Una proposta per sottrarre il nostro Dap al monopolio dei magistrati di Enrico Sbriglia* e Alessandro De Rossi** Il Dubbio, 21 aprile 2022 Il Cesp (Centro Europeo di Studi Penitenziari) sta elaborando un progetto di legge con l’obiettivo di trasferire il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sotto il controllo di Palazzo Chigi. Sono decenni che il nostro sistema penitenziario sembra non funzionare, sia come organizzazione nel suo complesso che come corretta attuazione di norme nazionali e regole sovranazionali. Allora, delle due una, o si cambia totalmente allenatore e schema di gioco, oppure si sarà costretti a collezionare ulteriori défaillance del sistema, perdendo in tal caso il nostro Paese credibilità e prestigio istituzionale sia nei confronti dei nostri cittadini che nei confronti delle istituzioni internazionali e di giurisdizione europea. Al riguardo, come Cesp (Centro Europeo di Studi Penitenziari), anche a mente di una vision che guardi all’intera Europa o quantomeno all’Ue, siamo sempre più convinti, dopo avere affrontato innumerevoli volte la questione con i nostri maggiori studiosi ed esperti del mondo delle carceri, che una seria possibilità che consenta di recuperare autorevolezza tra i nostri cittadini e credito oltre i nostri confini, nonché ridare funzionalità al sistema, al di là delle eventuali ulteriori riforme che si vorranno realizzare, quindi “rebus sic stantibus”, sia quella di prevedere la migrazione dell’intero Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal dicastero della Giustizia alla presidenza del Consiglio dei ministri. Non solo per statuire la netta e necessaria cesura, sul piano della gestione amministrativa, tra il potere giudiziario e quello esecutivo, ma anche per rafforzare l’effettivo e indipendente controllo di legalità sulla conduzione delle carceri da parte dei magistrati i quali, invece, oggi, a diverso titolo, sono proprio quelli che le stanno governando, dando vita ad una situazione obiettivamente opaca perché incoerente, per quanto la ministra della Giustizia Cartabia sia ricorsa all’intelligente stratagemma di affidare la direzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a un magistrato di sorveglianza piuttosto che, come per il passato, a un procuratore della Repubblica. Al riguardo, stiamo elaborando un progetto di legge che metteremo a disposizione dei parlamentari dei diversi schieramenti, ove intenderanno adottarlo ed eventualmente migliorarlo e modificarlo, per poi presentarlo come disegno o proposta di legge. La migrazione del solo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (acronimo Dap) dall’attuale dicastero alla presidenza del Consiglio dei ministri, sarà immaginata sulla falsariga di quelli del Dipartimento della Protezione civile e del Dipartimento delle Politiche antidroga, talché le importanti tematiche, e le notorie complessità che ne derivano, siano affrontate in termini coerenti e sistemici, di fatto interdisciplinari, dai diversi ambiti e competenze governative e non, come adesso, chirurgicamente mutilate e di fatto derubricate, affidandole a vertici solo nominalmente amministrativi ma in realtà provenienti e incardinati nella funzione giudiziaria dove, alla fine degli incarichi, ritorneranno. L’esperienza finora fatta nel governo delle carceri, attribuita dal 1923 al ministero della Giustizia, infatti, ha dato vita ad un contesto amministrativo ibrido e innaturale, il quale, invece di favorire, ai sensi dell’art. 47, comma 3° della nostra Costituzione, la progressiva e piena realizzazione delle finalità della Carta, ne ha determinato proprio il suo opposto, nonché ridotto il Dap in un foro privilegiato di appetiti carrieristici da parte della stessa magistratura, dimenticandosi che la gestione delle carceri richieda, assolutamente, grandissime capacità manageriali che potrebbero essere ingaggiate dal mondo dell’alta dirigenza pubblica e perfino da quella del mondo privato, perché quest’ultime, a differenza di quanti svolgano funzioni giudiziarie requirenti e giudicanti, sono addestrate nella gestione di organizzazioni articolate e apparati e sono abituate a rendere conto, ai loro ministri o ai loro azionisti, insomma, ne risponderebbero in caso di mala gestio per incapacità del management togato. Attraverso il progetto che si sta elaborando, inoltre e non da ultimo, si rientrerebbe, finalmente, all’interno della cornice delle regole penitenziarie europee, le quali recitano, nella Parte V - Direzione e Personale - Il Servizio Penitenziario come servizio pubblico - punto 71. “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”. Le ragioni di questa clausola di salvaguardia democratica sono intuibili e di tutta evidenza, perché finalizzate ad assicurare la contemplata, e finora disattesa, distinzione del sistema penitenziario italiano dagli ambiti pubblici concorrenti afferenti la giustizia, le forze armate, i corpi di polizia; evitandosi quindi i maggiori rischi di contaminazioni e opacità e, soprattutto, di irresponsabilità che, verosimilmente, sono alla base delle criticità in premessa. Non comprenderlo sarebbe allarmante, perché sono decenni che il sistema penitenziario italiano risulta gestito, al massimo livello, sempre ed esclusivamente, da magistrati. Ciononostante, non si ricordano critiche e imputazioni di responsabilità amministrative, nonostante la massa consistente di risorse umane, finanziarie e strutturali impegnate dallo Stato in tale importante e strategico settore dell’organizzazione pubblica, il quale tratta materie amministrative “incandescenti”, allo stato puro, perché innervate anche con fondamentali attività che attengono pure la competenza di altri ministeri e di una pluralità di enti pubblici, ivi comprese le Regioni (ad es. in materia di sanità e formazione professionale dei detenuti, solo per fare qualche piccolo esempio), che gli stessi enti locali. Con il progetto di legge, tra l’altro, non si intendono assolutamente indebolire le esigenze di sicurezza e di ordine pubblico, le quali, al contrario, ne trarrebbero solo un sicuro rafforzamento, per quanto il carcere rimanga, agli occhi del legislatore costituzionale e nella normazione europea, per sua intrinseca natura, altra cosa rispetto alle logiche della giurisdizione e dei processi. La commissione di eventuali reati in ambito penitenziario, infatti, continuerà ad essere perseguita, così come si opererà in tema di prevenzione e contrasto verso gli stessi, non dissimilmente da come già accada in qualunque contesto pubblico, risultando indifferente, di fronte alla violazione delle leggi penali, se non addirittura circostanza aggravante, che il locus commissi delicti sia una scuola, un ospedale, una caserma o qualunque altro ufficio pubblico, essendo tutti tenuti al rispetto delle leggi penali e non solo a quelle. Pertanto, di fronte a ipotesi di reati o alla loro commissione, dovranno essere immancabilmente adottate dai pubblici ufficiali e da quanti svolgano un pubblico servizio, operanti a qualunque titolo nella generalità delle articolazioni amministrative del Dap, tutte le procedure contemplate, dalle quali potranno scaturire attività info-investigative e giudiziarie, non attuandosi alcun stravolgimento di norme di diritto penale sostanziale e processuale. Se il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria divenisse una struttura della presidenza del Consiglio dei ministri, con a capo un general manager ingaggiato tra i dirigenti generali penitenziari di carriera, oppure tra quelli di altre amministrazioni esperiti nel governo di strutture complesse e articolate, perché semmai proveniente del ministero della Salute, oppure da quello della protezione civile, o dagli interni, o da quello del lavoro, se non anche delle Infrastrutture, oppure del welfare e finanche del mondo del volontariato strutturato, se non pure da quello dell’avvocatura, etc., certamente si conseguiranno migliori concreti e misurabili risultati rispetto a quanto accada oggi. E non da ultimo, attraverso i propri apparati securitari riservati, che trovano nel Consiglio dei ministri, uno dei maggiori responsabili, quale il sottosegretario “Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica”, si potrà proficuamente valorizzare il grande patrimonio informativo che il carcere, con le sue comunità, può offrire; una ricchezza di notizie che, proprio per il suo potenziale, andrebbe necessariamente gestita e lavorata dal governo nel proprio complesso e non lasciata, come avviene oggi, nella sostanziale esclusiva disponibilità di un solo potere, il quale, al contrario, dovrebbe soltanto conoscere di reati, attraverso atti qualificati e circostanziati di polizia giudiziaria, nel rispetto del principio, cardine delle democrazie, della divisione dei poteri. Insomma, la migrazione del Dap potrebbe pure, e positivamente, incoraggiare un maggiore apprezzamento della stessa magistratura, esaltandone l’effettiva terzietà ed indipendenza, oltre che favorire, nell’esercizio della cosa pubblica, i principi di imparzialità e di buona amministrazione. *Presidente Onorario del CESP **Vice Presidente del CESP Come si previene la violenza in cella? Liberando la sessualità di Stefano Anastasìa* Il Riformista, 21 aprile 2022 Quanto accaduto nell’istituto romano di Regina Coeli è terribile. Il Sappe punta il dito contro la vigilanza dinamica, ma non c’entra nulla. La vittima non avrebbe neppure dovuto trovarsi lì. La cultura predatoria non si cancella per legge, ma questo caso apre uno squarcio su un tema troppo spesso rimosso. Un’altra terribile notizia che non avremmo voluto avere da un istituto penitenziario: la violenza sessuale di cui è stata vittima una persona detenuta nel carcere romano di Regina Coeli ad opera di due suoi compagni di stanza. Una persona - come ha sottolineato il Garante nazionale dei detenuti - che peraltro non avrebbe dovuto essere lì, essendo prossimo alla fine della pena per reati non ostativi e che quindi avrebbe potuto essere in misura alternativa alla detenzione. Se le alternative alla detenzione non si possono avere neanche a tre mesi dal fine pena, allora diciamolo che c’è anche qui un doppio binario, tra quelli che in alternativa ci vanno dalla libertà e quelli che in galera ci devono stare fino all’ultimo giorno, mostrando platealmente il fallimento dell’ideale rieducativo in quella pena scontata fino all’ultimo giorno in carcere. Il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria mette ancora una volta sotto accusa il sistema di vigilanza dinamica con le sezioni a stanze aperte vigente a Regina Coeli, e la carenza del personale. A parte che, se è vero che gli aggressori erano compagni di stanza dell’aggredito, la chiusura in stanza dei detenuti sarebbe stato ancora peggio per la vittima, se il problema fosse quello reale della carenza del personale sarebbe come a dire che la violenza è colpa del sovraffollamento, problema anch’esso reale, ma che nulla c’entra con il fatto commesso e la violenza perpetrata. In realtà il grave fatto di ieri apre uno squarcio su un aspetto del mondo della detenzione troppo spesso rimosso: la convivenza coatta di decine di persone private (tra le altre cose) di una sessualità libera e consapevole. Certo la possibilità di avere una vita sessuale libera, attraverso incontri riservati con il/la propria/o partner, non avrebbe cambiato la cultura predatoria della sessualità che le due persone denunciate probabilmente hanno, come quella che tanti di noi, maschi italiani, mostriamo ogni giorno fuori dal carcere, in abusi, violenze e relazioni affettive tossiche che arrivano fino a quell’impressionante numero di femminicidi da anni registrati nel nostro Paese (mentre diminuiscono a livelli mai raggiunti prima gli omicidi per altre cause).La cultura predatoria della sessualità non si cancella né con una legge repressiva fuori, né con una legge permissiva dentro il carcere, ma se la sessualità in carcere uscisse dal cono d’ombra in cui è nascosta e repressa, sarebbe più facile prevenire ed evitare la sessualità coatta e violenta dentro le comunità dei ristretti. È tema antico, ormai, quello della sessualità in carcere, affrontato e risolto in molti Paesi europei, ma che qui da noi resta soggetto a un tabù perbenista. Dopo una norma di regolamento cassata per motivi formali vent’anni fa dal Consiglio di Stato, una sentenza della Corte costituzionale e le proposte degli Stati generali dell’esecuzione penale, se ne discute in Senato, su iniziativa del Consiglio regionale della Toscana, cui si è aggiunta un’analoga proposta di quello del Lazio. Perché non dargli seguito in quest’ultimo scampolo di legislatura? *Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Carceri: un’importante sentenza della Corte di Cassazione di Valter Vecellio lindro.it, 21 aprile 2022 La Corte di Cassazione boccia come “inumano e degradante” il wc all’interno della stanza detentiva, e afferma che la separazione assicurata da un muretto alto un metro e mezzo non cambia le cose, né sotto il profilo della privacy né della salubrità. Ce lo si era chiesti in una nota pubblicata su questo giornale il 13 aprile scorso (‘Giulio Regeni ancora senza pace e senza giustizia’): “Chissà se accade anche in altri paesi di dover accendere un procedimento, e fare tutti i tre gradi di giudizio, approdare alla Corte di Cassazione, per vedersi riconosciuta l’inammissibilità del ricorso predisposto dal ministero della Giustizia contro una riduzione di pena disposta dal Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila “causa” water. La Corte di Cassazione boccia come “inumano e degradante” il wc all’interno della stanza detentiva, e afferma che la separazione assicurata da un muretto alto un metro e mezzo non cambia le cose, né sotto il profilo della privacy né della salubrità…la terza sezione della Cassazione ha avuto modo di contestare al Ministero che la “presenza del wc all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione aveva inciso sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente”. C’era bisogno di una sentenza, per capirlo e saperlo”. Ora arriva anche il conforto di Luigi Manconi. Su ‘Repubblica’ recensisce ‘Letteratura d’evasione’, curato da Federica Graziani e Ivan Talarico, una sorta di antologia di esperienze e racconti vissuti “durante il corso di scrittura all’interno del carcere di Frosinone”. Ai detenuti è stato chiesto di descrivere le proprie “camere di pernottamento”, più volgarmente: celle. Idea molto interessante, chiosa Manconi: “Perché in quelle recensioni si rispecchia spesso l’immagine di sé e dei propri rapporti più intimi che la persona privata della libertà e coatta in uno spazio angusto vuole trasmettere all’esterno. Da un punto di vista architettonico e sociologico assai utile sarebbe estendere quell’attività di descrizione e scrittura fino a concentrarla nel buco più profondo contenuto in quel buco che spesso è la cella. Ovvero il water”. Anche a Manconi non è sfuggita la sentenza della Cassazione che si è segnalata una settimana fa: “la presenza del WC all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione” inciderebbe in profondità “sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente”. Sentenza importante a proposito di una questione rilevantissima per valutare lo stato del nostro sistema penitenziario e il livello di mortificazione della dignità umana cui può giungere. L’associazione Antigone segnala che almeno il 5 per cento delle celle presentano condizioni igieniche condannate dalla Cassazione. Questione pochissimo trattata dai grandi mezzi di comunicazione; il carcere è un qualcosa di cui non si deve parlare; l’opinione pubblica non deve conoscere. Qualcuno, sulla base di imperscrutabili analisi e sondaggi demoscopici, ha stabilito che carcere, giustizia, come viene amministrata, vanno rubricate nel catalogo delle cose che “annoiano”, non interessano. Sarà davvero così? Certamente sono questioni che interessano (o hanno direttamente interessato) quelle circa mille persone che ogni anno, a partire dal 1991, sono finite in carcere, per poi uscirne, dopo giorni, settimane, mesi, irrimediabilmente piagate nello spirito e nel fisico a volte, ma con il “bollo” dell’innocente perché “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”. Fate voi i conti: mille innocenti moltiplicati 31 anni; e metteteci i congiunti, sicuramente pochissimi gli orfani, vedovi, senza figli e parenti di sorta. Dunque di riffa o di raffa, parecchie decine di migliaia di persone. Non interessa? I partiti, bontà loro, sono impegnati in una mediocre zuffa attorno a una blanda riforma del Consiglio Superiore della Magistratura; l’Associazione Nazionale dei Magistrati minaccia sfracelli, addirittura uno sciopero preventivo, sulla legittimità pesano parecchi dubbi: può un ordine dello Stato scioperare contro una decisione sgradita fin che si vuole, ma legittima, del Parlamento? Può condizionare l’iter di una legge di riforma in modo così plateale e sfacciato? Ecco, mentre questo accade, la giustizia italiana, la sua amministrazione, continua a versare in uno stato comatoso, a tutto vantaggio del Partito Immobilista Giustizialista, che intende difendere con le unghie e con i denti i propri privilegi e le proprie postazioni di potere. Le cifre sono eloquenti e indiscutibili: dal 1991 al 2021, 30.017 persone sono state vittime di ingiusta detenzione: hanno patito una custodia cautelare e poi si sono trovate assolte. Per questo lo Stato, cioè ogni cittadino di questo paese, ha pagato 819 milioni di euro, circa 27 milioni di euro l’anno. Per quanto riguarda gli errori giudiziari veri e propri, cioè i casi di coloro che, dopo essere stati condannati con sentenza definitiva, vengono assolti in seguito a un processo di revisione, questi sono stati 214, con una spesa in risarcimenti di 76 milioni di euro. Quanti magistrati hanno pagato per questa situazione? N-E-S-S-U-N-O. La documentazione viene fornita quotidianamente aggiornata dall’associazione “Errori giudiziari”, e nessuno si è sognato di smentirla; perché semmai la situazione reale è perfino peggiore di quella fin qui descritta. Il quadro comunque è semplicemente desolante. Da ultimo un inequivocabile altolà: “La protesta dei magistrati mi sembra inopportuna nel contenuto, nel metodo e nelle ragioni. I magistrati hanno tutto il diritto di promuovere iniziative per questioni legate alla loro posizione di dipendenti statali, ma lo sciopero non può costituire l’occasione per far valere orientamenti politici o per contestare i contenuti di scelte legislative, peraltro ancora oggetto di discussione in parlamento. Le leggi in questo paese le fa il parlamento”. Viene da un giurista insigne, ex ministro della Giustizia, Presidente emerito della Corte Costituzionale: il Professor Giovanni Maria Flick. Questa la situazione, questi i fatti. Giornata del teatro in carcere, da Venezia a Pesaro si arricchisce il cartellone di Antonella Barone gnewsonline.it, 21 aprile 2022 Si arricchisce di nuovi eventi, questa settimana, il cartellone della ‘IX Giornata nazionale del teatro in carcere’, iniziativa organizzata in concomitanza con il ‘60° World Theatre Day’ (Giornata Mondiale del Teatro) che prevede dal 27 marzo al 30 aprile spettacoli e altre iniziative realizzate in collaborazione con le realtà penitenziarie italiane. Oggi pomeriggio, a Venezia alle 16.00, nella Sala conferenze della Fondazione di Venezia (Dorsoduro 3488/U), una mostra fotografica in video di Andrea Casari e un video-documentario di Marco Valentini illustreranno, narrati dal regista Michalis Traitsis, la storia, il presente e il futuro del progetto teatrale ‘Passi Sospesi’ di Balamòs Teatro, presente da anni negli Istituti penitenziari di Santa Maria Maggiore e nella casa di reclusione Donne di Giudecca. Durante l’evento sarà presentata la prossima edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere ‘Destini Incrociati’, che quest’anno avrà anche una sezione internazionale e si svolgerà il prossimo novembre a Venezia. Intervengono all’incontro, moderato da Valeria Ottolenghi, dell’Associazione nazionale critici di teatro, Maria Milano, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Triveneto, Immacolata Mannarella, direttore degli istituti penitenziari veneziani, Maria Ida Biggi, Università Ca’ Foscari di Venezia, e Vito Minoia, presidente Coordinamento nazionale teatro in carcere. Nella casa circondariale di Chieti è stato proiettato ieri il video “Lu Parolu agli lmputuli”, liberamente tratto dal testo di Reginald Rose “La parola ai giurati”. Sabato 23 la proiezione sarà replicata presso il Mediamuseum di Pescara, alla presenza delle autorità locali e di rappresentanti dell’Associazione Didattica Teatrale di Pescara con la quale si è realizzato il progetto. In programma oggi, nel teatro della casa di reclusione di Brescia Verziano, lo spettacolo ‘Il mondo che non sarò’, ispirato al libro “La classe dei banchi vuoti” di don Luigi Ciotti, progetto curato dall’Associazione Libera Brescia. Prende invece spunto dal “Sogno di una notte di mezza estate” di W. Shakespeare lo spettacolo ‘Delirio di una notte d’estate’, diretto da Sandro Baldacci, in scena da oggi al 24 aprile al Teatro Ivo Chiesa di Genova (Viale Duca d’Aosta,1619). Interpretato dai detenuti attori i della compagnia ‘Gli Scatenati’, l’opera è una produzione dell’associazione culturale Teatro Necessario Onlus. Replica la prossima settimana al Teatro dell’Arca, situato all’interno della casa circondariale. Nella casa di reclusione di Saluzzo ‘Rodolfo Morandi’, venerdì 22 lo spettacolo”Ulisse. Una storia sbagliata”, realizzato a cura dell’associazione Voci Erranti, sarà rappresentato per le classi quinte del Liceo Vasco Beccaria Govone di Mondo Il già annunciato Secondo studio scenico della performance “I sopravvissuti”, realizzato dal Teatro Universitario Aenigma e dalla Compagnia Lo Spacco, si terrà infine sabato 23 aprile, alle13.00 nella casa circondariale di Pesaro. Csm, cambia ancora la legge elettorale: slitta ad oggi il voto di Simona Musco Il Dubbio, 21 aprile 2022 Cartabia elimina il sorteggio dei distretti e torna al testo originario L’Anm apprezza, ma Iv tuona: “Emendamento calato dall’alto”. Si allungano i tempi per la riforma del Csm. Che arriverà in aula questa mattina con un testo diverso da quello licenziato dalla Commissione Giustizia, dopo la decisione della Lega di ritirare l’emendamento sui sorteggi dei collegi, costringendo il governo a tornare al sistema iniziale. Il tutto mentre si attende l’ok della commissione Bilancio, che ha inviato 60 pagine di segnalazione al ministero e che ora dovrà dare il proprio parere sulla congruità economica della riforma, dopo le risposte di via Arenula. Stop, questo, che sarebbe bastato da solo a decretare il rinvio ad oggi: sarebbe stato impossibile, infatti, cominciare ieri sera l’esame dei 220 emendamenti presentati, tra i quali figurano i 55 di Italia Viva e i cinque della Lega. Ma ai dubbi sulla copertura economica si aggiunge anche la decisione della ministra Marta Cartabia di rivedere l’ipotesi di sorteggiare i distretti elettorali, presa mentre era in corso il Comitato dei nove, incaricato di svolgere il primo esame degli emendamenti: la Guardasigilli ha infatti proposto di fare un passo indietro e tornare al sistema maggioritario binominale con correttivo proporzionale, da un lato per far fronte alla difficoltà oggettiva di sorteggiare i distretti, sistema che avrebbe comportato l’abbinamento di collegi diversi sia per grandezza che per posizionamento geografico, dall’altra perché tra gli emendamenti presentati dalla Lega - tutti attinenti alle proposte referendarie - compare anche il sorteggio temperato, che prevede l’estrazione a sorte dei candidati da votare. E ad insistere per questo emendamento è stata la senatrice Giulia Bongiorno, promotrice originaria della proposta sul sorteggio dei collegi e infastidita dalle modifiche apportate dal ministero, che ha optato per l’estrazione a sorte dei distretti di Corte di Appello. Da qui il passo indietro della Lega, che ha dunque riproposto il sorteggio temperato più volte invocato non solo dall’opposizione, ma anche da Forza Italia e Italia Viva. “La riforma non risolve i gravissimi problemi del Consiglio superiore della magistratura ha commentato Bongiorno -. Consapevoli dei limiti del provvedimento, abbiamo proposto varie soluzioni che però sono state sistematicamente annacquate. Con spirito costruttivo proveremo ancora a migliorare il testo, pur coscienti che altre forze frenano il cambiamento. Una riforma troppo circoscritta e che cambia poco conferma quanto siano essenziali per voltare pagina i referendum sulla Giustizia”. Al testo Cartabia si tornerà attraverso un emendamento della Commissione giustizia da presentare in Aula, senza quindi riapertura dei termini per i subemendamenti. I collegi, secondo la nuova versione, saranno determinati con decreto del Guardasigilli, sentito il Consiglio superiore della magistratura, emanato “almeno quattro mesi prima del giorno fissato per le elezioni, tenendo conto dell’esigenza di garantire che tutti i magistrati del singolo distretto di Corte d’Appello siano inclusi nel medesimo collegio e che vi sia continuità territoriale tra i distretti inclusi nei singoli collegi, salva la possibilità, al fine di garantire la composizione numericamente equivalente del corpo elettorale dei diversi collegi, di sottrarre dai singoli distretti uno o più uffici per aggregarli al collegio territorialmente più vicino”. Si tratterebbe dell’unica modifica rispetto al testo approdato giorno 19 in Aula. “Tutti abbiamo condiviso la valutazione che il sorteggio delle Corti d’Appello nella formazione dei collegi avrebbe portato l’effetto di rafforzare il peso delle correnti, anziché diminuirlo - ha commentato il relatore Eugenio Saitta (M5S) -. Infatti un magistrato che si candida ed ha come elettori colleghi che neanche lo conoscono conduce inevitabilmente ad appoggiarsi alle correnti”. Ma a protestare è ancora una volta Italia Viva, secondo cui “viene calato dall’alto un emendamento della Commissione che propone che sia lo stesso ministro della Giustizia a formare i collegi elettorali”, ha sottolineato il deputato Cosimo Ferri. Per il presidente della Commissione giustizia Mario Perantoni (M5s), invece, il ritorno al testo Cartabia rappresenta “la soluzione migliore”. E soddisfatto è anche il deputato di Azione Enrico Costa, che ricorda come “lo scorso 1 aprile avevo dichiarato che il sorteggio dei collegi elettorali sarebbe stato un gigantesco boomerang, in quanto avrebbe rafforzato le correnti e quei magistrati che, grazie alle inchieste mediatiche, hanno popolarità su scala nazionale, mentre chi lavora in silenzio non avrebbe avuto alcuna chance. Saluto quindi con apprezzamento il passo indietro su questa norma, che consente di ristabilire un ordinato meccanismo elettorale”. Ma non solo: il passo indietro di Cartabia fa contenta anche l’Anm, che il 30 aprile deciderà se proclamare lo sciopero come forma di protesta contro la riforma. Era stato lo stesso Perantoni ad invitare i colleghi ad ascoltare le ragioni del sindacato delle toghe, che ora segna un punto a proprio favore. “Il sorteggio dei collegi - ha dichiarato il presidente Giuseppe Santalucia - lo avevamo criticato perché andava in senso esattamente contrario a quello di favorire il rapporto di conoscenza fra elettori e candidati al Csm, quindi questo emendamento della commissione Giustizia che ripristina un decreto del ministro legato a un principio di contiguità territoriale nella formazione dei collegi va incontro al significato delle critiche che avevamo mosso. Avevamo messo insieme più profili critici, non solo questo ha concluso -, ma aspettiamo di conoscere il testo finale licenziato dalla Camera prima di fare una previsione”. Csm, salta il sorteggio dei collegi. Ma slitta la votazione in Aula di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 21 aprile 2022 Si ritorna alla proposta della ministra della Giustizia Cartabia. Manca il parere della Commissione bilancio sulle coperture. Dietrofront sul sorteggio dei collegi per le elezioni del Csm. La ministra della Giustizia Marta Cartabia lo aveva ideato per venire incontro alle richieste della Lega: un sorteggio per recidere il legame tra eletti e correnti. Se non dei candidati almeno dei collegi. Ma questo compromesso era stato bocciato dalla stessa autrice dell’emendamento, Giulia Bongiorno, che l’aveva definito, in una intervista al Corriere, “svuotato di significato”. E l’aveva rinnegato: “Chiamatelo ex Bongiorno (come la ex Cirielli)”. Secondo la responsabile giustizia della Lega era scomparso l’”effetto sorpresa”. Gli abbinamenti dei collegi, scoperti all’ultimo momento, aveva spiegato, avrebbero fatto sì che si votassero i magistrati sulla base del curriculum. Ma sapendoli mesi prima le correnti si sarebbero organizzate. Lette le critiche la ministra ha chiesto dunque per telefono a Bongiorno se la Lega volesse mantenere l’emendamento. Al “no” ha deciso di tornare al testo precedente: i collegi verranno formati da distretti di Corte d’appello territorialmente contigui, con un numero di elettori simile; sarà il ministero, sentito il Csm, a disegnarli. “Per spirito di lealtà nei confronti della maggioranza voteremo questo testo che non risolve nulla”, annuncia Giulia Bongiorno. “Ma presenteremo anche i quattro emendamenti oggetto dei referendum “essenziali”. Soddisfazione nell’Anm, in stato di agitazione contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: “Avevamo criticato il sorteggio dei collegi elettorali per il Csm perché andava in senso contrario a quello di favorire il rapporto di conoscenza fra elettori e candidati al Csm, portando il magistrato elettore a dover votare anche candidati che magari operano a centinaia di chilometri di distanza da dove esercita le funzioni l’elettore”, rimarca il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Pur sottolineando che nel testo restano ancora “criticità”. Per il sottosegretario alla giustizia, Francesco Paolo Sisto, quella dell’Anm è una risposta “in qualche modo prevedibile a una riforma comunque equilibrata e necessaria per restituire smalto ai principi costituzionali”. Intanto slitta l’approvazione di Montecitorio. Non c’era il parere sugli emendamenti della commissione Bilancio, che ha inviato oltre 60 pagine al governo chiedendo al ministero della Giustizia chiarimenti su alcune coperture. In attesa che il dicastero di via Arenula risponda punto per punto sulle obiezioni della commissione, è stato inevitabile lo slittamento dell’esame. Fino all’ultimo maggioranza e governo hanno tentato di velocizzare l’iter, così da avviare le votazioni sulle proposte di modifica (la maggior parte firmate da FdI, Misto e Iv, solo 5 gli emendamenti leghisti) già nella serata di ieri. Ma non c’è stato nulla da fare. Tutto rinviato a stamattina. Cosa che fa sfumare l’ipotesi iniziale di licenziare la riforma entro la settimana. Il calendario di massima, prevede che l’Aula possa terminare l’esame degli emendamenti entro venerdì, per poi svolgere le dichiarazioni di voto. La votazione finale potrebbe essere, quindi, martedì. Poi la riforma potrà cominciare il suo iter al Senato per il via libera definitivo, che però non si annuncia del tutto in discesa. Riforma del Csm: Cartabia cambia la legge elettorale, stop al sorteggio dei distretti di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 21 aprile 2022 Immediata la replica a Repubblica dell’Anm con Alessandra Maddalena, “un segnale di apertura della ministra che apprezziamo”. La proposta originaria della Lega, modificata in via Arenula, era stata ripudiata da Giulia Bongiorno. Rinvio dell’approdo in aula alla Camera a domani perché la commissione Bilancio chiede una relazione al Mef sui costi. Ormai inevitabile il voto finale martedì prossimo. Oplà, ancora una doppia sorpresa dalla riforma del Csm. Che, innanzitutto, non ce la fa ad arrivare in aula perché la commissione Bilancio, che deve dare il placet sulla congruità economica, sciorina dei dubbi e chiede una relazione al Mef. Vale la pena ricordare che la stessa riforma, dopo il via libera del Consiglio dei ministri l’11 febbraio, era rimasta un mese in stand by alla Ragioneria centrale dello Stato prima di ottenere la bollinatura. Da qui, comunque, il rinvio dell’aula - come spiega il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni di M5S - a domani perché sarebbe stato troppo tardi cominciare stasera alle 21 e trenta, per esaurire i 220 emendamenti presentati, soprattutto da FdI, Iv, Altermativa c’è. Ma inevitabile altresì lo slittamento delle dichiarazioni di voto, del voto finale e degli ordini del giorno a martedì prossimo. Del resto che i tempi - una dozzina di ore in tutto -fossero troppo stretti era già evidente da ieri mattina quando il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà ha riunito i capigruppo della maggioranza. Cambia la legge elettorale per il Csm - Ma non c’è solo il problema della copertura economica e dei costi della riforma a rallentare i tempi. Ma anche la decisione, del tutto a sorpresa, della Guardasigilli Marta Cartabia di fare un mini dietro front sulla legge elettorale per il nuovo Csm. Una decisione - come vedremo raccontandola - a metà tra la volontà di venire incontro all’arrabbiatura della Lega, e in particolare della responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, e i dubbi dello stesso staff tecnico di via Arenula che sono andati via via crescendo sull’ipotesi di sorteggiare i distretti elettorali. Vediamo cosa è successo. Mentre è in corso il Comitato dei Nove sugli emendamenti, si materializza la richiesta della ministra Cartabia di eliminare il sorteggio dei distretti e tornare alla legge elettorale da lei stessa scelta, un maggioritario binominale con uno spruzzo di proporzionale. Modifica che, a lavori di commissione ormai finiti e con il testo alle porte dell’aula, può essere presentata solo dalla stessa commissione Giustizia. Ma qual è il retroscena? La storia è duplice: da una parte, le difficoltà tecniche che rendono il sorteggio dei distretti complicato. Dall’altra, l’emendamento depositato ieri sera proprio dalla Lega che ripropone ancora il sorteggio “temperato”, cioè si estraggono a sorte i magistrati candidabili, e poi si vota sulla rosa sorteggiata. Una proposta nata dalla irritazione della Bongiorno, autrice dell’emendamento sul sorteggio dei collegi, presentato durante le consultazioni della maggioranza, con l’obiettivo di rendere impossibili, o comunque più difficili, gli accordi di corrente. Emendamento che però è stato modificato dal ministero, non più sorteggio dei collegi, che sembrava tecnicamente impraticabile, ma dei distretti di Corte di Appello. Sorteggio da fare, secondo via Arenula, 4 mesi prima per essere ammissibile. Ma a questo punto la Bongiorno disconosce il suo stesso emendamento, perché risulterebbe inutile e svuotato, tant’è che lei lo definisce emendamento ex-Bongiorno, come diventò “ex-Cirielli” la famosa legge sulla prescrizione nel 2005. . Tra gli emendamenti per l’aula figura però la proposta sul sorteggio temperato che piace anche a FdI e a Iv. Quindi assai pericolosa. Ed è a questo punto che entra in scena la ministra Cartabia. Sommando da una parte i problemi tecnici, e dall’altra il manifesto scontento della Lega, la ministra decide di eliminare questo sorteggio dei distretti e tornare alla sua proposta originaria di legge elettorale. A questo punto i collegi saranno decisi dal ministero della Giustizia sentito il parere del Csm. Ma già insorge il deputato-magistrato Cosimo Maria Ferri di Italia viva che parla di “evidente incostituzionalità” di questa scelta. Maddalena, Anm, “segnale di apertura” - “La modifica sui collegi? Un segnale di apertura da parte della ministra che apprezziamo”, commenta dall’Anm Alessandra Maddalena, vicepresidente dell’Associazione per Unicost e giudice del Riesame a Napoli. Anche se da qui a immaginare che possa attenuarsi l’agitazione delle toghe o tramontare l’idea dello sciopero, ce ne corre. “Questo del sorteggio dei collegi era solo uno degli aspetti delle criticità sollevate dall’Anm. Perché noi segnalammo subito che quel tipo di sorteggio sarebbe stato del tutto controproducente. Invece di limitare l’influenza delle correnti, l’avrebbe esaltata, costringendo un candidato a cercare appoggi proprio tra le varie componenti, nel reperire voti in un territorio sorteggiato molto lontano da quello proprio”. Maddalena insiste però sulle altre contrarietà contenute nella riforma: “Ma è chiaro che poi abbiamo altri temi su cui abbiamo espresso i nostri rilievi come il fascicolo del magistrato, la gerarchizzazione spinta degli uffici, la separazione delle funzioni”. Per il 30 aprile è stata confermata l’assemblea, “solo da quel contesto che è sovrano potranno essere assunte le decisioni sull’adozione dell’astensione e di altre forme di comunicazione della nostra protesta”, “Ma sia chiaro - sottolinea ancora la giudice Maddalena - questa non è una chiusura corporativa, ma solo la nostra preoccupazione sugli esiti che la riforma potrà avere, come servizio giustizia offerto ai cittadini”. Isolata e travolta dalle critiche, così l’Anm ha “ritrattato” lo sciopero di Valentina Stella Il Dubbio, 21 aprile 2022 Prima la raccolta firme dei giovani magistrati in diversi uffici giudiziari ha “scaldato” i vertici della magistratura e alimentato la spinta verso la protesta clamorosa. Poi le critiche, arrivate anche dai piani alti, hanno costretto a riflettere e a congelare l’astensione contro la riforma. Perché l’Associazione nazionale magistrati non sciopera più - almeno per il momento - contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario? Martedì sera l’ipotesi di fermare i processi è stata congelata in attesa che a decidere sia l’Assemblea generale, convocata per il prossimo 30 aprile. Il Comitato direttivo centrale, due sere fa, ha approvato un documento che demanda a quell’organo di “deliberare su ogni efficace forma di protesta, ivi compresa la proclamazione di una giornata di astensione dall’attività giudiziaria”. Tra le iniziative messe in campo, anche la “notte bianca sulla riforma”, che dovrà consistere in una serie di eventi serali da tenersi, in più giorni, negli uffici giudiziari capoluogo di distretto, all’insegna dell’informazione e del dibattito con avvocati, giornalisti, esponenti dell’accademia e della società civile. Eppure esattamente una settimana fa il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia aveva dichiarato a Repubblica che l’astensione era “ormai inevitabile”. Che cosa è cambiato nel frattempo per far dire due giorni fa, allo stesso vertice dell’Anm, prima in conferenza stampa e poi nella riunione del “parlamentino”, che “prima di arrivare allo sciopero occorre cercare ostinatamente un dialogo con il Parlamento”, pur sempre nel pieno rispetto degli organi deliberanti interni all’Anm? Un primo pensiero corre alla possibilità di un segnale arrivato dal Quirinale, di un invito a stemperare i toni: ma da quanto è stato possibile apprendere, non si è trattato di questo. È pur vero che il vicepresidente del Csm, David Ermini, intervistato mercoledì mattina dal Gr1, si è schierato contro la protesta: “Non credo che le forme di rottura servano, i compromessi si accettano: bisogna tutti lasciare qualcosa…”. Ed è difficile pensare che il numero due di Palazzo dei Marescialli possa esprimere un pensiero dissonante da quello del presidente della Repubblica e del Csm, Sergio Mattarella. C’è poi un’altra possibilità, ma per spiegarla dobbiamo fare un passo indietro. La tensione intorno alla riforma del Csm, ma anche rispetto a tutte quelle che stanno interessando il settore della giustizia, si era impennata quando due settimane fa i magistrati di Busto Arsizio, Nola e Torre Annunziata avevano predisposto un documento, condiviso soprattutto da giovani toghe, intitolato “Facciamo presto”. In poche ore aveva raccolto oltre 500 sottoscrizioni, allo scopo di rifiutare una riforma “dai contenuti tragici e che stravolgerà completamente e definitivamente l’assetto costituzionale”. Cinquecento toghe su circa 9.000 iscritti all’Anm non sono molti ma si sono fatte sentire, e quindi ai vertici, da quanto ci spiegano fonti interne all’Anm, non è restato che farsi carico del malessere che proveniva dalla base, e alzare il livello dello scontro attraverso altisonanti comunicazioni alla stampa. Ma la prospettiva di uno sciopero è stata subito aspramente criticata da più fronti. Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale, al Foglio ha dichiarato: “La protesta dei magistrati mi sembra inopportuna nel contenuto, nel metodo e nelle ragioni”. Sempre dal Foglio, l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese ha definito lo sciopero delle toghe contro la riforma del Csm un atto “da autolesionisti, sarebbe la prova che le toghe amano farsi del male”. All’HuffPost invece l’ex magistrato Carlo Nordio ha detto: “La riforma è insufficiente, ma meglio di nulla, e tocca il potere dell’Anm, per questo minacciano lo sciopero. Ed è inaccettabile”. Il professor Giovanni Guzzetta su questo giornale si è chiesto se lo sciopero “politico” dell’Anm sia davvero legittimo in una cornice costituzionale. Dai partiti sono arrivate, naturalmente, pesanti critiche: Maurizio Gasparri di Forza Italia ha parlato addirittura di “un’ulteriore offesa alla democrazia e ad organi istituzionali”, dal “tenore eversivo”. Il vicesegretario di Azione Enrico Costa ha ipotizzato che lo sciopero potesse trasformarsi in un “boomerang” per la magistratura. Ed è la stessa conclusione a cui è giunto il sondaggista Renato Mannheimer, per il quale “se i magistrati dovessero scioperare, la loro credibilità agli occhi degli italiani potrebbe precipitare ancora di più”. Con il rafforzarsi di questo scenario critico, probabilmente i vertici dell’Anm sono stati spinti ad abbandonare le velleità della pancia, della base, e a riprendere il percorso di un dialogo che conduca lontano dallo scontro istituzionale tra potere giudiziario e legislativo. Avrebbe prevalso dunque il buonsenso, con la speranza di poter ottenere qualche modifica. E un primo segnale di risposta all’insofferenza delle toghe si è manifestato, se proprio ieri la maggioranza alla Camera si è accordata per eliminare il sorteggio dei collegi per l’elezione del Csm. Certo, sarà difficile che si metta mano per esempio al fascicolo delle performance, tanto criticato dal “sindacato” delle toghe. E poi c’è il fattore tempo: l’Anm spera di giocarsi la partita al Senato, ma questo significherebbe mettere a rischio, nel ritorno del testo alla Camera, la possibilità di eleggere il Csm con una nuova legge. A proposito di quest’ultimo punto, leggiamo sempre nel documento del Cdc: la riforma “esaspera la competizione fra i colleghi e lascia immutati gli ambiti di amplissima discrezionalità consiliare, che si prestano a quelle distorsioni per logiche di potere e di appartenenza correntizia del recente passato. Avremmo avuto bisogno di una riforma elettorale del Csm che riducesse il peso delle correnti”. Non ravvisate un paradosso, in queste espressioni? Proviamo a spiegarlo: l’organo deliberante dell’Anm composto da rappresentanti delle varie correnti si oppone alla riforma di mediazione Cartabia perché non mette un freno alle distorsioni delle correnti. Ma una brutta e/o blanda riforma può davvero costituire un alibi per non responsabilizzarsi internamente a prescindere dai risultati ottenuti in Parlamento? Forse sarebbe stato auspicabile, per dimostrare la piena assunzione di responsabilità della crisi che ha investito la magistratura, che questi esponenti dei gruppi associativi avessero piuttosto detto: “Siamo noi le correnti, da noi parte il cambiamento e nelle prossime elezioni del Csm daremo prova che abbiamo davvero preso coscienza degli errori, con una inversione netta rispetto al passato”. Non esistono due realtà distinte, le correnti non sono qualcosa di alieno rispetto a chi oggi si fa portavoce del malessere generale delle toghe e imputa alla politica una riforma che intimorisce i magistrati anziché combattere il correntismo. Se la politica non è stata in grado di rispondere ai bisogni riformatori proposti dalla magistratura - anche se dalla conferenza stampa in alcuni momenti ci è parso che a prevalere fosse il negazionismo di alcune reali criticità - la magistratura ha davvero la possibilità di dimostrare che il cambiamento parte dall’interno. Magistratura, leggi da cambiare: ecco come separare giustizia e politica (e perché farlo) di Bruno Ferraro* Libero, 21 aprile 2022 Nella nostra Costituzione esistono due principi assoluti ed inderogabili: quello della divisione dei poteri e quello della irretroattività della sanzione penale. Il primo costituisce l’essenza dello Stato di diritto, nel quale l’emanazione della legge spetta al Parlamento (in caso di necessità ed urgenza anche al Governo) mentre compito del giudice è quello di interpretare ed applicare le norme senza sostituirsi ai titolari del potere legislativo. Il secondo principio è una conquista di civiltà chiaramente scolpito nell’art. 25, secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso. Quando, anni addietro, fu emanata la cosiddetta legge Severino (dal nome del Ministro della Giustizia del Governo Monti che adottò i decreti attuativi di norme varate in precedenza da uno schieramento politico numericamente consistente), le due norme prima citate furono bypassate. Nell’intento di punire i politici responsabili di reati contro la pubblica amministrazione si intervenne variamente, per sanzionare con la decadenza quanti avevano riportato condanne con sentenza definitiva. Non sfuggì, però, agli attenti osservatori immuni da pregiudiziali politico -ideologiche, che la normativa ebbe un’applicazione variabile a seconda degli umori e degli interessi delle forze politiche numericamente dominanti. Illuminante fu il caso dell’ex Premier Silvio Berlusconi, condannato per frode fiscale con sentenza della Cassazione (della cui legittimità è lecito quanto meno dubitare alla luce dei recenti noti sviluppi dell’intera vicenda) ed espulso dal Senato con delibera adottata senza il rituale scrutinio segreto (sic!). In controtendenza, sia il Sindaco di Napoli Luigi De Magistris sia il Governatore della Campania Vincenzo De Luca rimasero al loro posto benchè condannati per abuso di ufficio con sentenza non definitiva. Lungi da me l’intenzione di scomodare la celebre espressione di Giolitti secondo il quale la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici: è certo però che la legge Severino ha avuto applicazioni ondivaghe e contradditorie, nei vari non pochi casi di personaggi politici meno famosi che sono incappati nelle sue maglie. Il fondo si è toccato quando, per legittimare la decadenza per fatti anteriori alla legge, si è ritenuto che essa non prevede una sanzione penale ma una sanzione amministrativa, dimenticando che la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, almeno dal 2007, ha attribuito natura penale e non amministrativa a tutte le misure afflittive, persino alla confisca dei beni ed alla perdita di punti sulla patente. Mi sembra quindi inevitabile affermare che siamo in presenza del classico due pesi e due misure. L’aspetto più preoccupante, però, è il dover constatare che la classe politica è alla mercè della giustizia, in barba allo sbandierato principio della separazione dei poteri e dell’equilibrio di cui dovrebbe essere garante il Capo dello Stato. Per converso, lo stesso rigore non vale per i magistrati, anche nel caso di errori inescusabili, in quanto sono ad essi riconosciute tutte le garanzie difensive, ivi compreso il privilegio di essere giudicati da loro colleghi, sia in sede penale sia in sede disciplinare davanti all’organo di autogoverno costituito dal Consiglio Superiore della Magistratura. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Giustizia, le riforme che si dovevano fare mezzo secolo prima di Dimitri Buffa L’Opinione, 21 aprile 2022 Non ci si poteva pensare prima? Magari anche 50 anni prima? La domanda che salta agli occhi per chi si desse la pena di ascoltare su Radio Radicale questo penoso (e di bassissimo profilo) dibattito parlamentare, che sta accompagnando il lento varo della riforma della giustizia e che porta la firma di Marta Cartabia, è sicuramente questa. Misure di piccolo cabotaggio e di assoluto buon senso che rappresentano ciò che si definirebbe il “minimo sindacale” del settore vengono vendute con il nome altisonante di “rivoluzione copernicana”. O con quello più scontato di “riforma epocale”. Poi se si ci si impegna ad ascoltare la discussione sui singoli articoli, si scopre che molti si compiacciono e si vantano di avere trovato equilibri e maggioranze in Commissione giustizia per vietare a un pm che abbia esercitato in una determinata città di candidarsi nella medesima e, se non eletto, di continuare la doppia carriera di magistrato dell’accusa in altra regione e di consigliere di opposizione nella regione o nella città in cui precedentemente aveva fatto parte della magistratura requirente. Una pezza a colori per evitare che, anche in futuro, ci siano situazioni come quella determinatasi con il candidato del centrodestra a Napoli nelle scorse Amministrative. Ma ci voleva la riforma epocale di Marta Cartabia perché una legge di assoluta logicità come questa vedesse - sia pure faticosamente - la luce? Non ci si doveva già pensare mezzo secolo fa? Lasciamo da parte altre vexatae quaestiones come la separazione delle carriere tra accusatori e giudicanti e la responsabilità civile personale del magistrato per errori che configurino episodi di colpa grave o gravissima. Ma nessuno si domanda come mai, per decenni, sia stato concesso a questa ultra-casta di funzionari pubblici, oltretutto neanche eletti da nessuno e spesso insediati con concorsi pubblici tutt’altro che esenti da sospetti (e in certi casi da prove), di quel tipo di manovre sottobanco che oggi si chiamerebbero traffici di influenze, di vivere nel privilegio e nel paradosso? Cioè di diventare veri e propri “marchesi del Grillo” dell’Amministrazione pubblica della giustizia. Qualcuno potrebbe anche ipotizzare che questo tipo di privilegi e prebende, che si assommano agli incarichi extra-giudiziali e a stipendi che, per molti di questi personaggi in cerca di autore e di talk-show, dovrebbero perlomeno venire dimezzati, siano stati il prezzo implicito che la politica ha pagato in cambio, per molti anni, di una relativa immunità. Poi, con lo scoppio di “Mani Pulite”, l’equilibrio e l’immunità sono saltati ma i privilegi, gli stipendi e i paradossi di carriera per magistrati a mezzo servizio tra inchieste mediatiche e politica sono rimasti. Questa riflessione, dura e cinica, va fatta se si vuole affrontare in buona fede il dibattito infinito su queste riforme della giustizia che andavano fatte cinquanta anni prima e che faticano a vedere la luce persino cinquanta anni dopo. Lega e Radicali mollano i referendum. I comitati per il Sì sono carcasse vuote di Lorenzo Giarelli Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2022 Il Comitato per il No c’è e si vede, anche se - per assurdo - per far naufragare i referendum di Lega e Radicali sulla giustizia del 12 giugno basterebbe ignorarli, contribuendo così al mancato raggiungimento del quorum. Il paradosso però è che a mancare è un vero Comitato per il Sì, quello che dovrebbe trainare l’affluenza. Ennesimo sintomo di come i promotori abbiano fiutato la pessima aria intorno al referendum, preferendo un disimpegno che consenta di non personalizzare la sconfitta. Basta però farsi un giro tra le varie sigle che hanno proposto i cinque quesiti (separazione delle carriere, abolizione della Severino, limiti alla custodia cautelare, riforma del Csm, equa valutazione dei magistrati) per accorgersi della desolazione. I Comitati in piedi per la raccolta firme sono ormai carcasse vuote e i leader hanno abbandonato la campagna. Il caso più evidente è quello del “Comitato promotore Giustizia Giusta”, attivo sul sito comitatogiustizia.it. I presidenti sono Matteo Salvini e Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale. Da Statuto, il Comitato resterà in piedi fino a “un anno dalla pubblicazione dell’esito dei referendum”, eppure l’attività è già al minimo. Lo dimostra il fatto che nella pagina dedicata ai quesiti è ancora incluso quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, bocciato dalla Corte Costituzionale. Allo stesso modo, i volantini e i poster scaricabili per la campagna elettorale contengono 6 quesiti e non soltanto i 5 ammessi. Dal sito del Partito Radicale si accede invece a un altro portale in sostegno del referendum. Anche qui si tratta già di archeologia: campeggiano in bella vista le “istruzioni per raccogliere le firme” e le spiegazioni per ognuno dei “6 quesiti”. E poco importa se sulla scheda elettorale ce ne saranno cinque. A guardar bene, un Comitato attivo c’è. Il problema è che i Radicali partecipano solo in maniera indiretta e la Lega si è del tutto sfilata, condannando l’associazione al silenzio mediatico. Da qualche settimana è nato infatti il “Comitato Garantista per il Sì”, che rispetto agli omologhi informa almeno di essere a favore di “cinque sì ai referendum sulla giustizia contro il populismo penale”. Dietro al Comitato ci sono due enti: Italia Europea e il Comitato Ventotene. La prima è una organizzazione “politica e culturale” nata come costola di Più Europa, anche se molti suoi soci aderiscono ad altre componenti della fantomatica “area riformista” (da Azione a Italia Viva, per intendersi). Il Comitato Ventotene è invece un’associazione che ha per obiettivo “la divulgazione sulla politica, la cultura e le istituzioni europee”, attraverso un buon utilizzo dei social network e la promozione di conferenze, eventi culturali e quant’altro. Il presidente è Luca Bisconti, giovane avvocato senza esperienze nei partiti. Un po’ poco per garantire al fronte del Sì la cassa mediatica che Salvini aveva avuto durante le prime fasi della campagna elettorale, quando ancora era convinto di poter ottenere qualcosa di buono dai referendum. Congelati gli entusiasmi, meglio lasciare ai giovani il cerino della sconfitta. Torino. Un giorno dietro le sbarre del carcere di Irene Famà e Massimiliano Peggio La Stampa, 21 aprile 2022 Costruito più di 40 anni fa oggi accusa i segni del degrado e del sovraffollamento: dopo le inchieste il riscatto è nei progetti per i detenuti, dai laboratori ai percorsi di studio. “Faccio questo, almeno non penso”. Che sia piegare nove volte un foglietto di carta per trasformalo in un origami, mentre si sta distesi sul letto a castello. Che sia levigare un pezzo di legno per resuscitare il vecchio tetto di una carrozza ferroviaria, nel laboratorio di falegnameria. Che sia catalogare libri di filosofia o romanzi d’amore raccattando donazioni dove capita. Che sia abbozzare a matita il disegno di due occhi ispirati al volto di Eva Kant, durante le lezioni di arte dove nessuno vuole svelare il proprio passato. Ognuno prova a modo suo a non pensare al tempo che scorre immobile e indifferente nel carcere. Più di quarant’anni di un penitenziario legato al nome di un quartiere, le Vallette, anche se per l’amministrazione e per la città porta quello di due martiri in divisa: Lorusso e Cutugno. Costruito in fretta e male, per sopperire all’emergenza carceraria e alle minacce del terrorismo, non è mai stato un modello di architettura. Lo dimostrano i segni del degrado, come le crepe, le infiltrazioni dai tetti, le falle nelle tubature delle fogne nel padiglione B. “Quello B e C sono i peggiori” dice Giuseppe Pilato, detenuto incontrato nell’area sanitaria. “Conosco tutti i blocchi” assicura, elencando le magagne del carcere e discutendo di permessi e documenti che non si trovano. Anche il padiglione E, il più nuovo, costruito per ultimo, da fuori non ha nulla di bello. Né la forma, né il colore. Si riscatta un poco dentro, perché tutto sommato non mostra le ferite del resto della struttura. “Questo è il nostro carcere, con pregi e difetti. Dobbiamo farlo funzionare al meglio, facendo ognuno la propria parte. Con infinita passione” afferma Cosima Buccoliero, la neo direttrice dell’istituto di via Adelaide Aglietta. Mura di cemento e sbarre sono i confini di un quartiere sovraffollato. Ne potrebbe contenere poco più di mille, ma ci sono 1400 detenuti. Eppure gli spazi appaiono immensi, passo dopo passo, tra corridoi che sembrano non finire mai. “Questo lo hanno chiamato corso Francia, talmente è lungo”. I colori della prigionia - In ogni padiglione, un numeratore dà il conteggio delle presenze del giorno. Su un tabellone si annotano i nomi dei reclusi, distinti per sezione. I colori distinguono le origini. Africani, romeni e albanesi, sudamericani. “Non è una questione razziale, per carità. Dobbiamo tenere d’occhio le loro radici per rischiare di innescare conflitti, antipatie, tensioni. In questo periodo, ad esempio, è importante non mettere nello stesso spazio russi e ucraini” racconta un ispettore, illustrando i primi passi del carcere. Per chi arriva in visita, questo viaggio inizia da un ingresso sorvegliato e due porte. Per chi arriva con le manette ai polsi, va da sé, il percorso è un altro. C’è un limbo che si chiama “nuovi giunti”. E c’è la sezione filtro, ben nota ai militari della droga, quelli che ingoiano dosi come se fossero salvadanai ambulanti. “In questa zona, il ministero non permette visite”. Allora rimangono le parole della guardasigilli Cartabia, che lo ha visitato di recente: “È un posto disumano”. Il carcere di Torino ha due volti: da un lato i progetti di reinserimento, presi a modello in tutta Italia, e dall’altro l’inchiesta sulle torture. Il “Sestante”, area psichiatrica finita al centro di polemiche e indagini tuttora in corso, è in fase di ristrutturazione. Ci sono gli operai che demoliscono e ricostruiscono celle e bagni. “A morte i fascisti” si legge da una scritta che affiora dalle pareti scrostate. “Amore non dimenticarmi”. Un piano sotto, tra i detenuti comuni, s’incontra la quotidianità. Con Vincenzo, che accoglie i visitatori inattesi con una battuta: “Entri in un attimo e un secondino ti fa uscire”. Si scosta e quasi con orgoglio mostra la sua cella. Che si distingue dalle altre per ordine e pulizia. Sul tavolino alcuni libri gialli. L’ambiente è curato, persino l’aria è profumata. “Ci mancherebbe. Se non si fa così perdi dignità qui dentro”. Ha già scontato tre anni. “Tra un mese esco” annuncia. Fuori che cosa farà? “Torno al mio lavoro, il rappresentante”. Le finestre sul cortile - Un metro e mezzo oltre e si è già in un altro mondo. Fotografie di bambini e ritagli di giornaletti porno. A terra, a meno di un metro dal wc, una bacinella gialla con dentro pentole, piatti, coperchi. Sul davanzale tre bombolette di gas da campeggio, una caffettiera svitata e tazzine impilate. La finestra si affaccia sul cortile dell’ora d’aria. Su una parete il calendario e la Madonna: “Dio ti ama e prega per te”. C’è tutto quello che ti aspetti in questa stanza che la burocrazia dell’amministrazione penitenziaria ha ribattezzato “camera di pernottamento”. Il nome suona gentile, ma per chi è qui resta una cella. Con le sbarre alla finestra. A tutte le porte è appesa una bottiglia piena. A che serve? “Per non farle sbattere”. L’ipocrisia delle parole non si ferma alle sbarre. È bandito anche il termine “bettolino”, il detenuto che si occupa degli acquisti. Bisogna dire “addetto all’ufficio spesa”. Guai a dire “scopino”, sostituito da “addetto alla pulizia”. Nemmeno “portavitto” è consentito, meglio “addetto alla distribuzione” dei pasti. “A noi non cambia nulla, non sono questi i nostri problemi”. La vita di tutti i giorni. Due in cella. “Se uno sta a letto, l’altro deve stare in piedi”. Per fare la doccia? “Bisogna fare la fila”. Chi ha le stampelle, o è su una sedia a rotelle, fatica a muoversi. La sveglia, i rumori di chiavi e di porte, il televisore acceso ad oltranza. “Alle 7 sveglia, ora d’aria dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15. Il resto del tempo lo trascorriamo in corridoio”. E così, in quello spazio comune, capita si annidino tensioni che diventano risse. “Dovreste avere più pazienza. Noi siamo qui forzati, voi guardie lo fate per scelta” afferma un detenuto accusato di omicidio. “Qui ci dovrò stare un po’, anche se non ho ancora affrontato il processo. Gioco a scacchi, tanto sono marchiato a vita. Questo voi guardie non lo capite”. L’ispettore ascolta e poi risponde: “La libertà è importante per tutti. Chi è qui non lo è per caso. E di pazienza, mi creda, ne abbiamo tanta”. E questa pazienza la si può toccare con mano. Tanti inseguono gli agenti, la direttrice stessa, brandendo fogli e appunti. “Mi ascolta un secondo, ho un problema”. Ad ogni passo una valanga di richieste. Per lo più di lavoro. Il lavoro - In carcere, un po’ di offerta c’è. Per i più volonterosi, per chi un orizzonte di libertà ancora ce l’ha. La panetteria, la falegnameria, la lavanderia, la stireria. E la torrefazione, dove si tostano i chicchi di caffè del Sud America in un macinino gigante, T60, che ha 70 anni di onorata carriera. “Funziona perfettamente”. Poi ci sono i corsi, la scuola, i libri, le lezioni di fisica e di pittura. Nella classe dove gli allievi scontano condanne per reati sessuali si insegna arte. “Nessuno degli altri detenuti vuole stare con loro. Ma come educatori abbiamo deciso di partire da lì, per insegnare il valore della bellezza e del rispetto a chi il corpo l’ha deturpato”. Poi, quasi una sorpresa, si scopre che nel carcere c’è la più grossa comunità felina della città. Gatti ovunque, nei cortili, tra le aiuole interne, a zonzo nei piazzali, appollaiati sulle finestre. “Ce ne sono 250” dice un educatore. Sono liberi di stare lì. Ma se chiedi ai detenuti, perché a loro tocchi di stare in carcere, quasi tutti finiscono sempre per dare la stessa risposta. “Roba di poco conto”. “Colpa di un errore”. Torino. Quelle torture in cella: 22 agenti penitenziari a processo di Giuseppe Legato La Stampa, 21 aprile 2022 Tra gli imputati anche l’ex direttore della struttura: secondo l’accusa in azione “squadre di picchiatori”. Botte, umiliazioni, vessazioni. In una parola, torture. Condite da silenzi e omertà per coprire il (presunto) scempio che tra il 2017 e i 2019 si sarebbe consumato all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Ventidue tra agenti e ispettori del penitenziario sono stati rinviati a giudizio ieri dal giudice Maria Francesca Abenavoli. Una delle (poche) prime volte in Italia in cui questo titolo di reato viene ipotizzato dietro le sbarre di una casa circondariale. Il processo - nella forma del classico dibattimento - inizierà fra un anno e mezzo: luglio 2023. Ma tra poche settimane - nel troncone che si celebra con rito abbreviato - compariranno di fronte al giudice l’ex direttore della struttura Domenico Minervini e l’allora comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza accusati di favoreggiamento e omessa denuncia. Vertici o semplici agenti che siano, lo spaccato che emerge dall’inchiesta del pm Francesco Pelosi nel periodo compreso tra il 2017 e il 2019, è inquietante, inquadrato dal magistrato come “trattamento degradante e inumano”. Con una “squadra di picchiatori”, un “battesimo per i nuovi giunti nel penitenziario”, e le “spedizioni punitive” nelle celle dei detenuti del padiglione riservato ai sex offenders (imputati o condannati per reati sessuali). Nelle migliaia di pagine di atti risuonano intercettazioni e frasi captate dagli investigatori: “Devi morire qui, pezzo di merda. Ti faremo passare la voglia, non ne uscirai vivo”. Ancora: “Quando sono arrivato in carcere a Torino mi hanno portato ammanettato al casellario. Mi hanno chiesto di spogliarmi, ho tolto tutto tranne le mutande. In 4 allora hanno indossato dei guanti, mi hanno sbattuto per terra e mi hanno strappato gli slip di dosso. Ho sbattuto la faccia contro il pavimento e mi sono spaccato un dente, mi è caduto. E l’ho nascosto in cella” ha detto piangendo una vittima di fronte al magistrato. Altra vicenda: “Ero entrato alla matricola, avevo fatto le foto mi avevano preso le impronte digitali, gli agenti hanno cominciato a colpirmi con schiaffi, pugni e calci. In particolare mi dicevano di salire le scale e mentre le affrontavo gli agenti, da dietro, mi colpivano con schiaffi pugni e calci. E ridevano”. Infine: “L’altra sera ci siamo divertiti - confessa un agente alla fidanzata - sembrava Israele degli anni Cinquanta”. Undici detenuti oggetto di violenze si sono costituiti parte civile. Vale lo stesso per la città di Torino attraverso il suo garante Monica Gallo (autrice della prima denuncia) e i garanti regionali e nazionali. Il giudice ha disposto la citazione del ministero della Giustizia come responsabile civile. Roma. Detenuto sequestrato e violentato da due reclusi a Regina Coeli di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 21 aprile 2022 La denuncia del Sappe, la vittima è stata ricoverata in ospedale. Sotto inchiesta due giovani in cella per droga, rapina e altri reati. L’accusa del sindacato: “Tutta colpa dell’allentamento della vigilanza interna, adesso è solo dinamica”. Rapito, legato con una corda e violentato sotto la minaccia di un coltello da altri due detenuti nel carcere di Regina Coeli. Una scena drammatica in un reparto dell’istituto di detenzione nel centro di Roma, denunciato dai sindacati della polizia penitenziaria. Sotto inchiesta ci sono adesso due giovani di origine slava, già in cella per droga, rapina e altri reati, mentre la vittima, un italiano, è stata trasportata in ospedale per gravi ferite. Sul caso indagano proprio gli agenti della Penitenziaria che stanno cercando di ricostruire l’accaduto e scoprire anche il movente dell’aggressione sessuale. Lo stupro risalirebbe a una settimana fa: i tre si trovavano nella stessa cella nel reparto di isolamento della VII sezione per reclusi affetti da Covid, in quanto contagiati dall’inizio del mese. Dopo la violenza, secondo quanto emerge dalla relazione del Dap, la vittima è stata assistita anche da personale penitenziario e dagli psicologi in servizio nel carcere. Una volta rientrato a Regina Coeli dopo essere stato in ospedale, l’uomo ha sporto denuncia e adesso la procura indaga. Fra le ipotesi di reato quella di violenza sessuale di gruppo. Non è ancora chiaro se il coltello, un arnese rudimentale forse ricavato da un altro utensile, sia stato trovato e sequestrato. Per i due reclusi che saranno indagati potrebbe scattare fin da subito il trasferimento in un’altra struttura carceraria, in attesa che venga definita la loro posizione giudiziaria. A parte la vicenda della violenza sessuale, Regina Coeli ha il più grosso focolaio di Covid che si registra nelle carceri italiane in questo momento, con 211 positivi, con un esubero di 300 posti rispetto alla capienza del carcere e invece 143 agenti in meno rispetto all’organico previsto. Solo il 4% dei detenuti lavora. A oggi i positivi sono tutti asintomatici. Il secondo carcere per contagi è quello di Alessandria, dove i positivi sono quasi quattro volte di meno, 56 in tutto. Sempre a Roma, ma a Rebibbia, sono invece “solo” 46 fra tutti i reparti. A Regina Coeli sono detenute attualmente 912 persone con 615 posti regolamentari in 323 stanze di detenzione (tutte con servizi igienici con porta). Mentre i poliziotti effettivi sono 373 sui 516 in organico. Mancano anche gli educatori: ce ne sono solo cinque sugli 11 previsti. E ci sono carenze anche tra gli amministrativi: 35 gli effettivi sui 47 previsti. Il quadro dei “vuoti” lo forniscono i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia aggiornati al 28 febbraio scorso. Dati dai quali risulta che l’unica attività lavorativa è il servizio di lavanderia e di cucina interna, dove sono impiegati 36 detenuti. Intanto però sulla storia dello stupro dietro le sbarre, Donato Capece, segretario nazionale del Sappe, accusa: “Questi sono i frutti di una sorveglianza ridotta in conseguenza della cervellotica vigilanza dinamica, dell’autogestione delle carceri e dai numeri oggettivi delle carenze di organico del reparto di polizia penitenziaria di Roma Regina Coeli. Quel che è successo è di inaudita gravità ed è la conseguenza dello scellerato smantellamento delle politiche di sicurezza delle carceri, che di fatto determinato una pericolosa autogestione dei penitenziari”. Secondo il sindacalista, che ha parlato con l’Adn Kronos, “il sistema, per adulti e minori, si sta sgretolando ogni giorno di più. Il Sappe denuncia da tempo che la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto, l’aver tolto le sentinelle della polizia penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta delle carceri, la mancanza in organico di poliziotti penitenziari, il mancato finanziamento per i servizi anti intrusione e anti scavalcamento. La politica se n’è completamente fregata. E i vertici del ministero della Giustizia e dell’amministrazione penitenziaria hanno smantellato le politiche di sicurezza delle carceri preferendo una vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto, con detenuti fuori dalle celle per almeno 8 ore al giorno con controlli sporadici e occasionali”. Secondo Maurizio Somma, segretario regionale del Sappe, l’uomo aggredito è riuscito comunque a salvarsi da conseguenze peggiori “grazie all’intuizione degli uomini del corpo di polizia penitenziaria. È stato trasportato in ospedale. Un episodio vergognoso e raccapricciante certamente favorito dall’allentamento della sicurezza interna dovuto alla vigilanza dinamica”. Bari. Un lavoro ai detenuti del “Fornelli”: 6 mesi per imparare un mestiere di Maria Grazia Rongo Gazzetta del Mezzogiorno, 21 aprile 2022 Duecento ragazzi di cinque regioni del Sud Italia (Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia), dei quali 41 pugliesi e 10 lucani, sono al centro del progetto “Una rete per l’inclusione”, realizzata da un consorzio di enti del terzo settore sotto la direzione del Ministero della Giustizia - Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, attraverso una serie di interventi mirati con il coinvolgimento di enti del privato sociale e imprese. Il progetto, finanziato dal PON Legalità del Ministero dell’Interno con fondi europei, della durata di sei mesi, coinvolge ragazzi prevalentemente minorenni, fra 16 e 24 anni, sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile, in carico ai Servizi minorili della Giustizia o che comunque sono entrati nel circuito penale da minorenni (di questi circa il 30 % sono donne e circa il 10 % proviene dall’Istituto “Fornelli” di Bari), e ha la finalità di costruire percorsi di inclusione sociale e riabilitazione attraverso attività di formazione al lavoro. Nei sei mesi della durata, durante i quali i ragazzi opereranno in strutture turistiche, manifatturiere e similari, percepiranno un compenso di 500 euro al mese per 25 ore lavorative. L’iniziativa è stata presentata ieri a Bari nella Sala Giunta di Palazzo di Città dal vicensindaco Eugenio Di Sciascio insieme a Vito Genco, presidente del consorzio “Mestieri Puglia”, il direttore del Centro di Giustizia Minorile di Puglia e Basilicata Giuseppe Centomani, Piero Rossi, garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. “Si tratta di una sfida che ci auguriamo di vincere - ha detto Di Scascio - perché è necessario dare una seconda possibilità a questi ragazzi e farlo con l’inserimento lavorativo è ottimale”. Genco ha spiegato che il progetto (che ha due obbiettivi: l’inserimento in contesti sociali e la costruzione di una rete di protezione per queste persone) è stato avviato dal punto di vista teorico già a fine gennaio e che in questi giorni stanno iniziando i tirocini formativi. “Una rete per l’inclusione rappresenta un modello di intervento sul quale stiamo investendo molto negli ultimi anni e che non vede solo una proposta di addestramento professionale, che da solo non riesce a cambiare la prospettiva, ma anche di sostegno psicologico dei ragazzi rispetto alla vita e al mondo che li circonda - ha affermato Centomani. Hanno bisogno di un accompagnamento educativo che riesca a trasformare la loro stessa idea di futuro. Il nostro intento è quello di fare in modo che sviluppino di sé l’idea di cittadini attivi e di lavoratori. L’altra idea che stiamo cercando di affermare è che non si tratta di reinserire i ragazzi in un contesto sociale, perché sono già inseriti ma in un ruolo deviante, bensì di riposizionarli nella comunità in una dimensione reciprocamente utile. Vogliamo far sì che questi ragazzi possano scoprire ed esprimere capacità e talenti che magari hanno sempre ignorato di avere a causa delle condizioni di svantaggio iniziali”. Piero Rossi ha concluso: “I progetti che si strutturano rendono un maggior servizio ma hanno anche un valore simbolico. Le organizzazioni del terzo settore sono in grado di mantenere alto il livello di partecipazione e inclusione e in questo senso le politiche di welfare riescono anche ad avere un maggiore appeal. L’augurio è che questi ragazzi possano impiegare il tempo del progetto non solo per trovare un lavoro, quanto per accendere delle luci dentro di sé che corrispondano a una nuova consapevolezza delle loro capacità”. Napoli. Luca vuole fare lo chef, Marco il meccanico: un nuovo futuro per 55 giovani detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 21 aprile 2022 Luca sogna di diventare chef. Marco di lavorare nel settore della meccanica. Alcuni suoi compagni di cella intendono invece costruirsi un nuovo futuro studiando per poter lavorare a contatto con il mare. Quel mare che per un certo tempo hanno osservato attraverso le sbarre dell’istituto di Nisida. Lì c’erano finiti per un reato commesso quando pensavano di non avere alternative al degrado della periferia e delle loro amicizie. Oggi, invece, guardano a se stessi e alla loro vita con qualche prospettiva in più. Sono alcuni dei cinquantacinque protagonisti dei piani personalizzati che sono stati approvati in Campania per favorire il reinserimento sociale di giovani di età compresa tra 16 e 24 anni, con precedenti penali e attualmente affidati ai Servizi della giustizia minorile. Fanno parte del più ampio progetto “Rete per l’inclusione” presentato a Portici, a Villa Fernandes, la villa confiscata alla camorra che dal 2020 è un hub di servizi per lo sviluppo della comunità. Un progetto ambizioso che potrebbe aprire la strada ad altre iniziative virtuose se tutto si svolgerà secondo l’intento dei suoi promotori. Un esempio di sinergie. “Rete per l’inclusione” è finanziato dal Pon Legalità del Ministero dell’Interno con le risorse del Fondo Sociale Europeo ed è realizzato da un raggruppamento di consorzi ed enti del Terzo settore, sotto la direzione del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della Giustizia. I 55 ragazzi individuati per questo progetto (8 dei quali ancora detenuti) inizieranno dunque un percorso di reinserimento sociale personalizzato, con tirocini presso aziende del territorio e sotto la guida di sette tutor. I settori di lavoro, indicati proprio dagli stessi ragazzi coinvolti nel progetto e quindi scelti sulla spinta dei loro personali interessi e delle loro inclinazioni, spaziano dalla ristorazione alla meccanica, della cantieristica navale alla logistica. Ogni ragazzo farà per sei mesi tirocinio in una delle aziende selezionate ricevendo anche un contributo economico. Significherà calarsi per quei mesi in una realtà fatta di studio e di lavoro, di sicurezza e legalità. Sarà come creare nei fatti quel ponte tra mondo di dentro e mondo di fuori di cui si spesso si è parato, ma che nei fatti non sempre viene reso concreto. Questa iniziativa appare finalmente come un’opportunità concreta. Per Giuseppe Cacciapuoti, direttore del Dipartimento per la giustizia minorile, “il progetto offre un’importante opportunità per i giovani i quali, attraverso questa esperienza, potranno sviluppare competenze professionali e relazionali che favoriranno il loro ingresso nel mondo del lavoro”. Giuseppe Centomani, dirigente del Centro per la giustizia minorile della Campania, ha sottolineato che “il progetto mette in pratica quello che abbiamo compreso da tempo, e cioè che non serve realizzare dei semplici interventi di addestramento professionale e degli interventi educativi all’interno dei servizi se questi interventi restano separati. Occorre unire queste azioni”. Angela Gentile, referente di Mestieri Campania, uno dei due enti che coordinano il progetto in Campania (l’altro è il consorzio di Cooperative Co.Re.), ha illustrato i numeri del progetto. “È fondamentale il lavoro di rete sul territorio”, ha aggiunto il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, evidenziando come nella nostra regione il tema della giustizia minorile sia particolarmente sentito, già soltanto a voler considerare che nell’ultimo anno e mezzo sono stati circa seimila i giovani entrati in qualche modo in contatto con la giustizia minorile, tra cui anche molti recidivi. È superfluo ricordare come l’istruzione e la formazione professionale siano il primo gradino del percorso da consentire a ciascun detenuto, soprattutto se giovanissimo. Per il garante l’istruzione è “un ponte verso la libertà”. Un ponte che molto spesso in pochi attraversano. Colpisce, infatti, che nel circuito penitenziario campano (includendo anche la popolazione detenuta adulta) si continui a registrare un consistente numero di analfabeti (218 casi), mentre nell’ambito della giustizia minorile nel 2021, solo a Napoli, si sono contati 65 casi di abbandono o interruzione dei percorsi di reinserimento sociale, per lo più per motivi volontari. Avellino. Il Garante visita il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi: “Struttura modello” irpinianews.it, 21 aprile 2022 “Ogni volta che visito il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi verifico come una struttura penitenziaria con ampi spazi, attività lavorative, impegno scolastico, rapporti efficienti tra Direzione, area educativa, polizia penitenziaria e detenuti, applichino il dettato costituzionale, che recita come la pena serva a rieducare e mettere il diversamente libero in condizione di essere reinserito nella società. In questo modo la dignità degli spazi, il diritto alle relazioni, al lavoro, allo studio rendono il carcere non un rimosso sociale o un cimitero dei vivi.”, queste le parole del Garante campano Samuele Ciambriello, all’uscita del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, dov’è stato accolto dalla Direttrice Marianna Adanti e dal Comandante Giovanni Salvati. Durante la mattinata, accompagnato dall’assistente capo coordinatore Alberto Cirino, ha visitato i luoghi dove vi sono detenuti lavoranti: nella tipografia 15 detenuti, nella sartoria 13 detenuti, nella cucina 6 detenuti, nella lavanderia 2 detenuti, nella carrozzeria - officina meccanica e lavaggio 8 detenuti, nel tenimento agricolo 4 detenuti. Il Garante, poi, è stato in articolazione psichiatrica dove è presente un solo detenuto, da anni, su 10 posti disponibili. Il Garante Ciambriello conclude denunciando: “l’ordinamento penitenziario, gli accordi con le Regioni, prevedono la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate articolazioni per la salute mentale, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. Nelle carceri campane sono “parcheggiati” tanti detenuti con queste patologie, che potrebbero occupare questi posti inutilizzati dell’articolazione psichiatrica di Sant’Angelo dei Lombardi”. Il Garante ha ritirato le copie della sua corposa relazione annuale (271 pagine), stampata dai detenuti lavoranti nella tipografia del Carcere di Santangelo dei Lombardi. La relazione sarà presentata ai Consiglieri regionali, alla Magistratura, alle Direzioni delle carceri, agli Avvocati e a tutti coloro che a vario titolo operano nel sistema penitenziario, il prossimo mercoledì 27 aprile alle ore 10:30 presso l’Aula del consiglio regionale della Campania, dove interverranno anche il Presidente del Consiglio regionale, on. Gennaro Oliviero, e il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, prof. Mauro Palma. Oggi nella casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi erano presenti 120 detenuti. Roma. Da Regina Coeli un finalista al concorso di poesia “Il Petrarchino 2022” garantedetenutilazio.it, 21 aprile 2022 Menzione speciale per i versi di Eugenio Capitano, studente del corso di primo livello del carcere romano. Verso sera: questo è il titolo dei versi che Eugenio Capitano, studente del corso di primo livello (ex scuola media) nel carcere di Regina Coeli ha presentato al concorso di poesia “Il Petrarchino 2022”, organizzato dall’istituto di istruzione superiore “Federico Caffè” di Roma, in collaborazione con il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti n. 3 di Roma. Il concorso è stato indetto in occasione della giornata mondiale della poesia celebrata il 21 marzo scorso. Il bando è stato aperto il 15 dicembre 2021 ed era possibile partecipare fino al 21 marzo 2022. Per la prima volta, l’edizione 2022 del concorso è stata aperta alla partecipazione degli studenti adulti. Sono arrivate cinquanta poesie complessivamente, tra sezione giovani e sezione adulti. Dal carcere di Regina Coeli ne sono arrivate cinque, tutte del finalista, guidato e sostenuto dalla professoressa di italiano Cinzia Carbonara. La giuria è stata presieduta da Sonia Giovannetti, poetessa, scrittrice e critica letteraria e composta da Alessandro Antonaroli, scrittore, ex insegnante, e da Nina Quarenghi, scrittrice e insegnante. Capitano ha avuto la menzione speciale, dedicata a coloro che pur non essendosi classificati tra i primi tre vincitori delle rispettive categorie, sono stati giudicati meritevoli per il testo realizzato. La classe del finalista ha potuto partecipare all’evento per la premiazione che si è svolto il 4 aprile presso l’aula magna dell’istituto “Federico Caffè” e in streaming per chi non ha potuto essere presente. Tra questi, la classe del finalista e i professori del primo livello di Regina Coeli. La poesia è stata letta ad alta voce, come da regolamento del concorso, portando la voce dei reclusi fuori dal carcere. Per alcuni istanti il mondo dentro e quello fuori si sono connessi. “Una grande emozione per i nostri studenti” - ci ha detto la professoressa Carbonara - “una soddisfazione per tutti i docenti che lavorano quotidianamente con gli studenti reclusi e ai quali in questa occasione è stato possibile collegarsi con il ‘fuori’, grazie alla collaborazione di agenti ed educatori”. Sonia Giovanetti, presidente della giuria, ha voluto sottolineare il messaggio di speranza e di rinascita che Capitano ha saputo esprimere in pochi versi e in ottimo italiano. La provenienza dei testi non era conosciuta dai giurati ed è stato davvero emozionante scoprire che quei versi provenivano da un contesto di reclusione. I professori stanno già pensando al prossimo progetto didattico che aprirà agli studenti le porte del mondo virtuale: la visita interattiva ad alcuni musei romani. Ferrara. Vigile trasferito perché rifiuta le armi: il giudice lo reintegra di Benedetta Centin Corriere della Sera, 21 aprile 2022 L’agente è obiettore di coscienza: era stato spostato in un ufficio, con stipendio ridotto. Il Comune condannato a risarcire lui e la funzione pubblica della Cgil. Aveva rifiutato la dotazione di armi, prevista dal nuovo regolamento di polizia locale, e per questo era stato trasferito dai servizi esterni a un ufficio interno, con relativa diminuzione dello stipendio. Un agente di polizia locale e il sindacato Funzione Pubblica Cgil di Ferrara avevano quindi portato in tribunale il Comune, convinti che l’amministrazione, armando il Corpo, avesse assunto un “comportamento discriminatorio” verso gli obiettori di coscienza. E il giudice ha dato loro regione, tanto che ha condannato il Comune a sborsare circa 20mila euro. Per provvedere alle spese legali (circa 7mila euro) e risarcire il sindacato e l’assistente scelto della municipale Terre Estensi. Il giudice ha anche disposto il reintegro dello stesso agente nelle sue precedenti mansioni: tornerà quindi a fare il vigile di quartiere. “Una sentenza storica per discriminazione di genere”, il commento di Natale Vitali, segretario generale della Cgil Funzione Pubblica di Ferrara, in merito all’ordinanza che “condanna la condotta illegittima del Comune tenuta nel processo di armamento della polizia locale e - fa sapere l’organizzazione sindacale - assume rilievo sotto diversi profili di discriminazione diretta e indiretta per il regolamento comunale emesso nel 2020, dove si rende incompatibile l’appartenenza al Corpo con lo status di obiettore di coscienza”. È il caso dell’agente protagonista della vicenda, che già non aveva fatto la leva e che ha intrapreso la causa citando a giudizio l’amministrazione visto che nel 2021 si era ritrovato a lavorare nella centrale radio operativa, con relativa perdita dell’indennità di servizio esterna (e cioè 9 euro al giorno). Il giudice: essere obiettore non impedisce di far parte del Corpo - Ma indirettamente sono coinvolte anche le donne che, si legge nell’ordinanza, “in quanto non chiamate alla leva, non hanno avuto occasione di esprimere obiezione di coscienza in materia di porto delle armi”. Per il giudice Alessandra De Curtis essere obiettore di coscienza non impedisce di far parte del Corpo e l’adozione del regolamento non cambia le circostanze, non è retroattivo: quando era stato assunto l’agente non c’erano restrizioni di questo tipo. Per Vitali questa sentenza “avrà ricadute a livello nazionale in materia di discriminazione diretta ed indiretta - le sue parole - ancora una volta abbiamo portato avanti una battaglia di merito ed abbiamo vinto nelle politiche del lavoro”. L’ergastolo senza fine di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 21 aprile 2022 In un saggio, dati e numeri sfatano la falsa convinzione che nel nostro Paese la detenzione a vita non esista più. Non è solo il titolo di un bel (e documentato) saggio, ma un’esortazione giuridica, una speranza civile, una preghiera laica: “Contro gli ergastoli” (editore Futura), a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto, che affronta il tema del carcere a vita nella nostra legislazione. Comprese le bacchettate che la suddetta si è presa negli anni dalla Corte Costituzionale, che sul tema tornerà a pronunciarsi il 20 maggio, e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Temi di cui si parlerà presentando il volume al Circolo dei Lettori, domani dalle 17.30. Per dare l’idea della situazione, ingarbugliata e sfacciatamente ipocrita, molto italiana insomma, basta l’acuta provocazione di Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale all’università di Ferrara: “L’ergastolo può continuare a esistere in quanto tende a non esistere”. Grazie a quella quadratura del cerchio che si sarebbe trovata tra le pronunce dei giudici e le norme del Parlamento: la possibilità per l’ergastolano comune di chiedere la liberazione condizionale dopo 26 anni di reclusione e, se tutto fila liscio, ritrovare la libertà dopo i successivi cinque anni. Morale: la Corte dice che l’ergastolo può esistere, perché nella realtà non esiste. Dalla lettura del volume, emerge però un problema, abnorme: così pensando si è guardato “alla sua occasionale applicazione”. La realtà è ristabilita dai numeri, puntualmente e preziosamente raccolti nel saggio: al 31 dicembre 2020, si contavano 1.784 ergastolani, la maggior parte dei quali in carcere da oltre 26 anni. E ancora: tra il 2008 e il 2020, solo 33 di questi hanno beneficiato della liberazione condizionale, mentre 111 sono morti dietro le sbarre. Con tanti saluti al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione e alla funzione rieducatrice della pena. Tira amaramente le somme ancora Pugiotto: “Chi nega l’effettività dell’ergastolo gioca con la vita degli altri. E chi lo giustifica, legittima l’inaudito”. Già, come scrisse Anton Cechov: “La pena capitale uccide all’istante, mentre l’ergastolo lo fa lentamente. Quale boia è più umano?”. Il punto è che esistono diverse tipologie di carcere a vita, da qui il titolo del volume, “perché le parole hanno l’obbligo di verità”: l’ergastolo comune, quello con isolamento diurno, quello ostativo alla liberazione condizionale, quello per i folli rei, che è poi la misura di sicurezza, applicata a chi ha commesso reati puniti con l’ergastolo, appunto. Senza contare che fino a qualche tempo fa abbiamo convissuto con l’ergastolo ai minori e quello per il sequestro di persona con la morte del sequestrato, poi dichiarati incostituzionali. E poi, c’è ergastolano ed ergastolano: “Per un giovane di 20 anni o per un signore di 60 non è la stessa cosa, lo stesso con o senza 41 bis”, il carcere duro. Di tutto questo tratta il saggio, che mette insieme tanti pezzetti, come un mosaico: attento ai particolari, ma senza perdere il senso complessivo del problema. Dall’erosione dell’istituto fatta dalla giurisprudenza costituzionale a quella della Cedu, dai danni da agonia di una pena perpetua ai numeri, dalla diffusione nel mondo dell’ergastolo alle esperienze dei Paesi che l’hanno abolito. Oltre a una nobile appendice, con scritti di Papa Francesco, Aldo Moro, Salvatore Senese e Aldo Masullo, mentre la prefazione è firmata dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Insomma, nella pubblicistica giuridica non esiste altro testo che affronti l’ergastolo così, a 360 gradi. Va da sé, il punto di scontro è l’ergastolo ostativo (ai benefici) sul quale nel 2021 si erano espressi i Supremi giudici, con l’ordinanza numero 97: dando un anno di tempo al Parlamento, per legiferare. Verificandone poi l’operato il prossimo 20 maggio. A occhio, restano riserve: finora, la Camera ha approvato un disegno di legge che molti giudicano “non troppo in asse con le osservazioni fatte dalla Corte”. E di certo non soddisfa i curatori del volume. Per essere brutali: i deputati paiono affrontato le critiche poste dall’ordinanza come se il problema fosse l’ordinanza stessa e non l’ergastolo ostativo. E qui basterebbe una frase di Papa Francesco: “Il carcere a vita non è la soluzione, ma il problema da risolvere”. Traduce bene il tutto Pugiotto: nella sostanza - il suo pensiero - la Corte ha riconosciuto al legislatore di trovare un equilibrio, ma riservandosi il compito di verificare, ex post, la conformità alla Costituzione delle decisioni assunte dal Parlamento. Dunque, l’ultima parola ai giudici, come nei film. Solo che l’ergastolo ostativo continua a essere verissimo. E tutto sarà come prima di Antonio Padellaro Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2022 “Niente sarà più come prima” è quella frase che al tempo della pandemia faceva coppia con coraggio ce la faremo, insensate entrambe visto che, Covid o non Covid, alla fine nulla sembra essere così mutato nell’esistenza umana tranne per chi non ce l’ha fatta. Con lo scoppio della guerra ecco che tornano a fioccare le previsioni più apocalittiche sugli sconvolgimenti planetari prossimi venturi, sui quali non mettiamo becco per manifesta incompetenza nel ramo presagi. Ci limitiamo a osservare che mentre il mondo sarebbe sull’orlo della catastrofe nucleare le altre varie nefandezze fanno tranquillamente il loro corso, come prima e più di prima. Per dirne una, l’ordine esecutivo della Corte di Londra per l’estradizione negli Usa di Julian Assange (dove rischia una condanna fino a 175 anni di carcere) a cui manca solo il consenso, quasi scontato, del governo britannico. Mentre rassicura la capacità di adattamento dei grandi consessi internazionali di cui la Federazione russa continua a fare parte malgrado numerosi altri membri paragonino il suo presidente ad Adolf Hitler. Succede al G20, che è quell’organismo che nell’ottobre scorso, a Roma, non si accorse, o preferì non credere, che un suo autorevole socio di nome Vladimir aveva già pronti i piani per l’invasione dell’Ucraina. Da ieri le prime 20 economie della Terra, in rappresentanza del 90% del prodotto lordo mondiale sono riunite a Washington con un problemuccio da risolvere: escludere Mosca, come vuole Joe Biden, o accettarne la presenza come chiede la Cina ma anche l’Indonesia che è presidente di turno. Un dilemma veramente cornuto perché “se i ministri occidentali che hanno messo la Russia sotto sanzioni boicottano il G20, di fatto rischiano di distruggere lo spazio più utile per il governo della globalizzazione” (Corriere della Sera). D’altra parte, come si può legittimare il criminale aggressore? Secondo l’Associated Press la soluzione escogitata da Janet Yellen, segretaria al Tesoro americana, assomiglia a una specie di slalom: ci sarà per una sessione o due, ma non sempre. Quando si è collegato il ministro russo Siluanov ha infatti lasciato i lavori, come ha fatto il commissario Ue Gentiloni (il ministro Franco invece non si è mosso). Poi domani si vedrà. Si chiama salvare capra e cavoli, ma è nello stesso tempo un raggio di speranza per la sopravvivenza del nostro pianeta. Infatti, direbbe Longanesi, che la terza guerra mondiale non scoppierà perché si conoscono tutti. La sfida della “transizione antropologica” di Leonardo Becchetti e Guido Cozzi Avvenire, 21 aprile 2022 Le tragedie e gli abissi di cui abbiamo cronaca quotidianamente da una guerra così vicina a noi rafforzano la nostra motivazione nel promuovere e raccontare quel più di umano che la nostra cultura e civiltà ha prodotto in questi secoli. Mai come oggi è fondamentale impegnare tutti noi stessi in una vera e propria “transizione antropologica” che è alla radice di tutte le altre transizioni e della possibilità stessa di costruire una società e un sistema economico orientati al bene comune. Ma in cosa consiste questa “possibile” differenza da coltivare e promuovere? In un bel libro Daron Acemoglu, forse oggi l’economista più noto e brillante a livello mondiale, ha sviluppato - insieme a James Robinson - la teoria del “narrow corridor”, ovvero del sentiero stretto dell’equilibrio tra approccio dall’alto, con l’intervento delle istituzioni, e approccio dal basso, fatto di società civile e partecipazione democratica, che rappresenta l’essenza del modello democratico occidentale e si distingue da sistemi sociali dove l’autoritarismo è molto più forte e dominante. Essere consapevoli di questa ricchezza e differenza è ancora più importante dopo i due grandi choc della pandemia e dell’invasione russa dell’Ucraina. Il rischio post-Covid è infatti quello di un’espansione dell’autoritarismo, magari strumentalizzato da lobby populistiche o militaristiche. Non dimentichiamo le tensioni sociali e gli autoritarismi che sorsero dopo l’epidemia Spagnola del 1918- 20 in combinazione e sequenza con il periodo della Grande Guerra, dove oltre a decine di milioni di persone, morì la democrazia nascente in molti Paesi. L’Unione Europea, oggi, ha probabilmente colto nel segno la direzione di marcia della sostenibilità, mettendo al centro la transizione ecologica e la coesione sociale. Ma non basta indovinare la direzione verso cui muovere perché nei processi politici e sociali la questione chiave è quella di coinvolgere attivamente i cittadini e renderli attivi e protagonisti in questo percorso. In alcuni illuminanti lavori sperimentali, Bruno Frei e Alois Stutzer individuano tra i fattori che guidano le preferenze umane la cosiddetta utilità procedurale. I due autori dimostrano empiricamente che, prendendo esattamente la stessa decisione, coloro che sono chiamati a votarla sono favorevoli quando sono coinvolti nel percorso della sua costruzione e contrari quando non lo sono. Proprio per questo motivo non basta indovinare la direzione e l’orizzonte a cui tendere, ma è fondamentale indovinare il processo e renderlo condiviso partecipato. In questo non partiamo da zero o non parliamo di astrazioni perché abbiamo la fortuna di aver identificato e sperimentato molte promettenti forme di partecipazione e di cittadinanza attiva. Dal consumo e risparmio responsabile del “voto col portafoglio” che sta trasformando, soprattutto sotto la spinta della finanza verde, i comportamenti delle imprese, alla responsabilità sociale delle imprese stesse, che nasce anche dal genio e dalla sensibilità di una schiera sempre più folta di imprenditori più ambiziosi che non guardano solo al profitto, ma anche all’”impatto” delle loro aziende. Per arrivare alle nuove forme di gestione dal basso di beni comuni. Luigi Ciotti: “Il pacifismo è un’accusa? Ben venga” di Daniela Preziosi e Tommaso D’Elia roma Il Domani, 21 aprile 2022 “Quelli che ci accusano sono gli stessi che alimentano la rassegnazione e l’industria delle armi”. Il fondatore di Libera ha ricordato Gino Strada al congresso dell’Anpi. Oggi sarebbe il 74esimo compleanno del chirurgo padre di Emergency. “Non portiamo a spasso le bandiere della pace, abbiamo cercato di tradurre la pace concretamente nei vari contesti”. “Un popolo viene umiliato ha diritto a difendersi. Ma ora parli la diplomazia, parli l’Europa e l’Onu, la vittoria della guerra per ora sta in mano a chi produce armi”. “Siamo mobilitati per gli ucraini, ma non dimentichiamo gli altri profughi, quelli con altri colori di pelle” “Gino è stato Strada senza “farsi strada”. Voglio dire che non ha mai sgomitato per apparire, ha speso molto della sua vita per dare una mano alle persone a ritrovare la salute ma anche la fiducia in sé stesse. Ha operato in territori difficili. Era una personalità esuberante, a volte irruenta. Ma prima di tutto era generoso. E autentico”. Oggi sarebbe stato il 74esimo compleanno del chirurgo Gino Strada, fondatore di Emergency, icona del disarmismo, il più conosciuto - e per questo discusso - pacifista italiano contemporaneo, scomparso lo scorso il 13 agosto 2021. In vista dell’anniversario della sua morte sono almeno un paio i documentari in lavorazione su di lui. A ricordarlo oggi, alla vigilia di una marcia straordinaria per la pace, la Perugia-Assisi del 24 aprile, è il suo amico Luigi Ciotti, fondatore di Libera, pacifista doc a sua volta. Don Ciotti, “Luigi” per tutti, ha ricordato la figura di Strada all’ultimo congresso dell’Anpi a Riccione. Voi pacifisti siete sotto scacco, l’associazione dei partigiani è nella buriana mediatica con l’accusa infamante di “putinismo”. Quello che lascia Strada è più un vuoto di autorevolezza o un’eredità da difendere nel mondo dell’accoglienza e delle bandiere arcobaleno? Gino ha saputo accogliere la disperazione e la fatica della gente, è andato a operare, lasciami dire “ad amare” in territori di conflitto e di guerra. Nel 1999, nel libro Pappagalli verdi, ha raccontato gli orrori della guerra. Aveva una grande donna al suo fianco, Teresa Sarti. Un giorno, anni dopo, mi disse che voleva essere presente anche nel territorio nazionale. Mi chiese: “mi dai una mano a trovare un bene confiscato a Palermo per aprire un punto di riferimento?”. E così è nato l’ambulatorio di Polistena, in Calabria, in un bene confiscato a un clan della ‘ndrangheta. Un grido, una denuncia dell’insufficienza della nostra sanità, e delle difficoltà anche di tante e tanti connazionali. Nelle ultime interviste Strada infatti parla della sanità italiana. Durante la pandemia abbiamo sperato che il nostro paese sarebbe migliorato dal punto di vista dell’inclusione. È andata così? Se le emozioni restano emozioni passano in fretta. Abbiamo visto il sacrificio di medici per dare una mano, abbiamo visto esplosioni di solidarietà di fronte alla povertà che si allargava. Ma abbiamo visto anche tanta superficialità. Ed oggi lo stesso: abbiamo la guerra alle porte di casa, che sta coinvolgendo tutti, ed è giusto. Però pochi si ricordano con la stessa intensità le altre almeno 33 guerre in corso. È importante l’impegno per l’accoglienza delle persone, ma le altre vite sono diverse? O forse abbiamo meno interessi in altri territori? Perché dare accoglienza alle persone di pelle nera è molto più difficile? Lo dico con rispetto, anzi con gioia per l’accoglienza che vedo per le persone ucraine. Ma non posso non sentire una ribellione della coscienza. In questa guerra di Putin contro l’Ucraina la pubblica opinione ha scoperto che ci sono tanti pacifisti. Accusati di neutralismo, di putinismo, per lo più sbeffeggiati. Come vive queste accuse? C’è tanto pregiudizio, a volte ignoranza. La pratica della nonviolenza, in nome della pace, ha portato contributi immensi in un mondo dove la violenza è strutturale, dove un’economia assassina schiaccia i più fragili, dove il paradigma tecnocratico ha creato diseguaglianze, ingiustizia e povertà. In questo contesto ci sono quelli che lottano per la libertà delle persone, cioè per la giustizia e per la pace, chiedendo di cambiare paradigma, di rimettere la persona al centro. La Costituzione europea chiede di creare percorsi di pace perché nasce dopo l’orrore di un conflitto mondiale. Ma noi abbiamo tradito quelle carte. Gino e Teresa hanno fatto questo e con loro poi si è allargato sempre di più il numero delle persone che si sono messe in gioco. Anche noi, piccoli piccoli, cerchiamo di farlo in un paese dove c’è almeno una guerra in atto: perché se da 150 anni parliamo di mafie nonostante i passi in avanti fatti, resta che oggi quelle mafie usano l’indice non più tanto per sparare con la pistola, ma per premere pulsanti e spostare milioni. Una grande sfida che comincia dalla cultura, dall’educazione, dai servizi alle persone. Combattiamo anche questa violenza. Siamo accusati di “pacifismo”? Ben venga. Lasciamoli dire. Negli anni non abbiamo solo portato a spasso bandiere della pace, abbiamo messo la nostra vita, con tutti i nostri limiti ma con tutta la nostra passione, per tradurre la pace concretamente nei vari contesti. Il nostro compito è portarla nel mondo della scuola, nelle università, nei quartieri, con i fatti più che con le parole, creando le condizioni e le relazioni, aiutando oggi i ragazzi a distinguere. In Italia c’è stata una grande discussione sull’invio delle armi all’Ucraina. Un popolo aggredito e un paese invaso non deve essere aiutato a resistere? Ci sono situazioni estreme in cui per liberare un paese, l’abbiamo vissuto anche noi, bisogna provare a fare di tutto per difendere la vita, ma deve essere l’estrema ratio. Il conflitto non è venuto fuori improvvisamente, in questi due anni c’è stata una pace armata. I servizi erano al corrente di tutto. Oggi bisogna tentare tutte le strade del dialogo. Ma cosa fa l’Onu, cosa fa l’Europa? C’è troppa prudenza, l’Europa dice e non dice, interviene e no. Non bastano le telefonate fra i presidenti dei paesi. Dopodiché se un popolo viene schiacciato umiliato, distrutto, nessuno può stare lì a fare un gesto con la mano. Ma c’è una cosa preoccupante: chi ha in mano la vittoria? L’industria delle armi. E allora spiace che il nostro governo e il nostro parlamento abbiano votato subito l’aumento delle spese per gli armamenti, quando c’è una situazione di povertà assoluta di oltre sei milioni di persone, un milione e 300 mila sono bambini. Non ci sono delle priorità? Noi associazioni abbiamo lottato per porre dei criteri, ad esempio che non si devono vendere armi in paesi in cui non vengono rispettati i diritti umani. Ma con l’Egitto stringiamo nuovi accordi e vendiamo armi, anche se in Egitto le carceri sono pieni di detenuti perché si sono opposti al regime. Serve una ribellione delle coscienze. Si fermi questo orrore tremendo in Ucraina, non ho titolo per dire altro, anche perché quello che leggo tutti i giorni è inquietante, si stanno sperimentano nuove armi, nuovi progetti di morte. Ripeto: siamo mobilitati a raccogliere i profughi dell’Ucraina, lo abbiamo sempre fatto anche per altri, con pelli di colori diversi, e che i paesi continuano a respingere. Si uccide anche con l’indifferenza: com’è possibile che l’Europa tiri fuori i soldi per pagare un dittatore in Turchia perché si tenga lì quasi tre milioni di persone perché non vengano nella nostra cara Europa? Anche questo è una forma di violenza. Lei e Gino Strada siete dei “guru” della pace? Io rappresento un noi, tant’è vero che l’associazione che coordino è Libera, un’associazione di associazioni. Non è opera di navigatori solitari, di cui bisogna sempre diffidare. Poi è chiaro che in alcuni momenti ci metti la faccia, hai la responsabilità di fare sintesi. Non è semplice e non è facile. Ma tanto qualunque cosa uno faccia troverà sempre delle persone che non saranno d’accordo. I più pericolosi sono i mormoranti, quelli che partecipano agli incontri, poi distruggono, etichettano, emarginano. Sono pericolosi perché aumentano la rassegnazione, la convinzione che tanto nulla può cambiare. Lei è un uomo di chiesa, considera Strada un santo? Alla fine della vita, cito le parole di un magistrato ucciso dalla mafia, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili. Gino, come Teresa, erano persone molto credibili, magari non erano credenti, ma testimoni di amore, nel loro linguaggio, nelle loro scelte, nel loro coraggio. Un’eredità che ha ricevuto Cecilia, la loro figlia, che non a caso va sulle navi a soccorrere chi naufraga nel Mediterraneo, il grande cimitero della speranza. Gino e Teresa sono persone care, e le persone care non muoiono mai, te le porti dentro. Il Signore, per chi crede, ha promesso che un giorno risorgeremo. Sono contento. Ma questa resurrezione bisogna conquistarsela dandosi da fare di qua. Facciamole risorgere qui le persone che stanno ai margini. Dio non è cattolico, Dio è di tutti, ama tutti, se no non sarebbe Dio. E io amo la Chiesa che ci invita a guardare verso il cielo senza distrarci dalle responsabilità che abbiamo qui sulla terra. La globalizzazione non previene le guerre, ma forse le prepara di Gian Paolo Caselli Il Domani, 21 aprile 2022 Quando parliamo di globalizzazione ci si dimentica spesso che abbiamo già assistito a una prima fase, quella che inizia nella seconda metà dell’Ottocento e si conclude con la Prima guerra mondiale e la crisi del 1929. Il processo di globalizzazione attuale, partito dagli Stati Uniti con la rivoluzione informatica, costringe tutto il mondo ad adeguarsi. In questo processo crolla l’Unione sovietica, si consolida l’Ue, la Cina si apre al mondo e diventa la potenza antagonista degli Usa. La globalizzazione causa il crescere della diseguaglianza fra paesi e all’interno dei paesi. E nel processo si palesa una nuova potenza antagonista: nell’Ottocento è la Germania che sfida la potenza inglese, oggi la Cina che sfida la potenza americana. Quando si discute dell’attuale espansione del sistema capitalistico e definiamo tale fenomeno globalizzazione ci si dimentica spesso che abbiamo già assistito a una prima globalizzazione, quella che inizia nella seconda metà dell’Ottocento e si conclude con la Prima guerra mondiale e la crisi del 1929. Le due globalizzazioni, quella ottocentesca e quella attuale, hanno caratteristiche di fondo comuni e modalità ricorrenti che ci permettono di riflettere sull’attuale momento storico. Alla fine dell’ottocento l’economia mondiale era altamente globalizzata. Dopo che i paesi europei avevano colonizzato Asia e Africa, le colonie erano diventate fornitrici di materie prime e allo stesso tempo mercati di sbocco per i prodotti dei paesi colonizzatori. La rivoluzione industriale aveva permesso una drastica riduzione dei costi di trasporto e le economie si aprivano al commercio internazionale aumentando flussi di capitale e di forza lavoro. Questa diffusione del modo di produzione capitalistico provocò un aumento del tasso di crescita del reddito che non era neppure immaginabile nei secoli precedenti. La nostra globalizzazione - Attualmente stiamo vivendo una seconda globalizzazione. La rivoluzione informatica degli anni Settanta, diminuendo drasticamente i costi di diffusione dei dati, è stato l’elemento propulsivo e gli Stati Uniti il paese protagonista. Gli anni Novanta sono gli anni della grande euforia per la globalizzazione. La crescita mondiale è fortissima, il muro di Berlino è caduto, gli stati comunisti europei hanno abbracciato con grande fervore il capitalismo. L’avvio del processo di globalizzazione coincide con l’elezione di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti; Thatcher e Reagan congiuntamente iniziano l’apertura e la liberalizzazione del mercato dei capitali, distruggendo così uno dei capisaldi del sistema nato a Bretton Woods. Sia la prima che la seconda globalizzazione hanno aumentato enormemente l’interdipendenza economica tra i paesi. Questo fatto potrebbe far pensare che la globalizzazione determini una tendenza generale dell’umanità a sostituire il conflitto con la cooperazione. Antidoto alla guerra? - In questo senso, come teorizzato da Norman Angell all’inizio del Novecento, la globalizzazione costituirebbe un antidoto alla guerra, in quanto, in un mondo globalizzato, lo scontro fra potenze comporterebbe un prezzo troppo alto da pagare in termini economici. Pochi anni dopo scoppiò la Prima guerra mondiale che azzerò la prima globalizzazione. Negli anni successivi si determinò una completa frantumazione dei rapporti economici reali e finanziari fra paesi e un ritorno al protezionismo. Secondo una visione meno ottimistica, il processo di globalizzazione determina gravi squilibri. Nella prima globalizzazione la drastica accelerazione nell’attività economica mondiale che partiva dalla Gran Bretagna costrinse le potenze periferiche come l’impero zarista, quello turco, giapponese e asburgico a intraprendere processi di modernizzazione che ebbero forme diverse ma che avevano il comune obiettivo di non perdere il contatto con la potenza più progredita, tentando di riformare sistemi che in gran parte vivevano ancora in strutture feudali. Questi processi di cambiamento, avvenendo in paesi che non avevano strutture produttive e istituzionali adeguate, modificarono la distribuzione del reddito in modo regressivo, generando enormi tensioni sociali. Gli effetti oggi - Oggi gli effetti squilibranti del processo di globalizzazione sono all’origine degli avvenimenti politico sociali culminati nella Brexit, nell’affermazione in Europa di partiti di destra anti globalizzazione, negli scontri commerciali tra Usa e Cina e nel peggioramento della distribuzione del reddito in quasi tutti i paesi. Alcuni economisti avevano avvertito per tempo che il processo di globalizzazione era portatore di tensioni fra democrazia, sovranità e indipendenza economica e che avrebbe comportato un aumento del potere economico e politico delle imprese multinazionali rispetto a quello degli stati nazionali e una diminuzione dei livelli salariali. Le due globalizzazioni hanno caratteristiche comuni: in entrambi i casi il processo è messo in moto da un avanzamento tecnologico che avviene nel paese più avanzato. Nella prima globalizzazione è la rivoluzione industriale inglese e l’Inghilterra è il paese egemone che garantisce l’estensione del processo, costringendo anche militarmente i paesi ad aprirsi al commercio internazionale (vedi guerre dell’Oppio e apertura del Giappone). Il processo di globalizzazione attuale, partito dagli Stati Uniti con la rivoluzione informatica, costringe tutto il mondo ad adeguarsi. In questo processo crolla l’Unione sovietica, si consolida l’Unione europea, la Cina si apre al mondo e diventa la potenza antagonista degli Stati Uniti, mentre Africa e America Latina rimangono tagliate fuori. La globalizzazione causa il crescere della diseguaglianza fra paesi e all’interno dei paesi. Nel processo si palesa una nuova potenza antagonista: nell’Ottocento è la Germania che sfida la potenza inglese, oggi la Cina che sfida la potenza americana. Per questi motivi i conflitti aumentano. Come nel 1905 la guerra russo giapponese annuncia conflitti di maggior portata, così la guerra fra Russia e Ucraina evoca scenari non augurabili. La soluzione diplomatica è oggi fortunatamente ancora possibile e richiede il ruolo fondamentale dell’Europa. Una task force di legali e giuristi per proteggere i diritti delle vittime di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 21 aprile 2022 Italia in prima linea in un progetto animato da esperti e accademici di 40 università. Accademici e giuristi uniscono le forze per dare un contributo in favore della popolazione dell’Ucraina, dove le violazioni dei diritti sono ormai una triste e quotidiana realtà. L’Italia è ancora una volta in prima fila con la creazione di una task force che avrà il compito di analizzare le norme e i meccanismi processuali ucraini e internazionali. Per raggiungere l’obiettivo verranno presi in considerazione i diversi meccanismi giuridici di indagine volti a garantire la protezione dei civili e perseguire gli autori dei crimini di vario genere commessi. Nell’impegnativo progetto saranno coinvolti i protagonisti del mondo universitario e giuridico: docenti, ricercatori, giudici e giuristi dell’Ucraina, di altri Paesi europei e degli Stati Uniti. A svolgere un ruolo propulsore è l’Universities network for children in armed conflict (Unetchac), che già da qualche anno ha riunito università e istituti di ricerca impegnati in tutto il mondo per proteggere i bambini che vivono nei Paesi afflitti dai conflitti armati. La rete di Unetchac comprende oltre quaranta Università e centri di ricerca in Europa, Medio Oriente, Africa, Nord e America Latina. È impegnata, tra le varie cose, a far conoscere le conseguenze che patiscono i bambini delle aree in guerra sia quando sono vittime dirette sia quando, indirettamente, sono colpiti da violazioni riguardanti le loro famiglie e comunità. Si pensi al fenomeno dell’abbandono scolastico precoce. Sull’iniziativa in favore dei bambini ucraini la mobilitazione è massima tanto nel Paese aggredito dall’Armata russa quanto nel resto dell’Europa. Oksana Holovko-Havrysheva, docente del dipartimento di Diritto europeo dell’Università Franko di Leopoli, invoca l’intervento rapido della giustizia internazionale, senza tralasciare la primazia della giurisdizione nazionale. “Ciascuno dei crimini - evidenzia - compiuti dalle forze militari russe nel territorio dell’Ucraina, specialmente i crimini contro i civili, devono essere perseguiti in tutto il mondo, nelle Corti Penali nazionali e internazionali” Alla iniziativa di Unetchac hanno aderito i ricercatori degli atenei di Kiev e Leopoli. Saranno costantemente in contatto con alcune prestigiose realtà accademiche. In Italia daranno il loro supporto la John Cabot University, l’Università di Perugia, l’Università di Genova, l’Università degli Studi Federico II, l’Università L’Orientale di Napol., l’Università di Trento, l’Università Sant’Anna di Pisa e l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Un contributo verrà fornito pure dai giudici Giulio Adilardi (presidente del Tribunale di Rovereto) e Stefan Tapeiner, (presidente della Sezione Penale del Tribunale di Bolzano). Inoltre, fanno sapere da Unetchac, si stanno rafforzando i contatti con alcuni docenti universitari di Odessa, che, nonostante il pericolo costante di un attacco militare, hanno assicurato la realizzazione di alcune ricerche nel territorio di competenza. Il gruppo di lavoro sarà impegnato a sviluppare un’analisi comparativa del diritto penale degli Stati membri dell’Unione europea, attraverso un esame dell’adeguamento interno delle legislazioni penali dei singoli Stati allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Cpi) e dei crimini internazionali contemplati. Verrà dedicato spazio all’esame comparativo dei sistemi normativi e delle pratiche degli Stati membri dell’Ue poste in essere dopo il riconoscimento della protezione temporanea alle persone in fuga dall’Ucraina sulla base della normativa europea, che prevede, in particolare, l’accoglienza dei minori. “Purtroppo - commenta la professoressa Laura Guercio, membro del comitato di coordinamento della Unetchac e coordinatrice scientifica della task force - le guerre non sono nuove e non sono nuovi i drammi che i civili, soprattutto i bambini, vivono a causa delle guerre. Dobbiamo dire, però, che noi europei per molto tempo abbiamo creduto di essere immuni dalle guerre e dalle malattie. Ora, invece, abbiamo capito che non siamo esenti a nulla di questo. Come si è impegnato su altre situazioni di guerra, il network si impegna sulla guerra in Ucraina che ha indubbiamente risvolti umani e giuridici importanti per il sistema delle relazioni internazionali”. Guercio sottolinea l’importanza del coinvolgimento delle università. “Lavoreranno - afferma - per il potenziamento delle misure contrastanti e giudicanti le gravi violazioni dei diritti umani, in particolare contro i bambini, per contribuire a fermare la catena di violenze e crimini in Ucraina. I professori e i professionisti coinvolti lavoreranno per l’elaborazione di un rapporto di analisi dei sistemi giuridici e delle misure pratiche da adottare per l’accertamento e giustiziabilità dei crimini, da qualunque parte siano commessi nel territorio ucraino, e per il miglioramento dei sistemi volti a dare tutela ai minori. Il lavoro durerà due mesi, al termine del quale saranno proposte raccomandazioni di azioni concrete alle istituzioni nazionali e internazionali. Speriamo con questo lavoro di contribuire al lavoro importantissimo già portato avanti dalle autorità nazionali ucraine e dalle istituzioni internazionali”. Sentenze Cedu, Russia e Ucraina in maglia nera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2022 Nel 2021, a seguito delle sentenze di condanna da parte della Corte Europea di Strasburgo (Cedu), l’Italia ha versato 3.190.110 euro. Per il rispetto dei termini del versamento degli indennizzi, in 30 casi l’Italia ha rispettato i termini, mentre in 24 casi (16 nel 2020) l’Italia ha superato la scadenza. Parliamo del rapporto annuale pubblicato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sullo stato dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo da parte degli Stati, che costituisce una fase essenziale per garantire l’effettiva attuazione dei diritti convenzionali. Per quanto riguarda i dati complessivi, nel 2021 sono arrivati sul tavolo del Comitato 1.379 sentenze a fronte delle 983 del 2020; risultano pendenti 5.533 casi (5.233 nel 2020); 1.122 i casi chiusi (983 nel 2020). L’Italia è stata al centro di 59 casi pendenti (superando addirittura la Moldova a quota 52), preceduta dalla Russia (267), dall’Ucraina (196), dalla Turchia (106), dalla Romania (104) e dalla Serbia (69). Nei confronti dell’Italia sono stati chiusi 73 casi. Tra i casi più importanti chiusi dal Comitato, anche alcune sentenze italiane come quella Khlaifia e altri contro Italia relativa alle condizioni in cui versano i migranti sottoposti alla detenzione amministrativa nei centri di accoglienza. Chiusa nel 2021 anche la vicenda relativa alla sentenza M. C. e altri sugli indennizzi dovute a malattie causate da trasfusioni di sangue contaminato. A sorpresa una nota positiva sulle lungaggini dei processi. Il Comitato valuta positivamente quelli relativamente ai procedimenti penali in Italia. Ha preso nota dei dati statistici fino al 2020, confermando in generale la situazione positiva precedentemente osservata per quanto riguarda la durata media dei procedimenti penali e la liquidazione dell’arretrato di cause penali avanti la Corte di Cassazione. Il Comitato dei ministri del consiglio europeo ha sottolineato l’importanza fondamentale di garantire che queste tendenze positive siano ulteriormente consolidate e che ulteriori progressi siano volti allo snellimento del procedimento dinanzi alle corti d’appello. Ha invitato le autorità a continuare a monitorare da vicino la situazione e fornire a valutazione dettagliata dei risultati raggiunti. Da ricordare che anche la Russia è soggetto all’esecuzione delle sentenze Cedu. Il 25 febbraio 2022, il Comitato dei Ministri ha deciso di sospendere i diritti di rappresentanza della Federazione russa nel Consiglio d’Europa a causa dell’attacco armato sferrato contro l’Ucraina. La Russia però rimane membro del Consiglio d’Europa nonché parte della Cedu, e resta soggetta all’obbligo di attuare le sentenze della Corte EDU. Pertanto, la Risoluzione adottata dal Comitato dei Ministri il 2 marzo 2022 scorso, stabilisce che la Federazione russa continui a partecipare alle riunioni del Comitato sull’esecuzione delle sentenze della Corte al fine di fornire e ricevere informazioni sulle sentenze di cui è parte e senza diritto di voto o di partecipazione all’adozione delle decisioni. Gran Bretagna. Assange, ok all’estradizione. Con lui, a rischio anche la libertà di stampa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 aprile 2022 A seguito della decisione odierna della Magistrates’ Court di emettere un ordine di estradizione nei confronti di Julian Assange, Amnesty International ha dichiarato che un’eventuale sua approvazione da parte della segretaria agli interni Priti Patel - attesa entro il 18 maggio - violerebbe il divieto di tortura e costituirebbe un precedente allarmante per i pubblicisti e i giornalisti di ogni parte del mondo. Il Regno Unito è obbligato a non trasferire alcuna persona in un luogo in cui la sua vita o la sua salute sarebbero in pericolo. Il governo di Londra non deve venir meno a questa responsabilità. L’isolamento prolungato è infatti la norma nelle prigioni di massima sicurezza degli Usa e costituisce tortura o altri maltrattamenti, vietati dal diritto internazionale. Gli Usa hanno palesemente dichiarato che cambieranno le condizioni di detenzione di Assange quando lo riterranno opportuno, dunque le loro assicurazioni circa il trattamento equo di Assange valgono meno del pezzo di carta su cui sono state scritte. L’estradizione di Assange sarebbe devastante per la libertà di stampa e per l’opinione pubblica, che ha il diritto di sapere cosa fanno i governi in suo nome. Diffondere notizie di pubblico interesse è una pietra angolare della libertà di stampa. Estradare Assange ed esporlo ad accuse di spionaggio per aver pubblicato informazioni riservate rappresenterebbe un pericoloso precedente e costringerebbe i giornalisti di ogni parte del mondo a guardarsi alle spalle. Se il governo di Londra consentisse a uno stato estero di esercitare giurisdizione extraterritoriale per processare una persona che ha diffuso informazioni dal Regno Unito, altri governi potrebbero sfruttare la stessa strategia giudiziaria per imprigionare giornalisti e mettere il bavaglio alla stampa anche oltre i loro confini statali. Gran Bretagna. Lettera aperta al ministro Patel per Julian Assange Il Manifesto, 21 aprile 2022 Appello. Ciò che temiamo è, da un lato, il prolungamento della detenzione di Assange le cui conseguenze potrebbero rivelarsi fatali per l’imputato e, dall’altro, un ammonimento rivolto alla stampa affinché si astenga dal raccogliere e divulgare informazioni anche se diffuse nell’interesse pubblico Gentile Ministro Patel, noi sottoscritti uomini e donne del mondo della politica, del giornalismo, dell’accademia ci rivolgiamo a lei in vista della cruciale decisione che è chiamata a prendere rispetto alla richiesta di estradizione dell’editore e giornalista Julian Assange, esortandola a non accogliere tale richiesta. Riteniamo che la decisione segnerà una pagina fondamentale del diritto alla conoscenza, oltre che della vita dell’imputato e della condizione dello Stato di Diritto. Da tre anni Julian Assange si trova in detenzione preventiva in un carcere di massima sicurezza senza che nessun tribunale abbia pronunciato alcuna sentenza definitiva nei suoi confronti. Ad essi se ne devono aggiungere altri nove: era il 7 dicembre 2010 quando, spontaneamente, si presentò a Scotland Yard a seguito di un mandato europeo, spiccato dalla magistratura svedese, risoltosi con la sua archiviazione. Da allora, Assange ha continuato a subire ininterrotte forme di detenzione. Il fondatore di Wikileaks ha contribuito alla comprensione delle ragioni per cui una democrazia non può e non deve essere all’origine di gravi violazioni dei diritti umani a danno di centinaia di migliaia di civili già oppressi dalla prepotenza di despoti e dall’assenza di diritti fondamentali. Le principali istituzioni e organizzazioni internazionali dedicate alla difesa e promozione dei diritti umani si sono espresse a favore della liberazione di Julian Assange. Si tratta delle stesse istituzioni democratiche, fondate a seguito della devastazione della Seconda Guerra Mondiale, a cui guardiamo con fiducia e che presentano da tempo una richiesta a cui ci uniamo e che le rinnoviamo: la fine della detenzione di Julian Assange. Il 4 dicembre 2015, il Gruppo di esperti Onu sulla detenzione arbitraria ha affermato che “il rimedio adeguato sarebbe quello di garantire il diritto alla libera circolazione del sig. Assange e di riconoscergli il diritto esecutivo al risarcimento, in conformità con l’articolo 9(5) del Patto internazionale sui diritti civili e politici.” Il 21 dicembre 2018, lo stesso Gruppo ha precisato che “agli Stati che si basano e promuovono lo stato di diritto non piace confrontarsi con le proprie violazioni della legge. Questo è comprensibile. Ma quando riconoscono con onestà queste violazioni, onorano lo spirito stesso dello stato di diritto, guadagnano un maggiore rispetto e costituiscono un esempio lodevole in tutto il mondo”. Il 5 aprile 2019, il Relatore Speciale ONU sulla tortura, Nils Melzer, si è detto allarmato per la possibile estradizione in quanto l’imputato rischierebbe di subire gravi violazioni dei suoi diritti umani, trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti, perdita della libertà di espressione e privazione del diritto a un equo processo. Il 9 maggio dello stesso anno, Melzer ha visitato Assange e ha riscontrato sintomi di “esposizione prolungata alla tortura psicologica”. L’11 aprile 2019, la Relatrice Speciale ONU sulle esecuzioni extragiudiziali, Agnes Callamard, ha dichiarato che il Regno Unito ha arrestato arbitrariamente il controverso editore “probabilmente mettendo in pericolo la sua vita”. Questa dichiarazione è condivisa dal Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, Michel Forst. Il 20 febbraio 2020, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, ha dichiarato: “la potenziale estradizione di Julian Assange ha implicazioni sui diritti umani che vanno ben oltre il suo caso individuale. L’atto d’accusa solleva importanti interrogativi sulla protezione di coloro che pubblicano informazioni riservate nell’interesse pubblico, comprese quelle che espongono violazioni dei diritti umani. (…) qualsiasi estradizione in cui la persona coinvolta è a rischio reale di tortura o trattamento inumano o degradante è contrario all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”. Il 10 dicembre 2021, infine, il Segretario generale di Reporter Without Borders, Christophe Deloire, ha dichiarato: “Crediamo fermamente che Julian Assange sia stato preso di mira per i suoi contributi al giornalismo e difendiamo questo caso a causa delle sue pericolose implicazioni per il futuro del giornalismo e della libertà di stampa nel mondo.” Ciò che temiamo è, da un lato, il prolungamento della detenzione di Assange le cui conseguenze potrebbero rivelarsi fatali per l’imputato e, dall’altro, un ammonimento rivolto alla stampa affinché si astenga dal raccogliere e divulgare informazioni anche se diffuse nell’interesse pubblico. Siamo convinti che sia possibile consentire all’opinione pubblica di conoscere le ragioni alla base di cruciali decisioni politico-militari senza che questo confligga con le esigenze di sicurezza dei cittadini. Per questi motivi ci appelliamo a lei, sig.ra Ministro, affinché non dia il via libera all’estradizione di Julian Assange. Primi firmatari: Gianni Marilotti, senatore; Andrea Marcucci, senatore; Riccardo Nencini, senatore; Roberto Rampi, senatore; Elvira Evangelista, senatrice; Luciano D’Alfonso, senatore; Tatiana Rojc, senatrice; Sandro Ruotolo, senatore; Maurizio Buccarella, senatore; Luisa Angrisani, senatrice; Danila De Lucia, senatrice; Francesco Verducci, senatore; Mino Taricco, senatore; Monica Cirinnà, senatrice; Nicola Morra, senatore; Paola Boldrini, senatrice; Primo Di Nicola, senatore; Silvana Giannuzzi, senatrice; Sabrina Pignedoli, deputata europea; Vincenzo Vita, già parlamentare ed ex Sottosegretario; Alberto Maritati, già senatore ed ex Sottosegretario; Gian Giacomo Migone, già senatore; Luciana Castellina, già deputata; Aldo Tortorella, già deputato; Alfonso Gianni, già deputato; Beppe Giulietti, presidente FNSI; Tommaso Di Francesco, condirettore Il Manifesto; Giovanni Terzi, giornalista; Elisa Marincola, portavoce Articolo 21; Stefania Maurizi, giornalista; Pier Virgilio Dastoli, docente di diritto dell’UE; Marino Bisso, giornalista, Rete NoBavaglio