La riforma carceraria riparta dal wc di Luigi Manconi La Repubblica, 20 aprile 2022 Nell’importante libro “Letteratura d’evasione” (Il saggiatore 2022), curato da Federica Graziani e Ivan Talarico, che raccoglie racconti ed esperienze narrative vissute durante il corso di scrittura all’interno del carcere di Frosinone, si trova anche una sezione di “recensioni”. Ai detenuti è stato chiesto di descrivere le proprie “camere di pernottamento” (o celle) e, così, abbiamo una rassegna di particolarissima architettura di interni. È un’idea molto interessante: innanzitutto perché, quello di “descrivere la propria stanza” è un genere letterario antico; e poi perché in quelle recensioni si rispecchia spesso l’immagine di sé e dei propri rapporti più intimi che la persona privata della libertà e coatta in uno spazio angusto vuole trasmettere all’esterno. Da un punto di vista architettonico e sociologico assai utile sarebbe estendere quell’attività di descrizione e scrittura fino a concentrarla nel buco più profondo contenuto in quel buco che spesso è la cella. Ovvero il water. In proposito, va letta una recente sentenza della Cassazione, che afferma come “la presenza del WC all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione” inciderebbe in profondità “sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente”. Si tratta di una sentenza importante a proposito di una questione rilevantissima per valutare lo stato del nostro sistema penitenziario e il livello di mortificazione della dignità umana cui può giungere. Secondo l’associazione Antigone non si tratta di una circostanza così rara se è vero, come è vero, che le celle che presentano quelle condizioni igieniche rappresentano almeno il 5% del totale. Non sarebbe intelligente partire da lì, proprio da lì, per avviare una riforma dell’edilizia carceraria e dell’intero sistema penitenziario? Non è possibile dignità dove non c’è dignità del corpo. Ergastolo ostativo, l’Antimafia: “Escludere i benefici per i detenuti al 41-bis” di Manolo Lanaro Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2022 La relazione sul carcere ostativo è stata votata all’unanimità dalla Commissione parlamentare: indicazioni sono state in gran parte già recepite nella proposta di legge approvata alla Camera e ora in discussione al Senato. L’Antimafia sostiene che la riforma non dovrebbe “avere alcun riflesso” sui detenuti al 41-bis, “regime che per sua natura richiede non solo la pericolosità sociale ma anche l’attualità dei collegamenti con il mondo criminale di appartenenza”. Possibilità di accedere a tutti i benefici penitenziari per i detenuti per reati di mafia e terrorismo che non collaborino con la giustizia, ma anche un’apposita previsione per rendere inammissibile la richiesta da parte dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis. Sono alcune delle indicazioni fornite al legislatore dalla Commissione parlamentare Antimafia in una relazione sul carcere ostativo. Il documento, i cui relatori sono il senatore Pietro Grasso e la deputata Stefania Ascari, è stato votato all’unanimità dai componenti dell’Antimafia: le sue indicazioni sono state in gran parte già recepite nella proposta di legge - approvata dalla Camera e ora all’esame del Senato - sollecitata dalla Corte Costituzionale, che il 10 maggio 2021 aveva dichiarato illegittimo l’ergastolo ostativo dando al Parlamento un anno di tempo per cambiare la legge. La nuova legge, auspica l’Antimafia, dovrebbe valere non solo per i permessi premio - oggetto di un primo intervento della Consulta nel 2019 - ma anche per lavoro all’esterno, semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale e liberazione condizionale: “Se non fosse operato tale intervento, non potrebbe escludersi l’ipotesi di una illegittimità consequenziale da parte del giudice delle leggi”, si legge nella relazione. Secondo la Commissione, all’interno dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario - che elenca i cosiddetti “reati ostativi” che precludono l’accesso ai benefici in assenza di collaborazione - vanno distinte due categorie, facendo rientrare nella prima, con un onere probatorio più stringente, la criminalità organizzata di tipo mafioso o terroristico-eversiva, e nella seconda tutte le altre fattispecie (ad esempio i vari reati contro la pubblica amministrazione. Tra chi non collabora, si legge ancora, è necessario distinguere tra “silente per sua scelta” e “silente suo malgrado”: questo secondo caso rientra nell’ipotesi di collaborazione “impossibile o inesigibile” sottolineata dalla stessa Corte Costituzionale. “Sarà compito, quindi, della magistratura tenere conto delle ragioni della mancata collaborazione al fine di verificare l’assenza di collegamenti attuali con il mondo criminale di appartenenza e il pericolo di ripristino”, scrive l’Antimafia. Sostenendo che la riforma non dovrebbe “avere alcun riflesso” sui detenuti al 41-bis, “regime che per sua natura richiede non solo la pericolosità sociale ma anche l’attualità dei collegamenti con il mondo criminale di appartenenza”. Quindi, “si potrebbe prevedere (com’è stato fatto nella proposta approvata alla Camera, ndr) una pregiudizialità espressa per rendere inammissibile, per assenza di un presupposto di legge, la richiesta”: “questi detenuti potranno accedere ai benefici, a partire dal permesso premio, solo dopo la revoca o la mancata proroga del provvedimento del ministro”. Dietro i dissidi sulla riforma un riflesso conservatore di Massimo Franco Corriere della Sera, 20 aprile 2022 C’è un filo negativo che unisce le resistenze alla riforma della Guardasigilli, Marta Cartabia in materia di giustizia, e le polemiche sul ruolo dei servizi segreti ai tempi dei governi di Giuseppe Conte. E il filo di vicende del passato che si proiettano sulla maggioranza attuale, contribuendo a dame un’immagine litigiosa. E non sorprende che uno dei temi più divisivi sia quello della magistratura. Per paradosso, sulla legge in discussione in Parlamento si scaricano l’insoddisfazione parallela sia dei renziani, che si preparano all’astensione come, per altri motivi, il M5S; Sia dell’Anm, in “stato di agitazione permanente”. Sono segnali sconcertanti. Lasciano filtrare un conflitto sordo che confonde metodo e merito. Riflettono la difficoltà a trovare una mediazione su un tema che nei mesi scorsi ha offerto un quadro desolante dei rapporti all’interno degli organismi giudiziari; e costretto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come capo del Csm, a invocare con parole severe una riforma radicale, al momento della rielezione. Constatare adesso che l’ipotesi messa a punto dal ministro Cartabia e dal governo provoca perfino annunci di sciopero lascia perplessi. Anche perché l’Anm è la prima a riconoscere l’esigenza della riforma. Ma ne chiede una “diversa” sostenendo che quella in discussione guarderebbe “molto al passato”. L’aspetto singolare è che a contestarla per ragioni diverse è la formazione di Italia viva. Secondo il presidente Ettore Rosato, Cartabia avrebbe “ceduto all’ala giustizialista del Pd”; e mediato con chi “non voleva cambiare assolutamente nulla”. Eppure, il sospetto è che queste riserve siano lo schermo per velare una preferenza per lo status quo. Oltre tutto, messa così, la questione assume contorni ancora più confusi agli occhi dell’opinione pubblica. Ed evoca uno scontro dentro il potere giudiziario, del quale alcuni partiti si fanno portavoce. Ma il riferimento a una parte del Pd fa capire che sia in tema di giustizia, sia sui servizi segreti i contrasti incrociano il tema delle alleanze. Le critiche non nuove alla gestione controversa dell’intelligence quando il grillino Conte era premier evocano vicende opache. Ma dal punto di vista politico puntano a mettere in mora i rapporti tra il M5S e il partito di Enrico Letta alla vigilia delle Amministrative di giugno. Il tema, tuttavia, è più generale. Si conferma la difficoltà per Palazzo Chigi di indurre le forze politiche, ma anche altre esterne al Parlamento, a voltare pagina rispetto a riflessi conservatori radicati. 11 percorso tormentato della riforma della magistratura è emblematico. Un ordine giudiziario diviso e indebolito osserva con sospetto ogni ipotesi di cambiamento. Giustizia, l’intesa sul Csm (per ora) regge. I magistrati divisi sullo sciopero di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 20 aprile 2022 Pd, 5 Stelle, Forza Italia, Leu, Azione e Coraggio Italia non hanno presentato emendamenti. La Lega solo 3 sui temi referendari. Si punta all’approvazione giovedì. Resa dei conti al Senato. Ventidue ore di dibattito e giovedì il voto. Tiene, al debutto in Aula, il patto di maggioranza sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: modifiche solo all’unanimità. Per far presto Pd, Cinque Stelle, Forza Italia, Leu, Azione e Coraggio Italia non hanno presentato emendamenti. La Lega solo 3 sui temi referendari. Restano i 170 di Fratelli d’Italia, i 40 degli ex M5S di Alternativa e i 50 di Italia viva che si asterrà sul voto finale della riforma definita “inutile”. Anche i Cinque Stelle sulla parte relativa alla separazione delle funzioni, dopo aver tuonato nei giorni scorsi, si asterranno. Del resto nessuno sembra pienamente contento di questa riforma, ma c’è voglia di chiuderla qui. E riparlarne in seguito. Al Senato, dove i numeri consentono geometrie diverse. O dopo, perché si tratta di una legge delega da riempire di contenuti. È questo che aiuta a condividere intenti come “proviamo a rendere più civile e moderna, più europea, la giustizia italiana”, che il relatore dem Valter Verini enuncia. Ma è anche ciò che genera maggiore ansia tra le toghe. Preoccupate che soprattutto la parte relativa alla valutazione possa peggiorare. Tuttavia anche nell’Anm, sul “dissenso”, ha prevalso la “ricerca di un dialogo”. È per questo che il Comitato direttivo centrale non ha convocato lo sciopero dei magistrati. “C’è un atteggiamento di disagio ma non di chiusura autoreferenziale” ha detto il presidente Giuseppe Santalucia, riferendo che i magistrati optano per la “ricerca di un dialogo prima di adottare forme di proteste radicali”. Anche loro sperano in un una “discussione più ampia al Senato”. Intanto si faranno iniziative divulgative. Martedì, tra le altre, è stata proposta una “notte bianca sulla riforma dell’ordinamento giudiziario” con magistrati, giornalisti, giuristi ed esponenti della società civile invitati nei distretti giudiziari a discutere di questi temi. All’assemblea generale straordinaria, convocata il 30 aprile, è stata demandato di deliberare su ogni forma di protesta “compresa la proclamazione di una giornata di astensione”. Allo sciopero si era vicinissimi. Le chat dei magistrati si erano accese in questi giorni di dure critiche alla riforma. “Stravolgerà completamente e definitivamente l’assetto istituzionale”. “Segnerà la fine della magistratura intesa come baluardo di democrazia e uguaglianza”. “Si vuole una magistratura gerarchizzata, burocratizzata e impaurita, che deve giustificare le proprie scelte”. Polemiche risuonate nella conferenza stampa dell’Anm. Soprattutto sul fascicolo di valutazione del magistrato: “Il giudice è soggetto solo alla legge. La riforma è incentrata solo sulle statistiche e questo non va bene”, aveva attaccato il segretario Salvatore Casciaro. “Il problema non è la produttività dei magistrati, fra le prime in Ue, ma la durata del processo. E qui non c’è una norma che possa ridurla di un giorno. Invece si aumenta a dismisura il controllo” aveva denunciato il vicesegretario Italo Federici. Ma le polemiche in chat investono anche il nuovo sistema di elezione del Csm, ideato per eliminare lo strapotere delle correnti all’origine delle nomine pilotate e del caso Palamara. Obiettivo capovolto anche secondo il Centro studi Livatino, che sintetizza il fallimento in un calembour: “Carta bianca alle correnti”. Csm, la politica sfida le toghe: l’accordo di maggioranza regge di Simona Musco Il Dubbio, 20 aprile 2022 Al via i lavori alla Camera sulla riforma: mantenuto il patto tra i partiti. La Lega rilancia i referendum, da Italia Viva 55 emendamenti. Niente fiducia e voto entro giovedì pomeriggio. È questo l’obiettivo della maggioranza, che supera dunque indenne il primo round sulla riforma del Csm, dopo l’accordo raggiunto oggi nel corso della riunione dei gruppi con i ministri Marta Cartabia e Federico D’Incà. Riunione durante la quale ha tenuto il patto siglato in Commissione Giustizia ed evitato la pioggia di emendamenti ipotizzati alla vigilia. Nessuna proposta di modifica, dunque, da parte di Pd, Azione, LeU, Forza Italia e M5S. I grillini hanno però già annunciato l’astensione sul punto che riguarda la separazione delle funzioni, per il quale avrebbero gradito una modifica per alzare da uno a due i passaggi, come previsto dal testo Bonafede. Forza Italia ha invece deciso di attenersi alle indicazioni del governo, votando contro le cinque proposte emendative presentate dalla Lega, che ricalcano i quesiti referendari. “Speriamo che il testo sul quale è stato trovato l’accordo in Commissione regga in aula - ha commentato al Dubbio il deputato forzista Pierantonio Zanettin - che non è il massimo, ma rappresenta un punto di equilibrio”. Due proposte verranno presentate anche dal governo, ma si tratta di piccoli correttivi che Cartabia è pronta a ritirare, qualora i partiti non fossero d’accordo. Un emendamento specifica dunque che i fuori ruolo che a fine mandato finiranno all’avvocatura dello Stato non potranno ricoprire incarichi dirigenziali, mentre il secondo è stato formulato per andare incontro alle esigenze degli uffici giudiziari del Sud, dove è alto il turn over dei magistrati, con l’ipotesi di innalzare di un anno la permanenza nella prima sede. Ma sul piatto ci sono ben 55 emendamenti presentati da Italia Viva, che ha già annunciato la propria astensione in aula, sostenendo l’assoluta inefficacia della riforma. L’intento dei deputati renziani è di introdurre modifiche sul sistema elettorale, riproponendo il sorteggio temperato e, in alternativa, il sistema suggerito dalla commissione Luciani, ovvero il voto singolo trasferibile. Ma tra le proposte ve ne sono alcune sulle porte girevoli, con la richiesta di evitare disparità di trattamento fra magistrati fuori ruolo; sulla separazione delle funzioni, riproponendo lo stesso approccio del quesito referendario; la responsabilità diretta dei magistrati e altri più specifici relativi al numero massimo di fuori ruolo, la doppia indennità, la durata del periodo fuori ruolo eccetera. L’atteggiamento dei renziani, però, non impensierisce il governo. “Non vedo segnali di fibrillazioni tali da mettere a rischio un provvedimento di cui il Paese ha bisogno”, ha commentato il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Ovvero: la maggioranza è solida. E consapevole che non si tratta di una riforma epocale, ma comunque di un primo passo. Proprio per questo viene rispedita al mittente l’accusa che si tratti di una riforma punitiva, così come sostiene l’Anm. Concetto ribadito Walter Verini (Pd), relatore di maggioranza assieme al grillino Eugenio Saitta, secondo cui la riforma, lungi dall’essere un attacco alle toghe, rappresenta un tentativo di “guardare al futuro, provando a rendere più civile e moderna la giustizia italiana”. La scommessa è quella “di un sistema giudiziario più rispettoso dei principi costituzionali”, compresa la presunzione d’innocenza, ma anche quella di aiutare la magistratura a “recuperare credibilità e autorevolezza”, persa a causa dello scandalo Palamara deflagrato ormai tre anni fa. Da qui l’appello ad evitare lo sciopero acclamato nei giorni scorsi “dalla base” dei gruppi associati. “Oggi più che mai - ha evidenziato Verini - non condividiamo toni e contenuti di un dissenso così radicale”. E se è vero che qualcuno avrebbe voluto approfittare della riforma per “regolare qualche conto” con la magistratura in questa “guerra dei 30 anni”, la politica, ha assicurato, non si è mossa in questo senso, anche perché tutti i “rischi” sono stati sventati. Ovvero il sorteggio, che avrebbe significato affermare che “la magistratura non è in grado di saper scegliere i più adatti”, ma anche la responsabilità civile diretta, “che per qualcuno avrebbe potuto rappresentare un limite serio all’esercizio dell’azione penale”, o l’azzeramento del passaggio di funzioni in vista di una radicale separazione delle carriere, “posizioni legittime, per noi non condivisibili, perché la cultura della giurisdizione, tutta l’esperienza requirente e giudicante, arricchisce, rende più completo il punto di vista di un magistrato”. L’equilibrio trovato, dunque, “è accettabile per tutti”. Anche perché le nuove norme “premieranno, nelle carriere, il merito”, senza più automatismi dannosi. E lo stesso fascicolo del magistrato, tasto dolente per le toghe, “rappresenta per noi uno stimolo a valutazioni sempre più fondate sulla professionalità” e non una “schedatura”. Ma il grande successo, ha evidenziato, è anche “la possibilità data all’avvocatura di esprimere con il voto una valutazione dentro i consigli giudiziari”. Proposta che non va guardata con timore, ha sottolineato, ma come possibilità di arricchimento “dei punti di vista e della collaborazione tra le componenti fondamentali della giurisdizione”, dal momento che “l’avvocatura, come è stato sottolineato, non è certo un ospite nella casa della Giustizia”. A criticare la riforma ci ha pensato la relatrice di minoranza, la deputata di Fratelli d’Italia Carolina Varchi. Che ha, innanzitutto, bocciato l’iter dei lavori, che ha “mortificato il dibattito parlamentare”, e poi ha condannato l’atteggiamento dell’Anm, di fatto definito un attentato all’assetto costituzionale, mirando ad eludere il “principio liberale della separazione dei poteri”. Ma è soprattutto il testo a non funzionare, secondo, la deputata, a partire dal sistema elettorale, che garantirebbe, a suo dire, lo strapotere delle correnti. Il dato positivo è il ruolo attribuito agli avvocati, un primo passo “per l’effettivo riconoscimento che naturalmente passa per la tutela in Costituzione. Critico anche Catello Vitiello, di Italia Viva, secondo cui la riforma non sarebbe in grado di correggere le degenerazioni, determinate non dalla politica all’interno del sistema, ma dalla “magistratura che fa politica fuori dal sistema giudiziario”, che “serve al singolo magistrato, non serve alla funzione”. Aspetto che secondo Vitiello la riforma non risolve. E a rincarare la dose è stato il collega di Iv Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa, che ha definito “inutile” il testo Cartabia. “Non si è avuto il coraggio di risolvere i reali problemi della giustizia - ha sottolineato -. Non si comprende perché la ministra abbia scelto la via del non cambiamento, tutelando i privilegi come le doppie indennità per i magistrati apicali nei ministeri, e incentivando il carrierismo anziché valorizzare il magistrato silenzioso e fuori dalle correnti. È stata persa una grande occasione per la politica, ma anche per i cittadini e per la stessa magistratura che chiedeva rinnovamento”. Giustizia, 220 emendamenti alla riforma del Csm di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 20 aprile 2022 Lega propone il sorteggio temperato. Anm vota lo sciopero. Da FdI 120 richieste di modifica, 55 da Italia viva. M5S conferma l’astensione sul passaggio delle funzioni, ma vota sì alla riforma per la “svolta storica” sulle porte girevoli. Domani seduta notturna. L’ex presidente Anm Poniz: “Riforma orrenda, pre-costituzionale, con un linguaggio postribolare sul fascicolo”. Pioggia di emendamenti sulla riforma del Csm che da domani pomeriggio alle 16 e trenta è in aula alla Camera. Saranno 220 le richieste di modifica, ben 120 da Fratelli d’Italia, 40 dagli ex grillini di Altermativa c’è, 55 di Italia viva, 3 da Giusi Bartolozzi, magistrato ex forzista ora nel gruppo misto. Ma sono 5, di cui due già dichiarati inammissibili, gli emendamenti della Lega. Bocciati i due sulla legge Severino e sulla custodia cautelare (perché fuori della materia della riforma sul Csm), restano i tre sulla netta separazione delle carriere, sulla responsabilità civile diretta, e sul sorteggio temperato come legge elettorale. Quest’ultimo emendamento è condiviso anche da FdI. Dunque la responsabile Giustizia del Carroccio Giulia Bongiorno mantiene la parola. Delusa per come è stata cambiata la sua proposta sul sorteggio dei collegi - “è diventata una ex Bongiorno” - divenuto sorteggio dei distretti, ma con una formula troppo blanda, la Lega rilancia con il sorteggio dei candidati togati, su cui poi i giudici italiani dovrebbero votare. In queste ore è in corso alla Camera una riunione per organizzare i lavori poiché saranno ben 270 i voti da fare, i 220 emendamenti a cui si aggiungono i 43 articoli della legge. È già certa una seduta notturna con alle 24 tra mercoledì e giovedì. Ma anche giovedì i lavori potrebbero andare per le lunghe per le dichiarazioni di voto e il voto sugli ordini del giorno. Negli stessi minuti il “parlamentino” dell’Anm ha affrontato la decisione sullo sciopero su una riforma di cui il presidente Giuseppe Santalucia ha parlato così: “Siamo in continuità con le peggiori leggi. E si sta cambiando l’assetto della Costituzione senza guardare in faccia la Costituzione”. E l’ex presidente, e pm a Milano Luca Poniz, della sinistra di Area come Santalucia, aderendo a una protesta dura, stasera l’ha definita “una riforma orrenda, pre-costituzionale, con un linguaggio postribolare sul fascicolo”. Il documento dell’Anm - votato da tutte le correnti con 35 sì e un astenuto, e i 4 no di Articolo 101, gruppo all’opposizione della giunta Anm - demanda all’assemblea generale delle toghe, che si terrà il 30 aprile, “di deliberare su ogni efficace forma di protesta, ivi compresa la proclamazione di una giornata di astensione dall’attività giudiziaria”. Nonché una notte bianca sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, a cui invitare anche i responsabili giustizia dei partiti. E della riforma parla così: “Una legge annunciata per combattere il correntismo è diventata una legge per intimidire i magistrati”. Alla Camera, di mattina, in una riunione convocata dal ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, con i capigruppo della maggioranza, era stato deciso di rinunciare agli emendamenti. Ma la Lega ha mantenuto i suoi, mentre ha rinunciato M5S che ne voleva presentare uno sulla separazione delle funzioni. Ma si asterrà sulla riduzione a un solo passaggio da pm a giudice e viceversa. Posizione che Valentina D’Orso, vicepresidente del gruppo M5S alla Camera, ed Eugenio Saitta, capogruppo in commissione Giustizia e relatore della riforma assieme al Dem Walter Verini, a sera motivano così: “La riforma del Csm segna una svolta storica con il definitivo stop alle cosiddette ‘porte girevoli’ tra magistratura e politica. Un risultato che il M5S ha perseguito da sempre e ottenuto con grande impegno”. Ma, aggiunge M5S, questa non è esattamente la riforma dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, per cui “raccogliendo l’invito del presidente Mattarella, abbiamo confermato alla Guardasigilli Marta Cartabia il nostro senso di responsabilità. E per questo, a differenza di altre forze politiche che compongono l’attuale maggioranza, da parte nostra non saranno presentati emendamenti”. Ma il M5S si asterrà sul passaggio delle funzioni ridotto a uno solo che “per la nostra sensibilità rischia di minare l’indipendenza del magistrato”. A Forza Italia è stato espressamente chiesto di non votare gli emendamenti della Lega, che pure sono in sintonia con quanto i berlusconiani hanno sempre sostenuto, ma di attenersi ai pareri contrari espressi dal governo. Dalla Guardasigilli Marta Cartabia arriveranno un paio di modifiche tecniche sull’avvocatura. E l’Anm frena: per ora niente sciopero. “Ma non ci stiamo a farci intimidire” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 aprile 2022 Il presidente Santalucia: “Sarebbe l’extrema ratio, ma non possiamo tacere sulle storture della riforma”. Nessuno sciopero dell’Anm contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, almeno per adesso. Mentre andiamo in stampa, il Comitato direttivo centrale è ancora in corso ma, da quanto apprendiamo, molto probabilmente rimanderà la decisione all’Assemblea generale del 30 aprile. Dunque per ora l’iniziativa è congelata, ma considerando che il Governo e la maggioranza puntano ad approvare il testo alla Camera, senza porre la fiducia, già domani pomeriggio, lo sciopero dopo il 30 aprile sarebbe inutile, considerato che la partita decisiva si sta giocando in queste ore e che in Senato dovrebbe filare tutto liscio. E allora perché intraprendere questo complicato percorso di scontro proprio all’ultimo miglio? Forse l’insofferenza della base è cresciuta, forse, come ha detto Luciano Violante, ci si prepara alla campagna elettorale per il nuovo Csm. Sono solo ipotesi, mentre le ragioni ufficiali sono state enunciate ieri nella conferenza stampa convocata proprio dalla Giunta dell’Anm. “Abbiamo bisogno di comunicare e far comprendere all’esterno quali sono le ragioni del disagio della magistratura su alcuni punti della riforma - ha detto in apertura il presidente Giuseppe Santalucia. Non vogliamo apparire una casta che si chiude al suo interno, che protesta e si oppone alla riforma, ma vogliamo che questa conferenza segni una tappa all’interno di un percorso di confronto e di dialogo che abbiamo già iniziato da tempo prima con il ministro della Giustizia Cartabia, poi con la Commissione giustizia, che ci ha sentiti in sede di audizione”. Contemporaneamente non vogliono però avere magistrati intimoriti: “Siamo consapevoli della necessità di una riforma - ha proseguito Santalucia -, degli ambiziosissimi piani del Pnrr, ma ne serve una diversa rispetto a quella all’esame del Parlamento. Questa guarda al passato, crea una struttura sempre più gerarchica, accentra poteri e utilizza l’aspetto disciplinare per controllare i magistrati, impaurirli nel loro delicatissimo compito, relegandoli a un ruolo impiegatizio”. E le toghe respingono fortemente quello che hanno definito un vero e proprio ‘dossieraggio’ attraverso il fascicolo professionale, quello cosiddetto di performance, che rappresenta una delle maggiori criticità della riforma e che porta la firma del deputato di Azione Enrico Costa. Su questo, tra gli altri, si è espresso il Segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro: “È la logica di fondo di questa riforma che noi riteniamo sbagliata. Il giudice è soggetto solo alla legge. Questa riforma è incentrata esclusivamente sulle statistiche e questo non va bene. Istituire un fascicolo delle performance è sbagliato, la verità processuale non è precostituita, ma si forma faticosamente nella dialettica delle parti”. Durante la conferenza abbiamo chiesto quale fosse stata la proposta dell’Anm sul piano delle valutazioni di professionalità, considerato che è chiaro a tutti che un problema esiste e che cioè in questi anni, a parità di curriculum, è subentrato l’arbitrio delle correnti, ma ci è stato semplicemente risposto che il fascicolo esiste già. E questo è uno degli aspetti più critici emersi da una lettera che Magistratura Democratica ha indirizzato proprio a Santalucia mentre era in corso la conferenza stampa. Il gruppo associativo guidato da Stefano Musolino scrive: “L’idea di enfatizzare, nella valutazione di professionalità, il tasso di conferme ottenute dalla decisione nei successivi gradi di giudizio alimenterà il conformismo giudiziario e disegnerà l’immagine di una magistratura piramidale”. Ma aggiunge che “l’azione dell’Anm, nel contesto della riforma, ci è apparsa intempestiva, timida ed incapace di proposte idonee a dimostrare l’assunzione di responsabilità per la crisi, avendo privilegiato la conservazione dell’esistente, senza alcuna apertura al nuovo. Sulle valutazioni di professionalità, poi, le proposte sono state tutte orientate ad una chiusura corporativa, incapace di una sana autocritica, ma anche di spiegare le ragioni di senso del sistema di valutazione dei magistrati. L’esito della gara in cui molti gruppi sono stati impegnati per rassicurare le paure della corporazione hanno determinato l’incapacità dell’Anm di essere riconosciuta come interlocutrice credibile, venendo, sostanzialmente, ignorata al tavolo del confronto con il decisore politico”. Un attacco durissimo da parte di Md che complica già un quadro difficile per il sindacato delle toghe, alle prese con una riforma ritenuta punitiva e una insoddisfazione soprattutto tra i giovani magistrati. Uno sciopero, e quindi uno scontro istituzionale tra potere giudiziario e potere legislativo, probabilmente peggiorerebbe la situazione. Forse per questo - ma la nostra è una impressione, perché è stato davvero complesso decifrare le vere intenzioni dell’Anm durante la conferenza stampa - si è ancora preso tempo per pensare. Anche se sinceramente ci saremmo aspettati o una anticipazione della decisione dello sciopero che lo stesso Santalucia aveva detto non essere più rinviabile in una recentissima intervista o di essere convocati a decisione già presa. Così non è stato, e ci ha aiutato sempre il Consigliere Santalucia a capire: “Lo sciopero è una delle forme di protesta, una drammatizzazione forte del dissenso ma noi oggi (ieri, ndr) stiamo cercando di comunicare le buone ragioni della nostra protesta. Auspico che non si debba arrivare a questa forma di protesta, ma non sono qui a fare il profeta. Non sono in grado di dire se la decisione arriverà oggi (ieri, ndr) o all’assemblea generale dei soci convocata per il 30 aprile”. A margine della conferenza abbiamo chiesto al presidente Santalucia cosa ne pensasse di quanto scritto dal professore Giovanni Guzzetta sul nostro giornale ieri, che si è chiesto se lo sciopero ‘ politico’ dell’Anm sia davvero legittimo in una cornice costituzionale. Ci ha risposto così: “Noi non abbiamo intenzione di fare uno sciopero politico. Non so se ci sarà lo sciopero, lo decideranno gli organi direttivi. Lo sciopero sarebbe l’estrema punta per rappresentare le ragioni che sono tutte istituzionali e non di tipo politico. Sarebbe un modo per rappresentare al decisore politico che ci sono alcuni elementi di questa riforma che vanno nella direzione esattamente contraria rispetto all’obiettivo da perseguire. Ora vedremo, ragioneremo. Quello che posso dire è che c’è forte preoccupazione, forte malessere. Di questo occorre tener conto, al di là della collocazione dogmatica dello sciopero dei magistrati. Il problema è reale”. Ed esso si è manifestato dopo l’approvazione degli emendamenti l’11 febbraio in Consiglio dei ministri: “Quel testo era criticabile - ha concluso Santalucia - ma certamente non aveva le asperità e i peggioramenti arrivati successivamente”. Riforma della giustizia, Magistratura democratica si sfila dallo sciopero e critica l’Anm di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 20 aprile 2022 L’obiettivo emerso dalla riunione tra i ministri della Giustizia Marta Cartabia e dei Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà con i responsabili giustizia dei partiti di maggioranza è arrivare all’approvazione già giovedì pomeriggio. La riforma del Csm, sia pure a fatica, avanza. La discussione generale è in corso alla Camera e l’accordo di maggioranza sembra tenere, nel senso di non zavorrarla di ulteriori emendamenti che si tradurrebbero nell’ennesimo fuoco (amico?) incrociato. Come ampiamente annunciato, e ribadito in aula da Cosimo Ferri con un intervento molto polemico, solo Italia Viva dovrebbe astenersi tra i partiti che sostengono il governo Draghi. Ma si tratta di una scelta che non mette a rischio l’approvazione della riforma. L’obiettivo emerso dalla riunione tra i ministri della Giustizia Marta Cartabia e dei Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà con i responsabili giustizia dei partiti di maggioranza è arrivare all’approvazione già giovedì pomeriggio, senza che il governo ricorra alla fiducia. Il fattore tempo è determinante: la riforma dovrà poi passare al Senato e, una volta approvata definitivamente, tornare al ministero per le norme attuative, necessarie per poter rinnovare il Csm (in scadenza) con il nuovo sistema elettorale. Contemporaneamente, l’Associazione nazionale magistrati riunisce il suo comitato direttivo, per decidere le forme di protesta contro una riforma che scontenta la stragrande maggioranza delle toghe. “Quella di oggi non è una pressione sul potere politico, ma anzi un momento di alta democrazia. Lo sciopero è uno degli strumenti di protesta, sicuramente forte, spero non si debba arrivare a questo, perché spero che alcune parti della riforma possano essere attenuate”, dice il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Ma sorpresa si leva una voce contraria allo sciopero da parte della storica componente progressista, Magistratura Democratica. Con una lettera riservata recapitata questa mattina al presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, Magistratura Democratica non lesina critiche alla riforma, “inadeguata a incidere sulle patologie emerse” con il caso Palamara “che hanno messo in discussione la nostra credibilità”. In particolare, destano “preoccupazione” l’ispirazione a una “malintesa idea di meritocrazia degenerata in carrierismo e la tendenza a rafforzare gli elementi di gerarchia interni” tra capi degli uffici e magistrati semplici. La lettera si sofferma anche sul sistema elettorale maggioritario “che sgancia i candidati dal territorio in cui possono aver dimostrato la loro credibilità e garantisce a pochi centri decisionali la possibilità di governare l’elettorato”; sulla separazione delle funzioni “che è in frizione con il dettato costituzionale” e schiaccia il pubblico ministero “in una dimensione esclusivamente accusatoria” e antigarantista; sulle valutazioni di professionalità “che rischiano di arretrare la cultura dei magistrati” in chiave conformista e piramidale. Fin qui si tratta di posizioni largamente condivise. Ma Md critica anche l’Anm, “la cui azione ci è apparsa intempestiva, priva di una sana autocritica, timida e incapace di proposte, avendo privilegiato la conservazione dell’esistente”, il che l’ha resa irrilevante nel dialogo con governo e parlamento. E si sgancia da altre correnti nella valutazione sulla strategia, temendo che lo sciopero suoni come “una difesa corporativa del nostro status” laddove “la riforma danneggia soprattutto i cittadini”. Prossimi referendum a rischio. Si voterà solo la domenica e non anche il giorno dopo di Cesare Maffi Italia Oggi, 20 aprile 2022 Per il 12 giugno molti ritengono che non si riesca a ottenere la maggioranza dei votanti. La politica interna è compressa dalla guerra in maniera abnorme, giustificata se non altro dalle minacce economiche conseguenti. Fra i temi trascurati nella comunicazione rientrano le elezioni comunali, che altrimenti avrebbero trovato ben altra accoglienza, vuoi per l’estensione (un migliaio di comuni, fra i quali 26 capoluoghi provinciali), vuoi per l’imminenza (mancano meno di due mesi al primo turno), vuoi per l’odierna e faticosa ricerca di candidati e firme (in entrambi gli schieramenti e fra gli estranei), vuoi per la successiva campagna elettorale. Ancor più si capisce perché l’attenzione sui referendum sia scarsa o quasi nulla. Il 12 giugno, difatti, sono previsti cinque appuntamenti referendari. Ufficialmente sono proposti da vari consigli regionali retti dal centro-destra; alle spalle, tuttavia, sta in origine l’accordo fra Lega e radicali per raccogliere le sottoscrizioni, in modi e completezza rimasti ignoti. I due partiti puntavano a sopprimere le firme per i magistrati candidati al Csm; a ridurre la custodia cautelare; a separare le funzioni fra giudici e pubblici ministeri; ad abrogare la legge Severino, che, di là delle non poche e scarsamente encomiabili disposizioni, rimane legata a un evento storicamente straordinario, quale la cacciata di Silvio Berlusconi dal Senato; a valutare la professionalità dei magistrati da parte degli avvocati. I temi, come si comprende, non sono di scarso rilievo e, in linea puramente teorica, potrebbero richiamare al voto favorevole la maggioranza di chi si esprime. Occorre però che alle urne si rechi la metà più uno degli iscritti al voto, fatto più che ostico. Varie formazioni giudicano irraggiungibile il quorum di presenti. I motivi abbondano. Riesce difficile far comprendere quesiti in sé astrusi. La loro presentazione non sempre pare accetta ai cittadini, tanto che i promotori hanno fatto ricorso a un’etichetta unica: la giustizia giusta. La riduzione della partecipazione al voto alla sola giornata di domenica rappresenta un altro ostacolo. Formalmente essa è corretta, perché risponde a leggi non sempre rispettate, come avvenne di recente per proseguire l’apertura dei seggi a causa del morbo. Ci sono stati partiti, come la Lega e Fi, che si sono fatti avanti chiedendo che le sezioni elettorali funzionino pure il lunedì, senza però ottenere finora riscontro. Per disposizioni simili, di solito ottenute tramite un decreto-legge, occorre un’estesissima adesione fra i partiti, per non dire l’unanimità. Orbene, accanto a chi si è dichiarato favorevole ai referendum, da Fi a Iv, dal Carroccio ad Azione a settori del centro-sinistra, altri hanno dimostrato scarsa attenzione. Nel centro-destra Giorgia Meloni si è estraniata da due referendum, ossia Severino e custodia cautelare, e sugli altri si è ben guardata dall’impegnarsi: sono temi voluti da un diretto concorrente, quale Matteo Salvini. Proprio il Capitano è parso di recente ostico a prendere partito vibrante sui referendum: a che gli servirebbe muoversi, se poi la partecipazione fosse insufficiente? Meglio per lui impegnarsi nelle elezioni comunali, visto il regresso che i sondaggi segnalano per il Carroccio dal giorno in cui per sua sventura abbandonò l’esecutivo. Si prospetta un’altra considerazione. Le Camere potrebbero approvare la riforma della giustizia che prende nome dalla ministra Marta Cartabia e quindi adottare modifiche legislative che renderebbero inammissibile il ricorso alle urne referendarie. Non basterebbe, tuttavia, qualche previsione di legge delega, perché sarebbe indispensabile uno specifico articolato con immediata entrata in vigore. Tutto è possibile, tant’è che il democratico Walter Verini ha fatto riferimento a tre referendum di matrice leghista che potrebbero essere annullati per interventi parlamentari. Si noti come, tolto un pugno di addetti ai lavori, di tali consultazioni poco si parli: la scarsa conoscenza e peggio ancora l’ignoranza non favoriscono la presenza alle urne. Potrebbe finire che a votare vadano essenzialmente quanti devono rinnovare sindaco e consiglio comunale. Siccome l’astensionismo è elevato, addirittura per istituzioni vicine ai cittadini come queste, i referendum riceverebbero scarso sostegno dalle contemporanee votazioni amministrative. Si è più volte affermato che l’esclusione, da parte della Corte costituzionale, di referendum più appetibili, come la responsabilità dei magistrati e soprattutto la cannabis e l’eutanasia (per usare il termine corrente, che la Consulta ha respinto), abbia limitato ancor più il referendario. Come più volte è occorso, un argomento di forte presa oggetto di un referendum favorisce una maggior presenza pure su altre consultazioni referendarie di minor richiamo popolare. Resistere agli assalti delle toghe poi farà giustizia il referendum di Tiziana Maiolo Il Riformista, 20 aprile 2022 Il Parlamento è chiamato a tenere duro contro le minacce della magistratura. In attesa dei quesiti, che seppure mutilati da Amato, possono dare finalmente uno scossone a questa Repubblica giudiziaria. Coraggio, che sono tornate le lucciole. Quel che ci vuole ora è l’ardire da parte del Parlamento a tener duro con la sua piccola riforma di giustizia che manda un segnale al Partito dei pm: le leggi sulla giustizia le facciamo noi. Punto. Anche la piccola riforma Cartabia è una lucciola nel buio della Repubblica giudiziaria. E ci vorrà poi, il prossimo 12 giugno, il coraggio dei cittadini ad andare alle urne e mettere una bella croce sul SÌ ai referendum sulla giustizia. E allora le lucciole saranno tante. Certo, non è e non sarà facile. I bastoni tra le ruote dello Stato di diritto e della stessa democrazia sono molti, e sono in gran parte nelle mani degli uomini in toga, del loro sindacato e dei loro rappresentanti più significativi. Ma non solo. Che dire del governo che ha fissato in una sola giornata, la domenica, le elezioni amministrative e i referendum sulla giustizia, pur sapendo che in quella data le scuole sono chiuse e per molti sono già cominciate le vacanze? Certo, bisognerebbe esser tutti militanti e appassionati e affamati di diritti civili, per dare la priorità, rispetto ad altre esigenze di tipo familiare, al diritto-dovere di voto. Sappiamo che non è così, e anche che il mondo della politica negli ultimi anni non ha certo dato di sé un’immagine tale da incoraggiare alte percentuali di cittadini a correre festanti alle urne. Possiamo aggiungere che la Corte costituzionale e in particolare il presidente Giuliano Amato, nella decisione dello scorso 15 febbraio, con un’abile operazione di chirurgia politica, hanno disincentivato la corsa al voto, decapitando i quesiti più popolari, quelli non solo di più facile comprensione, ma anche maggiormente oggetto di discussione. Ci si sarebbe divisi tra i SÌ e i NO sull’eutanasia e sulla legalizzazione della cannabis, e persino sulla responsabilità civile dei magistrati che sbagliano, ma ci si sarebbe accaniti dentro alle urne, non fuori, magari su una spiaggia. Aveva promesso che non avrebbe cercato il pelo nell’uovo nella sua decisione, il presidente Amato. È stato così, infatti l’uovo lo ha buttato via tutto intero. Parliamo dell’omaggio alla Chiesa e al mondo del proibizionismo. Ma soprattutto della responsabilità dei magistrati, esclusa con una motivazione di lana caprina, senza che si sia tenuto conto di quei numeri di ingiustizia da brivido. Soltanto per l’ingiusta detenzione, ogni anno lo Stato risarcisce mille persone con 27 milioni di euro. E, se consideriamo la tirchieria e la pretestuosità con cui tanti che avevano subito ingiustamente la tortura della custodia cautelare in carcere sono stati esclusi dal risarcimento (magari perché nel primo interrogatorio non avevano risposto al giudice), possiamo tranquillamente raddoppiare il numero delle ingiustizie. Ma ancora una volta quelli che indossano la toga dalla parte “giusta”, quelli che troppo spesso hanno l’unico merito di aver vinto un concorso, saranno quelli che non pagano mai per i propri errori. Ammesso che siano sempre e solo errori. Eppure sono gli stessi che si lamentano in continuazione. Non saranno chiamati a rispondere dei propri atti in sede di voto referendario, ma non tollerano neppure di essere giudicati per il loro lavoro. Così il famoso fascicolo del magistrato previsto dalla riforma Cartabia, quello che darà trasparenza all’attività quotidiana di ogni giudice e pubblico ministero, è visto dalle toghe (e anche da prestigiosi ex procuratori come Giancarlo Caselli) come un insulto, un affronto alla loro dignità. O addirittura una schedatura di polizia, un assalto della Gestapo. Un’offesa è considerato poi anche il solo nominare la possibilità di separare le carriere tra chi accusa e chi giudica. Come se nella gran parte dei Paesi liberali dell’Occidente non fosse già così. Ma neppure la timidissima distinzione tra le funzioni, pur all’interno dello stesso percorso di carriera, va bene. Né quello previsto dalla piccola riforma Cartabia, in discussione in queste ore alla Camera, che consente un solo salto della quaglia nel corso della carriera, né men che meno l’oggetto del referendum, che impone una scelta definitiva di ruolo. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che vuole portare le toghe a scioperare (e magari, perché no, a marciare su Montecitorio in segno di protesta) contro questa minaccia, è arrivato a dire che il giudice più garantista è quello che prima ha fatto il pm. Forse perché è saturo di ingiustizie e nefandezze, dopo averne viste, e magari fatte, così tante. Non manca certo il coraggio, e anche un ben po’ di faccia tosta, dopo lo scandalo del “Sistema”, alle toghe militanti. Anche per questo, adesso il coraggio tocca a noi. A noi che in certi articoli della Costituzione, come quello sul giusto processo, crediamo davvero. E anche nella politica dei piccoli passi, a patto però che abbia dentro di sé le qualità per diventare poi una vera svolta, una rivoluzione. Sarà vero che sono tornate le lucciole? Spangher: “La Corte di Giustizia della Ue ha sancito la fine del regime dei tabulati” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 aprile 2022 “Il nostro Parlamento dovrà modificare la disciplina sul modello delle intercettazioni”. La lotta a reati gravi non giustifica la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione riguardanti le comunicazioni elettroniche: lo ha stabilito il 5 aprile la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Questa sentenza, a cui gli Stati membri della Ue dovranno ora adeguarsi, arriva dopo quella del 2 marzo 2021, secondo la quale i dati telefonici e telematici possono essere acquisiti solo in procedimenti che riguardano reati gravi o minacce gravi e l’atto è subordinato all’autorizzazione di un giudice terzo. Il caso - È stata la Corte suprema irlandese a interrogare la Cgue nell’ambito di un procedimento civile promosso da una persona condannata nel 2015 all’ergastolo per l’omicidio di una donna. L’interessato ha contestato al giudice di primo grado di avere erroneamente ammesso come elementi di prova i dati relativi al traffico e i dati relativi all’ubicazione afferenti a chiamate telefoniche. La sentenza - La Corte di Giustizia, riunita in grande sezione, in primo luogo ha confermato “la propria costante giurisprudenza secondo la quale il diritto dell’Unione osta a misure legislative che prevedano, a titolo preventivo, la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione afferenti alle comunicazioni elettroniche, per finalità di lotta ai reati gravi”. In particolare la direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche sancisce, in particolare, il principio del divieto della memorizzazione dei dati relativi al traffico e all’ubicazione. La conservazione di tali dati costituisce quindi, da un lato, una deroga a tale divieto di memorizzazione e, dall’altro, un’ingerenza nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali, sanciti dagli articoli 7 e 8 della Carta” dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Inoltre “la criminalità, anche particolarmente grave, non può essere equiparata a una minaccia per la sicurezza nazionale”. È invece ammessa la conservazione mirata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione in funzione delle categorie di persone interessate o mediante un criterio geografico, la conservazione generalizzata e indifferenziata degli indirizzi Ip e dei dati relativi all’identità civile degli utenti di mezzi di comunicazione elettronica e la conservazione rapida dei dati relativi al traffico e di quelli relativi all’ubicazione. Tuttavia, la Corte precisa, poi, che tutte le summenzionate misure legislative devono garantire che la conservazione dei dati sia subordinata al rispetto delle relative condizioni sostanziali e procedurali e che le persone interessate dispongano di garanzie effettive contro il rischio di abusi. La Corte, in secondo luogo, ha ricordato che l’accesso delle autorità competenti ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione conservati deve essere subordinato ad un controllo preventivo da parte di un giudice o di un organo amministrativo indipendente. Infine, in terzo luogo, la Corte ha confermato “la propria giurisprudenza secondo cui il diritto dell’Unione osta a che un giudice nazionale limiti nel tempo gli effetti di una declaratoria di invalidità a esso spettante, in forza del diritto nazionale, nei confronti di una normativa nazionale che impone ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica la conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, a causa dell’incompatibilità di tale normativa con la direttiva “relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche”. Ciò premesso, la Corte ricorda che l’ammissibilità degli elementi di prova ottenuti mediante una siffatta conservazione, conformemente al principio di autonomia procedurale degli Stati membri, rientra nel diritto nazionale, fatto salvo il rispetto, in particolare, dei principi di equivalenza e di effettività. L’analisi - Per il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, “questa sentenza sancisce la fine del regime dei tabulati: bisognerà cambiare radicalmente la loro disciplina in Italia, sul modello delle intercettazioni, come riconosciuto dalla sentenza della Consulta 38/ 2019 in relazione all’art. 68 Cost. Anche i tabulati sono divenuti nel tempo strumenti molto invasivi in termini di riservatezza, privacy, geolocalizzazione e non è più possibile mantenere quella distinzione ontologica con le intercettazioni sancita con una sentenza della Corte Costituzionale del 1991”. Nel nostro Paese - ci spiega - “la conservazione dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione riguardanti le comunicazioni elettroniche è appunto indiscriminata, effettuata attraverso una pesca a strascico, estesa fino a sei anni, in chiave preventiva rispetto alla commissione di eventuali futuri reati. Questo scenario dovrà mutare perché non li si potrà utilizzare solo perché sono stati conservati, ma occorrerà porre dei limiti e rispondere a dei precisi criteri che il legislatore dovrà fornire nel solco di questa sentenza europea. Quindi ora il Parlamento dovrà elaborare una disciplina processuale ad hoc sui tabulati in cui specificare, in una prospettiva futura e non passata, le categorie di soggetti da proteggere e quelli di cui potranno essere forniti i dati (ad esempio indiziati di gravi reati o persone in procinto di commettere un grave reato), elementi oggettivi e non generici (indizi di colpevolezza di gravi reati già commessi o al fine di prevenire la commissione di gravi reati), il criterio geografico (la zona circostante la scena del delitto), il periodo limitato ma rinnovabile”, conclude Spangher. Sui Tribunali da riaprire il Senato eviti deleghe in bianco: nel 2012 fu un suicidio di Domenico Benedetti Valentini* Il Dubbio, 20 aprile 2022 Dall’avvocato ed ex senatore Benedetti Valentini un monito ai senatori in carica, impegnati a esaminare la nuova legge sulla geografia giudiziaria: non affidate tutto ai decreti attuativi di un futuro governo, c’è il rischio che ne approfitti per chiudere altre sedi. Così come ha sempre fatto in precedenza, Il Dubbio del 15 aprile ha dedicato attenzione al sempre delicato argomento della “geografia giudiziaria”, prendendo le mosse da più disegni di legge all’esame della commissione Giustizia del Senato, a cominciare dall’A.S. 2139 promosso dalla senatrice Felicia Gaudiano del M5S. Mi permetto brevi osservazioni - peraltro già riassunte in memoria del mio Ordine forense ai parlamentari interessati - per non altro titolo se non quello di aver approfondito come pochi il reticolo giudiziario italiano ed aver vissuto in prima persona da parlamentare il travaglio della revisione delle circoscrizioni del 2011-2012. L’intenzione della senatrice Gaudiano è assolutamente virtuosa e, mutato il clima culturale-politico, credo condivisa da molti attuali parlamentari di più schieramenti: prendere atto che il drastico e inesorabile “taglio” di 31 Tribunali, contemporaneamente a quello delle 220 Sezioni distaccate, non ha dato luogo ai mitici risparmi di spesa che venivano prospettati né ha migliorato, se non in pochi casi, la funzionalità della affannata macchina giudiziaria, mentre ha inferto un tremendo colpo a tante città e popolazioni, periferizzate sul piano istituzionale e sguarnite quanto a qualità e accessibilità del servizio fondamentale. Di qui la coraggiosa e positiva intenzione di promuovere la riattivazione di un certo numero di Tribunali con relative Procure, dettando criteri logistico-funzionali per la loro individuazione, integrativi di quelli stabiliti dalla legge delega 148/2011, utilizzati per i decreti attuativi 155 e 156/2012. Purtroppo lo strumento di una nuova legge delega di ampia portata, ipotizzato dalla proponente “in quanto l’esame parlamentare dovrebbe essere più semplice e snello”, è assolutamente sconsigliabile, così come hanno già efficacemente rilevato in discussione vari membri della cmmissione Giustizia, a cominciare dal presidente Ostellari. Quest’ultimo ha veracemente osservato che con la delega a raggio ampio il Parlamento, chiamato poi ad esprimere meri pareri di dimostrata scarsa incidenza sui decreti attuativi, perderebbe del tutto il controllo degli effetti. Non senza dire che la delega va assegnata ad un governo che nitidamente ne condivida movente e finalità (per esempio va dato atto che la rivalorizzazione della “giustizia prossimale” fu enunciata nel “Contratto di governo” M5S-Lega dopo le elezioni 2018). Oggi, per contro, verrebbe licenziata una delega, destinata ad essere attuata in tutt’altra legislatura e non sappiamo da quale governo! Ancor peggio, c’è il serio rischio che un Esecutivo presente o venturo, maneggiando a discrezione molti e assortiti “criteri”, utilizzi la delega per fini ed effetti largamente contrari a quelli auspicati dai promotori e comunque per aggravare la politica dei “tagli” del 2012, manomettendone invece quelli che furono gli interventi più sani in termini di riequilibrio e razionalizzazione. Il mio modesto ma non sprovveduto parere, con sincero rispetto delle singole proposte di legge (ve ne sono anche provenienti dai Consigli regionali) e soprattutto delle loro intenzioni, è pertanto sintetizzabile come segue. I) O si rimanda alla nuova imminente legislatura questo importante argomento (urgentissima è piuttosto un’ulteriore proroga per i quattro Tribunali abruzzesi a rischio); o va prima accertata la univoca e impegnativa intenzione del governo di deporre ogni volontà di nuove “chiusure” e assumere quella opposta di riattivazione ragionata di specifici presìdi circondariali soppressi. II) In tale ipotesi andrebbe elaborato, in comitato ristretto - ma con acquisizione di documentati pareri delle città e degli Ordini forensi, sia destinati ad incrementi sia a scorpori circondariali - un testo, non facile ma indispensabile, che individui le riattivazioni, risultanti da oggettivi parametri quantitativi, organizzativi e storico-culturali, conciliati con quelli logistici. III) Ove mai ci si “avventurasse” in una legge-delega, è da escludere la formula… suicida della generale “riorganizzazione della distribuzione territoriale degli uffici”. Essa vi è già stata nel 2012 e non va riaperta se non per interventi esplicitamente e tassativamente rivolti alle ricostituzioni, con scanditi criteri del tipo: riattivazione di Tribunali soppressi, rispondenti a ben specificate condizioni logistiche e dimensioni funzionali quantificate già sussistenti ovvero ottenibili con aggiunzioni demografico-territoriali; intangibilità delle sedi e consistenze dei Tribunali che nel 2012 sono già risultati dalla “prioritaria linea di intervento” della legge 148/2011 e D.lgsl. 155/2012 (riequilibrio territoriale, demografico e funzionale); possibilità di configurazione a polo circondariale integrato, civile e penale, di Tribunali soppressi e riattivabili, tra di loro o con altro finitimo sussistente dopo la revisione di cui al decr. lgsl. 155/2012. Il tutto, non dimentichiamolo, va percepito anche con sguardo lontano ad un futuro destino dei distretti d’Appello, per il quale parimenti occorre privilegiare il criterio del “riequilibrio” rispetto ad ogni ritornante pretesa accentrazionistica. *Già deputato e senatore delle commissioni Giustizia Caso Aldrovandi. “Su Federico manca un pezzo di verità” di Mauro Giordano Corriere di Bologna, 20 aprile 2022 “In merito alla morte di mio figlio continuo a pensare che non sia stata scritta tutta la verità. Resta per esempio irrisolto il perché quegli agenti di polizia abbiano agito in quel modo, qual era lo stato psicofisico nel quale operavano. E poi c’è stato chi ha ritenuto di non dover chiedere scusa”. Intervista a Lino Aldrovandi, mentre su Crime torna il caso di Federico in una serie dedicata ai genitori in cerca di giustizia. Era il 25 settembre 2005, Federico Aldrovandi, 18 anni, morì a Ferrara - stando a quanto stabilito dai processi - per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi” da parte di quattro poliziotti durante un controllo nel corso del quale morì soffocato a causa di una “asfissia posturale” dovuta allo schiacciamento al suolo da parte degli agenti. Le quattro puntate della miniserie “Nel nome del figlio” che da ieri sera tutti i martedì sono in esclusiva su Crime Investigation (canale 119 di Sky), sono storie di genitori che non si sono mai arresi alla morte, avvenuta spesso in circostanze misteriose e poco chiare, dei loro figli. Tra loro c’è Lino Aldrovandi, perché “Senza respiro” è stato il titolo della prima puntata. Aldrovandi quali sono le risposte che mancano? “Ci atteniamo agli atti processuali. Con questo lavoro cerchiamo che cosa non è andato nelle indagini iniziali e anche dopo. E poi resta sempre il grande dubbio su perché sia stato ritenuto un omicidio colposo e non preterintenzionale come minimo”. Nacque l’associazione Federico Aldrovandi, ma nel 2019 le attività si sono fermate... “Sì, soprattutto mia moglie Patrizia alla fine era molto stanca. È stata una vicenda dolorosa e con strascichi personali, ci siamo anche separati ma continuiamo a essere in ottimi rapporti. Si è creato per esempio un legame con Ilaria Cucchi e l’associazione dedicata al fratello Stefano. Lei venne a Ferrara a conoscere l’avvocato Fabio Anselmo, visto che si era già occupato già del nostro caso”. La vostra è stata una battaglia anche contro i depistaggi e quella parte di società che non voleva riconoscere la responsabilità di uomini e donne in divisa... “Il vero problema è che non hanno mai chiesto scusa. Riconoscere di aver sbagliato è un atto di intelligenza che aiuta a crescere. Chi difende a prescindere o dice “stiamo con tutti”, è dalla parte anche di chi sbaglia”. Il volto di suo figlio continua a essere tenuto fuori dagli stadi in alcuni casi, sembra che faccia ancora paura. A chi? E perché? “I tifosi del Bologna mi hanno segnalato che a San Siro non era stato permesso introdurre uno stendardo con il volto di Federico. Sui social continuo a tenere la luce accessa sulla sua vicenda. Secondo me vanno ancora fatti dei collegamenti su alcuni elementi. Questa verità, per me, non è quella definitiva”. Lei è un ex agente della Polizia locale, ora in pensione. Si è riappacificato con la divisa? “Penso di essermi confrontato con veri poliziotti, ma come in ogni campo non ci sono solo le persone normali e oneste. Tante cose all’inizio delle indagini su Federico vennero sbagliate o strumentalizzate, come quando veniva definito un “drogato”, che non era. Ma in nessun caso sarebbero dovuti intervenire in quel modo. Si sono chiusi a riccio”. Bologna. Intervista ai Garanti regionale e comunale dei diritti dei detenuti bandieragialla.it, 20 aprile 2022 Il 5 aprile la redazione di “Ne vale la pena” ha incontrato i Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale, Roberto Cavalieri e Antonio Ianniello, nominati il primo dall’assemblea legislativa della regione Emilia Romagna e il secondo dal consiglio comunale della città di Bologna; sono quindi entrambi figure istituzionali direttamente coinvolte nella realtà detentiva locale e nelle problematiche che caratterizzano la vita dell’istituto Rocco d’Amato. È stata un’importante occasione di scambio di informazioni e di punti di vista su diverse questioni, di cui riportiamo di seguito i passaggi più significativi. Quali sono le competenze del garante comunale e quelle del garante regionale? Quali sinergie possono essere attivate fra i due ruoli? Le norme prevedono che i Garanti esercitino funzioni di garanzia agendo in piena autonomia, ascoltando, facendo controlli, ricevendo segnalazioni non necessariamente solo dalle persone detenute, ma anche da agenti, educatori, psicologi, familiari; in un certo senso è stato superato il tabù secondo il quale il garante interloquisce solo con i detenuti, dal momento che tutti gli attori del sistema possono concorrere alla tutela dei diritti nell’ambiente detentivo, unitamente al progressivo miglioramento delle condizioni di vita negli istituti. Altro ambito di intervento molto importante è la sensibilizzazione della società esterna sulla realtà carceraria, anche per ricercare e sollecitare opportunità per la costruzione di percorsi di reinserimento. Quindi i garanti non hanno potere autoritativo, ma possono agire per sensibilizzare e orientare l’azione della rete istituzionale di riferimento, e in particolare le direzioni di istituto e la magistratura di sorveglianza. Di tutta l’attività svolta il Garante rende conto nella sua relazione annuale. Il Garante regionale e quello comunale non sono ovviamente legati da un rapporto gerarchico, ma agiscono all’insegna della collaborazione e del rafforzamento reciproco delle azioni che vengono via via intraprese; esiste un vero e proprio accordo di collaborazione fra il Garante regionale e i Garanti comunali già in carica (Bologna, Piacenza e Ferrara), in attesa di ulteriori nomine (Parma e Rimini). Importante, in tal senso, è assumere congiuntamente posizioni pubbliche, per ottenere maggiore efficacia di intervento. In tal senso opera anche il coordinamento nazionale dei garanti territoriali, di cui è portavoce Stefano Anastasia, Garante della Regione Lazio. Roberto Cavalieri, lei è fresco di nomina; quali sono gli elementi su cui intende prioritariamente concentrarsi nel suo mandato? Sono due le priorità su cui cercherò di concentrare la mia azione, senza ovviamente trascurare tutte le problematiche che strutturalmente caratterizzano la vita detentiva. In primo luogo vorrei operare per l’affermazione dei diritti delle minoranze della popolazione detenuta, considerando tutti gli aspetti che possono incidere sulla condizione di ulteriore marginalità rispetto all’emarginazione che il carcere impone a chiunque ci vive; mi riferisco in particolare alla sfera etnica, sessuale e religiosa. Si tratta di superare l’idea che le persone detenute siano una categoria indistinta che possa essere gestita standardizzando ciò che invece, come per le persone che vivono all’esterno, è unico e non può che essere individualizzato. L’istituzione tende ad appiattire le differenze ma questo approccio è un grande ostacolo all’efficacia degli interventi di trattamento e alla qualità della vita negli istituti. Il secondo obiettivo riguarda l’affermazione dei diritti dei cittadini detenuti, che è ovviamente l’ambito d’azione precipuo del Garante; vorrei in particolare agire per uniformare le differenze che in questo campo sono evidenti da istituto a istituto; certo le specificità dipendono da tanti fattori ma credo che siano in primo luogo legate alla mentalità delle direzioni: occorre cercare di realizzare una “parità di servizio minimo” per le persone detenute, a prescindere dall’istituto a cui la persona è assegnata. So bene che anche il raggio d’azione del volontariato è diverso da istituto ad istituto, e che in alcune realtà le difficoltà sono inspiegabilmente più consistenti che in altre: al volontariato però mi sento di dire che occorre una maggiore incisività di azione, da realizzare tramite una rafforzamento della conoscenza e della collaborazione fra associazioni e, soprattutto, nella rendicontazione puntuale di ciò che viene fatto , proprio per valorizzare il capitale di tempo ed energie che vengono profusi per il funzionamento del sistema. Occorre che l’istituzione conosca con precisione quale è la portata del contributo del volontariato e, soprattutto, cosa sarebbe il carcere se improvvisamente tutte queste risorse venissero meno. Il volontariato deve finalmente diventare un soggetto non ancillare, ma che agisce allo stesso livello degli altri attori del sistema. In questi anni, a partire dai tavoli degli stati generali sull’esecuzione penale del 2016, abbiamo vissuto momenti in cui la speranza sul reale cambiamento del sistema detentivo si è riaccesa, salvo poi rimanere delusa. La riforma del 2018 cosa ha prodotto? Cosa ci possiamo aspettare per il nostro oggi? Sembra che ciclicamente vengano attivate iniziative per l’analisi dello status quo e per l’elaborazione di proposte di cambiamento che poi rimangono nel cassetto. Oggi, concretamente cosa sta accadendo? Traducendo la domanda in modo più terra terra, potremmo chiederci quale è, oggi, lo stato d’animo con cui un garante affronta il proprio compito alla luce della situazione complessiva e delle diverse occasioni mancate citate. Non neghiamo che non è facile essere ottimisti. A partire dalla sentenza Torreggiani del 2013, che ha condannato l’Italia per le condizioni di vita delle persone detenute negli istituti, come è cambiata fino ad oggi l’offerta trattamentale? Perché l’impressione è che si sono aperte le celle per consentire ai detenuti una maggiore libertà di movimento in sezione, ma che fuori dalla cella non è cambiato un granché nei percorsi di reinserimento, che è il vero fine della detenzione. Di cosa, allo stato, ci potremmo accontentare? Forse di archiviare, speriamo presto, il periodo Covid con il riconoscimento, anche per le persone detenute, come per moltissime altre categorie di cittadini, di un indennizzo. In questo caso si tratterebbe del riconoscimento della liberazione anticipata speciale, come a suo tempo fatto in occasione della sentenza Torreggiani. È ancora da discutere l’entità, ma questo è l’ambito in cui a nostro parere si dovrà agire per riconoscere anche ai detenuti un ristoro per gli enormi disagi sofferti in pandemia. Negare questo riconoscimento sarebbe una grave responsabilità della politica. Occorre solo trovare il percorso legislativo più idoneo per attuare l’intervento. Anche il maggior ricorso alle tecnologie per garantire il contatto con i familiari, sperimentato in pandemia, dovrebbe diventare una misura strutturale. Con un emendamento al decreto mille proroghe è stata protratta fino al 31 dicembre la durata delle licenze e dei permessi premio straordinari per le persone che positivamente hanno vissuto negli ultimi due anni la situazione di semilibertà o in misura alternativa. Alla luce del fatto che nulla è successo e che non c’è miglior prova di reinserimento che aver trascorso positivamente questo periodo fuori dal carcere, sarebbe veramente assurdo tornare indietro riportando gli interessati alla condizione detentiva o semidetentiva. La ministra Cartabia ha attivato un percorso a tappe che fa ben sperare, considerando in particolare la nomina di Carlo Renoldi alla direzione del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e l’attivazione della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario presieduta da Marco Ruotolo, che nel dicembre scorso ha presentato una proposta di revisione dell’attuale regolamento di attuazione dell’Ordinamento penitenziario, che risale al 2000. La commissione Ruotolo ha prodotto una proposta della revisione del Regolamento del 2000. Come la giudicate? Quali sono a vostro parere gli aspetti maggiormente innovativi? Ma soprattutto quali sono le possibilità che qualcosa cambi realmente e in quali tempi? Molto sinteticamente e rimanendo nell’ambito di misure che possono essere attuate fin da subito senza necessità di complessi interventi organizzativi possiamo elencare: - la possibilità della partecipazione dei volontari alla valutazione dei percorsi dei detenuti nell’ambito del GOT (Gruppo di Osservazione - Trattamento) - la possibilità di rinnovo del permesso di soggiorno per i detenuti stranieri - l’aumento delle ore di colloquio e delle telefonate anche quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’art 4 bis, che verrebbero così equiparati a tutti gli altri - speciale cura quando il colloquio si svolge con prole di età inferiore a 14 anni - l’aumento a 15 minuti della durata delle telefonate - l’introduzione della possibilità immediata di contattare i congiunti per i “nuovi giunti” o dalla libertà o da altre carceri - l’introduzione di permessi per “eventi particolari”, con ampliamento delle fattispecie già previste per i permessi GMF (Gravi Motivi Familiari) - la modifica del procedimento disciplinare con la possibilità dell’audizione di testimoni - l’aumento delle giornate annue di permesso premio (da 45 a 60). Per quanto riguarda in specifico la Dozza riteniamo che il principale problema sia ormai da anni la carenza di educatori? Come mai è rimasta lettera morta l’ordinanza 2016/1008 della dott.ssa Napolitano che così recita: “Sicuramente il deliberato organico di 11 funzionari giuridico pedagogici, ferma restando la consistenza della popolazione detenuta attuale, è già da reputare inadeguato e dovrebbe essere rivisto dalle Autorità competenti. Nelle more, tuttavia, anche mantenendo ferma tale datata valutazione ministeriale, e valorizzando come equa la correlata espressa proporzione di 11 educatori rispetto a 489 detenuti complessivi, occorre che siano adottati provvedimenti conseguenti dalle Autorità competenti volti ad assicurare a Bologna una presenza stabile di persone in servizio quali funzionari giuridico pedagogici in numero tale da potere adeguatamente, tempestivamente e sufficientemente, soddisfare, in particolare nei confronti di reclusi con condanne definitive, le esigenze trattamentali previste ex lege”.Questo è davvero un problema, che compromette ab origine la possibilità di assicurare a tutti un percorso trattamentale efficace. Non è possibile che in alcuni casi trascorrano due anni o più senza che il detenuto possa incontrare il suo educatore. E con una così evidente carenza quantitativa possono verificarsi gravi disparità trattamentali, Il sistema non è quindi in grado, per diversi motivi, di assicurare a tutti le stesse opportunità. Sappiamo che è in corso di ultimazione un concorso nazionale per l’assunzione di funzionari giuridico pedagogici e che sulla carta 2 o 3 unità dovrebbero essere assegnate alla Dozza, ma siamo ancora ben lontani dall’organico a cui faceva riferimento la Dr.ssa Napolitano ritenendolo comunque anche regime insufficiente dal momento che la popolazione realmente detenuta è di gran lunga superiore alla capienza teorica dell’istituto. In che forma il detenuto può prendere parte attiva al percorso trattamentale, anche consultando la documentazione che lo riguarda secondo i principi della L.241/90 sull’accesso agli atti amministrativi? A fronte di un reclamo di una persona detenuta il Magistrato di Sorveglianza di Bologna ha stabilito con l’Ordinanza n. 2019/2588 che si ritiene che debba essere data in visione la cartella personale reputando che in caso di sussistenza di documenti non ostensibili questi debbano essere specificamente individuati e dichiarati non disponibili alla visione con l’indicazione e l’esplicitazione dei motivi espressi dalla normativa di riferimento. Sono stati così considerati non ostensibili da parte della Direzione, esplicitando i motivi espressi dalla normativa di riferimento: le relazioni di servizio da cui hanno preso origine i procedimenti disciplinari; gli atti relativi ai trasferimenti e all’assegnazione presso l’istituto penitenziario e gli atti concernenti l’osservazione della personalità. Comunque gli atti concernenti l’osservazione della personalità sono inseriti nel fascicolo processuale e possono essere richiesti alla Cancelleria del Tribunale di Sorveglianza da parte del difensore. Come mai le graduatorie per l’accesso al lavoro, definite secondo i criteri stabiliti dal regolamento interno non vengono pubblicate? Sarebbe un bel segno di trasparenza che contribuirebbe a sgomberare il campo da retro pensieri sulla corretta gestione dell’assegnazione degli incarichi.La pubblicazione delle graduatorie è opportuna nonché prevista dalla normativa di riferimento, per le ragioni che voi stessi avete esposto e sarà una delle diverse questioni che verrà affrontata nei prossimi mesi con la nuova Direttrice. Antonio Ianniello ha già avuto modo di conoscere Rosa Alba Casella, neo nominata Direttrice della Dozza? Sì, ho avuto modo di incontrarla e so che sta mettendo il massimo impegno per entrare appieno nella complessità delle questioni che caratterizzano un istituto così grande e articolato. Era apprezzata a Modena per la scrupolosità con la quale ha interpretato il ruolo e anche per la conoscenza diretta delle vicende detentive delle persona detenute. Certo il contesto là era per certi versi meno complesso, ma sono certo che anche qui a Bologna lavorerà per accorciare la distanza che attualmente si misura fra l’istituzione e le persona, anche dando indicazioni specifiche in questo senso a tutti gli operatori, a partire da quelli dell’area educativa. Mi farò anche portavoce dell’invito che le avete formulato per incontrarla qui in redazione. Come si potrebbe sviluppare la partecipazione attiva delle persone detenute alla vita dell’istituto qui alla Dozza? Allo stato è pressoché nulla... Attuando in primis il regolamento interno, proprio laddove prevede l’istituzione e il funzionamento di commissioni, in particolare per il lavoro e per lo sport, tempo libero ed attività culturali. Anche su questo verrà fatta un’azione di sensibilizzazione sulla nuova Direzione. Ci rincontreremo fra circa tre mesi per analizzare insieme se e in che misura le richieste saranno state accolte. Il Garante nazionale Mauro Palma è stato alla Dozza e ha incontrato una rappresentanza di agenti. Ci saremmo aspettati di poter dialogare con lui a nostra volta. A vostro parere come mai non è stato possibile? Si tratta di un intervento svolto nell’ambito dell’attività ispettiva di pertinenza del Garante nazionale, in cui sono state senz’altro monitorati tanti aspetti di funzionamento dell’istituto, anche con l’accesso ai registri. L’esito dell’ispezione viene quindi inviata all’autorità competente unitamente alla formulazione di pareri e/o raccomandazioni. Dopo 30 giorni il rapporto viene pubblicato sul sito del garante con le eventuali risposte ricevute in merito dagli interlocutori istituzionali. Attendiamo quindi la pubblicazione ufficiale del report anche se dalle prime indiscrezioni è emerso che tanto c’è da fare per adeguare la realtà dell’istituto alle opportunità offerte dal territorio. Bari. Allarme carceri: “Le sezioni inagibili rimangono ancora aperte” di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 20 aprile 2022 “La chiusura immediata delle sezioni della vergogna”. È la richiesta del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) in riferimento all’area femminile della casa circondariale di Bari e quella di Trani occupata dai detenuti semiliberi. Dopo le numerose battaglie e proteste il sindacato era riuscito in passato a far chiudere le due sezioni perché “inagibili e irrispettose dei diritti minimi, della dignità e della privacy dei detenuti” ma, in seguito all’emergenza sanitaria per il Covid, quelle due sezioni sono state riaperte “funzionando a pieno ritmo e ospitando i detenuti positivi al Covid è scritto in una nota del Sappe - oppure i nuovi arrivati che dovevano essere isolati”. Ma con la fine del periodo di emergenza “il responsabile regionale dell’amministrazione penitenziaria - spiega Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe - continua a tenere aperte quelle sezioni invece di chiuderle nell’immediatezza. A Trani vengono usate per i detenuti comuni e a Bari invece quelli con problemi psichiatrici. Nonostante il sovraffollamento e i gravi disagi per detenuti e poliziotti”. Ritiene il Sappe “che quello che sta facendo il Provveditore regionale non sia corretto. È inaccettabile che si costringano i detenuti a vivere in tali condizioni nonostante quei reparti siano stati chiusi dal ministero della Giustizia”. Il sindacato in particolare si riferisce alle condizioni delle due sezioni senza alcuna privacy per i detenuti costretti a vivere in pochissimi metri quadri tutti assieme “in una situazione igienica sanitaria dove vengono offesi nella loro dignità di essere umani”. Il Sappe si domanda “dove siano finiti i garanti e le associazioni di categoria. Certo - prosegue ancora Pilagatti - in questo momento gli orrori che si stanno vivendo in Ucraina ci distolgono giustamente da tante problematiche nazionali e locali, ma queste situazioni non possono comunque essere ignorate”. Nei giorni - conclude la nota “il Sappe ha scritto al Provveditore regionale chiedendo di rivedere la sua posizione sulla vicenda con la richiesta di chiudere le sezioni della vergogna di Bari e Trani, ma non ha ritenuto di rispondere alle richieste del Sappe. Ci dispiace che sulla questione non sia intervenuta la senatrice Piarulli, già direttrice del carcere di Trani”. Napoli. Polo universitario penitenziario Secondigliano: “Non li abbandoniamo dopo la laurea” di Viviana Lanza Il Riformista, 20 aprile 2022 Il riscatto può passare (anche) per una laurea. Così l’esperienza della reclusione in carcere può avere un senso, il senso che la Costituzione le attribuisce, quel senso troppo spesso rimasto solo sulla carta perché nei fatti il carcere è ed è stato soltanto reclusione e privazione. In Campania il percorso del riscatto attraverso lo studio è cominciato circa quattro anni fa nel polo universitario penitenziario del carcere di Secondigliano. A breve ci saranno i primi laureati. “Da un monitoraggio annuo i dati a livello nazionale, e in particolare quelli di Napoli, sono dati importanti”, spiega Marella Santangelo, ordinario di Composizione architettonica e urbana all’università di Napoli Federico II, delegata al Polo universitario penitenziario (Pup), e componente della Commissione per l’architettura penitenziaria voluta dal Ministero della Giustizia. “I numeri - aggiunge - parlano e raccontano che ci sono quasi cento studenti detenuti, che sono attivi otto corsi di laurea ai quali dal prossimo anno si uniranno due corsi professionalizzanti del Dipartimento di ingegneria che daranno agli studenti una proiezione significativa”. Uno dei nuovi corsi sarà in Meccatronica, l’altro in Tecnologie digitali per le costruzioni. Torniamo ai numeri: nell’anno accademico 2020-2021, a livello nazionale, si sono contati 1.246 detenuti che hanno scelto di iscriversi a corsi del polo universitario penitenziario. In prevalenza sono uomini. Si contano infatti 1.201 studenti tra la popolazione detenuta maschile e 45 studentesse tra le detenute. Motivo? “Le donne delinquono meno - spiega la professoressa Santangelo - e tra le donne detenute il livello culturale è particolarmente basso, le diplomate sono pochissime”. Tra i detenuti studenti, 449 provengono da carceri ad alta sicurezza mentre 33 sono in regime di 41bis. In Campania ci sono 102 studenti detenuti, più quelli che nel frattempo sono tornati in libertà e che, come previsto dalla convenzione con il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, possono godere delle stesse agevolazioni degli studenti ancora detenuti. Per numero di studenti detenuti la Campania è la seconda d’Italia, preceduta solo dalla Lombardia che ha 127 studenti in carcere. Tra i 102 studenti campani, 50 si trovano in regime di alta sicurezza e 13 sono attualmente in esecuzione penale esterna. I numeri descrivono una realtà virtuosa ma anche complessa. Perché gestire i corsi all’interno di un carcere non è cosa semplice, come non è semplice studiare in cella. Gli spazi della pena non sono adeguati. Non lo sono per la vita quotidiana in cella, figuriamoci per la vita da studente universitario. È anche per questo che per il momento i corsi del polo universitario penitenziario si tengono nell’istituto di pena di Secondigliano. “Il nostro obiettivo è seguire gli studenti anche dopo - racconta la professoressa Santangelo. Non possiamo pensare che, dopo laureati, vengano abbandonati”. Creare un ponte tra il mondo di fuori e quello dietro le sbarre è utile anche in questo caso. Rieducare i detenuti attraverso lo studio deve voler dire anche dare loro una prospettiva di futuro. Certo, dipende molto anche dall’età di ciascuno studente detenuto. Tra coloro che studiano in carcere ci sono studenti di tutte le età, dai neodiplomati a uomini di sessant’anni. “In generale sono persone che fanno seriamente, la loro scelta di studiare è dettata da volontà e curiosità - spiega la docente referente del polo universitario penitenziario. Si tratta di persone che hanno un vissuto impegnativo”. I docenti non conoscono nel dettaglio la storia detentiva e giudiziaria dei loro studenti in carcere. Quando si studia si è semplicemente studenti. “Sono persone che stanno ragionando sul loro passato e che con quel passato ci fanno i conti. Penso - conclude Santangelo - che questo debba far riflettere il Ministero e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Non è un passaggio obbligato, quello di iscriversi ai corsi universitari. Non c’è alcun automatismo”. Napoli. “Una rete per l’inclusione”: tirocini formativi per giovani in area penale Il Mattino, 20 aprile 2022 Cinquantacinque giovani, di cui otto detenuti, di età compresa tra 16 e 24 anni, con precedenti penali e attualmente affidati ai servizi della giustizia minorile, svolgeranno tirocini formativi in aziende campane del campo della ristorazione, della meccanica, della cantieristica navale e della logistica. È quanto prevede il progetto “Una rete per l’inclusione” finanziato dal Pon Legalità del ministero dell’Interno con fondi europei che si svolgerà oltre che in Campania, anche in Basilicata, Calabria, Puglia e Sicilia, presentato in Villa Fernandes a Portici, dal 2020 hub di servizi per lo sviluppo della comunità. Nel complesso sono duecento i giovani coinvolti (cinquantacinque in Campania) che avranno la possibilità di espletare le loro attività lavorative sotto la guida di sette tutor. Il progetto è realizzato da un raggruppamento di consorzi ed enti del Terzo settore e si svolge sotto la direzione del dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia. I numeri del progetto sono stati forniti da Angela Gentile di Mestieri Campania, uno dei due enti che coordinano il progetto nella regione Campania (l’altro è il Consorzio di Cooperative Co.Re.). Ognuno dei ragazzi svolgerà ora, al termine di un percorso formativo legato ai temi della sicurezza, un tirocinio di sei mesi in un’azienda ricevendo anche un supporto economico. Ad introdurre i lavori Giovanpaolo Gaudino di Confcooperative Federsolidarietà Campania. “Il ruolo del Terzo Settore con il progetto “Una rete per l’inclusione”, è un ruolo importante perché serve a riannodare sul territorio quelle relazioni che si sono spezzate. Vuol essere un elemento per dare un’ulteriore possibilità ai ragazzi e soprattutto fiducia a loro e alle comunità in cui vivono”. Giuseppe Centomani, dirigente del centro per la Giustizia Minorile della Campania: “Un progetto molto importante perché in qualche modo realizza quello che abbiamo compreso negli ultimi anni e cioè che non basta il semplice intervento di formazione professionale nel senso pratico del termine. Non basta il semplice intervento educativo all’interno dei servizi, ma entrambe le cose vanno messe insieme per fare in modo che i ragazzi non imparino semplicemente a fare un lavoro ma assumano l’identità di lavoratori, cioè di cittadini attivi di cui la comunità deve essere contenta”. Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti ha ricordato che nel 2021, persino nel periodo delle restrizioni Covid, 13.611 ragazzi in Italia, di cui 6.569 in Campania, sono entrati in contatto con la giustizia minorile, spesso come recidivi. “Questi progetti ci aiutano in una riflessione, secondo me, importante. Occorre liberare i minori, con l’aiuto di assistenti sociali ed educatori, per renderli adulti responsabili. Occorre liberare i minori ed educare gli adulti”. Per Giuseppe Cacciapuoti, direttore generale del dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità presso il Ministero della Giustizia, “il progetto offre un’importante opportunità per i giovani che, attraverso questa esperienza, potranno sviluppare competenze professionali e relazionali che favoriranno il loro ingresso nel mondo del lavoro. Con questo progetto si rafforza l’impegno del dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità nella realizzazione delle proprie finalità istituzionali attraverso il coinvolgimento attivo della società civile ed in particolare valorizzando la funzione educativa della formazione professionale”. Gorgona (Li). Firmato il protocollo per l’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro livornotoday.it, 20 aprile 2022 L’attività formativa mirata nel campo dell’edilizia, della ristorazione, dell’accoglienza e del turismo. “Gorgona Academy” è il progetto siglato da Comune di Livorno, garante dei detenuti, casa circondariale, Anpal, ente Scuola edile e associazioni di categoria volto a favorire l’inclusione sociale attraverso l’inserimento nel mercato del lavoro dei detenuti grazie ad un’attività formativa mirata nel campo dell’edilizia, della ristorazione, dell’accoglienza e del turismo. “Il passaggio di oggi - il commento del sindaco Luca Salvetti - rientra in un quadro più ampio di attenzione che questa amministrazione ha già riservato e vuole continuare a riservare a quello che è da considerarsi a tutti gli effetti uno dei quartieri della città di Livorno, perché Gorgona è tale”. “L’iniziativa di oggi - ha aggiunto l’assessore Gianfranco Simoncini - rientra nell’azione di valorizzazione dell’isola che portiamo avanti”. Il direttore del carcere di Livorno, Carlo Mazzerbo, ha infine sottolineato come “Gorgona Academy risponda all’esigenza di adeguare e adeguarsi all’evoluzione delle competenze e al tempo stesso alla necessità di fare rete con il territorio”. Volterra (Pi). Con Capossela riparte la stagione dei detenuti-attori di Lorenza Cerbini Corriere della Sera, 20 aprile 2022 Il regista Armando Punzo presenta l’ultima versione di Naturae, frutto dell’ormai storica collaborazione con la Compagnia della Fortezza, iniziata nel carcere nel 1988. Sedie e panchine sono state rimosse per trasformare la piccola chiesetta sotterranea del carcere di Volterra in palcoscenico. Il nevischio e il freddo pungente avrebbero messo a rischio la performance degli attori della Compagnia della Fortezza prevista nel cortile all’aperto del carcere stesso. “Portare il materiale dal magazzino della “torre del maschio” fino lì sotto è stato impegnativo”, dice Armando Punzo, il regista che dal 1988 lavora con i detenuti. Il materiale in questione sono teli bianchi da stendere come copertura sul pavimento, sfere, candelabri, lance e dei grandi parallelepipedi in legno, “quaderni a quadretti, fogli da disegno dove i personaggi si confrontano”, dice Punzo. Quaderni di righe e spazi vuoti. Corniciano i volti, separano, diventano le macchine per una scenografia in continuo movimento e su quelle pagine viene scritta la storia di Naturae. “Replica numero sedici. Riscrittura di un lavoro iniziato un anno fa e che, nella sua forma definitiva, presenteremo in estate”, dice Punzo. Una tappa di uno spettacolo che gli attori svolgono a memoria. L’evento è sacrale. Sull’altare il protagonista, l’uomo immobile legato alle catene. Sul presbiterio gli officinanti, i musicisti della band di Vinicio Capossela. E il cantautore irpino detta il ritmo. “Tutto si muove, ma niente si muove davvero/E i giorni passano e gli anni e le nozze col velo/Raschia la linea degli occhi l’inganno del telo” (da Le Pleiadi). “Quindici uomini, quindici uomini e quaranta teste di porco/Per gli anni che tu hai preso nell’assedio/Per gli anni tuoi che avanzano nel sole” (da Brucia Troia). “Le marionette marciano strette/Dentro la notte tornan per noi/Suona Rosamunda/Suona che mi piaci” (da Rosamunda). Rewind di 24 ore. Capossela entra nel carcere di Volterra ed è la sua prima volta. Ad attenderlo 70 uomini o qualcosa di più, gli attori della compagnia, tutte storie diverse e un punto di riferimento: Punzo. “Lavoriamo insieme tutti i giorni. Alcuni di loro hanno letto tutte le 33 opere di Skakespeare. E le poesie”. Un atto unico e irripetibile - Liriche e testi fluiscono in una scaletta senza prove. La performance finale è un atto unico, irripetibile. Mancano i riflessi del sole nella chiesetta sotterranea. In scena entrano 45 attori in costume. C’è il bianco della purezza, il rosso della lotta (e della violenza), il nero del mistero, dell’opposizione, della protesta. La performance apre un percorso inesplorato. Non un concerto portato dentro ad un penitenziario, ma un progetto in divenire. “Lavoriamo a Naturae da otto anni - dice Punzo -. Siamo partiti da Shakespeare che ci ha consegnato uomini tanto simili a noi, sembra non si possano salvare, condannati al non cambiamento. Un aspetto negativo superato con Borges e i suoi personaggi su cui non ci si può immedesimare. Obbliga a riflettere, a prendere appunti, a studiare i suoi riferimenti. Poi si arriva a Naturae, un uomo con possibilità che devono emergere, ci sono qualità straordinarie in noi”. Manca ancora un ultimo capitolo a questo lavoro della Compagnia della Fortezza. “Nella biblioteca del carcere abbiamo tanti autori che stiamo studiando. Abbiamo letto “Il verbo degli uccelli”. L’upupa convince ad intraprendere un viaggio attraverso sette valli alla ricerca del Simurgh. Partono in centomila e arrivano in trenta e alla meta scoprono un lago dove si specchiano. Il viaggio è un invito a cercare se stessi. Il viaggio è scoperta e risposta senza pretesti”. Un musical di 90 minuti, il tempo di una partita giocata sul filo della partecipazione e per Capossela è standing ovation. Per Volterra22 invece, l’inizio di un percorso che attraverso 300 progetti siestenderà lungo tutto l’anno (www.volterra22.it per il programma dettagliato). Eletta prima città toscana della cultura (sulla base del dossier di candidatura a Capitale italiana della cultura 2022), questa cittadina di origine etrusca, votata all’alabastro e al sale, trasparente e saporita, esplora il tema della “ri-generazione umana” nella forma della libertà negata, della pazzia, dell’innovazione, del racconto storico e del territorio. “A spasso nello spazio e nel tempo” - Oggi, il penitenziario cittadino vive nella città e con la città. “Il teatro è la massima espressione delle potenzialità. Quanto siamo prigionieri noi uomini? Siamo capaci di essere liberi? Di immaginarci diversamente, anche in un luogo più chiuso?”, domanda Punzo. “Le possibilità del dialogo dell’arte non hanno limiti - dice Capossela -. Armando e la sua compagnia usano testi che amo moltissimo, tratti anche dalle opere di Borges e Genet. Siamo andati a spasso nello spazio e nel tempo, un’ora e mezza di spettacolo senza nessuna fatica, bellissima fluidità nella narrazione delle storie, dimenticando il luogo dove si è”. L’appuntamento con la Compagnia della Fortezza e Naturae è per ottobre a Milano. In estate alcuni intermezzi al Teatro Romano di Volterra (21 luglio), anfiteatro Triangolo Verdi di Peccioli (24 luglio), Le saline nello stabilimento progettato da Nervi (31 luglio) e infine nella centrale Enel di Larderello (4 agosto). L’invito è a ri-pensare l’uomo per cambiare, senza pretesti, il corso delle cose. Milano. Il premio letterario per i detenuti quest’anno diventa un album musicale di Paolo Brambilla ilgiornaleditalia.it, 20 aprile 2022 Mercoledì 20 aprile alle 18 il Gruppo consiliare Più Europa/Radicali presenta la V edizione di Parole Liberate, il premio letterario per i detenuti, che quest’anno diventa un album musicale. Tanti gli ospiti, gli artisti e le personalità politiche che animeranno la presentazione in Consiglio regionale della V edizione di “Parole Liberate: oltre il muro del carcere”, il premio letterario riservato alle persone detenute, che si terrà mercoledì 20 aprile nella sala Gonfalone di Palazzo Pirelli, via Fabio Filzi 22, dalle 18:00 alle 20:00. Fondato nel 2014 dal giornalista Michele De Lucia, dall’attore Riccardo Monopoli e dall’autore Duccio Parodi e organizzato dall’omonima Associazione di Promozione Sociale, Parole Liberate è diventato negli anni uno strumento di emancipazione e di riscatto per le persone private della libertà personale. “Negli ultimi mesi, - spiega il consigliere Michele Usuelli, presidente del gruppo Più Europa/Radicali in Lombardia - con il Gruppo Più Europa/Radicali in Consiglio regionale della Lombardia, abbiamo promosso diversi eventi che hanno raccontato storie di resistenza, di lotta e di ricerca di una condizione umana migliore. In questo solco si inserisce anche questo appuntamento. Parole Liberate è un’iniziativa che evolve: è nata come un premio di poesia ed ora, in questa edizione, è diventata un disco, musicato da nomi storici della musica italiana, che domani abbiamo l’onore di presentare, raccontato dalle voci di amici, colleghi e compagni di lotta.” Le due ore di presentazione saranno animate dagli interventi e dai saluti di artisti e personalità politiche, uniti per spezzare il silenzio sulla realtà carceraria e per traghettare le parole dei detenuti, come recita lo slogan del premio, “oltre il muro del carcere”: saranno presenti, oltre al consigliere Usuelli che ospita l’evento, i maestri Enrico Maria Papes e Giampaolo Pape Gurioli, Paolo Bedini, produttore esecutivo dell’album, Duccio Parodi, co-fondatore di Parole Liberate, l’attore Riccardo Monopoli, gli artisti Andrea Imberciadori, Teresa Plantamura e Federica Balucani, Luigi Pagano, già vicedirettore del DAP, Antonella Forattini, presidente commissione speciale sulla situazione carceraria del Consiglio regionale della Lombardia, Daniele Nahum, vicepresidente sottocommissione carceri Comune di Milano, Alessandro Giungi, avvocato, consigliere comunale di Milano, Paola Sacchi, dirigente U.O. salute mentale, dipendenze, sanità penitenziaria Regione Lombardia, oltre agli interventi registrati di Virginio e di Mario Mantovani, già vicepresidente di Regione Lombardia. Napoli. Cesare Cremonini: “Portare la street art nei quartieri difficili” di Andrea Laffranchi Corriere della Sera, 20 aprile 2022 L’incontro con i ragazzi a Napoli dopo le tappe di Palermo e Roma. “Abbattute le barriere del disco”. La collaborazione con le scuole per i murales di Giulio Rosk. Gli occhi di Raffaele sorridono. Da sotto la visiera del cappellino da baseball, lo sguardo segue la mano di Cesare Cremonini che gli mostra il suo ritratto oversize: sedici metri per cinque, l’intera facciata di un palazzo del rione in cui vive, il Ponticelli di Napoli. Lo ha dipinto lo street artist Giulio Rosk. Qualche compagno di classe lo prende in giro. “Raffael’, ‘o famos’”. “Un giorno mi piacerebbe portare qui i miei figli e fargli vedere come ero da piccolo”, commenta l’undicenne. Il murale è parte del progetto “Io vorrei”, un’idea con la quale Cesare Cremonini ha cercato di allargare i confini del suo ultimo album “La ragazza del futuro”. L’idea è quella di portare della street art in quartieri difficili e di avviare attività di recupero in collaborazione con le scuole. Tre le tappe sinora realizzate - il Ponticelli, lo Sperone di Palermo e Roma Ostia - con dei laboratori creativi nelle scuole di quartiere che si sono conclusi con i ritratti di Gaia Laurendino, Diana Beretta e Raffaele Giusti, firmati da Rosk. La “dimensione collettiva” - “Ho abbattuto le barriere del disco - spiega Cremonini - per fare arte attraverso l’utilizzo di un multi-linguaggio, che in una società frammentata come la nostra è sempre più necessario per riuscire ad arrivare a chi ti ascolta e superare i confini in cui un singolo media ti imprigiona. È inconcepibile alla mia età e con 22 anni di carriera sulle spalle non pensare a una dimensione collettiva dell’arte, a una visione del mondo che includa nelle canzoni qualcosa di più largo della nostra intimità. Partire da un disco per arrivare qui vale più di un post su Instagram per celebrare il numero 1 di una canzone in radio. E Giulio è il mio compagno di sogni”. I sogni li hanno anche i bambini. “Paura”, “Non sicuro”, “Il campetto non si può usare”: ecco come quelli del plesso Petrone IC 88° Circolo De Filippo vedono Ponticelli. Sono una settantina, dalla materna alle scuole medie, cercati porta a porta all’inizio di ogni anno scolastico dalla preside Concetta Stramacchia nelle palazzine occupate di un quartiere che è terra di faide di camorra, di quelle che lasciano sul campo i morti. I ragazzi hanno anche provato a immaginarselo diverso il rione: hanno sovrapposto alle foto di scorci degradati, coloratissimi progetti di riqualificazione a loro misura. Altalene e parchi giochi fra le strade piene di buche, cassonetti per la raccolta differenziata al posto dei rifiuti abbandonati. “Io vorrei un campo di calcio per giocare con i miei amici e pensare di essere come Insigne, il mio campione preferito”, dice Raffaele. Il progetto non si ferma all’arte. Sono previsti degli interventi di riqualificazione mirati in funzione delle richieste e delle esigenze dei singoli istituti. Per lasciare qualcosa che rimanga: una mensa, un cortile sicuro dove poter giocare, aule studio per le attività pomeridiane... Idee e iniziative che verranno concretizzate nei prossimi mesi. “Condividiamo l’obiettivo di prenderci cura del miglioramento del contesto urbano delle nostre città, pensando soprattutto alle generazioni più giovani, che in quel contesto vivono e costruiscono il loro futuro”, spiega Alessandro Scarfò, ad e dg di Intesa Sanpaolo Assicura, il partner che finanzia le operazioni. Cesare Cremonini ascolta storie e racconti. “È stato uno schiaffo capire che in alcuni quartieri - dice - la presenza di uno famoso non solo è inaspettata ma la si ritiene impossibile: venire qui, anche se magari non mi conoscono, è un segnale di attenzione ai luoghi e alle persone, un tentativo di farli sentire speciali in un mondo che in cui non pensano di poter essere al centro dell’attenzione”. Il riconoscimento - Si sono sentite sotto la luce dei riflettori le scuole coinvolte. “Ciascuno cresce solo se sognato, dice una poesia di Danilo Dolci. È stata una lezione di riconoscimento del quartiere e della comunità. Più che quartieri con bisogni speciali, mi piace definirli quartieri con diritti speciali, hanno bisogno di amore e cura”, spiega Antonella di Bartolo, preside dell’Istituto comprensivo Pertini allo Sperone di Palermo, donna con una forza contagiosa che lavora in quartiere in mano alla mafia e assediato dallo spaccio spesso affidato ai minori. La sua sintesi si commenta da sola: “Qui non ci sono centri per servizi sociali o strutture sportive, manca l’asilo nido che servirebbe tremila bambini, nemmeno una piazza. Persino il mare di fronte non è balneabile: una negazione simbolica dell’orizzonte. La scuola è il solo punto riferimento e pensandola come incubatrice di futuro e punto di partenza per altre attività in dieci anni siamo riusciti a ridurre la dispersione scolastica dal 27 al tre per cento”. Per realizzare i murales Giulio Rosk ha passato una settimana in ogni quartiere, con rullo e bombolette, appeso a una piattaforma meccanica: “La street art è legata alle realtà di periferia, a questi non-luoghi di cui conosco bene le problematiche ma anche il lato bello. Che può essere anche il dettaglio della signora che ti porta tutte le mattine caffè e brioche e magari ha il pigiama strappato… Accendere i riflettori fa emergere il bello delle periferie”. Girare fra le aule, ascoltare i bambini cantare in coro La ragazza del futuro riaccende la memoria a Cesare Cremonini. “Vengo da un contesto sociale - racconta il musicista - dove si può scegliere quale scuola fare e la scelta è anche specchio delle ambizioni familiari. Penso che l’istruzione vada oltre il fatto di essere un diritto. In queste esperienze ho percepito una trincea di dignità, qualcosa che divide il bene dal male, un luogo di protezione in cui vai volentieri perché offre sicurezza da altri problemi”. Sguardo al futuro - Anche i ragazzi sono rimasti colpiti: “La sua presenza ha acceso gli studenti. Un exemplum vitae che stimolato riflessioni nei ragazzi. Dopo la sua visita un ragazzo mi ha detto che questo progetto gli ha dato forza emotiva e psicologica per aprire gli occhi e venire a scuola con un’altra consapevolezza”, spiega Carla Gentili, vicepreside del liceo Anco Marzio di Ostia. Cremonini incrocia lo sguardo del ritratto di Raffaele. “Il suo, come quello degli altri, è rivolto verso il futuro, ma trasmette emozioni varie e spaziose, anche il sentirsi giudicato magari, a chi passa, una mamma, un ragazzo, un poliziotto... Credo nella collaborazione fra generazioni per guardare al futuro dalla stessa prospettiva e con questo progetto cerco di allungare le braccia verso i ragazzi”. Catanzaro. Artisti “dentro”, la Via Crucis dipinta dai detenuti corrieredellacalabria.it, 20 aprile 2022 L’opera abbellisce la chiesina della media sicurezza. Suor Nicoletta Vessoni: “È stata una vera gara di collaborazione”. Ci voleva. Cosa? Un’opera realizzata dall’Artistico del penitenziario “Ugo Caridi” per rendere più bella la chiesina della media sicurezza. Nel padiglione della media sicurezza, infatti, c’è un ambiente adibito a cappella, “ma - sottolinea suor Nicoletta Vessoni responsabile delle volontarie della cappellania - un po’ misero, povero, così l’idea di dare rilievo a delle formelle della via Crucis già presenti ha messo in moto una vera gara di collaborazione, una fusione di pensiero, e un sostenerci continuamente come se l’opera fosse di tutti coloro coinvolti anche solo con il pensiero”. La protagonista numero uno di questa realizzazione è l’insegnante della scuola che ha accolto e fatta sua questa proposta, coinvolgendo gli alunni, la sua direzione che ha fornito tutto il materiale per rendere queste piccole formelle, due quadri su due tavole di legno con sfondo in oro e una cornicetta in rame lavorata con la tecnica dello sbalzo, arricchite da un cordoncino verde che ha dato il tocco di completezza ed eleganza. Così durante una delle messe che hanno preceduto la Pasqua, le due tavole sono state benedette dal Vicario Monsignor Montillo e appese sulla parete della chiesetta, con l’orgoglio di tutti quanti hanno collaborato alla realizzazione. “Mi piace - conclude suor Nicoletta - riportare qui di seguito una riflessione che ha accompagnato il lavoro manuale diventando così anche uno stimolo per una riflessione e un approfondimento”. La pace del Papa cuce, non taglia di Antonio Spadaro* La Stampa, 20 aprile 2022 Per lui il nemico è il conflitto. Non cerca di eliminare il male ma vuole neutralizzarlo. Quando Francesco ha parlato della Chiesa come “ospedale da campo dopo una battaglia”, aveva davanti agli occhi uno scenario mondiale da “guerra mondiale a pezzi”. Pochi giorni fa, nel suo messaggio “Urbi et Orbi” di Pasqua, ha elencato solamente alcuni di questi pezzi: Ucraina, Gerusalemme, Libano, Siria, Iraq, Libia, Yemen, Myanmar, Afghanistan, Sahel, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, Sudafrica. La mappa è destinata ad essere sempre incompleta. Nel caso dell’Ucraina Francesco ha definito lucidamente il conflitto “inaccettabile aggressione armata”, “guerra ripugnante”, “massacro insensato”, “invasione dell’Ucraina”, “barbarie”, “atto sacrilego”. Il nemico è il paradigma di Caino, la guerra. Francesco sa che “si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri”. Per questo ha gridato “Fermatevi!”, e ha fatto appello a trattative e mediazioni: “Si punti veramente e decisamente sul negoziato, e i corridoi umanitari siano effettivi e sicuri”. Ma chi crede oggi alla possibilità di un negoziato? L’unica strada percorribile pare l’escalation. E si parla di una guerra dai tempi lunghi, lunghissimi. Come ha scritto il direttore della Stampa Massimo Giannini, domenica scorsa: nessuno più parla di pace, se non lui, il Papa, che alcuni vorrebbero si unisse al coro “armi, armi, armi”. Mentre noi abbiamo militarizzato pure gli animi che riflettono sulle soluzioni possibili. Francesco non cerca di eliminare il male perché sa che è impossibile. Semplicemente esso si sposterebbe e si manifesterebbe altrove, in altre forme. Così è sempre stato. Cerca invece di neutralizzarlo. È dunque per questo che, sotto il profilo diplomatico, si assume la responsabilità di posizioni rischiose e incomprese fino a ritrovarsi solo come una voce che grida nel deserto. Come, del resto, Giovanni Paolo II al tempo delle guerre del Golfo. Francesco ha incontrato tre volte Putin, una volta Poroshenko e una volta Zelensky. Ha sempre condiviso l’auspicio che “tutte le Parti implicate dimostrino la massima sensibilità nei riguardi delle necessità della popolazione, prima vittima delle violenze, nonché impegno e coerenza nel dialogo”. Perché non ci si è preparati per evitare di cadere nel baratro della guerra con adeguati negoziati? Ci si è invece preparati alla guerra. L’approccio di Francesco si fonda sulla certezza che non si dà a questo mondo l’impero del bene. Per questo bisogna dialogare con tutti, proprio tutti. Persino col generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito del Myanmar, responsabile delle operazioni contro i suoi amati Rohingya, per fare un esempio. Il potere mondano è così definitivamente de-sacralizzato. E proprio per questo nessuno è il demonio incarnato. La diplomazia della Santa Sede cuce, non taglia, anche in situazioni politicamente difficili, come quella dell’invasione russa dell’Ucraina. Questo genera la falsa percezione di un “neutralismo” del Papa, il quale sa che la violenza genera violenza e le vittorie generano sconfitte e paci instabili e friabili. Fu la pace di Versailles a generare il mostro nazista. E quante volte Francesco ha denunciato la pace di Yalta? Il sacro non è mai puntello del potere. Il potere non è mai puntello del sacro. Francesco lo ha detto chiaramente a Kirill: “La Chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù”. È questo l’errore fatale di Kirill, che vede nel conflitto ucraino un duello “metafisico” pro domo sua. Ma anche di Putin, che cita in modo blasfemo i Vangeli in uno stadio di Mosca, e vede in religione e armi la difesa della statualità russa. Ma anche di Biden, quando a Varsavia cita a sproposito Giovanni Paolo II. E pure del presidente Poroshenko che lanciò lo slogan “esercito, fede e lingua”, sedendosi sulla cattedra imperiale accanto all’altare della cattedrale di Kiev. Non deve sorprendere, dunque, che Francesco, in maniera provocatoriamente evangelica, abbia chiamato nel 2014 gli stessi terroristi islamici con un’espressione densa insieme di condanna e compassione: “Povera gente criminale”. Il nemico - persino il terrorista! - resta “figlio prodigo”, e mai incarnazione diabolica. Fino all’affermazione davvero singolare per cui fermare l’aggressore ingiusto è un diritto, che però deve essere postulato come “un diritto dell’aggressore”, che è il paradossale diritto “di essere fermato per non fare del male”. Infatti, l’amore tipico del cristiano non è solamente quello per il “prossimo”, ma quello per il “nemico”. È stata evangelicamente molto lucida la Conferenza episcopale dei vescovi cattolici ucraini quando, all’inizio del conflitto ha chiesto ai fedeli di pregare anche “per coloro che hanno iniziato la guerra e sono stati accecati dall’aggressione”. Aggiungendo: “Proteggiamo i nostri cuori dall’odio e dalla rabbia contro i nostri nemici. Cristo dà una chiara istruzione di pregare per loro e di benedirli”. Quando si arriva a guardare l’uomo che commette l’orrore con una qualche forma di pietas, trionfa in maniera scandalosa la forza intima del Vangelo di Cristo: l’amore per il nemico. Senza questo, il Vangelo rischierebbe di diventare un discorso edificante, non certo rivoluzionario. Il Papa resiste alla fascinazione di fare del cristianesimo una garanzia politica, qualunque essa sia. Sottrae il cristianesimo alla tentazione di rimanere erede dell’Impero romano o a quello di Bisanzio. Questa tentazione dai tratti nazionalistici appare a volte irresistibile: proiettare quegli imperi in una o l’altra alleanza militare dei buoni contro i cattivi. Potestas politica e auctoritas spirituale vanno sempre ben distinte: questa è la forza della universalità del cattolicesimo. Forza testimoniata da Albina e Iryna, russa e ucraina, che hanno portato la croce a mani intrecciate nella Via crucis al Colosseo. Francesco è laico, laicissimo. Spoglia il potere spirituale dei suoi panni temporali, e dei suoi armamenti, anche a fin di bene. Il suo abito bianco riporta il cristianesimo a Cristo, che davanti a chi lo difese con la spada urlò “Basta!” due volte. Non indossa neanche più il rosso, colore imperiale ed espressione della imitatio imperii del vescovo di Roma. Non illudiamoci: l’impasto tra sacerdotium e imperium non è facile da dipanare. Ma l’aureola del santo di Assisi ora coincide con quella del vicario di Cristo. E abbandona per sempre il profilo dell’imperatore, che oggi sarebbe semplicemente donchisciottesco. Tale, del resto, rischierebbe di essere un viaggio immediato del Papa cattolico di Roma a Kiev, in una terra già divisa tra due obbedienze ortodosse. Francesco vuole toccare con le proprie mani le ferite causate da un massacro sacrilego. E lo farà, ma senza spaccare ulteriormente. Così è stato a Bangui, dove lo volevano cristiani e musulmani, e così sarà a Juba nel luglio prossimo. Torna in mente Dante, che nel De Monarchia collega l’auctoritas spirituale del Papa direttamente con la paternitas. Il 12 aprile Francesco scriveva in un tweet: “Il Signore non ci divide in buoni e cattivi, in amici e nemici. Per Lui siamo tutti figli amati”. Paul Elie sul New York Times tempo fa efficacemente riassunse: Francesco come “the Anti-Strongman”. *Direttore de “La Civiltà Cattolica” Cannabis Day. Quel che resta di un referendum di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 20 aprile 2022 Oggi è la giornata mondiale della cannabis. Trae origine dall’abitudine di alcuni studenti di una cittadina vicino a San Francisco, San Rafael, che decisero di ritrovarsi alle 4:20 del pomeriggio per fumarsi una canna insieme. Da lì il codice 420 e la sua trasposizione nel calendario anglosassone in 4/20, 20 aprile, ormai riconosciuto globalmente come il cannabis day. L’intenzione degli antiproibizionisti italiani era quella di celebrarla con il lancio della campagna per il Sì al referendum cannabis. La decisione della Corte costituzionale ha mandato in fumo i preparativi. Ciononostante, oggi un webinar internazionale che si terrà alle 4:20 del pomeriggio, tornerà a insistere sulle necessità di conquistare la regolamentazione legale di coltivazione e uso della pianta proibita. Il Comitato promotore del referendum, ispiratore dell’incontro, ritiene che la decisione della Consulta sia viziata da un errore di fatto nella lettura del Testo Unico sulle droghe e da un’interpretazione arbitraria, superficiale e datata degli obblighi derivanti dalle Convenzioni dell’Onu sulle droghe. Per questi motivi è stato avviato il percorso per un ricorso contro la decisione che, con il coinvolgimento di esperti costituzionalisti, sfocerà anche in proposte di riforma organica dell’istituto referendario. In modo da poter “tornare alla Costituzione” in occasione di eventuali - se non probabili - future raccolte firme anche sulle droghe. Oggi la Società Civile rifletterà sia sul senso delle convenzioni sulle droghe, a partire da quella del 1961, con la presentazione del lavoro di Kenzi Riboulet Zemouli (vedi la rubrica di Grazia Zuffa il 30 marzo scorso), sia sulle iniziative a livello regionale e nazionale. Così un gruppo di ONG europee sta lavorando per lanciare una Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) volta a intervenire sulle normative quadro a livello dell’Unione Europea, come la decisione quadro 2004/757/GAI e la direttiva 2017/2103 del Consiglio e del Parlamento europeo. L’obiettivo è costruire una cornice che faciliti la regolamentazione legale della cannabis. Del resto dopo Malta, anche Lussemburgo e Germania sono già sulla strada della regolamentazione legale. In Italia siamo ancora fermi, con la proposta Magi-Licatini sulla ridefinizione dei fatti di lieve entità relativi alla detenzione di sostanze stupefacenti e sulla coltivazione di 4 piantine insabbiata da mesi in Commissione giustizia della Camera. Pur calendarizzata in Aula per giugno, il testo base del Presidente della Commissione e relatore Perantoni non sembra oggi avere la forza per essere votata dalla Camera dei deputati in tempo per avere una minima possibilità di passare dalle forche caudine del Senato entro la fine della legislatura. E questo nonostante le parole di Enrico Letta e Giuseppe Conte, che sembrano aver lasciato del tutto insensibili i rispettivi gruppi parlamentari. Si parlerà anche di Stati Uniti: approvato il MOREAct dalla camera bassa del Congresso, si attende sia il suo approdo al Senato che la presentazione da parte dello Speaker democratico Chuck Schumer del Cannabis Administration & Opportunity Act (CAOA), la proposta che nelle intenzioni del Senatore “finalmente metterà fine alla proibizione federale della cannabis e affronterà la sua eccessiva criminalizzazione in un modo organico”. Annunciata per fine aprile, la presentazione è stata rinviata ad agosto, sia per affinare le proposte “con la collaborazione di quasi una dozzina di commissioni del Senato e il contributo di numerose agenzie federali” che per provare a coinvolgere anche qualche senatore del Partito Repubblicano, i cui voti saranno fondamentali in un’aula divisa 50 a 50. Il carcere (super lusso) dell’Aja dove molti sognano di vedere Putin di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2022 Celle arredate e confortevoli, aria all’aperto, esercizio fisico, cure mediche all’avanguardia, terapia occupazionale, guida spirituale, condizioni adatte per la preparazione della difesa, strutture informatiche e formazione, possibilità di telefonare spesso, visite coniugali con tanto di “stanza dell’amore”, attività ricreative e sportive. Un vero e proprio fiore all’occhiello del sistema penitenziario europeo che rispetta il principio di innocenza fino a prova contraria. Sono recluse le persone imputate dalla Corte penale internazionale dell’Aia - Parliamo del carcere situato a Scheveningen, in Olanda, dove sono recluse le persone imputate dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Ed è lì, che - solo teoricamente visto che è una ipotesi altamente remota - potrebbe essere recluso Vladimir Putin se verrà imputato dalla Corte per crimini contro l’umanità. Sono nove i detenuti ospitati nel carcere di Scheveningen - Attualmente, nel carcere della Corte internazionale dell’Aia ci sono nove persone detenute: due imputati soggetti a un nuovo processo, due persone le cui condanne possono essere impugnate e cinque detenuti condannati in attesa di trasferimento in uno Stato di applicazione. Ovvero uno di quei Paesi che hanno dato la propria disponibilità a ospitare nelle proprie carceri gli eventuali condannati. Ricordiamo che, per quanto riguarda il processo ad hoc sui crimini commessi nell’ex Jugoslavia, tra gli Stati che hanno dato la disponibilità alle Nazioni Unite di accogliere i condannati, figura anche l’Italia. La Corte penale internazionale è l’unica struttura giudiziaria permanente costituita per giudicare i crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale come il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Alla fine della Conferenza di Roma alla quale presero parte 160 Stati sovrani e 37 organizzazioni non governative, il 17 luglio 1998 prese vita la Corte Penale Internazionale. Lo Statuto di Roma, come tutti i trattati internazionali e prevedeva la sua entrata in vigore superata la soglia di 60 Paesi firmatari. Il trattato entrò in vigore il primo luglio 2002. La competenza della Corte è fondata sul principio di complementarietà - A differenza dei Tribunali per l’ex Jugoslavia e del Ruanda, la Corte non ha una giurisprudenza prioritaria rispetto ai tribunali nazionali. La sua competenza è fondata sul principio di complementarietà nel senso che la Corte può giudicare solo nei casi in cui essa abbia effettuato una valutazione sulla mancanza di volontà o sulla incapacità dello Stato, dotato di giurisdizione, di esercitare la propria potestà punitiva. La giurisdizione della Corte riguarda tutti i reati commessi dopo il primo luglio 2002 e riconducibili a: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di aggressione. Il carcere ospita le persone imputate nei procedimenti dalla Corte - Presso la Corte è collocato un centro di detenzione che si trova presso il complesso penitenziario di Scheveningen, nei pressi dell’Aia. La sua funzione è quella di ospitare le persone imputate nei procedimenti dalla Corte. Come detto, qualora l’imputato venisse condannato a una pena detentiva, esse si svolgerà in uno Stato che abbia manifestato alla Corte la propria disponibilità a ricevere persone condannate. Il complesso penitenziario della Corte penale internazionale è composto da due strutture carcerarie. Entrambe sono gestite in linea con gli standard internazionali per il trattamento dei detenuti. Le due strutture, che in precedenza servivano alle esigenze di detenzione del Tribunale penale internazionale per il Ruanda e del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, sono conosciute come la struttura di detenzione delle Nazioni Unite (Undf) presso la filiale di Arusha e l’Unità di detenzione delle Nazioni Unite (Undu) presso la filiale dell’Aia. Sono strutture di custodia cautelare - Sia l’Undf che l’Undu sono strutture di custodia cautelare. Ciò significa che applicano la presunzione di innocenza a tutte le persone detenute fino a prova contraria. Entrambe le strutture forniscono un ambiente di detenzione sicuro e protetto. Il carcere presso la filiale dell’Aia, a Scheveningen, consente alle persone detenute l’accesso all’aria aperta, al tempo libero e alle attività sportive. Ma anche ai libri della biblioteca, ai giornali e alla televisione. Le persone detenute hanno accesso a strutture informatiche per lavorare sui propri casi. Se necessario hanno l’opportunità di seguire un corso di informatica. A seguito del mandato della Corte Penale Internazionale, in quanto imputata, ogni persona detenuta ha un computer nella sua cella, che è collegata a un computer specifico presso la Corte. L’accesso ad internet è però consentito solo agli avvocati difensori per caricare materiale relativo al caso a cui la persona detenuta può accedere e commentare. Il direttore del penitenziario ha la responsabilità generale di tutti gli aspetti della gestione del centro di detenzione, compresi la sicurezza e l’ordine; e prende tutte le decisioni ad esso relative, come previsto dal Regolamento europeo e quello della Corte dell’Aia. Nell’adempimento del suo mandato, il direttore si impegna a garantire il benessere mentale, fisico e spirituale dei detenuti all’interno di un sistema di detenzione efficiente, tenendo conto delle diversità culturali e del loro sviluppo come individui. Permesse le visite dei familiari, del coniuge o del convivente. C’è anche la stanza coniugale - Nel penitenziario della Corte internazionale, nell’ottica del mantenimento dei legami familiari, il direttore è obbligato a dedicare particolare attenzione alle visite dei familiari e a quelle del coniuge o del convivente dei detenuti. C’è a disposizione la stanza coniugale. È il luogo in cui i detenuti possono incontrare le loro mogli nel rispetto della privacy durante l’orario di visita. In sostanza, è permesso di avere rapporti sessuali con i propri partner. Particolare importanza anche al cibo. I pasti sono forniti rispettando il loro gusto o esigenze culturali. Interessante anche i minuti di chiamate che i detenuti hanno a disposizione. Ben 200 minuti di telefono gratuito al mese verso una serie rigorosa di numeri (a parte i loro avvocati), messi nelle loro stanze dal personale della prigione. Le chiamate vengono registrate e vengono distrutte al termine del procedimento. Non vengono ascoltati a meno che il tribunale non lo disponga. Garantita l’assistenza sanitaria con standard molto elevati - Di elevato standard anche l’assistenza sanitaria. Il carcere di Scheveningen dispone di una struttura medica ben attrezzata, con personale medico e un assistente. È progettato per fornire ai detenuti assistenza sanitaria di base e servizi di emergenza. Ciò è particolarmente importante considerando che l’età media dei detenuti è relativamente alta e che la maggior parte di loro arriva con vari problemi di salute. Solo per fare un esempio, all’11 maggio 2012, l’età media dei detenuti era di 59,6 anni. Tuttavia, gli elevati standard di servizio medico offerti hanno fatto sì che la salute di molti detenuti migliori mentre sono incarcerati. Non solo, In base all’accordo tra la Corte penale interazionale e il Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr), concluso il 29 marzo 2006, il Cicr, in quanto autorità di ispezione, ha accesso illimitato al centro di detenzione. I suoi delegati effettuano visite senza preavviso al centro di detenzione, allo scopo di esaminare il trattamento delle persone detenute, le loro condizioni di vita e le loro condizioni fisiche e psicologiche, in conformità con gli standard internazionali ampiamente accettati che regolano il trattamento delle persone private della libertà. Il carcere del tribunale internazionale dovrebbe essere un esempio, perché opera in linea con i più elevati standard internazionali in materia di diritti umani per il trattamento dei detenuti. In Italia è pura utopia visto le condizioni che non rispecchiano il dettame costituzionale. Eppure, come Scheveningen insegna, è possibile. Sì, perché anche chi è accusato di genocidio o crimini contro l’umanità, ha il diritto di veder rispettata la sua dignità. Intervista a Nadia Murad: “Gli stupri di guerra diventino crimini contro l’umanità” di Antonello Guerrera La Repubblica, 20 aprile 2022 Il Premio Nobel per la Pace: “I soldati sanno che le donne sono una componente cruciale del tessuto di ogni comunità. Ecco perché la violenza sessuale è un’arma di genocidio”. “Donne ucraine, non siete sole. Conosco bene le vostre sofferenze. Non vi dimenticheremo. E continuerò a lottare per voi, dopo le terribili violenze che avete subito”, promette Nadia Murad in questa intervista esclusiva a Repubblica. “Ma affinché ciò non accada mai più, dovremo cambiare anche noi e la nostra società patriarcale. E lo stupro deve essere considerato un crimine contro l’umanità”. Nadia Murad, 29 anni, yazida irachena, autrice di L’Ultima Ragazza (Mondadori), nel 2018 ha vinto il premio Nobel per la Pace, insieme al ginecologo congolese Denis Mukwege, per il suo impegno contro la violenza sessuale come arma in guerra e nei conflitti. Una piaga ancora oggi profondissima, come dimostrano gli orrori cui sono state sottoposte molte ucraine dai soldati russi nella brutale invasione ordinata da Vladimir Putin. Oltre a essere una delle più celebri attiviste per le donne nel mondo, anche Murad è stata vittima di ripetuti stupri a Mosul, in Iraq, da parte dell’Isis nel 2014. Quando i miliziani del Califfato rapirono, torturarono e violentarono per mesi lei e altre 6700 donne della minoranza yazida. Oggi, Nadia combatte affinché ciò non accada mai più, ha lanciato anni fa la sua associazione umanitaria “Nadia’s Initiative” e, in questi giorni, con il Foreign Office di Londra, il “Murad Code”: ovvero un nuovo codice umanitario in difesa delle donne. Nadia Murad, cosa prova di fronte a quanto stiamo assistendo in Ucraina? “È orrendo, ma purtroppo nulla di nuovo. Nei conflitti di tutto il mondo, donne e ragazze sono vittime di violenza sessuale, come lo siamo state noi yazide. Come l’Isis, i soldati russi sanno che le donne sono una componente cruciale del tessuto di ogni comunità. Ecco perché lo stupro è un’arma di guerra e di genocidio: per distruggere le comunità dall’interno. Così, le donne subiscono i peggiori orrori e violazioni dei diritti umani”. Cosa possiamo fare affinché ciò non accada più nel mondo? “Innanzitutto, processando gli aguzzini. Ciò è vitale per le sopravvissute, cui bisogna garantire tutto il sostegno per ricostruire le proprie vite, ma anche per le potenziali future vittime, in quanto la deterrenza è prevenzione. Allo stesso tempo, bisogna sradicare le radici alla base della violenza sessuale e di genere nelle nostre scuole, in casa, al lavoro. Bisogna smantellare la mascolinità tossica e la femminilità tossica. Dobbiamo insegnare ai ragazzi che le ragazze hanno i loro stessi diritti, tra cui quelli di imporsi e di essere ascoltate. Perché la violenza sessuale è radicata nella disuguaglianza di genere”. Oggi quanto è difficile avere giustizia per le vittime di violenza sessuale in guerra? “Viviamo in un mondo patriarcale in cui gran parte delle leggi - nazionali e internazionali - sono state scritte da uomini. Di conseguenza, riflettono i pregiudizi maschilisti nei confronti delle donne. Per questo motivo, la violenza sessuale è stata riconosciuta solo di recente come crimine di guerra, mentre fino a poco tempo fa spesso non costituiva neanche un crimine ordinario, ma solo vergogna e umiliazione per le donne. Non possiamo più perdere tempo: la violenza sessuale deve essere perseguita come un crimine contro l’umanità. Fino ad allora, gli stupri continueranno a essere impuniti”. Cosa vuole dire oggi alle donne di vittime di violenza sessuale in guerra? “Che non sono sole. Che ciò che hanno subito non è un danno collaterale della guerra, ma una gravissima violazione dei diritti umani. E che io lotterò per sempre per loro, finché avranno giustizia”. Qual è l’obiettivo del Codice Murad? “È stato ideato dall’Institute for International Criminal Investigations, dalla Nadia’s Initiative e dal governo britannico, perché le sopravvissute a questi crimini spesso provano altro dolore durante le indagini e i processi contro i loro aguzzini. È accaduto anche a me: spesso gli inquirenti ignorano quanto sia difficile ricordare e rivivere quelle violenze per noi donne. Dunque, il “Murad Code” ha l’intento di proteggere le vittime e la loro fragilità”. Qual è lo stato dei diritti delle donne nel mondo? “Finalmente, negli ultimi anni questo è diventato un tema affrontato seriamente, ma non in tutti i Paesi della Terra. Le donne non saranno mai protette fino a quando non avranno gli stessi diritti e opportunità degli uomini, per la legge e nella società”. Otto anni dopo gli stupri di massa e il genocidio dell’Isis nei confronti degli Yazidi in Iraq, come vive oggi la sua comunità? “Le conseguenze sono ancora pesantissime. Ancora oggi, 200 mila Yazidi sono sfollati in campi di accoglienza dove si registrano alti tassi di suicidio, violenza sessuale e spose bambine. A molti dei 150 mila Yazidi riusciti a tornare nella loro terra, nell’iracheno Sinjar, manca ancora accesso ad acqua pulita, sanità e istruzione. 2800 donne yazide sono tuttora scomparse o prigioniere. Con la mia associazione Nadia’s Initiative l’impegno è massimo per rigenerare un ambiente sano per la comunità yazida. Ma la strada è ancora lunga, e da soli non ce la facciamo”. Osama: “I miei sette anni nelle carceri siriane” di Asmae Dachan Vita, 20 aprile 2022 Arrestato a sedici anni perché partecipava a una manifestazione antigovernativa, Osama ha subito torture, maltrattamenti, minacce nella famigerata prigione di Sednaya. Nel suo futuro, ora dopo sette anni di carcere e la fuga, vede la difesa dei diritti dei detenuti politici. Una cella angusta, fredda e buia avvolta, in un silenzio lungo sette anni. Un silenzio interrotto solo da urla e pianti. Osama è uno delle migliaia di minorenni finiti nelle carceri del governo siriano e spariti per anni dietro le sbarre, lontani dalle loro famiglie e dalle loro vite di un tempo. “Sono passati due anni dal mio rilascio, ma ancora oggi, ogni notte, mi sveglio con il cuore in gola per via degli incubi”, racconta il giovane. Il volto è ancora quello di un bambino, come se il tempo, per lui, si fosse fermato, nonostante gli orrori subiti. Fino al mese di ottobre del 2013 era uno studente di liceo, quando la sua vita è stata sconvolta dagli eventi legati alla guerra, scoppiata due anni prima. Riuscendo a sfuggire al controllo dei genitori, Osama aveva preso parte a qualche manifestazione antigovernativa, unendosi a quel movimento laico, pacifista e spontaneo nato per esprimere dissenso contro il regime di Damasco e chiedere riforme politiche e sociali. Proprio in occasione di un corteo Osama è stato fermato dalle forze dell’ordine e condotto a Fere’è al Khatib, uno dei rami della sicurezza nazionale. “Avevo assistito alla repressione di alcune manifestazioni, ma ero sempre riuscito a sfuggire prima che i militari partissero con l’offensiva. Quel giorno sono stato colpito alle spalle e sono caduto a terra. Mi hanno picchiato e poi caricato con altri manifestanti, bendandomi e ammanettandomi con le mani dietro alla schiena”. L’incubo per Osama, ma anche per la sua famiglia, è solo all’inizio. I genitori incaricano subito un avvocato di seguire il caso del figlio. Alcuni funzionari corrotti promettono loro informazioni in cambio di denaro, ma ogni volta tergiversano. Il giovane, intanto, per i primi quattro mesi viene interrogato e torturato, fisicamente e psicologicamente, ogni giorno. I suoi carcerieri lo accusano di essere colpevole dell’uccisione di alcuni soldati, ma lui si dichiara totalmente estraneo ai fatti. Ha solo sedici anni, non ha mai toccato un’arma e la sua vita è uguale a quella di tanti giovani siriani della borghesia damascena, impegnati tra gli studi e lo sport. Il terrore, la stanchezza e la paura portano poi Osama a cedere per tentare di salvarsi. Gli viene estorta una finta confessione e viene condannato all’ergastolo. Lo studente si sente morire dentro; accusato di un crimine orribile che non ha mai commesso e rimasto completamente solo, lontano dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua scuola, sa che morirà in prigione. A un anno dalla sua detenzione i familiari riescono finalmente a sapere dove si trova e per la prima volta Osama vede un avvocato, ma solo per alcuni minuti. In cella è uno dei più giovani e gli altri detenuti, che condividono le sue sofferenze e privazioni, cercano in qualche modo di confortarlo. Durante un trasferimento Osama e altri detenuti tentano di scappare. È una giornata di pioggia e tra i fuggitivi ci sono anche due giovani donne coi loro figli, ma riescono a catturarli presto. Vengono portati nella famigerata prigione di Sednaya e subiscono una nuova hafla, la cosiddetta festa, il modo in cui vengono chiamate le torture per i nuovi arrivati in prigione. “Pensavo che le torture dopo l’arresto fossero l’incubo peggiore, invece, ho scoperto che esisteva un livello persino più atroce, con scosse elettriche sui genitali, bastonate sui denti, umiliazioni e abusi irripetibili. Hanno sperimentato su di noi anche ‘Lakhdar Ibrahimi[1]’, un tubo di plastica con cui venivamo frustati, in grado di aprire la pelle e tagliare la carne”, racconta. Uno dei giovani che era con lui muore dopo tre giorni a causa delle torture, un altro sopravvive otto giorni, poi spira in un mare di sangue. Osama perde diversi denti per via delle bastonate e alcune ferite si infettano. Poi c’è l’isolamento. “Non avevo mai sentito il silenzio. Il vero silenzio. Non saprei ancora descriverlo. La cella era buia, ma i miei occhi si sono abituati presto al buio. Non c’era nulla da vedere, solo le quattro mura, ma riuscivo a riconoscere le mani, le gambe, a contare le ferite che avevo. Non so dire quanto sia durato l’isolamento, direi un’eternità. Il giorno in cui mi hanno liberato inizialmente ho provato sollievo, ma appena messo piede fuori dalla cella sono stato riportato nella stanza delle torture. Ricordo ancora il nome del mio torturatore, Abu Salim. Mi ha picchiato talmente forte sulla testa che ho perso i sensi. I miei compagni di cella mi hanno detto che sono stato in coma per cinque giorni e non si capacitavano che non ricordassi nulla”, aggiunge. Osama si trova nel Fere’è Filastin, uno dei bracci più duri del carcere di Sednaya, con celle di due metri per due, dove sono rinchiuse fino a dodici persone. I detenuti non possono stendere le gambe se non a turno, non c’è aria, né luce; possono andare in bagno solo due volte al giorno, si mangia solo una volta, pane, riso, patate o uova da dividere in sei o sette persone per piatto. Nessun detenuto incontra mai un medico e quando ne viene richiesto uno qualcuno dei compagni di cella viene torturato e il malato stesso non riceve cure adeguate. I detenuti non possono parlare tra di loro, ma solo sussurrarsi all’orecchio, per evitare di essere bastonati dalle guardie. Durante la detenzione a Sednaya Osama viene poi trasferito nel Fere’è 248, un ramo composto da una rete di tunnel sotterranei. Le celle sono di sette metri per cinque e vi sono ammassate fino a centotrenta persone. “Nel ramo 248 non venivamo torturati fisicamente, ma la mancanza di spazio per muoverci, il buio e la mancanza di aria provocavano non pochi malori. Ci aprivano l’acqua, per bere e per lavarci, solo due volte al giorno, per quindici minuti. Quando ripenso a quei giorni ho una sensazione di schifo addosso, mi sento ancora sporco”, ammette facendosi scuro in volto. “Metà dei detenuti che erano in cella con me sono morti. A volte li lasciavano anche due o tre giorni in cella prima di venire a prenderli, nonostante le nostre suppliche. Guardavo quei corpi scheletrici, pieni di lividi, senza vita e li invidiavo. Almeno avevano smesso di soffrire”, aggiunge con lo sguardo basso. La famiglia, intanto, riesce, continuando a pagare, ad avere notizie del giovane. Osama era stato condannato all’ergastolo, senza mai comparire davanti a un giudice, ma siccome era minorenne la pena era stata commutata in quindici anni di carcere. Durante i sette anni di detenzione riesce a comunicare con la famiglia solo due volte, scrivendo poche parole su un pezzo strappato di giornale che gli aveva passato, insieme a una penna, uno dei carcerieri, un giovane siriano come lui, che tra quelle mura e dentro la sua divisa non aveva perso la sua umanità. “Uno su decine di uomini che sembravano aver perso la propria umanità. Mi sono sempre chiesto come facessero poi ad accarezzare le loro mogli e i figli, con le stesse mani con cui avevano torturato persone incapaci di difendersi”. Da Sednaya è raro uscire con le proprie gambe, e Osama, che non conosce nulla di quel mondo, lo scopre giorno dopo giorno. “Quando qualcuno veniva chiamato fuori dalla cella lo salutavamo, consapevoli che si trattava sempre di un addio. Le opzioni erano due solitamente, o veniva liberato, o veniva ucciso. Nessuno tornava da quegli appelli. Un giorno mi hanno chiamato. Ho salutato gli altri, convinto di andare a morire. Ricordo l’abbraccio di uno degli anziani della cella che più di tutti gli altri si era preso cura di me”. Con sua immensa sorpresa, Osama viene liberato e nemmeno in quella occasione vede un giudice. Gli fanno firmare con l’impronta alcuni documenti e poi la porta del carcere si apre. “Sono uscito lentamente, pensavo fosse una trappola per torturarmi o spararmi. Invece stavo davvero uscendo. Ho socchiuso gli occhi perché da anni non vedevo quella luce. Le mie gambe si muovevano, c’era spazio anche per muovere le braccia. Ho rivisto per la prima volta il cielo. Non riuscivo a credere a quello che mi stava accadendo”, racconta con la voce rotta dal pianto il giovane. Fuori dal carcere lo aspetta un uomo che si presenta come suo avvocato, accompagnato da un’altra persona che si identifica come suo cognato, ma che Osama vede in quel momento per la prima volta. Sale in auto con loro, anche se non sa se si può fidare, ma in ogni caso pensa che non potrà accadergli nulla di peggio del carcere di Sednaya. “Guardavo fuori dal finestrino, senza neppure chiedermi dove stessimo andando. Non riconoscevo le strade con tutte quelle macerie. C’erano alberi, mi sembravano bellissimi. Quando l’auto si è fermata e mi hanno invitato a scendere non ho neppure capito che quello era il quartiere dove viveva la mia famiglia. Ero davvero a casa. Ricordo l’abbraccio coi miei genitori, che non erano stato informati del mio rilascio per paura che le cose non andassero bene”, racconta emozionandosi. La famiglia aveva continuato a pagare e corrompere funzionari, e finalmente l’avvocato era riuscito a farlo scarcerare. “I primi giorni passavo ore a lavarmi, a strofinarmi per togliermi di dosso la sensazione di sporco. Volevo che ci fossero sempre finestre aperte per far entrare aria. Quando il medico mi ha visitato per la prima volta non riusciva a capacitarsi che fossi sopravvissuto alle ferite sul mio corpo e alle privazioni. Ero arrivato a pesare 36 chili. Non ho mai smesso di pensare alle persone che avevo visto in cella, persino bambini e donne. Anche se erano in celle diverse, spesso le sentivamo urlare e implorare di essere lasciate in pace. Tra quelle sbarre bambini, donne e uomini vengono stuprati e costretti alla nudità. Ancora oggi, ogni notte, mi sveglio per gli incubi, così come sobbalzo ogni volta che si apre o si chiude una porta”, racconta senza smettere di piangere. Per due mesi la vita di Osama sembra tornata quella di una volta, anche se è stato privato dei diritti civili. “Quando sei dento sopravvivi sognando a quello che farai fuori, ma una volta libero ti rendi conto che il mondo che hai lasciato è cambiato e che sei cambiato anche tu”. La sorella si è effettivamente sposata e il fratello è stato fatto scappare dalla famiglia per evitare che si portassero via anche lui. Il ragazzo racconta del nuovo rapporto col cibo, con la luce, con l’aria, col suo stesso corpo. Quando esce per una passeggiata si rende conto che non c’è più nessuno dei suoi amici, che la città è cambiata, che ci sono posti di blocco ovunque. Trascorrono solo due mesi e accade qualcosa a cui né Osama, né la sua famiglia riescono a credere, l’arrivo del richiamo all’esercito. Dopo essere stato arrestato e torturato gli viene chiesto di servire da militare quello stesso regime che gli ha tolto sette anni di vita. La famiglia non esita un attimo e decide di farlo scappare. Sanno che la situazione è particolarmente pericolosa e devono agire in fretta. Un loro parente dà loro i riferimenti di un “tassista”, che in realtà opera come passeur tra le zone di confine. L’uomo si presenta in pick up al punto stabilito. Osama sente il cuore in gola quando riconosce l’uniforme di Hezbollah, ma a quel punto non ha scelta. Da Damasco raggiungono la periferia di Aleppo, solo dopo che il miliziano gli ha dato un finto documento che avrebbe dovuto mostrare a ogni posto di blocco. “Siamo arrivati in un quartiere sciita di Aleppo dove c’erano solo bandiere iraniane e di Hezbollah. Mi hanno lasciato in una casa, dove sono rimasto tre giorni. La paura di tornare in carcere era tanta. La terza sera mi hanno portato in una zona piena di campi di olivo, dove c’erano almeno altre 400 persone, prevalentemente donne e bambini. Ci hanno avvisato che i campi erano minati, quindi dovevamo camminare uno dietro l’altro, in colonna, nel buio. Dopo un’ora e mezzo ci siamo fermati; i miliziani hanno fischiato e dall’altra parte qualcuno ha risposto con un altro fischio. Si sono presentati alcuni militari dell’Esercito siriano libero. Noi uomini siamo stati sottoposti a ispezione; poi abbiamo ripreso tutti il cammino, per altre otto ore, finché non siamo arrivati in Turchia. I bambini piangevano, le madri erano stremate. Non dimenticherò mai quella notte”, confessa. Oggi Osama vive in Turchia, ha ripreso in mano la sua vita, si è diplomato e si è iscritto alla facoltà d Scienze Politiche. Il suo progetto di vita è quello di lavorare in ambito legale e dedicarsi alle persone scomparse forzatamente. “Voglio impegnarmi per le migliaia di detenuti innocenti che da anni si trovano nelle carceri del regime. Vanno aiutati e liberati tutti. Nessuno può sentire il loro pianto, solo chi ci è passato, solo chi stato tra quelle mura. I Siriani hanno diritto di ricominciare a vivere e ricostruire il Paese che meritano, un Paese costruito sui diritti, non sugli abusi”, conclude Osama.