Ergastolo ostativo, la riforma esclude il 41 bis di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2022 Per i detenuti al 41 bis nessun accesso a benefici penitenziari. Questo il contenuto dell’emendamento approvato ieri in Aula alla Camera nel disegno di legge sulla nuova disciplina dell’ergastolo ostativo. Il provvedimento, che ora passa all’esame del Senato, è stato poi approvato a larghissima maggioranza, 285 i voti favorevoli, 47 gli astenuti e un solo voto contrario. Largo consenso che ora suona come buon viatico per un’approvazione definitiva entro il io maggio quando scadrà il periodo di tempo lasciato dalla Corte costituzionale al Parlamento per intervenire sulla materia. Sarebbe la prima volta per le Camere che, in precedenza, nei due casi analoghi (fine vita e diffamazione), nei quali la Corte sperimentò questa forma di monito “rafforzato”, non riuscirono a individuare una soluzione normativa condivisa. L’emendamento approvato prevede che i benefici penitenziari possono essere concessi dal Tribunale di sorveglianza “al detenuto o internato sottoposto a regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41-bis solamente dopo che il provvedimento applicativo dello speciale regime sia stato revocato o non prorogato dal ministero della Giustizia”. Respinta, invece, la proposta di rivedere quanto previsto dalla legge “Spazza-corrotti” che ai reati di mafia e di criminalità organizzata ha equiparato quelli di corruzione. Il provvedimento affronta il tema dell’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale da parte dei detenuti condannati per specifici reati, particolarmente gravi, e sinora ritenuti tali da impedire l’accesso ai benefici stessi in assenza di collaborazione con la giustizia (si tratta dei cosiddetti reati ostativi, inseriti nell’articolo 4 bis della legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario). La Corte costituzionale si è occupata due volte della questione nel recente passato, stabilendo prima, quanto ai permessi premio, che devono essere concessi anche ai condannati per reati ostativi non collaboranti e successivamente, per quanto riguarda la più delicata concessione della libertà condizionale, sospendendo per alcuni mesi il giudizio in attesa dell’intervento del Parlamento. La Consulta ha, in ogni caso, incrinato quella presunzione assoluta per cui, per i condannati per alcuni gravi reati l’assenza di un’utile collaborazione faceva ritenere provata di per sé l’attualità dei collegamenti e, di conseguenza, anche la pericolosità sociale, senza che la magistratura di sorveglianza potesse valutare il percorso rieducativo intrapreso dal condannato durante l’esecuzione della pena. Il provvedimento, allora, individua innanzitutto le condizioni per potere ottenere i benefici, delineando un regime probatorio, fondato sull’allegazione da parte dei richiedenti di elementi specifici che consentono di escludere per il condannato sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di questi collegamenti, anche indiretti o tramite terzi. Il testo introduce poi una nuova procedura per la concessione dei benefici che prevede, tra l’altro, l’acquisizione del parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado e, quando si tratta di specifici gravi reati, anche del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. La competenza è spostata alla forma collegiale, quindi dal magistrato al tribunale di sorveglianza, in caso di autorizzazione al lavoro all’esterno e ai permessi premio, quando si tratta di detenuti condannati per specifici gravi reati (terrorismo, eversione dell’ordine democratico, associazione mafiosa). Diverse modifiche sono poi state approvate per quanto riguarda la disciplina della libertà condizionale: in particolare si prevede che questi condannati possano accedere all’istituto solo dopo aver scontato trent’ anni di pena e nel rispetto dei requisiti e del procedimento delineato per l’accesso ai benefici penitenziari. Occorreranno dieci anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale per estinguere la pena dell’ergastolo e revocare le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice (per i condannati all’ergastolo per un reato non ostativo, e per i collaboranti, occorrono cinque anni). Ergastolo ostativo, la Camera approva la legge “peggiorata” di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 aprile 2022 285 sì, 47 astenuti e un voto contrario. Bocciato l’emendamento Magi che correggeva la “stortura” della Spazza-corrotti nel 4 bis. Benefici esclusi anche per i reati contro la Pubblica amministrazione, come per i mafiosi. Il Movimento 5 Stelle esulta e anche il Pd mostra una discreta soddisfazione. Ma il testo sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, licenziato ieri dalla Camera con 285 voti a favore, 47 astenuti (tra i quali +Europa e Italia viva) e un voto contrario, si discosta in molti punti dalla direzione indicata nella sentenza n.97 dell’aprile 2021 con la quale la Corte costituzionale ha giudicato illegittima l’attuale legislazione che vieta la liberazione condizionale e i benefici penitenziari (lavori esterni, permessi premio, ecc.) ai detenuti o agli internati che non collaborino con la giustizia. A maggio prossimo scadrà l’anno di tempo che ì giudici costituzionali diedero al legislatore per sanare questa stortura del nostro ordinamento. Ma se per la Consulta non si può chiudere la porta del carcere “in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia”, perché non sempre la collaborazione nelle indagini è segno di vero ravvedimento né viceversa, il testo messo a punto in commissione Giustizia (relatore il pentastellato Mario Perantoni), ed emendato ieri prima del voto finale, pone ulteriori paletti (la concedibilità dei benefici viene preclusa se vi è stata “collaborazione inutile” o “irrilevante”) e, per quanto riguarda l’ergastolo, aumenta da ventisei a trenta anni la pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale. E anche se il presidente della Camera Roberto Fico ha definito il testo che deve ora passare all’esame del Senato “un intervento normativo importante e necessario per la lotta alla mafia”, nell’ostatività finiscono anche i reati contro la pubblica amministrazione, proprio insieme ai delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione dell’ordine democratico, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, sequestro di persona e così via. Il tentativo del deputato di +Europa, Riccardo Magi, di correggere con un emendamento questa “abnormità” dovuta alla cosiddetta “Spazza-corrotti” del 2019 precipitata nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, quello che norma il regime ostativo, è naufragato in un voto a scrutinio segreto chiesto da Fratelli d’Italia. “All’epoca del voto sulla Spazza-corrotti Forza Italia aveva presentato una bella pregiudiziale di costituzionalità anche con riferimento a questa parte della legge - ha detto Magi in Aula presentando il suo emendamento - il Pd aveva votato contro, definendo lo Spazza-corrotti una norma “spazza diritto”, la Lega aveva votato favorevolmente rinnegando poi quella scelta al punto di promuovere i referendum per la giustizia giusta”. Eppure la correzione di +Europa che eliminava i reati contro la Pa dal 4 bis ha convinto solo Italia viva, mentre FI ha lasciato libertà di scelta. Risultato: 121 voti a favore, 227 contrari. Una bocciatura che il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, definisce “sconfortante” perché l’emendamento Magi “avrebbe posto fine ad una norma insensata, pericolosa e demagogica”. “L’equiparazione ai fini delle modalità esecutive della pena del reato di corruzione a quelli dì mafia - denuncia Caiazza - è figlia della follia populista e giustizialista che ha travolto il nostro Paese, e della sua ossessione punitiva. La graduazione della diversa gravità dei reati appartiene da sempre ai più elementari principi dì civiltà giuridica”. Altri emendamenti proposti dalla maggioranza sono invece stati approvati In particolare quello che prevede che i benefici penitenziari possano essere concessi dal Tribunale di sorveglianza “al detenuto o internato sottoposto a regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41 bis solamente dopo che il provvedimento applicativo dello speciale regime sia stato revocato o non prorogato” dal Ministero della Giustizia. La domanda dei benefici penitenziari, da parte del detenuto, può essere presentata, ribadisce il testo, così come ha stabilito la sentenza della Cassazione del 2020 e della Corte costituzionale 253/2019. Quella varata ieri dalla Camera è, secondo Leu, “una buona riforma”, ma per associazioni quali “Nessuno tocchi Caino” e Antigone invece è come minimo “un’occasione persa”. Lo dice Patrizio Gonnella che di Antigone è presidente: “Il legislatore è rimasto imprigionato nella paura di fare un regalo alle mafie, innovando in modo non sufficiente la legislazione penitenziaria” e con “finanche un inutile aggravamento della disciplina”. Ergastolo ostativo, alla Camera passa la linea dura “anti Consulta” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 aprile 2022 Due cose importanti sono successe ieri alla Camera. La prima: la normativa sulla revisione dell’ergastolo ostativo è stata approvata con 285 voti a favore, un contrario e 47 astenuti. Si sono espressi a favore Pd, M5S, Lega, FI, Leu, Coraggio Italia. Astenuti Italia Viva, Azione, +Europa e Fratelli d’Italia con motivazioni opposte: testo troppo restrittivo per i primi, e all’opposto troppo permissivo per FdI. Ora passa al Senato che dovrà votarla entro il 10 maggio. Ma non si preannunciano scossoni. Poi toccherà alla Corte Costituzionale vagliarla per capire se risponde ai parametri dettati: solo allora scopriremo se siamo in presenza di ‘ un nuovo ergastolo ostativo’, come voluto dai Cinque Stelle, o se la norma può dirsi conforme a Costituzione. A rivendicare il risultato ci ha pensato il leader pentastellato Giuseppe Conte: “Grazie al Movimento 5 Stelle, che ha portato questa proposta di legge in Aula, oggi (ieri, ndr) la Camera con il testo approvato - ha fissato dei chiari paletti contro il rischio che importanti boss mafiosi e detenuti per gravi reati possano uscire dal carcere”. Per il Pd ha parlato la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti, Anna Rossomando: “L’approvazione della riforma dell’ergastolo ostativo alla Camera segna una assunzione di responsabilità da parte del Parlamento dopo l’ordinanza della Corte Costituzionale dello scorso anno. Era un passaggio ineludibile e attraverso il lavoro in commissione Giustizia e poi in aula, l’obiettivo è stato raggiunto, riaffermando il massimo impegno sul fronte della lotta alla criminalità organizzata e alle mafie e il rispetto delle garanzie chiaramente richiamate dalla Costituzione”. Da segnalare che durante il voto sono usciti dall’aula diversi dem, tra cui Matteo Orfini e Enza Bruno Bossio. Quest’ultima nelle battute iniziali della seduta aveva preannunciato che non avrebbe votato in quanto “nel dibattito in commissione c’è stato un appiattimento pregiudiziale, verso l’indirizzo anti Corte costituzionale, che ha prodotto un testo in alcuni passaggi addirittura più negativo di quello vigente. Per questo ho deciso di non partecipare a questo scempio costituzionale che il legislatore ha deciso di compiere e non partecipo con nessun voto a questa seduta”. Mentre la deputata di Italia Viva, Lucia Annibali ha motivato così l’astensione del suo gruppo: “Nonostante molte delle distorsioni più evidenti nel testo siano state attenuate restano troppe criticità che hanno portato Italia Viva ad astenersi. Su un tema complesso e delicato come il carcere non possiamo dimenticare il dettato costituzionale e la finalità rieducativa della pena”. Invece Andrea Delmastro, deputato e responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia, ha motivato così l’astensione: “FdI si astiene su un provvedimento che cerca di mettere una toppa ad un lento ma inarrestabile processo di erosione della normativa speciale antimafia”. Ha usato espressioni gravi, e per questo è stato più volte ripreso da Ettore Rosato che stava presiedendo, Andrea Colletti, capogruppo di Alternativa: “Oggi non abbiamo votato a favore di questa proposta di legge, perché l’errore è stato proprio il passo iniziale. Questa sentenza della Corte costituzionale è stato un vero e proprio favore alle organizzazioni mafiose e terroristiche e, di questo, la Corte costituzionale deve renderne conto, non solo all’Aula, ma al Paese intero”. La seconda cosa accaduta: nell’ambito della stessa discussione, è stato bocciato l’emendamento a prima firma Riccardo Magi (+ Europa) sottoscritto insieme ad Enrico Costa (Azione) e la dem Enza Bruno Bossio che avrebbe cancellato il cuore della Legge Spazza-corrotti, voluta fortemente dell’ex Ministro Bonafede. “La modifica che ho presentato - dice Magi - mirava ad abrogare una norma che equipara i reati contro la pubblica amministrazione ai reati di criminalità organizzata e di terrorismo. Il mio emendamento è stato bocciato grazie ai voti di Pd, FI e Lega e a vincere è stato solo il populismo giudiziario dei 5 Stelle. Questo voto ha dimostrato la vera natura di tutti quei partiti che si definiscono garantisti e viene spazzata via, ancora una volta, ogni possibilità di una vera riforma della giustizia di cui questo Paese ha fortemente bisogno”. Magi ricorda anche che “all’epoca del voto sulla Spazza-corrotti, Forza Italia aveva presentato una bella pregiudiziale di costituzionalità anche con riferimento a questa parte della legge, il Pd aveva votato contro definendo lo Spazza-corrotti una norma “spazza diritto”, la Lega aveva votato favorevolmente rinnegando poi quella scelta al punto di promuovere i referendum per la giustizia giusta”. Ieri per giustificare il voto non coerente col passato abbiamo assistito, come ha detto giustamente Costa, a delle “acrobazie che lasciano stupefatti”. Sconcerto anche dal Presidente dell’Unione Camere Penali, Giandomenico Caiazza: “È davvero sconfortante che la Camera abbia respinto l’emendamento proposto dal deputato di + Europa, Riccardo Magi, che avrebbe posto fine ad una norma insensata, pericolosa e demagogica”. Ergastolo, sì della Camera, ma dopo il Senato c’è la Corte costituzionale di Angela Stella Il Riformista, 1 aprile 2022 La modifica del regime ostativo passa tra moltissime assenze. Critiche per i tanti paletti. La dem Bruno Bossio: “Scempio costituzionale”. Antigone: “Occasione persa”. Soddisfatti i grillini. Il vero test sarà la Consulta. Via libera ieri dell’Aula della Camera alla normativa sulla revisione dell’ergastolo ostativo. Il testo è stato approvato con 285 voti a favore, un contrario e 47 astenuti. Si sono espressi a favore Pd, M5S, Lega, FI, Leu, Coraggio Italia. Astenuti Italia Viva, Azione, +Europa e Fratelli d’Italia. Ora passa al Senato che dovrà votarla entro il 10 maggio. Da segnalare che durante il voto sono usciti dall’aula diversi dem, tra cui Matteo Orfini e Enza Bruno Bossio. Quest’ultima nelle battute iniziali della seduta aveva preannunciato che non avrebbe votato in quanto “nel dibattito in commissione c’è stato un appiattimento pregiudiziale, verso l’indirizzo anti Corte costituzionale, che ha prodotto un testo in alcuni passaggi, addirittura più negativo di quello vigente. Per questo ho deciso di non partecipare a questo scempio costituzionale che il legislatore ha deciso di compiere e non partecipo con nessun voto a questa seduta”. Mentre l’onorevole di Italia Viva, Lucia Annibali ha motivato così l’astensione del suo gruppo: “Nonostante molte delle distorsioni più evidenti nel testo siano state attenuate restano troppe criticità che hanno portato Italia viva ad astenersi. Su un tema complesso e delicato come il carcere non possiamo dimenticare il dettato costituzionale e la finalità rieducativa della pena”. In particolare per la parlamentare “l’abrogazione delle forme di collaborazione impossibile o inesigibili, che impedisce di distinguere tra chi rimane silente suo malgrado e chi sceglie, determina un vulnus normativo inspiegabile. Così come l’innalzamento del tetto massimo della pena temporanea per accedere alla liberazione condizionale è solo una norma di valore simbolico, che risponde a una precisa esigenza politica e che crea una disparità di trattamento fuori da ogni alfabeto costituzionale”. Motivazione opposta addotta da Andrea Delmastro, deputato e responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia, per giustificare la loro astensione: “Fdi si astiene su un provvedimento che cerca di mettere una toppa ad un lento ma inarrestabile processo di erosione della normativa speciale antimafia”. Soddisfatto invece il relatore Perantoni del M5S: “Il provvedimento approvato è frutto di un duro lavoro di sintesi nel quale come relatore ho tenuto fermi due temi: il rispetto della pronuncia della Consulta, da cui è nata l’esigenza dell’adeguamento legislativo, e la previsione di norme estremamente rigide per i mafiosi non pentiti”. Per la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando, “l’approvazione della riforma dell’ergastolo ostativo alla Camera segna una assunzione di responsabilità da parte del Parlamento. Era un passaggio ineludibile e attraverso il lavoro in commissione Giustizia e poi in aula, l’obiettivo è stato raggiunto, riaffermando il massimo impegno sul fronte della lotta alla criminalità organizzata e alle mafie e il rispetto delle garanzie chiaramente richiamate dalla Costituzione”. Il risultato non ottiene il placet di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “La riforma approvata è un’occasione persa. Il legislatore è rimasto imprigionato nella paura di fare un regalo alle mafie, innovando in modo non sufficiente la legislazione penitenziaria. Inoltre nella nuova legislazione c’è stato finanche un inutile aggravamento della disciplina”. Appare davvero difficile districarsi tra tutti questi pareri su un testo che andrà letto e metabolizzato con l’aiuto dei giuristi. Ma la domanda cruciale a cui rispondere è: il testo approvato ieri, che presumibilmente non riceverà modifiche al Senato, risponde alle indicazioni date dalla Corte Costituzionale nella famosa ordinanza 97 del 2021, che si conclude così: “Compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte”. Lo scenario che potrebbe aprirsi è quello di uno scontro istituzionale tra la Corte e il Parlamento. Se la Consulta non ritenesse il testo approvato rispondente ai parametri indicati in quella ordinanza, il Parlamento come reagirebbe? “Sull’ergastolo ostativo niente sconti: i mafiosi non usciranno” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2022 Parla Giulia Sarti, deputata e responsabile Giustizia del M5S. Approvata alla Camera la riforma del regime ostativo ai benefici per detenuti mafiosi e terroristi che non hanno collaborato con la giustizia. La normativa è passata con 285 sì, un contrario e 47 astenuti. Ora tocca al Senato, che dovrà approvarla entro metà maggio, il termine ultimo per legiferare, concesso dalla Corte costituzionale un anno fa, dopo aver sancito l’incostituzionalità dell’ostativo assoluto per la libertà condizionata. Nel 2019, la stessa Corte, in autonomia, aveva dichiarato incostituzionale l’ostativo assoluto per i permessi premio e aveva messo essa stessa i paletti per ottenerli. Della riforma ne parliamo con Giulia Sarti, deputata e responsabile Giustizia del M5s. Lei ha detto: “È una legge che non avremmo voluto fare”. In che senso? Lo abbiamo ribadito anche ieri: pur rispettandole, non condividiamo le decisioni della Corte costituzionale e della Cedu. Per noi sarebbe stato meglio non modificare l’ostativo, quindi escludere sempre dai benefici quei mafiosi che non hanno mai collaborato, perché l’emergenza mafia c’è ancora. Può spiegare ai non addetti ai lavori i punti principali della nuova norma e perché i boss pure stragisti non possono rallegrarsene? Il primo punto fondamentale è che il boss detenuto può chiedere i benefici, ma è lui che deve portare le prove che non ha più collegamenti con la sua organizzazione criminale e che non c’è il pericolo che li ripristini. Deve anche aver risarcito le vittime o dimostrare che era nell’impossibilità di farlo. Sarà pure sottoposto, obbligatoriamente, così come il suo nucleo familiare, ad accertamenti patrimoniali. Il Tribunale di Sorveglianza, prima di decidere, deve chiedere il parere ai pm antimafia che si sono occupati del percorso criminale del detenuto. Altro punto importante: non sarà più il singolo magistrato di Sorveglianza a decidere, ma il tribunale collegiale. Tanti magistrati antimafia, però, avevano chiesto che se ne occupasse un unico tribunale, a Roma, così come per le proroghe del 41-bis... Sarebbe stata una soluzione a rischio di incostituzionalità per il principio del giudice naturale, ma l’importante è avere ordinanze con criteri omogenei. Finora ci sono oltre 100 magistrati di Sorveglianza che decidono, con questa riforma saranno 26 tribunali. Lucia Annibali, per motivare l’astensione di Italia Viva, ha sostenuto che la legge ha ancora troppe criticità rispetto al principio della rieducazione della pena. Cosa risponde? Prima di parlare, bisogna conoscere cos’è l’associazione mafiosa e sapere che quel vincolo di affiliazione si può sciogliere solo con la collaborazione con la giustizia. C’è stato il tentativo di +Europa di far passare un emendamento per escludere l’equiparazione dei reati contro la Pubblica amministrazione ai reati di mafia e terrorismo. Il firmatario, Riccardo Magi, sostiene che sia incostituzionale… Assolutamente no, tanto è vero che quell’emendamento, inutile e strumentale, è stato bocciato dall’aula a scrutinio segreto. Il motivo è semplice, nel testo approvato c’è già la distinzione tra mafia e terrorismo da una parte e dall’altra i reati contro la Pa e altri, compresi nell’articolo 4 bis (l’ostativo, ndr). Per M5s avere una riforma senza sconti, rigorosa, è stata una priorità ed è grazie a noi che è stata approvata così alla Camera. Ora il Senato deve fare la sua parte. Nella riforma c’è stata una specifica dell’ultimo minuto: i boss detenuti al 41-bis potranno fare richiesta di acceso ai benefici, ma possono ottenerli solo se il 41-bis non viene rinnovato o se è stato revocato. Ma non è ovvio dato che quel regime è per i detenuti ancora pericolosi? In effetti è un ossimoro, anche la Consulta aveva previsto l’esclusione dei 41-bis, ma abbiamo dovuto chiarirlo a causa di alcune sentenze della Cassazione, una delle quali aveva come estensore il neo direttore del Dap, Carlo Renoldi. Preparare i detenuti alla libertà: un’attesa che dura da 50 anni di Riccardo Polidoro Il Riformista, 1 aprile 2022 Vivere nella speranza di un cambiamento, questo è il destino di chi si occupa di problematiche ritenute, a torto, non rilevanti per il benessere dei cittadini. Ciò avviene, certamente, per coloro che auspicano un’esecuzione penale conforme ai principi costituzionali e al rispetto delle norme in materia. Aspettative, nella maggior parte dei casi, tradite. Abbiamo vissuto, recentemente, l’esperienza degli Stati Generali, della Legge Delega del Parlamento al Governo, delle Commissioni Ministeriali che hanno, ancora una volta, riacceso l’entusiasmo di lavorare per una giusta causa. Siamo stati, come sempre, delusi. La nomina di Marta Cartabia, il 13 febbraio 2021, a Ministro della Giustizia ha costituito una nuova luce di speranza, conoscendone la storia saldamente ancorata alla nostra Costituzione. Ma nell’anno trascorso - oltre al piacere di sentire finalmente enunciare parole in linea con quanto sarebbe necessario fare - non si sono visti risultati concreti. Ad oggi continuano gli annunci di riforma del sistema penitenziario, senza che s’intraveda la strada maestra. Unica eccezione, la nomina del nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che pur mantenendo fede alla prassi d’indicare un magistrato, ha premiato una toga con competenze specifiche e non un inquirente proveniente dalle fila della Direzione Nazionale Antimafia. Se ne cominciano a vedere i risultati, se il Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento Gianfranco De Gesu ha, in questi giorni, inviato una circolare a tutte le Direzioni degli istituti penitenziari in tema di “Trattamento del dimettendo”: cioè su come va preparato alla libertà il detenuto che ha finito di scontare la pena e quali sono gli adempimenti per seguirlo nei primi mesi di vita fuori dal carcere. Egli ha sottolineato l’importanza dei “Consigli di aiuto sociale” previsti dall’Ordinamento penitenziario. Non sappiamo se tale circolare sia già il frutto di un primo incontro tra il Direttore Generale e il nuovo Capo del Dipartimento, la cui nomina risale solo al 17 marzo u.s., ma è probabile che comunque al DAP si respiri, ora, un’aria diversa. Gianfranco De Gesu, infatti, è un Dirigente Penitenziario di lungo corso, già Capo della Direzione Generale dei Beni e dei Servizi, Provveditore Regionale, prima in Sicilia e Calabria e poi della Toscana e dell’Umbria e riveste l’attuale carica dal novembre del 2020. In oltre un anno, dunque, non aveva mai sollecitato le Direzioni a dare seguito ad una norma in vigore dal 1975. Gliene va dato comunque merito. Inoltre va evidenziato che il neo-Capo, Carlo Renoldi, ha firmato il commento all’art. 74 dell’Ordinamento Penitenziario, che prevede i Consigli di Aiuto Sociale, nella sesta edizione del testo di Franco della Casa e Glauco Giostra. E la mancata istituzione di tali Consigli è stata, da sempre, denunciata dai Radicali, dalle Associazioni e dall’ Unione Camere Penali che, il 17 febbraio u.s., hanno invitato i presidenti delle Camere penali territoriali a sollecitare i presidenti del Tribunale del capoluogo del circondario di loro competenza a predisporre i necessari atti per la formazione dei Consigli di Aiuto Sociale. Dopo circa 50 anni, dunque, si può legittimamente sperare che la norma trovi applicazione, mentre il nuovo Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, ha già provveduto - unico in Italia - da alcuni mesi, alla sua attuazione. È talmente rilevante il ruolo affidato dal Legislatore ai Consigli di Aiuto Sociale che la loro assenza dimostra platealmente il disinteresse della politica al reale reinserimento sociale dei detenuti. Reinserimento che, com’è facile comprendere e come dimostrano le statistiche sulle misure alternative, fa diminuire notevolmente il rischio di recidiva. Il Direttore dell’istituto penitenziario, infatti, deve dare notizia della prevista dimissione del detenuto, almeno tre mesi prima, al Consiglio di Aiuto Sociale che cura che siano fatte frequenti visite ai liberandi, al fine di raccogliere tutte le notizie occorrenti per accertare i loro reali bisogni. Il Consiglio studia il modo di provvedervi, secondo le attitudini dei liberandi e le condizioni familiari. Assiste poi il liberato con efficaci interventi a suo favore, per curarne il reinserimento sociale. Con la recente circolare la lenta macchina burocratica dell’Amministrazione si è avviata; a Palermo vi è stato il primo atto concreto; l’Unione Camere penali ha invitato tutti i suoi presidenti territoriali a sollecitare la piena attuazione della norma. La speranza si tramuterà in cambiamento? Giuseppe Mosconi: “Il carcere non rieduca: potenziamo le misure alternative” di Pamela Ferlin Corriere del Veneto, 1 aprile 2022 Tempi processuali infiniti, mancanza della certezza della pena, recidiva che supera il 70%, a tutto questo aggiungiamo l’inadeguatezza del sistema carcerario. La questione “delitto e castigo” in Italia è talmente marchiana da farci interrogare sull’opportunità di percorsi alternativi e su approcci diversi rispetto all’afflizione detentiva del sistema penitenziario. È la questione carceraria: da afflizione e punizione a misure alternative e giustizia riparativa. Ne parliamo con il professor Giuseppe Mosconi, già ordinario di Sociologia del diritto presso l’università di Padova, presidente dell’associazione Antigone e promotore del Polo Universitario presso il Carcere di Padova. Professor Mosconi, quale sarebbe la soluzione: “buttare via la chiave”? “Non cederò alla provocazione ma sappia che sono tentato. La devianza e il carcere, sono temi connessi alla relazione tra opinione pubblica e delinquenza. Rinchiudere in un’istituzione totale come il carcere il problema della criminalità, rappresenta una soluzione chirurgica ma illusoria. La reiterazione dei reati dopo il carcere è praticamente una certezza, quindi se con la chiave non funziona vorrei dire sì, buttiamo via la chiave”. Quando si applicano misure di rieducazione alternative al carcere la recidiva scende al 19%, questo cosa significa? “Farei un passo indietro e parlerei di nuova prevenzione, di una combinazione di azioni che mirano a disincentivare le condotte criminali”. In termini pratici? “Non solo la minaccia della detenzione: se delinqui ti metto in galera. Piuttosto il ricorso a misure di pubblica sicurezza, che chiamiamo “incapacitative”, che limitano i soggetti potenzialmente pericolosi, per intenderci i vetri anti sfondamento o i sistemi di video sorveglianza. E ancora misure inclusive di welfare e partecipazione per evitare che un soggetto diventi “socialmente pericoloso” alternative e prioritarie secondo me. Per semplificare senza banalizzare: se un ragazzo crea problemi, quel ragazzo ha problemi”. Se questi accorgimenti risultassero insufficienti e la punizione fosse necessaria? “Un approccio preventivo dovrebbe contemplare misure alternative all’uso del carcere in caso di violazione della legge. Sappiamo, da studi internazionali che, quando un soggetto colpevole viene rieducato attraverso misure diverse dal carcere, la possibilità che torni a delinquere precipita a percentuali sorprendenti. Il carcere amplifica lo stigma e terminata la pena, una persona torna in libertà ma si ritrova in un deserto peggiore rispetto a quando lo ha lasciato. Spesso le famiglie si sono sfasciate, la possibilità di trovare un lavoro è azzerata ed è quasi inevitabile tornare a delinquere”. Eppure ci sono percorsi rieducativi anche in carcere, dove l’apporto dei volontari è fondamentale, tutto da buttare? “No, anzi! Due terzi della popolazione carceraria non ha nemmeno il diploma di scuola media, la scolarizzazione è bassissima, in questo senso il percorso scolastico in carcere è una risorsa preziosa. Lavorare durante la detenzione è sarebbe l’occasione per imparare un mestiere, e ha effetti positivi tanto per la famiglia quanto per l’autostima del detenuto stesso che si sente apprezzato e reinserito nel contesto sociale. Ma non posso non rilevare che per esempio in Veneto il carcere di Padova rappresenta un’eccellenza e, pur essendo di gran lunga tra i migliori, offre appena al 16% dei detenuti la possibilità di lavorare presso cooperative esterne”. Quindi lo studio e il lavoro sono validi strumenti di rieducazione? “Sì, ma sono insufficienti. Una volta fuori si è impreparati ad affrontare la società. La rieducazione in carcere non è praticabile. Non parliamo solo di apprendere un mestiere o andare a scuola, ma di assumere volontariamente un percorso riabilitativo e valoriale idoneo alla convivenza sociale. Altrimenti le stesse condizioni che lo hanno indotto a delinquere si ripresenteranno aggravate dallo stigma sociale di essere un ex-detenuto”. Il problema sono le risorse o il metodo? “Più che scarse, le risorse sono mal allocate. Un detenuto costa alla collettività circa €150 al giorno di cui più di due terzi sono destinati a pagare il personale, non le risorse rieducative. C’è una drammatica carenza di educatori che hanno un carico di lavoro impossibile, parliamo di 1 operatore ogni 100 detenuti. Si crea consenso sociale nel custodire e rappresentare agli occhi dell’opinione pubblica la scena teatralizzata della persecuzione penale contro la delinquenza. La società trae sollievo dall’idea che la reclusione sia una soluzione. Ma non lo è”. Come dovrebbe la rieducazione? “Il carcere è un contesto artificiale, dentro le sue mura una rieducazione al contesto civile è impossibile. Rieducazione significa assumere un habitus mentale, psicologico, emotivo e valoriale che regga alla prova delle difficili condizioni del dopo-scarcerazione. Per acquisire una visione diversa un detenuto deve sentirsi una persona meritevole di dignità, di cui vengono valorizzate le potenzialità, capace di istaurare relazioni adeguate. Il carcere, così com’è soddisfa solo il “populismo penale”, il viscerale bisogno di vendetta e l’annullamento del diverso”. Cosa ci dice della giustizia riparativa su cui la proposta Cartabia si spende? “Sarebbe un cambio di paradigma: non più solo punire ma “riparare” la relazione tra l’autore e la vittima, per gestire le conseguenze del reato e riequilibrare la relazione. Uno di fronte all’altra: la vittima esprime la sua sofferenza raccontando la sua esperienza in tutta la sua gravità al colpevole che, a sua volta, comprende la portata del dolore causato, ma può anche spiegarsi. Non basta che l’autore voglia redimersi, il consenso della vittima è fondamentale e la relazione è dialettica”. Chi crea le condizioni perché questo avvenga? “I mediatori che dovrebbero avere conoscenze di diritto, psicologia e sociologia. Si tratta di passare dalla “afflizione per riparare il danno” a una “riqualificazione complessiva dei rapporti sociali”. Il penitenziario respira anche il tessuto sociale in cui si trova. Non è irrilevante che il Due Palazzi si trovi a Padova dove esiste l’università e una vitalità culturale che arriva alle porte del carcere. Il tessuto imprenditoriale è ricettivo attraverso iniziative che offrono lavoro ai carcerati. Tanti volontari forniscono attività culturali, sportive e hobbistiche che occupano detenuti. Gli operatori interni sono sensibili, competenti e preparati. Ma si sa che le istanze formative e educative confliggono con quelle organizzative di una istituzione complessa come il carcere”. Quindi “buttiamo via la chiave” ma prima di averla usata? “Sarebbe anche un risparmio economico e sociale evitare il carcere e reintegrare i trasgressori nel sistema, non è buonismo ingenuo ma necessarie politiche sociali”. Giustizia Riparativa, il Terzo Settore incontra Cartabia di Stefano Allievi vita.it, 1 aprile 2022 Il Terzo settore è responsabile dell’ottanta per cento delle attività trattamenti e rieducative in carcere. Pallucchi, portavoce del Forum del Terzo settore: “La Ministra pone grande attenzione al nostro ruolo, è un cambiamento di prospettiva importante che ci avvicina alla firma del “Protocollo di Intesa” tra il Forum e il Ministero”. Si è svolto ieri l’incontro tra la Ministra della Giustizia Marta Cartabia e la portavoce del Forum del Terzo Settore Vanessa Pallucchi, accompagnata da una delegazione del tavolo di lavoro sulle Persone private della libertà. “Un incontro molto positivo - l’ha definito la portavoce del Forum Vanessa Pallucchi - nel quale abbiamo potuto condividere con la Ministra un tema molto caro al Terzo settore che è quello della giustizia riparativa e della diffusione di un ‘cultura riparativa’, dove la sicurezza è il risultato di relazioni fondate sul rispetto della dignità umana”. L’impegno del Terzo settore su carcere e giustizia riparativa - Il Terzo settore, per sua natura e per le competenze maturate negli anni, è il soggetto in grado di attuare, insieme alle istituzioni, quei percorsi di solidarietà, prevenzione, benessere, attenzione ai bisogni che la riforma della giustizia prevede, sia per quel che riguarda i processi di prevenzione che per la reintegrazione di quei soggetti coinvolti in percorsi di devianza. Ci sono molte organizzazioni sociali già impegnate direttamente nell’inserimento e nel reinserimento di persone private della libertà, o anche indirettamente, attraverso l’ospitalità, all’interno delle proprie attività, di persone coinvolte da procedimenti penali. “Da parte della Ministra - prosegue la Portavoce - abbiamo riscontrato una grande attenzione e il riconoscimento, anche nel processo di rinnovamento del sistema giudiziario, del fondamentale e concreto ruolo che il Terzo settore svolge in questo ambito. Si tratta di un approccio fortemente innovativo per il nostro Paese e di un cambiamento di prospettiva davvero importante”. Gli impegni della Ministra con il Terzo settore - Durante l’incontro si è discusso anche del Protocollo di Intesa che Ministero e Forum stanno per firmare per l’applicazione della legge 67 del 2014, in particolare per i lavori di pubblica utilità, dato che il Terzo settore è responsabile dell’ottanta per cento delle attività trattamenti e rieducative in carcere. Tutte le organizzazioni del Terzo settore potranno interagire con i Tribunali e con gli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (UIEPE) per favorire, soprattutto, il recupero delle persone in attesa di giudizio - considerate di bassa pericolosità sociale - consentendo loro percorsi alternativi al carcere attraverso l’inserimento in lavori socialmente utili, che tengano conto anche delle loro competenze ed esperienze. “In questo senso crediamo sia fondamentale far crescere il livello della formazione fra gli educatori e anche su questo abbiamo trovato grande disponibilità da parte della Ministra per fare in modo che questa facilitazione funzioni al meglio”, ha concluso Pallucchi. Maratona non stop sul nuovo Csm, così Cartabia cerca il patto con i partiti di Liana Milella La Repubblica, 1 aprile 2022 Lunedì l’incontro a oltranza per un’intesa che regga al Senato. I referendum sulla giustizia il 12 giugno insieme alle Comunali. I referendum sulla giustizia radical-leghisti incombono, piazzati dal governo al 12 giugno con le elezioni amministrative, mentre la riforma del Csm è ostaggio del centrodestra e di Iv che fanno la guerra sul sorteggio. E a questo punto Marta Cartabia ingrana la quinta e piazza per lunedì prossimo un incontro “a oltranza”. Non ci si potrà alzare dal tavolo se non sarà stato raggiunto un accordo. Mattarella ha appena detto che “la riforma del Csm non è più rinviabile” e dopo tre lunghi incontri di maggioranza è tempo di chiudere. Anche perché il testo è in calendario alla Camera dal 19 aprile. E le elezioni del Csm si dovrebbero tenere all’inizio di luglio. Anche una Guardasigilli aperta al dialogo come Cartabia dice che “bisogna andare avanti”. Tant’è che la sua agenda per lunedì è stata lasciata volutamente vuota. I partiti arrivano alle 10 e non se ne andranno finché l’accordo sul Csm non verrà raggiunto. Anche sulla legge elettorale, la questione più divisiva. Centrodestra e Iv vogliono il sorteggio. I renziani mandano di nuovo in campo il deputato e tuttora magistrato Cosimo Maria Ferri, nonostante sia sotto processo disciplinare al Csm per i fatti dell’hotel Champagne. Nessuno eccepisce la singolare presenza del da sempre leader di Magistratura indipendente - in liaison con Luca Palamara e Luca Lotti per sponsorizzare al vertice della procura di Roma Marcello Viola - per decidere una riforma contro le correnti. E proprio Ferri boccia un possibile accordo su un sistema elettorale - proposto dalla responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno - che contiene sì la parola “sorteggio”, ma dei collegi elettorali e non dei magistrati candidabili. I sei più grandi verrebbero mescolati all’ultimo momento ai più piccoli in modo da sbaragliare le correnti. “Credo che questo sistema proposto da noi possa essere una soluzione finalmente incisiva” dice la stessa Bongiorno. Ferri invece la definisce “un sistema vecchio e già superato, non ci vuole il sorteggio dei collegi ma quello dei componenti”. La Lega insiste, e potrebbe agganciare anche la disponibilità di Cartabia che ha bocciato senza appello, come incostituzionale, l’ipotesi del sorteggio, seppure “temperato” (prima quello delle toghe, poi il voto sui sorteggiati). Potrebbe starci Forza Italia, mentre è deciso il niet anche di Enrico Costa di Azione. Il Pd, con il capogruppo in commissione Giustizia Alfredo Bazoli, si spende per il possibile compromesso. Da via Arenula fanno notare che passi avanti ci sono stati, dall’intesa sulle “porte girevoli”, ai fuori ruolo, alle valutazioni di professionalità, al rinnovo delle commissioni per tre anziché quattro volte, all’incompatibilità tra chi sta in disciplinare e in quinta commissione che decide i capi degli uffici. Bloccata invece la riduzione da quattro a uno solo per i passaggi da pm a giudice, proprio per via dei referendum tra cui quello sulla separazione delle carriere. Gli altri quattro riguardano la legge Severino, gli avvocati nei consigli giudiziari, l’obbligo di 25 firme per candidarsi al Csm, la stretta per le misure cautelari. È un appuntamento che conta molto per la Lega. Il 12 giugno è vicino. Cartabia insiste per chiudere già adesso un accordo che regga anche al Senato, mentre proprio la senatrice Bongiorno chiede mani libere a palazzo Madama. Italia viva lo stesso. La risposta di Cartabia è netta: lunedì si rilegge tutto, testo ed emendamenti. Per chiudere un’intesa che non costringa il governo alla fiducia. La trattativa infinita sul Csm, nuova idea per uscire dallo stallo: il sorteggio dei collegi elettorali di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 aprile 2022 La trattativa va avanti, e per lunedì la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha annullato tutti gli impegni per proseguire “a oltranza” la prossima riunione con i rappresentanti dei partiti; l’obiettivo è trovare la soluzione per la riforma del Consiglio superiore della magistratura, e il tempo stringe. Il capo dello Stato, che del Csm è presidente, l’altro ieri ha chiesto per la terza o quarta volta che si approvino in fretta le modifiche, in modo che l’organo di autogoverno da rinnovarsi in estate sia scelto con le nuove regole. Lo slittamento della discussione nell’aula di Montecitorio al 19 aprile ha concesso una settimana di tempo in più (la “settimana di passione” che precede la Pasqua), ma c’è urgenza di trovare un accordo per non arrivare all’appuntamento con la maggioranza spaccata. E con lo spettro del voto di fiducia. Il punto dirimente, e divisivo, resta il sistema elettorale del Csm. La destra dello schieramento che appoggia il governo (Forza Italia e Lega) spalleggiata da Italia viva e dall’opposizione di Fratelli d’Italia, insiste per il sorteggio temperato dei componenti togati: estrazione dei candidati e poi voto. Ma la ministra - sostenuta dal Pd e dai Cinque stelle che hanno rinunciato a battere questa strada, inizialmente indicata dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, per concentrarsi su altre priorità - ritiene che sarebbe una modifica incostituzionale. E una presidente emerita della Consulta non può dire sì a una riforma che rischia di essere bocciata dai suoi ex colleghi. Ancora ieri mattina i capigruppo di Forza Italia e Lega hanno ribadito che dai rispettivi vertici non ci sono indicazioni di rinunciare agli emendamenti pro-sorteggio, ma la possibile novità arriva da un’altra proposta di modifica firmata da nove deputati leghisti, di cui la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno ha parlato direttamente con la ministra: in sostanza si suggerisce, attraverso un complicato meccanismo, di sorteggiare non gli eleggibili ma gli elettori, affidando all’estrazione la composizione dei collegi, in modo che i votanti non abbiamo una base territoriale predefinita di candidati sui quali si possano fare patti preventivi tra correnti. Tutti dicono di voler impedire gli accordi tra i gruppi organizzati, per contrastare “logiche correntizie e spartitorie”, ma per molti il sistema maggioritario binominale proposto da Cartabia non va in questa direzione. “Del tutto inidoneo a raggiungere gli obiettivi prefissati”, l’ha definito il Csm nel suo parere; “non cambia nulla, già oggi le due correnti maggiori sanno quanti eletti avrebbero” sostiene da un’altra prospettiva Giulia Bongiorno che chiarisce: “Alla ministra ho detto che non dobbiamo fare una riforma purchessia, ma per modificare realmente le cose. Dunque se lei vede problemi di costituzionalità nel sorteggio dei candidati, quest’altro emendamento non ne ha e porta comunque con sé un effetto sorpresa per contrastare gli accordi predefiniti”. Enrico Costa, ex forzista passato ad Azione di Carlo Calenda, invita ad affrontare meglio anche altre questioni, dalla responsabilità civile dei magistrati alle valutazioni di professionalità, “pena partorire un topolino”. Ieri Cartabia ha definito la nuova proposta sul Csm una base su cui ragionare. Nella riunione di lunedì si vedrà se questa ipotesi sarà sufficiente a convincere anche Forza Italia e i renziani. Che propongono pure un intervento radicale per impedire di fatto la possibilità che durante la carriera un magistrato passi dalla funzione di giudice a pubblico ministero e viceversa (non più di una volta); su questo punto la ministra ha però ricordato il referendum proposto dalla Lega e fissato per il 12 giugno, che rischia di saltare se nel frattempo la legge viene modificata. E così, con l’intento dichiarato di non impedire la consultazione popolare, l’argomento potrebbe essere stralciato dalla riforma: un ostacolo in meno da superare verso l’agognato e faticoso traguardo. Slitta la riforma del Csm, a 3 anni dai proclami di Bonafede tutto è impantanato di Paolo Comi Il Riformista, 1 aprile 2022 “Il Consiglio Superiore riveste un ruolo di garanzia imprescindibile nell’ambito dell’equilibrio democratico. Pertanto è necessario, e di grande urgenza, approvare nuove regole per il suo funzionamento, affinché la sua attività possa pienamente mirare a valorizzare le indiscusse professionalità di cui la Magistratura è ampiamente fornita”. Così ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, all’incontro con i magistrati ordinari in tirocinio, invitandoli alla prudenza e all’equilibrio nelle decisioni. Nonostante il nuovo appello del capo dello Stato, però, la riforma del Csm pare essersi impantanata. Con una circostanza curiosa. “Stiamo lavorando su tutto il sistema del Csm e della magistratura. Una delle parti della riforma del Csm è il sistema elettorale: le elezioni avverranno tramite sorteggi, saranno creati collegi più piccoli, e ci sarà una sezione che si occuperà solo del disciplinare”, annunciò l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ai primi di luglio del 2019, qualche settimana dopo lo scoppio del Palamaragate. La riforma, definita dal grillino Bonafede “epocale”, sarebbe dovuta essere inviata al legislativo di Palazzo Chigi dopo qualche giorno, per poi essere approvata definitivamente dall’Aula entro l’estate di quell’anno. Bonafede, va detto, non aveva perso tempo e si era affrettato a depositare un testo che, nelle sue intenzioni, doveva mettere fine allo strapotere dei gruppi della magistratura associata all’interno del Csm e alla lottizzazione delle nomine. A distanza di quasi tre anni l’articolato, però, non è mai arrivato in Aula ed è fermo in commissione Giustizia della Camera. Il motivo? La giravolta, a oggi senza spiegazioni, proprio del M5s. Se da un lato Forza Italia, Lega, Italia Viva e Fratelli d’Italia sono favorevoli al sorteggio e hanno presentato degli emendamenti in tale senso, il M5s, invece, ha cambiato radicalmente idea ed è salito sulle barricate per osteggiarli in tutti i modi, rinnegando il suo ex ministro. “Non vorrei che con la scusa di fermare il correntismo, si volesse abbattere direttamente il Csm, come vuole qualcuno”, ha dichiarato Mario Perantoni, il presidente M5s della commissione Giustizia alla Camera. “Il tavolo intorno a cui si sta lavorando attraverso proposte migliorative rispetto allo stato attuale, ad esempio lavorando sulla territorialità, sui collegi e sulle modalità di lavoro delle commissioni, non assecondando una visione populista della giustizia”, ha aggiunto Perantoni, stroncando ogni ipotesi di sorteggio. E di riforma populista ha parlato anche la responsabile giustizia del Pd Anna Rossomando, vice presidente del Senato. Sulla stessa lunghezza d’onda il collega Walter Verini, relatore della riforma: “Dal punto di vista politico, non è tanto la quantità di subemendamenti a preoccupare ma un altro aspetto: la riforma può e deve essere migliorata. Ma non può essere stravolta”. Nel Cdm che licenziò la riforma Cartabia, il premier Mario Draghi lo definì un punto di sintesi importante, dicendo che non sarebbe stata posta la fiducia. Ma aggiunse che sui miglioramenti sarebbe servita condivisione. “Senza condivisione la riforma avrà una vita parlamentare molto, molto difficile”, replicò Verini. La ministra della Giustizia Marta Cartabia questa settimana, comunque, ha incontrato i gruppi di maggioranza per fare il punto sulla riforma. Merita di essere raccontato il siparietto con Cosimo Ferri (Iv), favorevole al sorteggio. Lui: “Se lei è contraria al sorteggio ce ne faremo una ragione”. Lei: “Non posso mettere la mia faccia e la mia storia su una norma incostituzionale, sulla quale ci possono essere anche dei problemi in sede di promulgazione”, facendo intendere che il Quirinale non gradirebbe il sorteggio come sistema di elezione dei componenti togati del Csm. “Questa è un’operazione di mero maquillage come quella caldeggiata dalla ministra Cartabia, lascerebbe le cose proprio come già le conosciamo, non cambierebbe un bel nulla, hanno fatto sapere ieri le toghe di Articolo 101 sul loro blog. “Se non cambiasse nulla grande amarezza”, ha aggiunto il giudice del tribunale di Ragusa Andrea Reale. Salvo ulteriori rinvii, si tornerà a discuterne alla Camera il prossimo 19 aprile. Magistratura, imparzialità e manifestazione di idee di Domenico Airoma* L’Opinione, 1 aprile 2022 La questione delle cosiddette porte girevoli, sul rientro nei ranghi della giurisdizione dei magistrati che hanno vissuto un’esperienza di politica partitica sembra aver oscurato una problematica ben più ampia, che però conserva una sua cocente attualità: il rapporto fra i magistrati e le questioni politiche, lato sensu intese. La problematica investe, oltre che il concreto esercizio della funzione giurisdizionale - per l’influenza che la visione ideale propria del magistrato può avere sulle decisioni che egli assume - la stessa deontica del giudice, cioè il suo dover essere e l’immagine di imparzialità che egli è chiamato a salvaguardare. Una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione afferma in proposito principi chiari. Si tratta di una problematica che conosce oggi una dimensione tutt’affatto nuova rispetto a un sia pur recente passato, dominato dalle famiglie ideologiche. Vi è stata, infatti, un’epoca in cui una parte della magistratura rivendicava un uso alternativo della giurisdizione, vale a dire la strumentalizzazione della funzione giudiziaria per determinare o accelerare cambiamenti dello scenario politico-partitico; non occorreva, a tal fine, prendere la tessera del partito, poiché era molto più utile alla Rivoluzione favorire, da magistrati, gli agognati rivolgimenti degli assetti di potere. Quel tempo può dirsi chiuso, anche se è residuato un sistema di gestione degli incarichi di potere che la vicenda Palamara ha denunciato nel suo carattere sistematico. La partecipazione del magistrato alla discussione sulle questioni di rilievo politico riguarda oggi, soprattutto, il campo interessato dai cosiddetti nuovi diritti, incrocio fra scienza, diritto e persona. A differenza dell’attività politica tradizionalmente intesa, la conflittualità in questo campo attinge a livelli di maggiore profondità, coinvolgendo la stessa dimensione antropologica. La conflittualità è, inoltre, acuita dal fatto che si tratta di questioni che registrano la mancanza di condivisione nel corpo sociale nonché sovente l’assenza del legislatore; un’assenza, quest’ultima, che una parte consistente della dottrina (cfr. fra gli altri, Vittorio Zagrebelsky, ne Il diritto mite) tende a giustificare preferendo che determinate materie vengano trattate dal giudice, essendo egli tecnico più raffinato e affidabile rispetto alle “mutevoli maggioranze parlamentari”. Vi è, inoltre, da considerare che la partecipazione al dibattito pubblico su questi temi difficilmente può mantenersi in un alveo di asettica neutralità, richiedendo una presa di posizione su cosa si intende per umano e per dignità della persona. E, per di più, una tale presa di posizione, per l’assenza di una regola di fonte legislativa, corre il rischio di rappresentare un’anticipazione del giudizio, proprio con riferimento alla meritevolezza di tutela di particolari istanze. Come tutelare, dunque, l’imparzialità nell’esercizio della funzione giurisdizionale con riferimento alle questioni eticamente sensibili, che sembrano oggi esaurire la più gran parte del dibattito politico? In che termini è lecito e deontologicamente compatibile con lo status di magistrato intervenire nel dibattito politico? La questione è stata affrontata dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, nella sentenza n. 8906 del 14 maggio 2020, giungendo a un’importante statuizione, che riflette, anche letteralmente, il pensiero del beato Rosario Livatino, soprattutto nella parte in cui quest’ultimo considerava indispensabile per il magistrato non solo essere ma anche apparire imparziali: “Essere imparziali vuol dire giudicare il caso sottoposto con obiettività e senza preconcetti, seguendo soltanto la propria coscienza nell’applicazione della norma giuridica; vuol dire non lasciarsi influenzare da simpatie, interessi personali, forze e interessi esterni di qualsiasi genere; vuol dire giudicare senza aspettative di vantaggi e senza timore di pregiudizi. L’esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di essere imparziale, ma anche di apparire tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni parzialità, ma anche di essere al di sopra di ogni sospetto di parzialità. Mentre l’essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l’essere magistrato implica una immagine pubblica di imparzialità”. E ancora: “Certo è incomprimibile il diritto dei magistrati a partecipare alla vita politica della società; ed è pura illusione immaginare la loro indifferenza ai valori, come la loro neutralità culturale. Occorre, tuttavia, tenere distinta la politica delle idee -che, come tale, non contrasta con il dovere di imparzialità del magistrato ed è perciò a esso consentita, sia pure col necessario equilibro e la dovuta moderazione - dalla politica partitica, dalla lotta tra gruppi contrapposti, alla quale il magistrato, per la particolare collocazione costituzionale dell’ordine giudiziario cui appartiene, deve astenersi dal partecipare, a tutela di quella immagine pubblica di imparzialità che è coessenziale all’esercizio della funzione giurisdizionale che gli è demandata”. Come applicare il criterio ermeneutico sopra enunciato dalla Corte di Cassazione con riferimento alla politica delle idee? Se “l’essere imparziale si declina in relazione al concreto processo” mentre “l’apparire imparziale costituisce un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato”, sembra lecito poter giungere a una prima importante conclusione. Sostenere, anche nel dibattito pubblico, una determinata visione con riferimento alle questioni eticamente sensibili, oggetto di dibattito politico e di pressione sul versante legislativo, non è di per sé pregiudizievole per l’imparzialità del magistrato. Lo diviene in due ben precise circostanze. La prima si ha quando quella visione condiziona a tal punto l’esercizio della funzione da condurre il magistrato, nell’ambito di una concreta vicenda sottoposta al suo giudizio, all’adozione di una determinata decisione ultra se non proprio contra legem, assumendosi il compito di attribuire meritevolezza di tutela a istanze che non hanno trovato copertura legislativa. La seconda si ha quando, al di fuori di concrete vicende processuali, nel partecipare al dibattito pubblico il magistrato tenga una condotta incompatibile con il suo status, che impone di osservare sempre uno stile improntato a equilibrio e a serietà di argomentazioni. Al di là di tali circostanze, occorre evitare che un’eccessiva e impropria dilatazione del requisito dell’imparzialità porti a una mortificazione assoluta della libertà di manifestazione del pensiero del magistrato, sul quale incombe sia il dovere di salvaguardare il prestigio della funzione giudiziaria, sia quello di contribuire alla crescita culturale della propria comunità. Nella consapevolezza, soprattutto per il magistrato credente, della “necessità di valorizzare ogni forza che miri consapevolmente all’attuazione dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nell’attività legislativa, giudiziaria, amministrativa, in tutta la vita pubblica” (così Rosario Livatino nella conferenza “Fede e diritto”, richiamando le parole rivolte da San Giovanni Paolo II nel 1982 all’Unione giuristi cattolici). *Centro studi Rosario Livatino Flick: “Non vedo una politica forte capace di cambiare davvero la giustizia” di Errico Novi Il Dubbio, 1 aprile 2022 Ma la politica che insegue la riforma del Csm è finalmente in grado di cambiare la giustizia, a trent’anni da Mani pulite? “Non lo è ancora”, secondo Giovanni Maria Flick. La politica, dice il presidente emerito della Consulta, “deve rassegnarsi all’idea di realizzare quegli obiettivi effettivamente alla propria portata. Le serve concretezza, e la rinuncia alla pretesa di una Grande Riforma”. In ogni caso, non ha ancora “la capacità di ribattere alla pretesa della magistratura di provvedere lei a correggere le storture della politica e in generale del Paese, con le sentenze, anzi, semplicemente con le indagini”. Partiamo da dove Giovanni Maria Flick concluderà il proprio intervento oggi a Napoli, o meglio al webinar organizzato dagli avvocati napoletani, e dalla loro Associazione Piero Calamandrei, sulle riforme della giustizia. “Dal presidente Mattarella, si deve partire. Non per piaggeria: lui non ne ha bisogno e io non ne sono capace. Ma quel suo discorso a Montecitorio in occasione del reincarico, quella parte dedicata alla giustizia, contiene in sé tutti i principi necessari per scrivere un decalogo della giustizia che sia degno di un Paese civile”. E allora è fatta, presidente Flick: la riforma, a cominciare dalla riforma del Csm, può essere costruita a partire da lì. Cosa manca? La politica. La politica attuale non è in grado? Non lo è ancora. Continua a usare la giustizia come uno strumento per colpire l’avversario. E comunque non mi pare ancora orientata verso l’obiettivo, non ha l’atteggiamento necessario per gestire l’organizzazione e le regole della giustizia, ovviamente senza entrare in alcun modo nella indipendenza dei giudici e nella loro soggezione soltanto alla legge. Qual è il modo in cui la politica dovrebbe riformare la giustizia? Forse deve rassegnarsi all’idea di realizzare quegli obiettivi effettivamente alla propria portata. Le serve concretezza, e la rinuncia alla pretesa di una Grande Riforma. E sa perché? Perché le grandi riforme risentono inevitabilmente del peso che viene dal passato. Si accumulano gli errori, li si fa sedimentare, fermentare e poi si pretende di individuare tutte le soluzioni utili a evitare che si ripetano. Ma l’organizzazione della giustizia deve essere regolata dalla politica, dal legislatore attraverso la formulazione delle regole che devono attuare i principi, con la capacità di intervenire progressivamente sulle questioni via via messe sul tavolo dalla realtà. Naturalmente serve anche la forza autorevole di una politica che sappia imporsi. E vede questa forza nella politica, nel Parlamento di oggi chiamato a riformare la magistratura? No, non la vedo ancora, non vedo ancora la capacità di ribattere alla pretesa maturata dalla magistratura soprattutto a partire da Mani pulite, vale a dire la pretesa di provvedere lei, la magistratura, a correggere le storture della politica e in generale del Paese, con le sentenze, anzi, semplicemente con le indagini. Non riesco a vedere ancora una politica che sappia opporsi a una simile prospettiva, che è appunto ancora quella di trent’anni fa, e riaffermare il proprio primato nella democrazia. Non vedo una politica in grado di non farsi intimidire da una magistratura che sembra dirle: “Tu non puoi riformare alcunché perché hai troppi scheletri nell’armadio”. In controluce lei ancora coglie una dialettica del genere? Colgo da una parte la politica che si arrocca su alcuni dogmi, e una magistratura che sembra ancora dire “non si tocca niente, non vogliamo cambiare niente”. Lo si è visto nei giorni scorsi con il parere del Csm sulla proposta di riforma avanzata dalla ministra Cartabia. È la politica il luogo in cui si costruiscono le scelte per il futuro. Al momento è ancora il luogo in cui ci si illude invece di poter rimediare agli errori del passato, inclusi gli errori della magistratura. D’altra parte due anni di pandemia dovrebbero averci portato suggerimenti proprio in quest’ottica. Scusi presidente, cosa c’entra la pandemia con la riforma della giustizia? Pensi se il legislatore, con la pretesa di scolpire per sempre nel marmo la riforma perfetta, l’avesse prodotta prima del covid: in gran parte forse quel lavoro, considerata la rivoluzione a cui abbiamo dovuto adeguarci in tanti campi della vita associata, avremmo dovuto buttarlo di fronte al sorprendente progresso della tecnica. È un modo per ribadire che non servono soltanto le riforme definitive ed epocali, magari a costo zero, ma la capacità di regolare le questioni via via che si presentano, ed è sempre la politica a doverlo fare. Non le chiedo quali emendamenti al testo Cartabia preferisce, ma solo con quali criteri li sceglierebbe... Vuole un parametro? È pronto, eccolo: il lavoro della commissione Ruotolo sul carcere. Notevole nella sua concretezza della quotidianità. Non tutti i contributi scientifici raccolti in questi mesi dal governo, nonostante la loro saggezza e profondità, sono sembrati efficaci come la proposta avanzata dalla commissione Ruotolo per migliorare la vita nelle carceri. Concretezza e realismo: lo ha rilevato anche la ministra Cartabia. Si vuole migliorare la vita e le relazioni dei detenuti subito? Intanto incrementiamo il ricorso ai video-colloqui, che durante il Covid sono serviti moltissimo. E ricorriamo alla videosorveglianza per poter gestire al meglio la cosiddetta vigilanza dinamica, cioè il regime per cui nei penitenziari le celle restano aperte e i reclusi possono muoversi con maggiore libertà. È una politica che gli agenti contestano perché li tiene troppo in apprensione, ma con le videocamere, usate secondo un ragionevole bilanciamento con il diritto alla privacy e con il controllo di tutto ciò che si svolge in carcere, tutto può essere affrontato forse meglio. A cominciare dai rischi di maltrattamenti, per usare un linguaggio un po’ eufemistico. Torniamo a Mattarella e al decalogo per una giustizia da Paese civile: vede quel decalogo ancora lontano dall’essere sancito? Ancora sì. Ancora abbiamo una magistratura che pretende di scrivere la storia, di distinguere il bene da ciò che non lo è, anziché accertare il singolo fatto illecito. Come nasce una simile pretesa? Di fronte alla crisi della politica, la magistratura, da Mani pulite in poi, ha ritenuto di poter dire “solo noi abbiamo espresso figure in grado di mettere in salvo il Paese”. Ci si richiama spesso all’eroismo di Falcone e Borsellino. Ma stiamo molto attenti al discorso, sul quale insisto, pronunciato da Mattarella per il secondo suo incarico e ribadito con il suo discorso di due giorni fa ai neomagistrati. Il presidente nel 2015 aveva reso omaggio alla magistratura e ai magistrati che dobbiamo considerare dei martiri e che sono anche altri, come Falcone e Borsellino, ma che sono diventati martiri solo dopo che erano morti. Invece nel febbraio scorso il presidente non ha rinnovato l’omaggio alla magistratura. Ed è inevitabile, perché di martiri non ce ne sono più molti e i problemi sono invece se possibile cresciuti. Per fortuna abbiamo tanti magistrati seri che nel riserbo, nell’abnegazione e con professionalità fanno ammirevolmente il proprio lavoro, ma a mettere in salvo il Paese, lo ripeto ancora una volta, devono essere sempre e comunque le scelte della politica, non le azioni della magistratura. Cominciamo a superare secondo lei lo schema per cui il processo deve basarsi non tanto sul fatto quanto sul suo presunto autore? Cominciamo a comprendere gradualmente che le esigenze della sicurezza non possono schiacciare l’individuo e i suoi diritti, né le garanzie che nel processo dobbiamo riconoscergli. E che il singolo processo penale non serve a reprimere un fenomeno, ma ad accertare la responsabilità dell’individuo in relazione ad uno specifico fatto di reato. Anche se l’individuo è ora messo in pericolo dalla semplificazione manichea proposta dai social, dalle grandi piattaforme, che hanno tutto l’interesse a orientare le persone verso una lettura banalizzante e dicotomica del reale, per manipolarne le scelte anche in termini di mercato, oltre che politici. I partiti tendono ancora a usare la giustizia come una clava per colpire l’avversario? Lo si vede anche nello scontro tuttora in corso sulla riforma del Csm. La volontà di strumentalizzare la giustizia ora si nasconde nei conflitti sui dettagli tecnici. Non si è ancora sradicata, quella tentazione. Lo si vede anche dall’uso mediatico che si continua a fare del processo. Però va detto che proprio sul rapporto fra processo e media si sono fatti dei passi avanti con le norme sulla presunzione d’innocenza... Farei notare che norme del genere in gran parte esistevano già dal 2006, e che non sono state mai prese sul serio. Comunque, della proposta di inserire, nella riforma del Csm, un illecito disciplinare collegato alle nuove norme su media e indagini, conforta l’esclusione dell’ipotesi di sanzioni penali e, appunto, il riferimento all’ambito disciplinare, assai più appropriato. Sarebbe ancora meglio se le condotte che chiamano in causa i principi costituzionali di imparzialità e trasparenza fossero valutate al di fuori delle pastoie che anche il sistema disciplinare inevitabilmente genera, vale a dire sul piano deontologico. E qui entra in gioco l’Anm, che deve anche vigilare sul rispetto della deontologia da parte dei magistrati... L’associazionismo è un valore costituzionale, e va sempre garantito e preservato. Mette insieme le diversità per orientarle allo sforzo di perseguire il bene comune attraverso la partecipazione e l’apporto delle diversità alla vita sociale. Una strada per ritrovare valori in grado di sorreggere e dare senso alla stessa democrazia. Ma è chiaro che se il giudice ha nelle mani la libertà delle persone, deve anche accettare dei limiti in grado di affermare la sua imparzialità e la percepibilità di quest’ultima da parte dei destinatari dei suoi provvedimenti. Se il magistrato invece pretende non tanto di accertare i fatti quanto di riscrivere la storia, è meglio se fa un altro mestiere. E invece i magistrati non tollerano di poter essere giudicati dagli avvocati... Gli avvocati sono chiamati a tutelare gli utenti della giustizia, a rappresentarli: ci mancherebbe che non possano dire cosa pensano di un giudice e che il loro pensiero non debba essere rilevante. Trovo quasi offensivo che, anche al di là delle intenzioni, si accusino gli avvocati di non saper essere imparziali, di essere ontologicamente portati a servirsi del giudizio sui magistrati nei Consigli giudiziari in modo da consumare vendette. È offensivo e attenzione, l’idea della malafede del giudizio piegato alla vendetta è una proiezione con cui si rischia di attribuire ad altri un vizio coltivato dentro se stessi. D’altra parte a volte anche l’avvocato che ricusa il giudice proietta all’esterno una parzialità che forse coltiva, inevitabilmente, nel proprio intimo. Aggiungo ancora un aspetto: quando si prova a compensare i pregiudizi nei confronti dell’avvocato con un vagheggiato suo riconoscimento costituzionale, si dimentica che l’avvocato in Costituzione c’è già. Non solo all’articolo 24, nel diritto alla difesa, ma anche come componente necessario nel Csm. E qui mi permetto di dire che la lezione dei padri costituenti consiste nel reclamare il contributo all’autogoverno della magistratura da parte di figure dotate di saggezza giuridica e umana. Quali appunto si presume siano gli avvocati patrocinanti con una particolare anzianità e i professori di diritto con una cetra esperienza. Se avesse voluto attribuire, ai laici del Csm, una connotazione politica, l’assemblea costituente lo avrebbe scritto. No: vuole avvocati in grado di governare l’ordine giudiziario insieme con i magistrati. Mi pare strano pensare di vietare ai giudici il rientro nella giurisdizione dopo un’esperienza politica e pensare invece che i politici possano passare direttamente al Csm e poi magari tornare di nuovo in Parlamento. La proposta di bloccare anche la seconda delle due porte girevoli non mi pare tanto insensata. Sarà eventualmente la Corte costituzionale a decidere se è illegittima, ma a me sembra rispettosa di un principio. Di sicuro noi non possiamo pretendere da una riforma che risolva d’un colpo tutti i problemi della giustizia. L’ho detto all’inizio e lo ripeto: si deve costruire la giustizia anche con regolazioni progressive. L’importante è riconoscersi attorno ad alcuni principi immodificabili, come ha chiesto ancora una volta il presidente Mattarella nel messaggio del 3 febbraio e nel benvenuto di due giorni fa ai giovani magistrati. E quei principi sono nient’altro che la Costituzione. “Cambiare la legge Spazza-corrotti è un atto di civiltà, per il Pd è un test di coerenza” di Angela Stella Il Riformista, 1 aprile 2022 Parla Riccardo Magi. Ieri sera nell’Aula della Camera è tornato in discussione l’ergastolo ostativo ma per pochi minuti. Si sarebbe dovuto procedere alla votazione di alcuni emendamenti. Ma alla fine è stato tutto rinviato a stamattina alle 9 perché ci sono diversi punti da dirimere tra cui un emendamento a prima firma Riccardo Magi (+Europa) sostenuto anche dalla dem Bruno Bossio e dal responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa che, se approvato, farebbe saltare il cuore della Legge Spazza-corrotti. Esso infatti punta a modificare l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario nella parte riguardante i reati contro la PA. Come sappiamo la cosiddetta Legge Spazza-corrotti, fortemente voluta dall’ex Ministro Alfonso Bonafede, venne approvata nel 2019 e ha assimilato i reati contro la Pubblica Amministrazione ai delitti di criminalità mafiosa o terroristica. Onorevole Magi, questo suo emendamento ha messo in agitazione parecchi suoi colleghi... Mi pare che ci siano molti problemi all’interno della maggioranza sul provvedimento in generale. Il risultato raggiunto in Commissione a parer mio non è per nulla soddisfacente in quanto non risponde ai rilievi della Corte Costituzionale e quindi probabilmente a maggio arriverà un giudizio negativo sulla sintesi trovata dalle forze politiche. Inoltre, temo che il Parlamento non voglia cogliere l’occasione che gli stiamo dando con il nostro emendamento per porre rimedio ad una grave stortura introdotta nel nostro ordinamento nel 2019. Mi riferisco all’equiparazione dei reati contro la Pa a quelli di criminalità organizzata e di terrorismo, proprio in riferimento al regime ostativo del 4 bis ord. pen. Ma qual è il problema? Alcuni colleghi sostengono che questo intervento che noi proponiamo sarebbe estraneo al lavoro che sta svolgendo il Parlamento. Ma non è così. Il tema della legge in discussione non è l’ergastolo in quanto tale ma proprio il regime ostativo e la sua costituzionalità. E quello che è stato previsto nel 2019 dalla Spazza-corrotti a giudizio dei maggiori giuristi italiani presenta degli enormi profili di incostituzionalità, tra cui quella equiparazione. Proviamo ad immaginare come potrebbe andare il voto di oggi. Ci può aiutare a ricordare come andò quello sulla Spazza-corrotti? Questo è il punto politico interessante. Quella legge fu votata dalla maggioranza gialloverde, quindi M5S e Lega. Il Partito Democratico definì quella legge ‘spazzadiritto’ e votò contro. È interessante ricordare a proposito del Pd che la riforma Orlando dell’ordinamento penitenziario, preceduta dai lavori della Commissione Giostra, andava proprio nella direzione di rivedere i reati ostativi, riservandoli solo alle ipotesi associative. Forza Italia abbandonò l’aula nel momento del voto e presentò una pregiudiziale di incostituzionalità molto dura e puntuale che io votai. La Lega appunto votò a favore perché all’epoca vi fu uno scambio tra i principali attori della maggioranza: ai Cinque Stelle fu concessa la Spazza-corrotti che stava molto a cuore al Movimento, e alla Lega la legge sulla legittima difesa. Ma il Carroccio si è poi pentito di quel voto, lo ha rinnegato pubblicamente e ha promosso i referendum con il Partito radicale sulla ‘giustiziagiusta’. Quindi dovrebbe essere approvato? Ci sarebbero le condizioni politiche per fare questo passo di civiltà giuridica. Da Italia Viva abbiamo già raccolto al momento un voto favorevole sul nostro emendamento. Il Parlamento affermerebbe che l’efficienza e l’efficacia della giustizia non risiedono nelle misure che vengono introdotte da una spinta emotiva. Ieri sera c’è stato questo rinvio per una nuova seduta del Comitato dei nove che precederà l’aula. Ma quindi ci potrebbero essere degli ostacoli al voto? L’emendamento ormai è ammesso. Mi è stato chiesto di ritirarlo perché questo non è il momento politico adatto. Lei cosa farà? Assolutamente non lo ritiro. Quindi oggi assisteremo ad una prova di coerenza dei partiti? È esattamente questo il punto. Per i dem dovrebbe essere naturale sostenere il nostro emendamento, se non fosse per una generalizzata sudditanza psicologica e politica verso il M5S. Fallisce il blitz per cancellare un altro pezzo della legge Spazza-corrotti di Giulia Merlo Il Domani, 1 aprile 2022 Bocciato l’emendamento che prevedeva di cancellare dalla lista dei reati “ostativi” alcuni reati contro la pubblica amministrazioni, introdotta dalla legge “Spazza-corrotti” nel 2019. Magi attacca: Pd, Forza Italia e Lega all’epoca avevano criticato la previsione, oggi la salvano. Fallisce il tentativo di cancellare un altro pezzo della legge cosiddetta legge “Spazza-corrotti”, attraverso la riforma dell’ergastolo ostativo, che oggi è stata approvata alla Camera. Ad affossarlo è stato il voto contrario in particolare di Partito democratico e Forza Italia che, all’epoca del governo Conte 1, avevano parlato invece di norme “spazza diritto”. La vicenda è complicata e parte dalle previsioni della legge voluta nel 2019 dall’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nella quale si è prevista l’equiparazione dei reati contro la pubblica amministrazione ai reati di criminalità organizzata e di terrorismo, prevedendo anche per essi il regime ostativo dell’ordinamento penitenziario. Ovvero, il fatto che i benefici penitenziari possano essere concessi al detenuto solo in caso di collaborazione con la giustizia. Oggi che la previsione dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario è in discussione, il deputato di Più Europa Riccardo Magi, insieme ai deputati del Pd Enza Bruno Bossio e Fausto Raciti e al deputato di Azione, Enrico Costa, aveva presentato un emendamento che abrogava proprio questa previsione, eliminando i reati contro la Pa tra quelli “ostativi”. La bocciatura - Più della coerenza con le posizioni del 2019 contro la Spazza-corrotti, hanno potuto le ragioni di opportunità politica di non entrare in rotta di collisione con il Movimento 5 Stelle su un testo di riforma che veniva da un iter già molto travagliato. L’emendamento, infatti, è stato bocciato dall’aula della Camera in un voto a scrutinio segreto chiesto da Fratelli d’Italia. Solo Italia Viva ha dato indicazione di voto positivo, mentre Forza Italia ha lasciato libertà di coscienza. “All’epoca del voto sulla Spazza-corrotti, Forza Italia aveva presentato una bella pregiudiziale di costituzionalità anche con riferimento a questa parte della legge, il PD aveva votato contro definendo lo Spazza-corrotti una norma “spazza diritto”, la Lega aveva votato favorevolmente rinnegando poi quella scelta al punto di promuovere i referendum per la giustizia giusta”, ha attaccato Magi dopo il no al suo emendamento. “È drammatico però constatare che oggi non vi siano stati il coraggio e la lucidità politica di cancellare almeno una parte di quella pessima pagina di populismo penale”. Punire per reprimere. La trovata del M5S contro la prostituzione di Simona Musco Il Dubbio, 1 aprile 2022 Presentato il ddl per colpire i clienti con multe e anche il carcere: si rischia fino a tre anni in caso di comportamenti abituali. Punire per reprimere. È questo il concetto di fondo del ddl a firma M5S- LeU sulla prostituzione. Un disegno di legge presentato a palazzo Madama che criminalizza i clienti delle prostitute, seguendo l’approccio “neo-abolizionista” introdotto in Svezia nel 1999 e oggi in vigore anche in Francia. Modello, affermano i firmatari del ddl (in prima fila la pentastellata Alessandra Maiorino), che ha portato ad una diminuzione del fenomeno del 65%. La proposta prevede la punibilità dei clienti, per i quali è prevista una sanzione amministrativa da 1500 a 5mila euro. L’atto conclusivo è la sanzione dell’ammonimento da parte del questore, nel caso in cui gli elementi portino a desumere “l’abitualità” del cliente. E in caso di reiterazione della condotta è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni, pena che potrà essere sospesa nel caso di partecipazione “con successo” a percorsi di recupero. Il senso della proposta sta tutto a pagina 9 della relazione introduttiva: “Chi alimenta la domanda di prestazioni sessuali a pagamento - si legge - rientra nel rapporto sinallagmatico partecipando a pieno titolo allo sfruttamento e alla lesione della dignità della persona”. In Italia, attualmente, è in vigore un modello abolizionista: la legge, infatti, ha un approccio neutrale nei confronti dell’attività in sé e non punisce i clienti, bensì i fenomeni di sfruttamento, reclutamento e favoreggiamento. Ma tale modello, secondo i firmatari del ddl nonché secondo il Parlamento europeo, non sarebbe efficace nella repressione dei fenomeni di tratta e nel processo di affermazione della parità di genere. Il concetto di fondo, insomma, è che il cliente rappresenta “l’ultimo anello di una catena di sopraffazione che inizia con i trafficanti di persone o con le condizioni di vulnerabilità economica, sociale o personale della persona prostituita, prosegue con i suoi sfruttatori e termina con l’acquirente delle prestazioni sessuali”. La Commissione europea ha fornito, nel 2018, un identikit degli attori di questo fenomeno: vittime di sfruttamento sessuale sono, nel 95% dei casi, donne e bambine. E i fruitori del mercato del sesso sono quasi sempre uomini. La prostituzione è, dunque, “un fenomeno di genere”. La libera scelta, in questo panorama, non giocherebbe alcuna differenza, al di là della decisione di circa 120.000 persone (solo in Italia) di avviarsi al mercato dei sex workers. E per avvalorare la propria tesi i firmatari citano la Corte costituzionale, tirata in ballo dalla Corte d’appello di Bari nel caso di Giampaolo Tarantini, che aveva espresso dubbi di costituzionalità in merito all’articolo 3 della legge Merlin, laddove indica come illecito penale il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione “volontariamente e consapevolmente esercitata”. Per la Consulta (sentenza 141 del 2019), la prostituzione libera non sarebbe riconducibile all’autodeterminazione sessuale, in quanto la prostituzione “non rappresenta affatto un strumento di tutela e sviluppo della persona umana, ma solo una particolare forma di attività economica”. Nulla a che vedere con la libera sessualità, dunque. E nemmeno con la libera iniziativa economica, prevista dall’articolo 41 della Costituzione, in quanto anche essa ha un limite, quello della “dignità umana”. “Chi offre una prestazione sessuale in cambio di un corrispettivo in denaro lo fa quasi sempre perché si trova in difficili condizioni economiche, o perché costretta con l’inganno, come dimostra la storia di tante giovani donne migranti, provenienti soprattutto dalla Nigeria, alle quali nel tempo l’Italia ha riconosciuto la protezione umanitaria e percorsi di fuoriuscita dalla tratta in base all’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione - dichiara al Dubbio la senatrice dem Valeria Valente, presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio. Dobbiamo quindi riconoscere che il fenomeno della tratta e della prostituzione è molto cambiato dai tempi della Legge Merlin, che è stata approvata nel 1958 principalmente per abolire le cosiddette “case chiuse” regolamentate dallo Stato. L’Indagine conoscitiva sul fenomeno della prostituzione, condotta dalla Commissione affari costituzionali del Senato e approvata il 1° luglio 2021 - aggiunge - ha escluso la possibilità di legiferare nel senso della legalizzazione della prostituzione sul modello tedesco, anche in base alla sentenza n. 141 del 2019 della Corte Costituzionale”. La strada, dunque, è quella del modello svedese, il cui possibile impatto “va poi in ogni caso attentamente pensato, tenendo conto del contesto attuale del mercato della prostituzione in Italia, caratterizzato da una forte presenza della criminalità organizzata, con segregazione e controllo spesso molto violenti nei confronti delle donne”. Ma c’è un punto che Valente non manca di sottolineare: “Occorre lavorare contestualmente affinché tali pene non spingano mai l’attività di prostituzione ancora più nel sommerso, rendendo più difficile l’intervento di contrasto delle forze dell’ordine e aumentando i rischi e la violenza esercitata nei confronti delle donne costrette a prostituirsi. Le leggi da sole sono necessarie, ma non sufficienti conclude -. Occorre lavorare instancabilmente per costruire una società in cui i rapporti tra uomini e donne siano improntati alla parità, al rispetto e al riconoscimento reciproci”. Secondo Pia Covre, che nel 1982 ha fondato il Comitato per i diritti civili delle prostitute insieme a Carla Corso, “legalizzare la prostituzione significherebbe proprio individuare i casi di tratta e sfruttamento e combatterli ha dichiarato al Dubbio nelle scorse settimane -. La tratta non colpisce solo il lavoro sessuale, ma anche quello nei campi, nei cantieri, nell’edilizia. Se dovessimo abolire tutti i lavori dove c’è sfruttamento dovremmo chiudere molte cose del nostro mercato. E lasciare il lavoro sessuale nel sottobosco significa lasciarlo in mano alla criminalità” . Affidamento in prova: legittimo il rito “de plano” per la ragionevole durata del processo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 aprile 2022 La Corte Costituzionale, con la sentenza numero 74, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Messina, nella parte in cui stabilisce che il giudizio sulle richieste di riabilitazione e quello di valutazione dell’esito dell’affidamento in prova si svolgano obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”, ovvero senza specifici approfondimenti sulla questione di fatto prospettata. Ma il fulcro di questa decisione, come ha relazionato il giudice Francesco Viganò, è il principio della ragionevole durata del processo. In sostanza, il rito “de plano” non solo non determina di per sé alcuna conseguenza pregiudizievole per il condannato, ma assicura una rapida definizione di procedimenti in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi. Il 18 maggio 2021 è pervenuta alla Consulta l’ordinanza del 5 marzo 2020 dove il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato d’ufficio questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1- bis, del codice di procedura penale, “in relazione al giudizio di riabilitazione ex artt. 178 e ss. c. p. e 683 c. p. p.”, nella parte in cui stabilisce che quest’ultimo si svolga obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”, in riferimento agli artt. 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). In sostanza il Tribunale di sorveglianza ha sollevato la questione della violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, poiché le disposizioni censurate obbligherebbero il giudice a decidere con un’ordinanza pronunciata de plano, e dunque in assenza del contraddittorio tra le parti. In sintesi il giudice ritiene che la previsione di un procedimento semplificato, a contraddittorio meramente “cartolare”, avanti al tribunale di sorveglianza nei giudizi di riabilitazione e di valutazione sull’esito dell’affidamento in prova leda il diritto di difesa delle parti, la funzione rieducativa della pena, i principi del giusto processo, nonché - per ciò che concerne la valutazione dell’esito dell’affidamento in prova - il principio di eguaglianza in relazione al diverso regime processuale previsto per giudizi assimilabili per ratio e per contenuto. Per la Consulta, le questioni non sono fondate. Secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, nella configurazione degli istituti processuali il legislatore gode di ampia discrezionalità, censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate. Ciò vale anche rispetto a discipline processuali che abbiano una funzione acceleratoria dei tempi processuali. La Consulta sottolinea che il giudizio di sorveglianza è, oggi, notoriamente afflitto da endemici ritardi nella gestione dei carichi processuali: dall’inizio della vicenda esecutiva - ove si registrano pressoché ovunque lunghissimi tempi di smaltimento delle istanze di misure alternative successive alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen., con conseguente mantenimento di persone condannate in via definitiva in uno stato di “limbo” giuridico destinato, a volte, a durare anni prima che l’esecuzione della pena abbia in concreto inizio, all’interno o all’esterno del carcere; sino alle battute finali dell’esecuzione penale, nel cui ambito si collocano i provvedimenti relativi alla riabilitazione e alla valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, oggetto delle questioni esaminate in questa sentenza stessa. Infatti, nel caso di specie, la Consulta osserva che l’anticipazione di una provvisoria decisione ad opera del giudice in assenza di contraddittorio ha, nell’ottica del legislatore, semplicemente lo scopo di consentire una rapida definizione di procedimenti in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi. Inoltre, la Consulta sottolinea che l’eventuale provvedimento negativo del giudice nella fase “de plano”, d’altra parte, “non determina di per sé alcuna conseguenza pregiudizievole per il condannato, dal momento che la giurisprudenza di legittimità considera tale provvedimento non eseguibile sino alla scadenza infruttuosa del termine per l’opposizione, ovvero sino alla sua conferma nell’udienza ex art. 666 cod. proc. pen. conseguente all’opposizione stessa”. 41 bis: no al colloquio con il convivente della sorella altalex.com, 1 aprile 2022 Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva respinto il reclamo proposto dall’Amministrazione penitenziaria avverso il provvedimento del giudice di sorveglianza che aveva autorizzato un colloquio tra un detenuto al “41-bis”, la sorella di quest’ultimo ed il convivente della donna, la Corte di Cassazione penale, Sez. I, con la sentenza 23 marzo 2022, n. 10298 - nell’accogliere la tesi dell’Amministrazione, secondo cui non vi sarebbe alcuna norma che equipari, nel settore penitenziario, i conviventi di fatto dei prossimi congiunti del detenuto ai parenti e affini di quest’ultimo - ha affermato il principio secondo cui deve escludersi che l’equiparazione tra la posizione della parte dell’unione civile al coniuge e tra il coniuge e il convivente del detenuto possa estendersi oltre tale ambito. A realizzare una surrettizia modifica della nozione giuridica di affinità e, dunque, a ricomprendere anche le relazioni di coppia del familiare del detenuto, con la conseguenza che l’esigenza del detenuto di coltivare legami con soggetti non facenti parte del suo nucleo familiare inteso in senso stretto potrà essere soddisfatta attraverso una espressa autorizzazione da parte della direzione dell’istituto quando ricorrano “ragionevoli motivi”, ovvero, nel caso di detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis Ord. pen., quando vi siano ragioni “eccezionali”, apprezzate “volta per volta dal direttore dell’istituto”, secondo la previsione del comma 2-quater, lett. b), dello stesso art. 41-bis Ord. pen. Campania. Appello alla Cartabia: “Non riportiamo in carcere i 165 semiliberi campani” di Viviana Lanza Il Riformista, 1 aprile 2022 In Campania si contano 165 detenuti in regime di semilibertà che, per effetto dei provvedimenti straordinari adottati per via dell’emergenza Covid e delle proroghe delle misure anti-contagio, da due anni hanno la possibilità, dopo il lavoro, di non fare rientro in carcere ma nelle proprie abitazioni. Da quando sono in vigore queste misure eccezionali nessuno di questi 165 risulta aver commesso violazioni, a nessuno risultano essere state contestate infrazioni. Una buona prassi, insomma. Una fiducia che, concessa per un motivo eccezionale (la pandemia), ha tracciato una nuova strada. Perché non continuare a percorrerla a questo punto? Si eviterebbe che questi 165 detenuti “virtuosi” tornino ad affollare le celle e le carceri. “Non è possibile immaginare che il 31 dicembre, al termine della proroga dei provvedimenti adottati per l’emergenza Covid, queste persone tornino a dormire in carcere come prevede il loro status di semilibertà”, spiega il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. “Non hanno commesso infrazioni, perché non riconoscere a queste persone dei ristori?”, aggiunge Ciambriello che questa proposta l’ha sottoposta all’attenzione della ministra della Giustizia Marta Cartabia, allineandosi alla proposta del portavoce dei garanti dei detenuti italiani, Stefano Anastasia, nel corso dell’evento “Dignità e reinserimento sociale: quali carceri dopo l’emergenza?”, organizzato dalla Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà e dalla Conferenza nazionale del volontariato della Giustizia a Roma. Anastasia, in questo senso, ha chiesto al Parlamento un “atto di giustizia”. Il garante Ciambriello ribadisce la proposta: “In tutta Italia parliamo di settecento persone, in Campania di 165. Sono persone che hanno dato prova di affidabilità e correttezza, da marzo 2020 a dicembre 2022 hanno la possibilità di andare a lavoro e rientrare la sera nelle proprie case invece che nelle celle del carcere. A fine 2022, quando scadrà il termine di questi provvedimenti straordinari, è impensabile una loro regressione nel loro percorso di reinserimento, un loro rientro in carcere come se nulla fosse accaduto. A queste persone bisogna dare dei ristori, sarebbe un segnale. Del resto questo è il momento di ripensare all’intero sistema penitenziario, ci sono interventi che non si possono più rimandare - spiega Ciambriello - Anche la ministra Cartabia ha parlato di piccoli segnali ma è necessario che dalle parole si passi ai fatti, c’è bisogno poi di attuarlo nel concreto il cambiamento. E cominciare dai detenuti in semilibertà sarebbe un passo”. Cambiare le carceri per cambiare il carcere è un altro passaggio chiave. “La ministra, alla quale va riconosciuto il merito di essere una donna aperta al dialogo e di aver accettato dei garanti e del mondo del volontariato a un confronto aperto, ha messo l’attenzione su aspetti fondamentali: la dignità dei detenuti, che va tutelata anche rendendo dignitosi gli spazi della pena, e l’innovazione del sistema, che passa attraverso nuove misure amministrative e regolamentari”, aggiunge Ciambriello senza nascondere le sue perplessità rispetto alle possibili iniziative politiche. “Il Parlamento è diviso su questi temi, ho trovato timidi anche gli interventi che ci sono stati nel corso della Conferenza - afferma il garante campano -. Sono tutti presi dalla riforma del Csm, ma non bisogna trascurare il carcere. Questi due anni di pandemia hanno pesato sulla vita in carcere, hanno innalzato nuovi muri. Il numero degli atti di autolesionismo, dei tentativi di suicidio e degli scioperi, non solo della fame ma anche dell’assistenza sanitaria, è aumentato. Inoltre si riscontra una diffusa carenza di vicedirettori, di educatori e mediatori. Basti pensare che in Campania ci sono 69 educatori su 104 e cinque mediatori per una popolazione detenuta straniera di 901 persone”. Foggia. Denunciò le botte in carcere. Arrestato di Umberto Baccolo* Il Riformista, 1 aprile 2022 Ha raccontato su Facebbok di aver subito violenze a Foggia nella rivolta del 2020, ha invitato i detenuti a denunciare. Gli contestano diffamazione e istigazione a delinquere. Quando arrivò il Covid nelle carceri e Rita Bernardini iniziò il primo di una serie di scioperi della fame per chiedere un atto di clemenza, a sostegno della sua iniziativa, con Elisa Torresin creammo un programma su Facebook. In diretta tutte le sere per un anno, abbiamo dato voce a ex detenuti, familiari, avvocati, cappellani, agenti della penitenziaria, volontari. Ci contattò anche Luigi Melino di Foggia. Era stato appena scarcerato e affidato in prova ai servizi sociali. Detenuto modello, autore di poesie, innamoratissimo della moglie Carmela, nonviolento, animo sensibile, aveva capito i suoi errori e voleva rifarsi una vita. Luigi, però, aveva un “problema”: voleva sensibilizzare sul tema carcere, denunciare ingiustizie e violenze che aveva visto o subito. Lui era a Foggia quando ci fu la rivolta i primi di marzo del 2020 e, a suo dire, anche lì ci fu una spedizione punitiva come quella di Santa Maria Capua Vetere con cui Foggia condivideva la direttrice. Luigi ci raccontò come andarono le cose: non aveva prove, aveva paura a parlare, ma era molto credibile. Poi scoppiò il caso del carcere campano, uscirono i video, le testimonianze e, sorpresa, era tutto esattamente uguale a quello che Luigi ci aveva privatamente descritto molto prima che fosse di dominio pubblico. Fino a quel momento Luigi si era “trattenuto”: aveva partecipato al nostro programma, alla tombola di capodanno di beneficienza per i detenuti, a tutti i digiuni a staffetta che coordinavamo a supporto di Rita Bernardini. Ogni volta che qualche parente di detenuto gli parlava di un abuso, lui lo metteva in contatto con noi. Il lavoro umile che faceva grazie ai servizi sociali lo teneva in indigenza economica, il suo impegno però era pieno di cuore ed esemplare il suo percorso di reinserimento e di aiuto al prossimo. Sembrerebbe una storia a lieto fine, ma non lo è. Pochi giorni fa Luigi è stato arrestato, ha perso il suo affidamento in prova per un motivo assurdo. Gli hanno contestato reati come diffamazione e istigazione a delinquere, che sarebbero stati consumati tramite video sui social nei quali faceva solo quello che noi facciamo sempre, cioè denunciare gli abusi sui detenuti, invitare al rispetto della Costituzione! Perché, dopo Santa Maria Capua, Luigi non si è più trattenuto, e in un paio di video su tiktok ha raccontato le botte che pure lui ha preso dai GOM a Foggia. Ho paura, diceva, temo ripercussioni, ma qualcuno lo deve fare, se no, queste cose non smetteranno. Questa, quindi, sarebbe la diffamazione: raccontare le violenze subite perché altri non le subiscano più. E l’istigazione a delinquere? Ancora più assurdo: Luigi avrebbe usato i social per chiedere ai detenuti che subivano abusi di denunciarli alla giustizia, per invitare i loro familiari ad aderire agli scioperi della fame di Rita. Stava anche provando a organizzare una manifestazione pacifica per i diritti dei detenuti. Le cose che fa chi si occupa di carcere. Ma noi possiamo, anche se diamo fastidio: siamo incensurati, politici, giornalisti, avvocati, persone perbene. Lui non può: è un detenuto, e deve stare zitto. Non si deve permettere. Il primo giudice al quale fu portata la richiesta di carcerazione fatta dalla direttrice del carcere di Foggia, letta la memoria difensiva dell’avvocato Michele Sodrio, disse che non si ravvisava nessun reato, che il comportamento di Luigi stava dentro il legittimo diritto di critica. Peccato che l’incartamento sia poi passato a un collega, che invece ha deciso l’arresto di una persona che sul lavoro era stimata, che si stava rifacendo una vita onesta e aveva in programma un figlio con la sua Carmela. Questa ingiustizia non può passare inosservata, perché se Luigi deve stare in carcere per aver denunciato le condizioni inumane dei detenuti e invitato al rispetto della Costituzione e alla partecipazione a iniziative nonviolente, allora in carcere dobbiamo starci tutti noi. *Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino Reggio Calabria. Arghillà, morire in cella a 29 anni e senza processo di Vincenzo Imperitura icalabresi.it, 1 aprile 2022 I sintomi che lamenta Saladino vengono interpretati come una banale influenza. Ma muore poco dopo. I registri del personale sanitario, le testimonianze dei compagni tra le sbarre: tutti i punti oscuri. Mentre il pm ha chiesto l’archiviazione. Potrebbe restare senza colpevoli la morte di Antonino Saladino, il ventinovenne deceduto nel carcere di Arghillà a Reggio nel marzo del 2018 in seguito alle conseguenze di un’infezione interna. Nonostante la proroga alle indagini disposta dal Gip poco più di un anno fa, infatti, i magistrati dello Stretto hanno nuovamente avanzato richiesta di archiviazione. Rischia così di cadere nel dimenticatoio il caso di quel ragazzone di Santa Caterina finito in galera, da incensurato, con l’accusa di essere parte di una banda di spacciatori. E morto, dopo un anno di carcere preventivo, in seguito ad una ventina di giorni di sofferenze di cui nessuno - esclusi i compagni di cella - sembra essersi accorto. Centocinquanta morti ogni anno - Una storia come ne succedono tante nelle carceri italiane - si aggirano attorno ai 150 ogni anno le morti all’interno degli istituti di pena in tutto il Paese, una cinquantina delle quali sono relative a suicidi - e su cui potrebbe calare definitivamente il sipario, almeno sul versante della ricerca di eventuali responsabilità da parte del sistema sanitario del carcere reggino. Numeri che non tornano, testimonianze ritenute inaffidabili, registri che non coincidono. Sono tanti i punti rimasti oscuri in questa vicenda nonostante quasi un anno di nuove indagini: oscurità che non hanno però convinto i pm dello Stretto che, nell’udienza di qualche giorno fa, hanno presentato una nuova richiesta di archiviazione. Richiesta a cui l’avvocato Pierpaolo Albanese, legale della famiglia del detenuto morto, si è opposto nella speranza di non fare diventare Antonino Saladino l’ennesimo numero nella terribile statistica dei decessi dietro le sbarre. Un anno ad Arghillà senza processo - Saladino in carcere ci era finito in seguito ad un’inchiesta della distrettuale antimafia dello Stretto. Siamo nel 2017 e gli investigatori, nell’ambito dell’inchiesta Eracle, individuano una serie di soggetti che gestiscono parte del traffico di droga nel quadrante nord della città. Tra loro c’è anche Saladino. Ventinove anni, molto conosciuto nel quartiere di Santa Caterina, incensurato, da anni sbarca il lunario come imbianchino. Consumatore abituale di marijuana - pochi mesi prima dell’arresto viene sorpreso in seguito ad un controllo delle forze dell’ordine con nove grammi di erba - il suo nome salta fuori in alcune intercettazioni dei capi dell’organizzazione che ne parlano come di un pusher. L’accusa, sempre respinta dall’indagato, passa il vaglio del Gip e Antonino Saladino finisce ad Arghillà. Ne uscirà, poco più di un anno dopo, in una cassa di legno. Il processo che lo vede imputato intanto è andato avanti e attende ora il vaglio della suprema Corte: i primi due gradi di giudizio hanno stabilito 20 condanne e sei assoluzioni. Saladino però non ha fatto in tempo a farsi giudicare: è morto mentre era sotto custodia dello Stato. Antonino Saladino sta male - I problemi fisici del ragazzo iniziano nei primi giorni del marzo 2018. Dai registri medici finiti agli atti dell’inchiesta viene fuori che Saladino si presenta in infermeria il 5 e il 6 lamentando sintomi che vengono interpretati come una banale influenza e curati con antipiretici e cortisonici. Poi un buco di 12 giorni. Infine il 18 marzo i registri medici annotano tre nuove visite al detenuto: alle 15,30 alle 19,15 e poco prima della mezzanotte, quando ormai la situazione è degenerata irrimediabilmente. I medici del 118 arrivati in carcere, non possono fare altro che certificare la morte del ragazzo. Medici e infermieri: due registri che non combaciano - Sono le nuove indagini disposte dal Gip a fare emergere l’esistenza di altri registri tenuti nelle infermerie del carcere. In particolare, dal diario infermieristico - quello dove vengono annotate le terapie somministrate dal personale paramedico nel caso di visite non programmate - salta fuori che Saladino si era recato in infermeria anche nei giorni 11, 16 (due volte) e 17 lamentando gli stessi sintomi e ricevendo come terapia pastiglie di Maalox e di Acetamol. Accessi in infermeria che non corrispondono però ad altrettante visite mediche e che quindi non vengono presi in considerazione nella relazione del perito nominato dal pm. Quest’ultimo, confermando quanto aveva già affermato in passato, ipotizza una infezione dal decorso accelerato e quasi asintomatico che non era ipotizzabile a fronte dei registri presi in considerazione. Considerazioni contrastate però dalla perizia di parte presentata dal legale dei familiari di Saladino che invece ipotizzano un decorso lento e inesorabile dell’infezione, iniziato nei primi giorni del mese e passato inosservato al vaglio dei sanitari. I compagni di cella di Antonino Saladino - Questa tesi troverebbe conforto anche nelle testimonianze dei compagni di cella dell’imbianchino. Sentiti nell’ambito delle indagini difensive, avevano raccontato di un malessere che durava da tempo e di continue visite all’infermeria. Testimonianze, però, che i pm reggini non hanno ritenuto attendibili. Nella richiesta di archiviazione, i magistrati annotano come le stesse testimonianze, pur convergendo sul fatto che Saladino lamentasse dolori e si presentasse spesso in infermeria, differissero tra loro nella tempistica: alcuni parlavano di visite quotidiane, altri di visite saltuarie, altri ancora di visite settimanali. Una vicenda, quella di Antonino Saladino, su cui ora dovrà esprimersi il giudice per le indagini preliminari e sul cui sfondo resta il coraggio della madre del detenuto che, durante un convegno sulla sanità nelle carceri lo aveva ricordato così: “Nino era un ragazzo come tanti. È entrato in carcere perché sospettato di un reato, ma non era un criminale, ancora doveva svolgersi un processo. Quando lo hanno arrestato era in piena salute, è morto il 18 marzo del 2018 in solitudine, con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari. Non conosco le leggi, ma penso che se lo Stato arresta una persona perché sospetta che abbia commesso un reato e lo trattiene prima ancora di giudicarlo, allora è responsabile della sua persona e deve fare in modo che riceva tutte le cure, perché anche se ha sbagliato deve avere la possibilità di curarsi”. Saluzzo (Cn). Il Garante Paolo Allemano fotografa la situazione del carcere targatocn.it, 1 aprile 2022 L’ex sindaco della città oggi è Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. E ha portato in Consiglio comunale lo spaccato attuale della casa circondariale, cogliendo sia gli aspetti positivi, ma anche le tante questioni ancora aperte e irrisolte. Plauso bipartisan di tutta l’assemblea per il lavoro svolto e per l’impegno Il Consiglio comunale di Saluzzo riunitosi il 29 marzo si è aperto trattando il tema dei diritti delle persone private della libertà personale. In aula era presente Paolo Allemano, ex sindaco della Città ed ex consigliere regionale, dal novembre 2019 garante dei diritti dei detenuti. La figura del garante, oggi ricoperta da Allemano, è istituzionalmente prevista in tutti i Comuni sede di carceri: è l’anello di congiunzione tra le realtà di privazione della libertà, in particolare il carcere, e la città. Il suo ruolo è di garanzia, osservazione e dialogo rispetto alla salvaguardia di diritti e comportamenti conformi alla legge. Il garante volge in particolare lo sguardo alle condizioni detentive perché non venga mai meno la dignità della persona né il rispetto del dettato costituzionale. Al tempo stesso, compie azioni di osservazione e monitoraggio delle condizioni di vita in questi luoghi e, ove necessario, sollecita un intervento da parte delle istituzioni competenti. Le persone detenute hanno diritto di chiedere un colloquio con i garanti per esporre questioni e situazioni di difficoltà personale o legata all’ambiente di detenzione. Il garante ha inoltre un ruolo importante di promozione della cultura dei diritti nella collettività cittadina. Allemano è al secondo rapporto annuale, portando all’attenzione del Consiglio l’attività relativa all’anno 2021. “Come è noto - spiega Allemano - alla fine del 2019 il carcere di Saluzzo cambiava natura passando ad essere quasi completamente luogo di reclusione di detenuti ad alta sicurezza”. Nel carcere, dati di fine febbraio, sono infatti presenti 387 detenuti, tutti in regime di alta sicurezza tranne i detenuti assegnati al reparto semiliberi: di questi tre sono in regime di semilibertà, quattro in ordinamento penitenziario interno (pulizie uffici, caserma, manutenzione aree verdi) e uno in ordinamento penitenziario esterno (con la Cooperativa Voci Erranti a Savigliano). La capienza della casa circondariale, dichiarata sul sito del Ministero, si attesta a 447 posti. Al tempo stesso, la fotografia del carcere dal punto di vista della pianta organica vede 231 agenti di Polizia penitenziaria previsti, ma in realtà gli assegnati al carcere sono soltanto 200, che a loro volta scendono a 181 agenti in servizio di fatto. Ci sono anche dodici unità di personale amministrativo (ufficio educatori, ragioneria, protocollo e informatici). Dal punto di vista sanitario (materia di competenza regionale) si contano in servizio dieci medici, inquadrati come medici di continuità assistenziale. Di giorno effettuano due turni di sei ore con due medici per turno, un medico copre la guardia notturna. Sono altresì presenti, in modo discontinuo, specialisti ambulatoriali. Si sono svolti nel corso del 2021 significativi interventi di cablaggio volti a potenziare i collegamenti digitali con notevole beneficio per i colloqui a distanza e per l’attività didattica. La formazione in carcere - Nel carcere di Saluzzo sono attivi diversi percorsi di istruzione e formazione. Il Liceo Soleri Bertoni ha avviato un corso completo di istruzione superiore di cinque anni di ragioneria ad indirizzo informatica Finanza e Marketing. Di pari passo, la formazione universitaria, partita con 6 iscritti nel 2018, è arrivata nell’anno accademico in corso a 31 iscritti, suddivisi tra Scienze politiche, Giurisprudenza, DAMS, Comunicazione e media. “A gennaio 2020 - spiega Allemano - la formazione universitaria si è strutturata come polo universitario autonomo, con un’apposita convenzione con lo scopo di favorire il diritto allo studio e l’accesso agli studi universitari dei detenuti ospitati nella casa di reclusione. L’obiettivo era ed è garantire le migliori opportunità di svolgimento dei percorsi di studio, assicurando condizioni di detenzione che li favoriscano e integrando tali percorsi in un coerente programma individualizzato di trattamento. Alla convenzione ha fatto seguito, a completamento di un complesso iter fatto di mediazioni e di interventi strutturali, l’apertura di una sezione del carcere dedicata agli studenti”. La sezione è operativa da marzo 2022: Allemano ha parlato di un “notevole cambiamento, perché favorisce l’instaurarsi tra gli studenti di un clima facilitante l’apprendimento con il formarsi di una identità orientata alla crescita culturale che si riflette su tutto il sistema carcerario”. Sempre a marzo, su iniziativa di alcuni studenti reclusi, si è insediato un laboratorio in carcere che ha il compito di rivedere il vademecum e la guida dei diritti dei detenuti pubblicati nel 2018, per dare riferimenti utili e aggiornati alla comunità penitenziaria. Il gruppo è guidato dalla clinica legale “Carcere e diritti 2” del dipartimento di giurisprudenza dell’università di Torino. Sono poi presenti anche i corsi di formazione professionale gestiti dalla Fondazione “Casa di carità Arti e Mestieri”. Dodici detenuti partecipano al corso di panificatore-pasticcere, mentre nelle prossime settimane partirà il corso di addetto al giardinaggio e ortofrutticoltura, sempre per dodici detenuti. Nel corso dell’anno saranno poi attivati i corsi di falegnameria, tecniche di cucina e di edilizia polivalente. Tendenzialmente i corsi, finanziati dalla Regione, hanno durata di 600 ore, prevedono esame finale e conseguimento di attestato di qualifica professionale. Il volontariato in carcere - In carcere opera l’associazione “Liberi dentro”: “una presenza costante - spiega il garante - a supporto delle attività ordinarie di cui necessitano i detenuti, come sartoria, sportello Caf, colloqui di sostegno, pratiche burocratiche varie, progetto biblioteca”. Con l’attenuarsi delle misure restrittive dovute alla pandemia, ha ripreso a pieno ritmo la gestione della struttura comunale “Casa di Donatella”, luogo di incontro tra reclusi e famiglie di cruciale importanza per la ripresa dei colloqui in presenza, a supporto di famiglie che si muovono dal sud Italia con costi non indifferenti. Fanno parte di “Liberi dentro” anche i volontari che supportano l’attività di formazione scolastica e curano la biblioteca: “ha una capienza di circa 6 mila volumi e si sta facendo un grande sforzo organizzativo per avvicinarla ai reclusi”. Alla stessa associazione afferisce poi anche il laboratorio di sartoria che si è manifestato in più occasioni della vita cittadina durante l’anno 2021”. C’è poi anche l’associazione “Voci Erranti”, che da anni promuove un laboratorio teatrale che produce spettacoli di rilievo nazionale, e che si è vista premiata dalla presenza di otto iscrizioni al DAMS, a riprova di quanto abbia inciso sui reclusi l’esperienza dei laboratori teatrali. Nell’ambito del laboratorio teatrale è prevista la formazione per tecnico luci e scenografo. L’associazione segue quotidianamente il laboratorio di pasticceria in carcere, attività in crescita sia qualitativamente che quantitativamente, in grado di far fronte a una crescente domanda interna ed esterna. Continuano le attività usuali il Centro provinciale di istruzione adulti che cura corsi di scuola media e di lingua inglese; il Crivop (Cristiani volontari penitenziari) cui fa capo il progetto cineforum con la proiezione di film a cadenza mensile; il Movimento impegno educativo azione cattolica che cura un laboratorio di canto e un corso di musica gestito dall’APM e finanziato dalla Fondazione CRS. “È venuto purtroppo a mancare l’animatore dell’associazione ‘Cascina Macondo’, Pietro Tartamella. - aggiunge Allemano - Mi piace ricordarlo con le parole di un suo allievo: ‘Ho avuto il grande piacere di conoscere Pietro durante la mia detenzione a Saluzzo. Ci tengo a dire che quando sono uscito avevo lasciato in cella quasi tutte le mie cose tranne i preziosi scritti di Pietro. Le sue lezioni vivranno per l’eternità... Riposa in pace caro Pietro, maestro di poesia e di amore”. Da diversi anni i progetti di Cascina Macondo prevedono la pubblicazione di una antologia di scritti elaborati dai detenuti, dalle persone disabili, dai bambini o da quanti, all’esterno, collaborano con l’associazione. L’Uepe, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna - Allemano ha poi spiegato che attualmente sono in esecuzione 25 misure alternative, tre indagini per l’ammissione alla misura alternativa dalla libertà, 80 procedimenti di messa alla prova per imputati adulti. “Le persone in esecuzione penale esterna sono soggette a prescrizioni limitative della libertà personale e ad azioni sempre più proattive, rappresentate dal lavoro di pubblica utilità o da attività svolte a titolo gratuito che presuppongono rapporti con gli enti del territorio sia del pubblico che del privato sociale”. Ci sono alcune criticità, come il fattore logistico che, a fronte dell’obbligatorietà al mantenimento dei contatti con l’Uepe, comporta notevoli difficoltà e costi di spostamento da parte dell’utenza, in particolare per le persone residenti nei Comuni più distanti. “Sono in corso delle interlocuzioni con il Comune di Saluzzo al fine di poter avviare uno sportello di prossimità sul territorio”. L’Uepe è al lavoro anche su delle specifiche aree tematiche, come l’aumento della violenza domestica e alterazioni del comportamento da abuso etilico. Sulla problematica dell’abuso di alcolici, sempre più estesa alle fasce giovanili, i funzionari dell’Uepe che hanno operato e che operano nel saluzzese e soprattutto nella Valle Po. L’emergenza Covid - La terza e la quarta ondata Covid, come ha riportato il garante Allemano, non hanno creato criticità significative. In carcere è proseguita l’attività di vaccinazione, “in genere ben accetta nella misura in cui ha significato per i reclusi una ripresa dei colloqui in presenza. Manca tuttavia un quadro completo delle vaccinazioni”. I detenuti hanno continuato a usufruire dei collegamenti digitali con le famiglie e in queste settimane si sta progressivamente passando ai colloqui in presenza. Risultano a oggi 16 positivi nelle carceri piemontesi. Le attività del garante in carcere - Colloqui con i reclusi: attività svolta con cadenza all’incirca settimanale, su richiesta dei detenuti. Dal 1 gennaio al 31 dicembre 2021 i colloqui sono stati 70. Il 5 luglio si è tenuto un colloquio con 25 reclusi su un ampio spettro di problemi, tra cui spiccavano l’inadeguatezza degli spazi per i colloqui, la gestione Covid, ritardi nelle pratiche burocratiche, razionamento acqua calda, rinnovo materassi. Di pari passo, il garante ha tenuto relazioni con il mondo carcerario in tutte le sue espressioni: Direzione, Comando, area educativa, volontari, istituzioni scolastiche, area sanitaria, amministrazione penitenziaria regionale e nazionale, UEPE. I problemi aperti - In carcere permangono tuttavia alcune criticità. Il completamento del progetto di raccolta differenziata dei rifiuti, che non appare ancora effettuata: secondo Allemano “occorre prevedere un lavorante per la raccolta differenziata, effettuare una ricognizione nelle sezioni sulla dotazione di appositi contenitori e ricontattare il Consorzio per le nuove esigenze”. Poi bisogna definire il nuovo progetto per l’utilizzo del laboratorio imprenditoriale, per anni già adibito a birrificio artigianale: c’è in fase di valutazione il trasferimento del biscottificio interno, in vista di un ampliamento delle attività e di assunzione di altri detenuti. Sono stati stanziati dei fondi per il solo acquisto di attrezzature, ma l’adeguamento strutturale dei locali, a cura della cooperativa Voci Erranti, richiede somme ingenti (intorno a 200 mila euro) e si devono valutando altre forme di finanziamento. Un altro obiettivo è il recupero e la completa rifunzionalizzazione logistica degli spazi di attività formativa, scolastica e lavorativa: “il locale del vecchio padiglione a suo tempo destinato ad ampliamento della cucina è stato adibito ad ufficio spesa. E lo spazio lasciato libero dallo spostamento dell’Ufficio Sopravvitto è stato in parte utilizzato dalla sartoria, in parte destinato a ‘saletta pc’ per le due sezioni del vecchio padiglione che ne sono prive”. Allemano ha poi sottolineato come sia necessaria una previsione e realizzazione “di interventi volti all’effettivo utilizzo dei locali inizialmente destinati alla cucina e alla lavanderia del nuovo padiglione, per lungo tempo dichiarati come non disponibili per via di un contenzioso tra l’amministrazione e la ditta appaltatrice, ora accertati come utilizzabili, ma necessitanti di lavori di adeguamento/suddivisione degli spazi”. Sarà anche “indispensabile” individuare “con urgenza” spazi adeguati all’attività di sartoria interna e del laboratorio delle borse: “la possibilità di trasformare l’iniziativa in vera e propria attività lavorativa esige spazi adeguati”. Si punta poi alla riqualificazione dell’area colloqui, con la previsione di un adeguato spazio bimbi e di un’area esterna: “attualmente gli spazi sono angusti, non accoglienti e con forte limitazione della privacy”. Paolo Allemano è anche un medico, oggi in pensione, ma che per molti anni ha prestato servizio proprio all’ospedale di Saluzzo. Nella sua relazione, infatti, non manca un’attenta analisi alle problematiche di carattere sanitario: “Si acuisce la carenza delle figure di ortopedico, oculista, dermatologo, otorino, così come è inadeguata la diagnostica strumentale in carcere. Il salto di qualità che si sta facendo in era pandemica con la telemedicina deve assolutamente applicarsi ai bisogni sanitari in carcere. Si porta ad esempio la disponibilità sul territorio dell’Asl di apparecchiature radiologiche ed ecografiche utilizzabili al domicilio dei pazienti. Non si comprende come possa essere esclusa da queste prestazioni, effettuabili in loco eventualmente con refertazione a distanza da parte del medico specialista, una popolazione di oltre 400 persone di età medio alta. Non è stato ripreso il supporto psicologico agli agenti di Polizia penitenziaria dopo l’esperimento condotto nel 2019 con la presenza di due psicologi e il supporto economico della Fondazione CRS. A maggio ragione dopo la pandemia è auspicabile la strutturazione dell’intervento”. Le conclusioni - “Si può parlare, a due anni dal passaggio a carcere ad alta sicurezza, di una transizione matura e con aspetti virtuosi, con particolare riferimento al decollo dell’area formativa. - ha ancora aggiunto Allemano - Passi avanti significativi sono stati fatti sul piano della digitalizzazione con riduzione dell’isolamento dei reclusi. È necessario che l’Amministrazione ponga attenzione ad alcuni adeguamenti strutturali non differibili (riqualificazione area colloqui, riuso dei locali dismessi) onde essere in sintonia con gli obiettivi della riforma penitenziaria, orientati al recupero e alla formazione più che alla reclusione. Si chiede inoltre di sostenere l’appello alla direzione aziendale dell’Asl Cn1, affinché si potenzi la diagnostica in carcere riducendo i tempi di attesa dei reclusi, e di vigilare sulla mancata copertura stabile dei ruoli dirigenziali. Pare inoltre quanto mai opportuno che l’Amministrazione comunale sia tra i firmatari della convenzione con la Fondazione Pio del San Paolo allo scopo di facilitarne l’attuazione. Ad esempio, potrebbe intervenire sui trasporti, dare visibilità e sostenere le fondazioni promotrici, facilitare inserimenti lavorativi nelle partecipate. È lodevole l’iniziativa dell’assessorato che cerca di creare uno sportello a Saluzzo per i soggetti in carico all’UEPE nell’ambito di azioni congiunte con la rete locale dei servizi, rispetto a momenti di sensibilizzazione e di prevenzione che possano in qualche modo favorire risposte aggregative di contrasto ai fenomeni in crescita dell’abuso etilico e della violenza domestica”. Le reazioni del Consiglio comunale - In Consiglio comunale le reazioni alla lettura del documento di Allemano sono state unanimi. Tutti hanno ringraziato il garante per il lavoro svolto. A partire dall’assessore Fiammetta Rosso: “Grazie Paolo. La relazione trasmette veramente un percorso di transizione avvenuto sotto due profili. Non solo dal punto di vista del Covid, che in questi due anni ha segnato la vita della comunità dei ristretti, ma anche per la trasformazione del carcere ad alta sicurezza. Due fattori che hanno notevolmente impattato. E la relazione sottolinea gli elementi di positività. Come le videochiamate e le possibilità tecnologiche. Non solo sono servite durante l’emergenza, ma potrebbero diventare modalità ordinarie per il diritto all’affettività e alle reti amicali”. Il presidente del Consiglio comunale Enrico Falda: “Grazie per l’esaustiva relazione, che ogni anno ci fa incontrare un mondo molto lontano dal nostro. La riflessione che ci fai fare con quanto ci hai detto è molto importante. Da parte del Comune penso che l’attenzione sia sempre molto alta, nonostante i grandi problemi che ci hai illustrato oggi”. Nicolò Valenzano: “A nome della maggioranza, il ringraziamento al garante per questa interessante relazione, ma soprattutto per l’ottimo lavoro svolto. Un lavoro di garanzia della vivibilità e delle possibilità rieducative e formative del carcere. Grazie per le problematiche sollevate e per l’attenzione che porti al dibattito pubblico rispetto alle questioni aperte. Grazie per la sensibilità culturale sul tema. E per la dimensione propositiva di grande interesse”. Domenico Andreis: “Allemano mi ha portato indietro tempo. Ho vissuto il carcere, per nove mesi, in età militare. E il carcere lo capiscono solo le persone che ci mettono piedi, testa e cuore dentro. Immagino tutte le difficoltà che provi nel fare le cose, perché vengono decuplicate. Dico anche di non dimenticarvi del personale di Polizia penitenziaria: passano più tempo con i carcerati che con le loro famiglie. Sono sottodimensionati, figuriamoci la situazione che vivono”. Carlo Savio: “Grazie per il lavoro svolto. Avvicinandoci ogni anno a una realtà che ci sembra lontana. Dalla relazione traspare la sensibilità e l’impegno profuso da Allemano nel suo lavoro. Scuola, università. Lavoro, sanità sono tutti elementi per andare verso una direzione rieducativa. E il garante è essenziale per raggiungere questi obiettivi”. Il sindaco, Mauro Calderoni: “Mi aggiungo ai ringraziamenti, per l’opera che svolgi a nome di tutta la comunità saluzzese, all’interno del carcere”. Firenze. A Sollicciano sette detenuti lavorano in pelletteria redattoresociale.it, 1 aprile 2022 A seguito di un corso effettuato nel carcere fiorentino di Sollicciano su bando regionale, il completamento della formazione si effettua ora per sette detenuti in altrettante aziende di pelletteria di Scandicci. Al termine del tirocinio i detenuti compiutamente formati potrebbero costituire una manodopera qualificata e, se il mercato lo consente, anche ricercata dalle aziende del settore. Lo comunica Pantagruel, associazione di volontariato per la difesa dei diritti dei detenuti, che ha promosso le diverse fasi della formazione in collaborazione con le strutture del carcere e col determinante contributo finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e delle aziende dell’Associazione Pelle Recuperata Italiana (AS.P.R.I.). L’importanza della esperienza sta nella dimostrazione della possibile realizzazione di procedure che potrebbero riguardare ben altri numeri di detenuti e realizzare col lavoro anche la finalità fondamentale del recupero della funzione sociale della pena come prescrive la Costituzione. Ancona. Presentazione del libro “La leggenda del santo ergastolano” di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2022 Presso la libreria Affinità Elettive di Valentina Conti il 29 marzo è stato presentato il romanzo “La leggenda del santo ergastolano” dell’avv. Specializzato in Diritto del Lavoro Giuseppe Bommarito, libro edito sempre da Affinità Elettive di Ancona. Il compito, riuscitissimo, del romanzo “storico”, come lo ha definito il professore dell’UNIVPM di Ancona, Antonio Distasi, anch’egli specializzato nel Diritto del Lavoro, è di introdurre il lettore alla particolare tematica dell’ergastolo ostativo. Bommarito narra la vicenda di un giovane di famiglia mafiosa che, dopo l’uccisione del padre, viene affiliato in una cosca emergente palermitana, con l’intento di succedere al genitore, cominciando col rendergli giustizia. Nel momento della scelta, al tempo sicuramente obbligata, fra rivolgersi alle istituzioni e rafforzare la cosca, vero ordine costituito e spinta propulsiva dell’economia degli appalti, poi più tardi dello spaccio dell’eroina e della cocaina, Rocco non ha dubbi, e sceglie la carriera del freddo esecutore per poi salire nella gerarchia. “Lui vuole fare il gangster in guanti bianchi” Il romanzo fornisce tutti gli elementi di formazione della mentalità del protagonista e del contesto, mentre nella seconda parte, tutta epistolare, porta il lettore nell’isolamento del 4bis. Il protagonista dopo l’arresto rifiuta di collaborare, di conseguenza a causa dei provvedimenti introdotti nell’Ordinamento Penitenziario nel 1991 attraverso gli articoli 4 bis e 58 ter, cioè dell’ergastolo ostativo per chi non accetta di diventare collaboratore di Giustizia, e di conseguenza viene definito Socialmente Pericoloso, non potrà uscire dopo i 26 anni di pena come vertici e base della sua “cupola”. La descrizione della vita-nonvita fatta di pochissime ore d’aria, socialità con detenuti selezionati fra quelli lontani dalle proprie precedenti frequentazioni ed a rotazione mensile, rende bene l’allontanamento dal mondo esterno e dalla famiglia; l’epistolario non è destinato tanto a convincere il lettore dell’inumanità del trattamento, della condanna a vita per moglie e figli, quanto alla sua inutilità. Il dibattito che è seguito ha in primis evidenziato quanto sia consuetudine dell’ordinamento italiano porre ostative del tipo del 4 bis. Similmente nel riconoscimento del risarcimento per l’ingiusta detenzione vede l’art.314 sancire che “chiunque è stato prosciolto con sentenza irrevocabile... ha diritto a un’equa riparazione, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o per colpa grave”. È per questa ragione che si muove da anni il Comitato per il risarcimento a tutti gli assolti con portavoce Giulio Petrilli. Ora il comitato si farà forte della sentenza numero 1684 della quarta sezione penale della Cassazione, che ha considerato il silenzio dell’indagato non ostativo alla riparazione all’ingiusta detenzione. Molto interessanti e sentiti poi gli apporti che riguardavano opposte scuole di pensiero sulla condanna a vita dei familiari. Ove si è parlato di necessità di conoscere e coltivare tutti gli affetti presenti in famiglia, e si studiano modalità di non rendere i colloqui così penosi come sono dopo il superamento dell’infanzia dei figli, da altre parti si è citato il prefigurato allontanamento fisico e di località dei figli per non subire l’influenza dell’ambiente dei famigliari adulti. Chi scrive sottolinea che lo stesso autore, narrando delle stragi degli anni 1992 e 1993, seguite all’introduzione dell’ergastolo ostativo, e non da questo causate, abbiano poi visto nascere a Palermo tanti movimenti antimafia, sia nelle parrocchie che nelle scuole, e nel romanzo stesso uno dei due figli di Rocco usa il nome del padre per rinnegarlo e farsi forza di essere fra quelli che ribaltano la mentalità antistatale degli anni 80. Entro il prossimo maggio il Parlamento dovrà modificare la disciplina dell’ergastolo ostativo prevedendo che la collaborazione con la giustizia non sia più il solo strumento per ottenere la liberazione condizionale. Così ha chiesto la Consulta con l’ordinanza 97 del 2021, prendendosi un anno, per un testo che contiene una serie di proposte che vanno dal numero di anni di pena alle condizioni dell’onere della prova, sempre nello spirito di intervenire in maniera complessiva e non emergenziale. Sia l’avvocato Bommarito che il professor Distasi hanno puntato il dito sulla logica sempre emergenziale nel campo della Giustizia, pratica che appesantisce la legislazione. Sul trattamento che riceve la Giustizia italiana in sede della Corte di Strasburgo sono state espresse osservazioni acute come quelle che evidenziavano la poca preparazione della Corte stessa. Essa ha più volte richiamato l’Italia all’applicazione di una pena non deve disumana e comunque tendere alla riabilitazione del detenuto, dettato dell’art. 27 della Costituzione Italiana. “Un fenomeno come quello mafioso non è facilmente illustrabile agli altri paesi europei, essendo così sostitutivo e rinnegatore al tempo stesso dello Stato” è stato detto. “L’onere della prova a carico del detenuto rispetto alla recisione del legame con l’organizzazione criminale da chi è misurato?”. Potremmo inserire uno dei corpi più vivi e coinvolti negli istituti, cioè il personale pedagogico, sempre per chi scrive, tenendo conto che la ricattabilità ed il coinvolgimento dei familiari è possibile a qualsiasi livello, nessuno escluso. “Dopo tutti gli studi esperiti e le esperienze vissute come giornalista, mi sento di dire che la pena capitale, dopo 70 anni che è stata abolita, sarebbe più umana per queste persone” altra voce sentita e qualificata dalla sala. Alle conclusioni dell’autore, che delinea l’impossibilità assoluta di accertarsi delle intenzioni anche del pentito, non rimane che ringraziare chiunque si presti a rendere la Giustizia tema dibattuto. Dentro al carcere: conoscere cosa accade dentro per capire la realtà fuori recensione di Federica Salvati La Repubblica, 1 aprile 2022 “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere”, di Alessandro Capriccioli, ed. People. Raccontare il carcere significa soprattutto raccontare le persone che vivono lì dentro, dai detenuti agli agenti di polizia penitenziaria fino ai volontari che svolgono servizi essenziali. Entrare in carcere è un privilegio. Può sembrare un controsenso, ma tecnicamente è proprio così: possono accedere agli istituti penitenziari solo poche categorie di cittadini liberi, tra cui i consiglieri regionali nei limiti della propria circoscrizione. Proprio in questa veste Alessandro Capriccioli negli ultimi 4 anni ha effettuato una quarantina di visite nelle carceri del Lazio e negli altri luoghi di privazione della libertà come i Cpr (centri per il rimpatrio) e le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza): da questa attività è nato un libro dal titolo “3 metri quadri”, eloquente sintesi della condizione spaziale in cui sono costretti a vivere i detenuti. Le persone. Raccontare il carcere significa soprattutto raccontare le persone che vivono lì dentro, dai detenuti agli agenti di polizia penitenziaria fino ai volontari che svolgono servizi essenziali. I detenuti e le detenute nel Lazio sono in totale circa 5500, dislocati nei 14 istituti della regione, di cui uno minorile, spesso sovraffollati e malmessi dal punto di vista strutturale. Il personale è sempre sottodimensionato e molti agenti sono anziani, quindi usurati da un lavoro sfiancante sia psicologicamente sia fisicamente. Le persone che si trovano in carcere sono sostanzialmente persone che hanno commesso dei reati, anche se esiste una consistente parte della popolazione carceraria che si trova lì in attesa di giudizio e quindi è tecnicamente innocente. Ma i reati, anche quelli più odiosi, in carcere non ci sono. Restano le persone che nella maggior parte dei casi “sono malvestite e hanno un aspetto trascurato e dimesso. Alcune sono pallide, emaciate, con pochi denti in bocca. Gli stranieri, che in media sono più giovani e sembrano più in salute degli altri, hanno addosso indumenti rimediati: tute, canottiere, ciabatte, maglie scolorite”, scrive Capriccioli a proposito di una visita presso la casa circondariale di Regina Coeli. I bambini. In carcere ci sono uomini, donne, anziani, adolescenti e purtroppo anche bambini, che secondo l’ordinamento vigente possono vivere fino a 3 anni con le loro madri all’interno degli istituti penitenziari. A Rebibbia sezione femminile c’è un asilo nido e le stanze sono state adattate alla presenza dei bambini, che spesso vengono concepiti proprio col fine di restare fuori dal carcere: “L’agente di polizia penitenziaria che ci accompagna racconta che per alcune donne quella di fare figli è una specie di strategia: per ogni bambino può corrispondere a un differimento della pena, e per questo c’è chi ne concepisce e partorisce uno dopo l’altro pur di rimandare il proprio ingresso in carcere, fino al momento in cui per forza di cose questo meccanismo si interrompe e in carcere ci si deve entrare, per scontare tutte insieme le pene che si sono accumulate [...] “Ne ho altri tredici a casa”, dice la signora con cui stiamo parlando mentre sorride, mostrando le finestre vuote dei denti che le mancano”. La discarica sociale. Più di un terzo della popolazione carceraria è composto da uomini e donne tossicodipendenti o che ha commesso reati legati al mondo della droga: questo significa che chi non trova spazio all’interno della nostra società per motivi spesso legati al contesto di riferimento, viene spostato in uno spazio diverso, lontano, dove l’emarginazione sociale cui era destinato fuori dal carcere diventa emarginazione anche fisica. “Il carcere, paradossalmente, esercita anche questo ruolo: raccogliere e tenere dentro tutto quello a cui fuori non siamo capaci di dare risposte, tutto quello che fuori non serve a nessuno”, scrive Capriccioli nel libro. Per questo entrare in carcere aiuta a comprendere la realtà che c’è fuori e a vedere con una chiarezza disarmante tutto quello che non funziona all’interno della nostra società. Il privilegio di entrare nelle carceri che spetta solo ad alcune categorie (ma anche all’interno di queste viene esercitato da pochissime persone) dovrebbe appartenere a tutti perché: “in una società quando le cose funzionano, funzionano per tutti. Quando invece funzionano per una parte, rischiano di non funzionare per niente e per nessuno”. “La leggenda del santo ergastolano”, di Giuseppe Bommarito recensione di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2022 Un titolo beffardo, quasi irriverente, proprio come vogliono essere le parole del figlio del protagonista, Ninì, il quale durante l’adolescenza scopre con estremo dolore l’appartenenza del padre a Cosa Nostra e si impegna con tutte le energie nei comitati antimafia che sorgevano a Palermo negli anni 90. Eppure la beffa dura l’attimo in cui viene pronunciata, svelando, appena scompaiono le parole, una narrazione sul dovere, anzi sui doveri umani. Le 254 pagine dell’ultimo parto di Giuseppe Bommarito, edite dalle Affinità Elettive di Valentina Conti, casa editrice anconetana, si compongono di una prima storia sotto forma di romanzo di Rocco Russo e famiglia, e della seconda storia, narrata dal carcere in forma epistolare. Il dovere, per l’autore, è in primis quello del rispetto per se stessi, tradotto invece dal protagonista nell’inganno della rispettabilità, concessa agli “uomini d’onore” in Sicilia. Rocco, cavallo di razza, non esita ad unirsi ai mafiosi coi quali il padre era colluso, appena dopo l’uccisione dello stesso da parte di una cosca rivale. Inizia così una saga dei dannati, dei predestinati ad un futuro senza scelta, che tanto li identifica con i parigini descritti ne “L’ammazzatoio” da Emile Zolà. Gli “ultimi”, che si erano inurbati e vivevano alle periferie della, forse, più prestigiosa città europea del tempo, partivano alla mattina verso il centro città alla ricerca di un impiego spesso giornaliero; solo alcuni arrivavano alla loro meta. Zolà li descrive perdersi in osterie, in liti fra di loro, in diversivi perdenti. Il loro destino è segnato e la fine di molti protagonisti, miserrima, sarò lenta e inesorabile come quella di Rocco Russo. Nel romanzo di G.B., Rocco Russo si illude che il suo dovere sia di arricchirsi e, innamoratosi di Sara, giovane donna la quale si ostinerà per quieto vivere a non vedere le vere occupazioni del marito, farà di tutto per non farle mancare nulla, con un sincero affetto che metterà su un gradino ben più alto degli agi ottenuti col suo tremendo lavoro di killer. Tanto sarà l’impegno del protagonista nell’assolvere tale lavoro, che inizierà a disegnare la sua fine quando denuncerà al Capo Cosca il comportamento “poco professionale” e disumano di due suoi scagnozzi, uno dei quali si accanirà verso lui come collaboratore di giustizia. Si apre ora una delle pagine più profonde e sofferte del romanzo, la denuncia degli effetti terribili delle droghe e dell’alcool su chi le assume. La trasformazione di menti, spesso già predisposte, in un misto di superomismo e di risentimento verso l’umanità, che si illudono allo stesso tempo di potersi fermare e di poter punire chiunque, azzerando qualsiasi briciola di umiltà e di relazione col mondo esterno. Pagine queste che ritorneranno in maniera diametralmente opposta nella seconda parte del romanzo: a fronte delle figure della moglie Sara che, proprio in nome dell’amore, analizza la sua precedente connivenza, e della figlia Consuelo che si addentra nella mostruosità della istituzione dell’ergastolo ostativo, dall’altra parte Rocco si ergerà a uomo che non ha voluto tradire altri colleghi, dannati consapevoli come lui, appuntandosi una immaginaria medaglia sul petto di uomo d’onore. Molti i doveri a cui richiama Giuseppe Bommarito: leggere il libro fin in fondo, per comprendere quanto ingiusta sia l’istituzione della morte a lento rilascio (per questa rimando alle note di seconda pagina), essere umili e non giustificare mai le proprie scelte con le circostanze, accettare di essere composti di tante spinte contrastanti e non considerarle una debolezza. Un romanzo di formazione degli anni 2000, nel quale lo stile non si piega alle circostanze, ma descrive facendo partecipe il lettore ai momenti di crudeltà come a quelli dell’amore più profondo. Perché la storia di Tomas, ghanese in baraccopoli, non riesce a scuoterci? di Roberto Saviano Corriere della Sera, 1 aprile 2022 Vi presento Tomas, viene dal Ghana e vive in provincia di Foggia, in un casolare abbandonato, senza acqua né elettricità. Frequenta la baraccopoli di Borgo Mezzanone, che si stima ospiti in condizioni di estrema povertà quasi duemila persone. Tomas è uno dei protagonisti di One day one day, documentario prodotto da A Thing By - un collettivo creativo di ragazzi dal 23 ai 28 anni - insieme a Will Media, che racconta una storia che nessuno vuole conoscere. E che nessuno voglia conoscerla lo so per certo, perché provo a raccontarla da anni e la risposta è sempre il silenzio quando non addirittura l’insulto. E così, in risposta alla distrazione mista a senso di colpa degli adulti, questo film è il primo nella storia a essere vietato ai maggiorenni. Bravi ragazzi, mi viene da dire! Ignorateci, ignorate generazioni e generazioni di persone vecchie dentro prima che fuori, dai traguardi insoddisfacenti ai quali si aggrappano pieni di frustrazione. One day one day, A Thing By e Will Media lo stanno presentando nelle scuole avendo compreso che oggi gli unici rimasti ad avere occhi per vedere sono le ragazze e i ragazzi. Loro riescono a provare empatia, ma - dettaglio non trascurabile - non possono ancora votare e dunque essere determinanti sul piano politico. Chi può votare, invece, e quindi almeno provare a cambiare le cose, ha deciso forse consapevolmente di fottersene di chi vive, anzi, di chi sopravvive e soprattutto crepa di fatica nei ghetti d’Italia. Quando mi hanno mostrato One day one day, mi hanno detto che in tanti si sono commossi ma in pochi hanno voluto adottare le vite che racconta. Ho provato una rabbia im possibile spiegare a parole, perché anche quando gli effetti della guerra sulle persone sono drammaticamente evidenti, si riesce a essere discriminatori nell’aiuto portato a chi soffre. Oggi stiamo sperimentando l’esistenza di profughi di serie A e di profughi di serie B. E di immigrazione sono in pochi a voler parlare perché è un argomento difficile, ma quando lo facciamo dovremmo avere la capacità di scindere il privilegio dalla colpa. Uno dei protagonisti del documentario dice: “Se qualcuno vuole sapere perché sono nato in Africa, lo chieda al creatore. È stato lui”. Allo stesso modo dico: non dobbiamo sentirci in colpa per aver sperimentato il privilegio della pace, ma nemmeno spingerci a pensare sia un merito. Il destino non ci autorizza a fottercene di come stanno gli altri, per almeno due motivi; il primo è di natura morale (eh, forse questa parola a qualcuno potrebbe non piacere): non posso, da una posizione di privilegio, non occuparmi di chi vive in condizioni disumane. La seconda è per mero istinto di sopravvivenza, perché nella inconsapevolezza collettiva è come se stessimo banchettando sulla dinamite in attesa dell’esplosione. E, come dice un altro protagonista del documentario - l’esplosione ha le sembianze della Primavera araba, del Black lives matter, dell’ It’s Enough. In questa sorta di inconsapevolezza collettiva non ci rendiamo conto di essere parte della Storia, della storia con la esse maiuscola, e che potremmo per una volta cambiarla la Storia. Con responsabilità, invece di restarne come sempre schiacciati. Chi sa poi se sia davvero disinteresse e non, per esempio, senso di impotenza: il desiderio di voler, con le sole proprie forze, aiutare e la consapevolezza che l’impresa è impossibile. Eppure, quando in mare, con una pratica inaugurata dall’orrendo governo giallo-verde, venivano bloccate imbarcazioni stracariche di naufraghi in condizioni fisiche, psicologiche e climatiche estreme, chiedevo alle persone che incontravo come vivessero quel sopruso, i più alzavano le spalle: cosa posso farci io? Beh, tu puoi fare tutto: puoi pretendere che chiunque entri in Italia abbia una cosa senza la quale nessun’altra è possibile: i documenti! Una parola semplice che racchiude tutti i diritti. Documenti, cittadinanza, contratti di lavoro, l’affitto di una casa: questo percorso di legalità, cosa toglie alla tua vita? One day one day ci dice che non esiste felicità individuale. Cenare tra amici, fare l’amore con la persona che ami, guardare una partita di calcio coi tuoi figli, portare a termine un lavoro gratificante, momenti di felicità di cui non devi sentirti in colpa, se il tuo impegno è lavorare affinché i diritti di cui tu godi siano per tutti. “La vita è capire”, dice Tomas. “L’amore è capire. Se non capisci come fai ad amare?”. Forca e proibizionismo: un’alleanza da rompere di Marco Perduca Il Riformista, 1 aprile 2022 35 Paesi prevedono la pena di morte per uso e traffico di droga. Mercoledì è stato impiccato un 68enne a Singapore. In Iran nel 2021 c’è stata un’impennata. Ma i dati sono incerti e in alcuni stati secretati. Nel diritto internazionale è ammessa un’eccezione al diritto alla vita per quei Paesi che ancora non hanno abolito la pena di morte, ma i reati devono essere “gravi”, cioè “con conseguenze letali”. Le esecuzioni per droga non sarebbero quindi ammesse. Eppure, l’ideologia proibizionista continua a dare il suo contributo alla pratica della pena di morte nel mondo. L’ultima esecuzione è avvenuta all’alba di mercoledì scorso a Singapore dove Abdul Kahar Othman, un uomo di 68 anni nel braccio della morte per traffico di droga, è stato impiccato nella prima esecuzione nella città-stato in oltre due anni. Secondo l’XI rapporto di Harm Reduction International, ben 35 Paesi continuano a mantenere la pena di morte per uso e traffico di droghe. Al netto anche della diminuzione dei processi a causa delle limitazioni imposte dalle misure anti-pandemia, nel 2020 si era registrata un’inversione di tendenza rispetto al primo ventennio del terzo millennio. Nessuna esecuzione a Singapore per la prima volta dal 2013. Una moratoria in Arabia Saudita dichiarata da Re Salman all’inizio del 2020. Invece, nel 2021, sebbene non siano state segnalate nuove esecuzioni per reati di droga in Arabia Saudita e Singapore, in Iran è stato registrato un improvviso aumento. Il rapporto, che si basa solo su informazioni raccolte pubblicamente, nel 2021 ha registrato notizie su almeno 131 esecuzioni a livello globale, un aumento del 336% rispetto al 2020. “Almeno 131” perché il dato è relativo al solo Iran, l’unico Paese dove le esecuzioni sono relativamente pubbliche perché ritenute “educative”. Si confermano esecuzioni in Cina, ma il rapporto non fornisce numeri certi poiché le informazioni sulla pena di morte sono classificate come segreto di stato. Per lo stesso motivo, non si può escludere che ve ne siano state anche in Corea del Nord e Vietnam, altri due Paesi particolarmente proibizionisti e senza libera stampa. Il rapporto conferma che il numero dei Paesi che ricorrono attivamente alla pena capitale come strumento centrale del “controllo delle droghe” è in diminuzione ma che, al contempo, resta caratterizzato da opacità e segretezza, se non addirittura censura circa le reali dimensioni del fenomeno. Trasparenza e monitoraggio restano quindi elementi chiave per gli attori istituzionali e della società civile che lavorano e si battono per l’abolizione della pena di morte, non solo per droga. Anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, in una risoluzione dell’ottobre scorso, ha sottolineato gli obblighi dei Paesi mantenitori della pena di morte relativi alla trasparenza e condivisione delle informazioni circa l’uso che ne viene fatto. Il Consiglio ha inoltre osservato che “la discriminazione è aggravata quando la trasparenza non esiste o è insufficiente, e che una segnalazione trasparente e l’accesso alle informazioni possono esporre pratiche discriminatorie o avere un impatto nell’imposizione e nell’applicazione della pena di morte”. Ci sono anche notizie incoraggianti, come la totale abolizione della pena di morte in Kazakistan e Sierra Leone che conferma la direzione presa dalla stragrande maggioranza degli Stati Membri dell’Onu. Purtroppo, i Paesi in cui la morte può essere inflitta come punizione per reati correlati alle droghe sembrano rimanere delle vere e proprie “roccaforti” di questa pratica. Ciò risulta particolarmente evidente se si osservano quali Stati hanno rimosso la pena di morte dalla loro legislazione negli ultimi tempi: tra il 2007, anno dell’adozione della prima risoluzione a favore di una moratoria universale delle esecuzioni capitali - campagna storica di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale - e il 2021, molti Paesi hanno abolito la pena di morte ma nessuno di questi la prevedeva per reati di droga. Gli sviluppi del 2021 confermano le conclusioni del rapporto precedente sul calo “eccezionale” delle esecuzioni per droga. Che i progressi sono fragili e spesso temporanei se non vengono sostenuti da riforme globali a lungo termine e che le esecuzioni sono solo la “punta dell’iceberg”, l’elemento più visibile di un più ampio sistema punitivo che dovrebbe essere riformato nella sua interezza. Con la guerra la libertà di informare finisce in esilio di Francesca De Benedetti Il Domani, 1 aprile 2022 Dall’inizio dell’invasione russa l’Ue ha avviato il blocco di Sputnik e RT. Intanto in Russia i media liberi sono costretti da Putin alla chiusura e i giornalisti provano a fuggire anche verso l’Europa. “Questa è una richiesta di emergenza. Da quando c’è la nuova legge russa sulla censura, i nostri colleghi sono in pericolo e rischiano il carcere”. La lettera parte dalla Federazione europea dei giornalisti (Efj), ed è rivolta alle autorità estoni: “Vi chiediamo di rilasciar loro sùbito un visto”. La richiesta finora è senza risposta. Tra i giornalisti costretti a fuggire dalla Russia ci sono anche membri della redazione di Novaja Gazeta, roccaforte del giornalismo libero per la quale scriveva Anna Politkovskaja, uccisa nel 2006. “Sappiamo quanto ci sia costato raccontare la guerra cecena - dice Kirill Martynov, il vicedirettore, riferendosi all’assassinio di Politkovskaja - ma quella guerra abbiamo potuto almeno scriverla. Questa guerra non possiamo neppure più pronunciarla”. Dopo una prima pagina dal titolo Putin. Bombs. Ukraine, la redazione centrale ha chiuso. Ieri Martynov è approdato all’Europarlamento per portare la voce della libera informazione costretta all’esilio. Anche sul tema della libertà dei media, la guerra in Ucraina innesca un cambiamento in Europa. L’Unione europea si ritrova coinvolta nella guerra all’informazione, sia perché fa fronte alla censura imposta dal Cremlino in Russia, sia perché dopo l’invasione dell’Ucraina ha reagito bloccando Sputnik e Russia Today. La scelta ha innescato una battaglia legale, intanto la Commissione europea va a bussare alle porte di Big Tech sperando che anche Google e soci facciano da argine alla propaganda di Mosca. La censura russa e l’Ue - “La mattina mi sveglio, cerco le notizie del giorno e d’istinto penso a quale collega potrebbe occuparsene. È a quel punto che realizzo che il mio giornale non c’è più”. Non è la prima volta che Kirill Martynov si ritrova senza lavoro per aver difeso la libertà di pensiero. “Come professore di filosofia ero già stato licenziato dalla mia facoltà per aver criticato Putin e a inizio marzo sono stato redarguito da altre istituzioni educative per come ho parlato della guerra: sono stato licenziato più volte”. Novaja Gazeta, sotto la direzione del premio Nobel per la Pace Dmitry Muratov, ha provato fino all’ultimo a resistere alla repressione del Cremlino. Ma con l’irrigidirsi della legge sulla censura, a fine marzo ha dovuto fermarsi. In quel momento la Commissione europea ha diffuso le sue dichiarazioni di supporto. “L’Ue continuerà a contrastare le campagne di disinformazione del Cremlino e a supportate i giornalisti e i media indipendenti russi nel loro importante lavoro”, sono le parole dell’alto rappresentante Ue Josep Borrell il 28 marzo. Martynov ieri ha partecipato alla conferenza dei presidenti dell’Europarlamento, e fuori da quell’incontro a porte chiuse ha tracciato scenari futuri possibili. “Muratov, il premio Nobel, crede che in alcune situazioni circoscritte dovremmo ancora poter operare legalmente in Russia, io non ne sono così sicuro. Alcuni giornalisti stanno iniziando a operare fuori dalla Russia, underground, sotto copertura, con l’anonimato; non è nella nostra etica professionale, ma temo sia uno scenario concreto”, dice il vicedirettore di Novaja Gazeta. “Spero che potremo collaborare con le istituzioni europee per avviare progetti giornalistici e culturali”. Cosa sta facendo in concreto l’Ue per supportare i giornalisti in esilio? La commissaria che si occupa di libertà dei media, Vera Jourova, dice che “bisogna pensare alla protezione dei giornalisti indipendenti russi in fuga. Organizzazioni come lo European Centre for Press and Media Freedom hanno programmi appositi”. Ma questo stesso centro citato dalla Commissione ha dovuto sottoscrivere un appello agli stati membri Ue perché “diano l’esempio e rilascino i visti ai giornalisti in fuga”. Ricardo Gutierrez della federazione europea dei giornalisti dice che “più che le parole servono i fatti: le nostre richieste di visto rimangono senza risposta, centinaia di giornalisti indipendenti russi sono fuori dal paese, bloccati in Turchia, o in Georgia, e arrivare in Ue per loro non è facile”. L’Ue e lo stop ai portali russi - Con estrema rapidità, appena la Russia ha invaso l’Ucraina, Bruxelles ha preso una decisione inedita: mettere al bando Sputnik e RT. Lo ha fatto con un presupposto, e cioè che non si tratti di media ma di macchine di propaganda; e con uno strumento, cioè quello delle sanzioni. “Tempi fuori dall’ordinario richiedono misure fuori dall’ordinario”, ha detto la commissaria Jourova. Gutierrez (Efj) registra “una svolta nelle politiche dell’Ue: prima della guerra, combatteva la disinformazione promuovendo il giornalismo etico, lavorando a un ecosistema mediatico positivo”. Con la guerra, si è passati al blocco. “Dovrebbero essere semmai le autorità regolatorie dei media a valutarne la chiusura. Qui è stato il Consiglio, quindi i governi, a farlo tramite sanzioni; e affidare ai governi la definizione di cosa sia propaganda e vada chiuso apre a derive scivolose e controproducenti”, dice il segretario della Federazione europea dei giornalisti. Intanto la corte di giustizia Ue ha respinto la richiesta del portale francofono di Russia Today di sospendere temporaneamente la misura presa dall’Ue, il che vuol dire che bisogna attendere che la corte si esprima sul caso. La commissaria Ue Jourova intanto rinsalda i rapporti con Big Tech: questa settimana ha incontrato l’amministratore delegato di Google. La commissaria riferisce con soddisfazione che Sundar Pichai “ha confermato che sta implementando le misure restrittive verso RT e Sputnik e vuol arginare la disinformazione russa”. La guerra infierisce sui corpi delle donne di Rosaria Manconi* La Nuova Sardegna, 1 aprile 2022 All’alba di questo nuovo millennio a tinte fosche, imprevedibilmente attraversato da un nuovo e terribile conflitto, insieme alle notizie di devastazione e morte, dai luoghi della guerra è arrivata, inevitabilmente, anche quella degli stupri e delle violenze subite dalle donne ucraine. Chi pensava che lo stupro non fosse altro che un retaggio triste dei conflitti bellici passati o che appartenesse a guerre ed a popoli lontani geograficamente e culturalmente si sbagliava. Di fatto lo stupro ha solo mutato il suo significato. Se nel passato veniva considerato un “bottino di guerra”, un “danno collaterale” sfortunato ed inevitabile, nei conflitti contemporanei ha assunto valenze via via più complesse sino a diventare parte di una strategia offensiva, un’arma per l’annientamento del nemico. Superando il concetto di “violenza di genere”, lo stupro, in particolare quello di massa, è divenuto un mezzo di distruzione etnica, uno strumento agghiacciante di genocidio. Nella storia più recente dell’umanità il corpo femminile è divenuto il vero luogo della guerra. La sua violazione ha acquistato la valenza simbolica della nazione sconfitta, l’oltraggio estremo, l’espressione del disprezzo verso le popolazioni vinte, la negazione stessa della loro identità di persone. Un segnale da mandare al nemico. L’offesa dell’onore di una nazione intera oltraggiata, profanata nel suo intimo. Lo stupro in guerra perde la sua natura di semplice violenza sessuale, di soddisfazione di un bisogno per divenire, quindi, affermazione della superiorità del vincitore. Stuprare le donne davanti ai loro uomini inermi è il modo più atroce per affermare la superiorità non solo individuale ma di una intera nazione. È ciò che accaduto alle donne in Rwanda, nella ex Jugoslavia, in Nigeria, in Palestina, in Cecenia. È ciò che è accaduto alle donne Yazide stuprate dall’Isis ed ancora molto prima, nel 1914, alle donne belghe e francesi. Persino alle donne etiopi che subirono l’offesa dalle nostre truppe colonizzatrici. Non c’è distinzione fra nazioni civilizzate e nazioni culturalmente arretrate, fra vincitori e vinti. La guerra infierisce sui corpi delle donne, li usa e li abusa. Disprezza il genere, nega il suo valore se non quello della riproduzione. Nei conflitti etnici e razziali abusare delle donne e metterle incinte significa contaminare la etnia. In Bosnia si parla di centinaia di bambini nati dalle violenze. Ma moltissime donne scelsero di abortire, altre furono costrette a farlo dalle famiglie. Ed allora per evitare tutto questo non basta indignarsi di fronte alle notizie che arrivano dall’Ucraina. La comunità internazionale deve reagire, accertare le responsabilità. E poiché c’è in ballo qualcosa di più vasto della violenza in sé l’impegno deve essere innanzi tutto rivolto alla cessazione immediata della guerra. Perché la guerra stessa è uno stupro. *Avvocato Dare un nome alla vera cattiveria di Michela Marzano La Stampa, 1 aprile 2022 “Ciò che tu hai scoperto con orrore, risulta poi essere la semplice verità”, scrive Elias Canetti ne “La provincia dell’uomo”. La frase mi torna in mente mentre ascolto Lino, l’autista che mi accompagna a Fiumicino quando, dopo essere stata a Roma a trovare i miei genitori, prendo un aereo per tornare a Parigi. Domenica scorsa, portandomi in aeroporto, Lino mi ha confessato di essere rimasto inorridito di fronte al racconto di una donna che, qualche giorno prima, era rientrata dalla Moldavia. La donna gli aveva detto che sono tantissime le ragazze ucraine che, in queste settimane, rischiano di finire nelle mani dei trafficanti. Gli aveva mostrato alcune foto scattate a Palanca, un piccolo comune al confine con l’Ucraina dove ogni giorno, da oltre tre settimane, arrivano migliaia di persone in fuga dalla guerra. Gli aveva raccontato che ci sono decine di uomini che aspettano alla frontiera queste giovani donne con in mano un cartello: “Transfert gratuiti”. Uomini che passano ore accanto a squallidi pulmini, scrutando le ragazzine che fanno la fila insieme agli altri profughi. Uomini con la sigaretta in bocca che gridano “siamo qui per aiutarvi”, mentre i volontari della Croce Rossa si sgolano a ripetere che nessuno deve allontanarsi dalla fila: “Restate tutte e tutti insieme!”, “Non vi fidate!” “Fate attenzione!” Uomini senza scrupoli che non esitano ad approfittare della vulnerabilità e della buona fede di chi, stremato dalla fame, dalla stanchezza e dalla paura, è pronto a credere a qualunque menzogna. “Ma com’è possibile?” Mi ha chiesto Lino. “Come definirebbe, lei, persone di questo tipo?” Chi si occupa da tempo di rifugiati e guerre, sa bene che, ogniqualvolta si vive un’emergenza umanitaria, oltre ai gesti di grande solidarietà si moltiplicano anche le storie brutte di adescamenti e sfruttamento. C’è chi trova le crepe, ci si infila dentro, e abusa delle persone più fragili. Come ha recentemente spiegato Klaus Vanhoutte, il direttore di Payoke, una ONG belga che si occupa delle vittime del traffico di esseri umani: “Quello che sta avvenendo in Europa è un sogno per i trafficanti di persone. Stai lì sola con i tuoi figli, non hai dormito per quattro notti e speri di scappare. Tutto quello che vuoi è riposo, sicurezza e cibo”. In momenti come questi, si cede facilmente alle proposte di aiuto e alle promesse, anche quando di aiuto non ce ne sarà affatto, anzi, sarà solo l’inizio di un nuovo calvario. Soprattutto perché si cade nelle trappole tese da chi, senza scrupoli e senza pietà, strumentalizza la paura e la sofferenza altrui. Persone prive di compassione e mosse unicamente dalla bramosia che non esitano a ridurre in schiavitù chi non ha altra colpa se non quella di sperare in una vita migliore. Delinquenti, criminali, bastardi. Non trovo altro modo per definire questo tipo di persone. Che ci costringono a fare i conti con la cattiveria, quella vera. Quella che, ogni volta, scopriamo con orrore. E che, però, non è altro che una delle tante verità della natura umana. Stati Uniti. La polizia uccide impunita: nel 2022 già 249 morti, l’anno scorso 1.139 di Giovanna Branca Il Manifesto, 1 aprile 2022 I dati di Mapping Police Violence. Un cittadino nero ha tre volte più probabilità di un bianco di essere la vittima. Zy’shonne Johnson, Ahmed Raslan, Charles Henry Calhoun: sono i nomi delle ultime tre vittime della violenza della polizia che appaiono fra i dati raccolti da Mapping Police Violence, organizzazione no profit che traccia appunto la violenza delle forze dell’ordine negli Stati uniti. Secondo il loro studio più recente, sono già 249 le persone uccise quest’anno - dati aggiornati al 24 marzo - mentre nel 2021 sono state 1.139. Un anno fra i più letali ma in linea con la media nazionale dal 2013, che parla di circa 1.100 persone uccise dalla polizia ogni 365 giorni. Sempre l’anno scorso - emerge dallo studio - i cittadini neri assassinati dalle forze dell’ordine erano il 28% del totale, benché rappresentino solo il 13% della popolazione statunitense. In generale, i dati raccolti fra 2013 e 2022 evidenziano come un afroamericano abbia tre volte la probabilità di un bianco di restare vittima della violenza della polizia. Altra statistica sbalorditiva: fino al 2020, il 98,3% degli omicidi non ha dato luogo a incriminazioni per i poliziotti che li avevano commessi. A quasi due anni dall’assassinio di George Floyd che ha portato nelle strade americane le proteste di Black Lives Matter, e la proposta dei suoi attivisti di tagliare i fondi alla polizia in quasi tutti gli stati Usa (con lo slogan defund the police), i numeri restituiti da Mapping Police Violence - e da un’analoga indagine del Washington Post pubblicata a febbraio - parlano anche di un Paese che, oltre a celebrare dei processi altamente pubblicizzati contro alcuni poliziotti, non ha in alcun modo fatto i conti con la piaga endemica della violenza poliziesca e di quella contro i cittadini e le cittadine neri. O come accade soprattutto nella contea di Los Angeles contro quelli più fragili come gli homeless: un’inchiesta di LAist rivela che una volta su tre in cui la polizia di Los Angeles fa uso della forza, è contro una persona senza fissa dimora. “La scioccante regolarità degli omicidi - ha scritto su twitter il fondatore di Mapping Police Violence Samuel Sinyangwe - suggerisce che niente di sostanziale sia davvero cambiato per poter fermare la dinamica nazionale di violenza poliziesca. Dimostra che non stiamo facendo abbastanza, e che anzi la situazione sembra peggiorare anno dopo anno”. Non solo: l’appello a tagliare i fondi della polizia si è in pochi mesi trasformato nell’invocazione opposta, re-fund the police (in linea con la proposta di budget presentata martedì da Biden: 17.4 miliardi per le forze dell’ordine federali, 1.8 miliardi allo Us Marshals Service per la cattura dei fuggitivi, 72 milioni per le azioni penali contro i crimini violenti, a fronte di soli 367 milioni per la riforma della polizia), benché i tagli ai fondi delle forze dell’ordine siano stati pochi, timidi e quasi subito cassati dalle amministrazioni locali che avevano provato a implementarli. Vittime di questa violenza, come sottolinea lo studio del Washington Post, sono a volte anche bambini: dal 2015 ne sono stati uccisi tre che avevano meno di 10 anni. L’ultimo caso risale proprio all’anno scorso, quando in Pennsylvania la piccola Fanta Bility (8 anni) si trovava fra gli occupanti di una macchina crivellata di colpi da tre poliziotti. “Investire di più in un sistema che tutti sappiamo essere inadeguato è uno schiaffo in faccia a tutti coloro che hanno manifestato nell’estate 2020”, ha detto al Guardian Chris Harris, della Austin Justice Coalition. “Riflette una vera e propria mancanza di soluzioni ai nostri problemi. È sempre la stessa storia, anche se sappiamo che si tratta esattamente di ciò che continua a far del male e a uccidere le persone”.