazioni. Se chi aiuta i migranti viene processato come un trafficante di Niccolò Carratelli La Stampa, 22 aprile 2022 Il presidente di Baobab Experience accusato di favoreggiamento, rischia fino a 18 anni di carcere. Trattato come uno scafista o un trafficante di esseri umani. Anche se è l’esatto contrario, perché da anni si impegna per accogliere e aiutare i migranti, senza guadagnarci nulla. Andrea Costa è il presidente di Baobab Experience, associazione romana che dal 2015 offre assistenza ai disperati in transito nella Capitale: più di 50 mila quelli supportati in questi anni. Il 3 maggio inizierà un processo contro di lui, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per aver aiutato otto ragazzi sudanesi e un ciadiano a comprare i biglietti del pullman per andare a Genova. Era l’inizio di ottobre del 2016, pochi giorni prima c’era stato l’ennesimo sgombero del centro di accoglienza di Baobab, a due passi dalla stazione Tiburtina: le forze dell’ordine avevano smantellato la struttura e lasciato per strada circa 300 migranti. Il campo della Croce Rossa a Roma era sovraffollato e i nove giovani migranti volevano raggiungere quello di Ventimiglia, dove le condizioni di ospitalità erano migliori, per poi puntare all’ingresso in Francia. In quelle ore difficili Costa era intercettato, gli investigatori ascoltavano le sue telefonate perché sospettavano Baobab Experience di associazione per delinquere, il caso era seguito addirittura dalla Direzione distrettuale antimafia. È il periodo degli attacchi politici alle operazioni di soccorso delle Ong nel Mediterraneo, le settimane della propaganda contro i “taxi del mare”. “Accuse senza riscontri”. “Ma quell’ipotesi non trova riscontro. Nelle intercettazioni registrate da ottobre a dicembre 2016 non c’è traccia né di associazione né di profitto - spiega l’avvocato difensore Francesco Romeo - Anzi, il controllo sui conti di Costa in quel periodo mostra 15 euro di scoperto”. Quindi, le indagini sembrano destinate a chiudersi in un nulla di fatto, ma “così come del maiale non si butta via nulla, è stata recuperata l’attività di aiuto di quei 9 migranti”. Agli atti c’è la telefonata con cui Costa avvia la colletta per raccogliere i soldi, comprare i biglietti ai ragazzi e fornire loro poche cose da portare in viaggio: un pranzo al sacco e prodotti per l’igiene. Per Costa e quelli di Baobab è ordinaria amministrazione, lo hanno già fatto centinaia di volte, per migliaia di persone. Ospitate prima nel centro di Via Cupa, poi con le tende in un terreno dietro la stazione. Sgomberati a ripetizione, “una quarantina di volte in pochi anni”, raccontano gli attivisti. Fino all’epilogo, con gli ultimi disperati accampati nel parcheggio alle spalle dei binari. “Rischio una condanna da 6 anni e mezzo a 18 anni di reclusione e ancora non ho capito quale sia il reato - dice Costa - hanno fatto indagini pesanti su di me: pedinamenti, migliaia di ore di intercettazioni telefoniche, accessi ai conti bancari, così si saranno accorti che da quando sto al Baobab i soldi ce li ho rimessi sempre”. Costa è imputato insieme a un attivista, che lo ha aiutato a raccogliere il denaro, e a una volontaria, che ha accompagnato i 9 migranti a Genova e poi al campo di Ventimiglia. Una vicenda giudiziaria dai contorni paradossali: “Tutte le organizzazioni che offrono aiuto ai migranti, a cominciare dalle Ong che prestano soccorso in mare, sono il nemico numero uno dei trafficanti”, sottolinea Costa. Che è appena tornato da una missione al confine tra Ucraina e Moldavia, “dove abbiamo recuperato e portato indietro con noi mamme e bambini ucraini: abbiamo attraversato cinque frontiere ricevendo il sorriso delle autorità”. La clausola umanitaria - Ora, però, lo aspetta il processo. E un’accusa che, legge alla mano, sembra difficile da sostenere. Basterebbe citare il comma 2 dell’articolo 12 del cosiddetto Testo unico sull’immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998), in cui viene introdotta una clausola umanitaria: “Non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno, comunque presenti nel territorio dello Stato”. Quindi, in teoria, il soccorso umanitario non è configurabile come reato, seppur prestato nei confronti di persone entrate “illegalmente” nel nostro Paese. Questa clausola è stata ribadita anche in una Direttiva del Consiglio dell’Unione europea del novembre 2002. Non l’ha eliminata nemmeno Matteo Salvini, quando era al Viminale, pur intervenendo sul tema nel primo dei suoi decreti sicurezza. “Se Andrea è colpevole, lo siamo tutte e tutti, ognuno di noi è un criminale”, dicono i volontari di Baobab. Oppure non lo è nessuno. “Sono accusato di immigrazione clandestina, ma ho solo aiutato nove ragazzi” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 22 aprile 2022 Il 3 maggio Andrea Costa, presidente dell’associazione Baobab, che da anni offre accoglienza ai “transitanti” in fuga da guerre e persecuzioni dovrà rispondere in tribunale della pesantissima accusa che prevede fino a 18 anni di carcere. “Se Andrea Costa è colpevole di “solidarietà” allora arrestateci tutti”. Finisce con un abbraccio di amici e sostenitori la conferenza stampa di “Baobab Experience”, l’associazione romana che dal 2015 offre rifugio e assistenza ai migranti transitanti nel nostro paese, provando a dare cibo caldo, un giaciglio (e informazioni sui propri diritti) a chi non avrebbe altra dimora in Italia che un angolo di marciapiede. Andrea Costa, il presidente, appena tornato dal confine tra l’Ucraina e la Moldavia portando in Italia donne e bambini, è stato rinviato a giudizio - il processo il prossimo tre maggio a Roma - con l’accusa (incredibile) di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e rischia dai sei ai diciotto anni di carcere insieme ad altri due volontari. Il reato? Aver comprato, nel 2016, i biglietti del pullman per nove migranti del Sudan e del Ciad diretti al campo della Croce Rossa di Ventimiglia, accompagnati da una volontaria dell’associazione, dopo lo sgombero della tendopoli romana di via Cupa dove Baobab offriva un primo soccorso a oltre trecento transitanti. “L’accanimento di quei giorni è forte - ricorda Baobab Experience in una nota. Chi portava sostegno è allontanato e la parola d’ordine è “disperdersi” e disperdere la Comunità”. Un’inchiesta nata nel 2016, affidata addirittura alla Dia, la direzione investigativa antimafia, che per anni intercetta le telefonate di Andrea Costa, lo pedina, mette sotto controllo i suoi conti bancari. Un’inchiesta che nasce, dobbiamo ricordarlo, all’inizio di quella che fu una campagna di criminalizzazione delle Ong che salvavano i migranti, (definite con disprezzo i “taxi del mare”), quando la solidarietà finì sul banco degli imputati, al pari, ed è la cosa più grave, di chi anziché aiutare diseredati in fuga dalle guerre ne faceva traffico di esseri umani. “Rischio una condanna da sei a 18 anni di carcere e non ho ancora capito perché. Ho deciso di raccontare questa storia ora per non essere travolti nel nostro lavoro di volontari. Sono tornato da poco dall’Ucraina, ho attraversato cinque frontiere portando nel nostro Paese donne e bambini con il plauso delle autorità, delle istituzioni e delle associazioni. Poi invece rischio la galera perché ho aiutato dei ragazzetti ad andare da Roma a un campo della Croce Rossa a Ventimiglia nel 2016. Su di me hanno fatto indagini pesantissime: pedinamenti, migliaia di ore di intercettazioni telefoniche, accessi ai conti bancari. Quando l’Antimafia si accorge di non avere nulla molla l’indagine. Però la magistratura ordinaria va avanti e il prossimo 3 maggio ci sarà la sentenza”. “È paradossale - aggiunge Costa - hanno speso migliaia di euro per queste indagini, hanno ascoltato ore e ore di conversazioni personali, intime, con le mie figlie, avranno ascoltato le conversazioni per la morte di mio padre. Una cosa terribile”. “Il processo - ha spiegato l’avvocato Francesco Romeo durante la conferenza organizzata da Baobab - nasceva con l’ipotesi investigativa di associazione a delinquere che sfrutta i migranti per trarne profitto, portata avanti dall’Antimafia. Ma nelle intercettazioni registrate da ottobre a dicembre 2016 non si trova traccia né di associazione né di profitto. Anzi, il controllo sui conti di Costa in quel periodo mostra 15 euro di scoperto”, ha ricordato con ironia Romeo. “L’ipotesi investigativa è quindi caduta. Ma, così come del maiale non si butta via nulla, è rimasta in piedi, come accusa, l’attività di aiuto ai 9 migranti”. Anche perché per trovare quei famosi 250 euro necessari a pagare i biglietti dei nove ragazzi (che per le condizioni dei loro paesi d’origine avrebbero dovuto avere lo status di rifugiati) Costa fa una colletta. Dunque, come è evidente, l’accusa di lucro sulla pelle dei migranti, si sfarina dopo poco, rendendo in qualche modo inappropriato il potente impianto investigativo che pedina e intercetta il presidente di Baobab. “Tutte le organizzazioni che offrono aiuto ai migranti, a cominciare dalle Ong che prestano soccorso in mare, sono il nemico numero uno dei trafficanti, noi continueremo ad aiutare chi ha bisogno”. ha concluso Andrea Costa Ucraina. Crimini di guerra, dove sta il diritto internazionale? di Antonio Marchesi* Il Manifesto, 22 aprile 2022 Rimane un fatto innegabile: che quando le norme del diritto internazionale vengono violate, l’insufficienza della risposta lascia tutti, quasi sempre, insoddisfatti. È corretto prendere posizione, schierarsi, rispetto al conflitto russo-ucraino, invocando argomenti fondati sul diritto internazionale? Se si prendono come riferimento le norme sull’uso della forza, lo ius ad bellum, la risposta è sì. È impossibile non riconoscere che quella che Putin si ostina a chiamare “operazione militare speciale” sia una violazione della Carta delle Nazioni Unite. Le giustificazioni offerte dal Cremlino sono infondate, a cominciare da quella basata sulla necessità di fermare un genocidio della popolazione russofona del Donbass, una sorta di intervento umanitario, argomento che la stessa Corte internazionale di Giustizia ha già di fatto rigettato. L’uso della forza da parte dell’Ucraina è invece lecito a titolo di legittima difesa, in quanto risposta a un attacco armato altrui. Se, infatti, l’art.2, 4 della Carta vieta la minaccia o l’uso della forza “contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi stato”, l’art.51 stabilisce che nessuna disposizione della Carta “pregiudica il diritto naturale di autotutela”. E aggiunge che quest’ultima potrà essere “individuale o collettiva”: in altre parole, non c’è alcun divieto di chiedere e ottenere aiuto, nessun obbligo di difendersi da soli (magari da un vicino militarmente molto più forte). La condizione posta dalla norma è piuttosto un’altra: che la risposta armata, anche se collettiva, sia proporzionale al fine di respingere l’attacco altrui; e che non si vada oltre: il cambio forzato di regime nello stato aggressore, per esempio, rappresenterebbe un eccesso di legittima difesa. Esiste però un’altra prospettiva che il diritto internazionale offre sulla guerra in Ucraina, che non dà necessariamente torto agli uni e ragione agli altri. Nella prospettiva dello ius in bello entrambe le parti in conflitto sono tenute, in modo del tutto indipendente dai rispettivi ruoli di aggressore e di aggredito secondo lo ius ad bellum, a rispettare regole sulla condotta delle ostilità: a non colpire obiettivi civili, a non compiere attacchi indiscriminati (che non consentono di distinguere tra obiettivi militari e civili), a non utilizzare armi specificamente proibite o intrinsecamente indiscriminate, a rispettare persone e luoghi protetti. Qui il diritto internazionale si rivolge a tutti. Anche se di fatto, dal momento che è sul territorio ucraino che la guerra si combatte, la questione riguarda soprattutto i Russi, non è affatto escluso che a commettere crimini di guerra, come vengono definite le violazioni gravi dello ius in bello, siano gli Ucraini (per esempio, nei confronti di civili schierati con i Russi o di soldati russi fatti prigionieri). Sia detto ancora che il diritto umanitario non è una componente marginale del diritto internazionale; che non è vero, contrariamente a quanto sostenuto in questi giorni, che non esistono crimini di guerra ma solo il “crimine della guerra” (o che alzare la voce contro i primi “passa in secondo piano che la guerra è tutta un crimine”). Introdurre regole per limitare le conseguenze più devastanti dei conflitti armati, riducendo per quanto possibile la sofferenza delle vittime, è una conquista di civiltà che nulla toglie agli sforzi di porre fine alla guerra come tale. Rinunciare a proteggere dalla violenza bellica donne e bambini, feriti e prigionieri, in attesa del momento in cui questa sarà scomparsa dalla faccia della terra, non è credibile … sarebbero i più fragili, nel frattempo, se questa impostazione fosse accolta, a pagare un prezzo ancora più alto di quello che pagano ora. Rimane un fatto innegabile: che quando le norme del diritto internazionale vengono violate, l’insufficienza della risposta lascia tutti, quasi sempre, insoddisfatti. Non è questo il luogo per approfondire la natura e i limiti di un ordinamento giuridico privo di istituzioni in grado di imporsi agli stati, ai suoi soggetti principali, per analizzare le cause di questo stato di cose. Basti dire che la battaglia, tutta in salita, per attuare la responsabilità, quella degli Stati e quella degli individui, per ricollegare conseguenze proporzionali ed efficaci alle violazioni sia dello ius ad bellum che dello ius in bello, è una sfida che si rinnova ogni giorno. E che i fallimenti passati - i precedenti poco edificanti (dall’Iraq alla Siria all’Afghanistan) o la scarsa credibilità degli attori (tutti indistintamente) - non devono indurci a rinunciare. Rinunciare a far valere il diritto internazionale equivale ad accettare una volta per tutte che rimangano solo i rapporti di forza; che a parlare siano soltanto le armi. *Docente di diritto internazionale Università di Teramo La Russia si illude di spegnere la fiamma libera di Amnesty di Roberto Saviano Corriere della Sera, 22 aprile 2022 “Se il Cremlino cerca di chiuderti vuol dire che stai facendo la cosa giusta”: questa la dichiarazione di Amnesty International dopo che, lo scorso 8 aprile, le autorità russe hanno deciso di chiudere gli uffici della Ong a Mosca. “In uno Stato dove attivisti e dissidenti vengono imprigionati, uccisi o esiliati, dove il giornalismo indipendente è calunniato, sospeso o costretto all’autocensura e dove i gruppi della società civile sono messi fuorilegge o liquidati, se il Cremlino cerca di chiuderti vuol dire che stai facendo la cosa giusta”. Il Cremlino si illude di poter silenziare Amnesty, di poter mettere il bavaglio, con questa ennesima azione dimostrativa come sempre violenta e autoritaria, a chi chiede la liberazione dei manifestanti arrestati e incarcerati per aver espresso solidarietà agli ucraini invasi. A chi pretende che sia rispettato il diritto del giornalismo indipendente di denunciare i fatti, a chi vuole che i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani commesse in Russia in Ucraina o in Siria, siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Anni fa mi imbattei per caso nel racconto della nascita di Amnesty International. In genere seguiamo le sue campagne, proviamo a dare sostegno e visibilità, ma quasi mai si racconta come Amnesty sia nata e, soprattutto, da quale sentimento. Nel novembre 1960 l’avvocato inglese Peter Benenson legge sul giornale un articolo su due studenti portoghesi che erano stati arrestati e condannati a sette anni di prigione perché in un bar di Lisbona avevano fatto un brindisi alla libertà. Ai tempi il Portogallo era ancora sotto la dittatura fascista di António de Oliveira Salazar (l’Estado Novo), e in un regime autoritario anche solo pronunciare la parola libertà è reato. L’avvocato è scosso: ogni giorno sul giornale gli capitava di leggere notizie su persone arrestate o giustiziate nel mondo perché le loro opinioni non erano in linea con quelle del loro governo. E lui, che era un avvocato del lavoro, ne era stato testimone assistendo a processi a sindacalisti nella Spagna di Franco: non solo non c’era alcuna giustizia nelle decisioni dei giudici, ma una volta in carcere non veniva rispettato neanche il più basilare dei diritti umani dei detenuti. Benenson capisce che non basta andare a manifestare davanti all’ambasciata portoghese (che il giorno dopo sarebbe stata quella di un altro Paese, e poi di un altro ancora...), non basta nemmeno un’iniziativa congiunta con i suoi colleghi avvocati. Ma era sicuro che il senso di disgusto che lui provava leggendo quelle notizie lo provassero anche altre persone, moltissime in tutto il mondo. Eppure, quei sentimenti, singolarmente - allora come adesso - rischiavano di restare solo indignata impotenza. A Benenson viene dunque in mente un proverbio cinese che recita così: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità”. Ecco, per accendere quella candela, per far luce su queste ingiustizie e provare a cambiare le cose, bisognava unire i sentimenti di tutti in un’azione comune. Così, nel maggio del 1961, scrive una lettera sull’ Observer in cui segnala i casi di dodici prigionieri dimenticati e lancia una campagna di Amnistia (“Amnesty” appunto) di 12 mesi invitando le persone a scrivere lettere per chiedere la loro liberazione. In quei 12 mesi, di lettere ne arrivarono a migliaia, e in vari Paesi si formarono gruppi di persone decise a impegnarsi nella causa per l’amnistia e per la salvaguardia dei diritti umani. Fu così che nacque Amnesty International, che assunse come suo simbolo la candela avvolta da filo spinato - è l’immagine che ho scelto questa settimana - che per Benenson rappresentava ogni prigioniero ucciso, torturato o detenuto ingiustamente su cui era necessario portare luce. Questo è stato l’atto di coraggio di Benenson: non limitarsi a sentire che una cosa fosse ingiusta, ma fare in modo che l’indignazione nata dall’ingiustizia divenisse un sentimento condiviso, perché solo attraverso la condivisione la realtà si può trasformare. Oggi si ha la sensazione che sia più facile colonizzare Marte che cambiare ciò che accade sulla Terra: è questo senso di impotenza, opprimente e claustrofobico, che spesso ci induce a pensare che l’azione del singolo sia inutile. Quello che Benenson fece fu proprio dimostrare il contrario, dimostrare cioè che, anche singolarmente, facciamo la differenza. Stati Uniti. Un grido nel feroce Texas: “Salvate Melissa Lucio!” di Francesca Mambro Il Riformista, 22 aprile 2022 Quando si giustizia un criminale, spesso, si fa felice qualcuno, ma infelice qualcun altro. Un caso emblematico di questa ambiguità è Melissa Lucio, una donna di 53 anni nata in Texas, di origini messicane. Madre di 14 figli, Melissa potrebbe essere messa a morte il 27 aprile in Texas. È accusata di aver maltrattato la più piccola delle sue figlie, Mariah Alvarez, di due anni, fino a causarne la morte nel 2007. Il 22 marzo, gli avvocati di Melissa hanno presentato una richiesta di clemenza. “Clemenza” è una formula convenzionale che può portare a una semplice “sospensione” dell’esecuzione, a una commutazione (non più pena di morte ma ergastolo senza condizionale), più raramente anche a una ripetizione del processo oppure alla “grazia” vera e propria. I difensori sostengono, con validi elementi a riscontro, che un riesame dell’autopsia fatto alla luce delle migliorate conoscenze scientifiche dimostrerebbe che la bambina è plausibilmente morta per una caduta accidentale dalle scale di casa. Le nuove risultanze sembrano anche spiegare i molti lividi trovati sul corpo della bambina, plausibili con una ipersensibilità dovuta a una malattia genetica della coagulazione del sangue. Nei giorni e nelle settimane successive, a sostegno della richiesta di “clemenza”, è sorto un movimento molto forte, o meglio, un movimento “molto forte considerato che siamo in Texas”, lo Stato più feroce degli Stati Uniti, lo Stato che da solo ha effettuato il 37% di tutte le esecuzioni Usa in epoca moderna, lo Stato che qualche anno fa contrastò a muso duro anche il conservatore Bush junior che come Presidente degli Stati Uniti chiedeva più prudenza con le esecuzioni. A favore di Melissa si sono schierati alcuni vip, quasi metà dei giurati popolari che pure l’avevano condannata, alcuni pubblici ministeri (quello che aveva gestito il processo nel frattempo è stato condannato a 13 anni di carcere per gravi irregolarità in altri processi) e gruppi di pressione a favore delle minoranze etniche, contro le violenze domestiche, per i diritti dei minori. Una petizione popolare, alla quale ha partecipato anche Nessuno tocchi Caino, ha raccolto oltre 235.000 firme. La cosa abbastanza sorprendente, trattandosi del Texas, ma anche in generale, è che a favore della “clemenza” si sono pronunciati, firmando un appello esplicito, il 60% dei parlamentari texani. E il parlamento texano è a forte maggioranza conservatrice (57%), così conservatrice che un gruppo di parlamentari, per rendere più evidente il supporto a Melissa, è andato in carcere e si è fatto fotografare mentre tutti insieme si erano raccolti in preghiera. Insomma quasi a far capire che anche Dio era dalla loro parte. Dopo che anche i 13 figli vivi della Lucio hanno testimoniato di non essere mai stati maltrattati, anche il giovane pubblico ministero che ha ereditato il caso dal collega arrestato si è detto favorevole a rivederlo. A questo punto, è forse davvero possibile che in Texas avvenga un miracolo: la “clemenza” per una donna povera, di origine messicana e con un passato di droga. Fin qui la cronaca. Poi, come dicevamo all’inizio, bisogna considerare che, spesso, quando si giustizia un criminale, si fa felice qualcuno, ma infelice qualcun’altro. In questo caso siamo al paradosso che per “vendicare” la piccola Mariah Alvarez si dovrebbero rendere orfani i suoi 13 fratelli. Il 27 aprile, di loro non vi sarà traccia anche se hanno raccontato come la madre li abbia curati e gli abbia voluto bene. Senza colpa, saranno puniti, vittime di una necessità giuridica che li cancella e li relega all’invisibilità. Il Comitato per gli affari legali e i diritti umani del Consiglio d’Europa, nel 2019, evidenziava per i figli dei condannati a morte come “questi bambini, spesso dimenticati e socialmente svantaggiati, possono subire un trauma in ogni fase del processo che porta all’esecuzione del genitore”: è un “fardello emotivo e psicologico” che “viola i loro diritti”. Il Consiglio raccomandava di dare “massima importanza all’interesse superiore del bambino” nelle sentenze sui genitori e rispettare il divieto della pena di morte per chi aveva meno di 18 anni al momento del presunto reato. Come richiamato anche nella Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia del 20 novembre 1989. Nella storia di Melissa, nello Stato del Texas, non sembra esservi spazio per raccomandazioni né per una pietas che sappia riconoscere il senso del tragico e una compassione che tenti di ricomporre l’irreparabile. È la storia di un meccanismo che nel presumere di voler tutelare la vittima priva di dignità e speranza altri esseri umani, altri figli. È la storia della pena di morte che perpetua quell’indicibile tragico in una frattura irredimibile. Sperando contro ogni speranza, confidiamo che il 27 aprile segni l’inizio di un’altra storia. Stati Uniti. Iniezione letale per due anziani detenuti condannati a morte today.it, 22 aprile 2022 Il Texas e il Tennessee si preparano. Si tratta di Carl Buntion, 78 anni, condannato per l’omicidio di un poliziotto nel 1990, e Oscar Franklin Smith, 72 anni, colpevole di aver ucciso la ex moglie e i suoi due figli adolescenti nel 1989. Nuove esecuzioni di condanne alla pena capitale negli Stati Uniti nelle prossime settimane, forse già nei prossimi giorni. Il Texas e il Tennessee si preparano ad eseguire le condanne dei loro detenuti più anziani nel braccio della morte. Lo riportano i media americani. Si tratta di Carl Buntion, 78 anni, condannato per l’omicidio di un poliziotto nel 1990, e Oscar Franklin Smith, 72 anni, colpevole di aver ucciso la ex moglie e i suoi due figli adolescenti nel 1989. Entrambi saranno giustiziati con l’iniezione letale. Gli avvocati di Buntion, che è stato in isolamento nella sua cella 23 ore al giorno negli ultimi 20 anni, hanno presentato un ultimo ricorso alla Corte Suprema chiedendo una sospensione della condanna perchè “l’uomo è fragile, anziano e non rappresenta più una minaccia per nessuno”. Pochi giorni fa tra il plotone di esecuzione e la sedia elettrica, Richard Bernard Moore ha scelto di essere fucilato. Condannato a morte nel 2001 per omicidio e altri reati commessi nel 1999 in South Carolina, il detenuto di 57 anni ha potuto scegliere come morire quattordici giorni prima della data dell’esecuzione, fissata per il 29 aprile. Se avverrà, sarà la prima fucilazione nella storia dello Stato americano. I suoi avvocati hanno presentato ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti giudicando le due alternative - plotone di esecuzione o sedia elettrica - entrambe incostituzionali, e chiedendo anche una riformulazione della pena per il proprio cliente, ritenuta sproporzionata. Solitamente gli Stati americani che consentono le condanne a morte le attuano attraverso un’iniezione letale. Negli ultimi anni, però, è diventato sempre più difficile reperire il mix di veleni necessario, dopo che molte case farmaceutiche e tanti Paesi nel mondo hanno vietato la loro esportazione negli Stati Uniti per motivi umanitari.