Carcere e marginalità sociale, un’altra via è possibile? di Gianfranco Falcone L’Espresso, 19 aprile 2022 L’opinione di Stefano Anastasia. Continuiamo i nostri dialoghi sul carcere. Perché il carcere? Perché è uno dei luoghi dell’impossibile, uno di quei luoghi in cui l’umano sembra venir meno, eppure riesce misteriosamente a fiorire. Il carcere è un luogo fisico, ma è anche metafora. Senza dubbio è uno di quei luoghi in cui lo Stato mette alla prova la sua presenza, le sue ideologie, nei confronti di chi è più fragile. Oggi dialoghiamo con Stefano Anastasia. Chi è Stefano Anastasia? Stefano Anastasia è un docente di sociologia e filosofia del diritto all’università di Perugia. Sono stato tra i fondatori dell’associazione Antigone, di cui sono stato presidente per un periodo e attualmente presidente onorario. Sono garante delle persone private della libertà della regione Lazio. Lo sono stato anche della regione Umbria. Sono anche portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, cioè i garanti nominati dalle regioni, dalle province, dai comuni. Lei è stato anche il capo di gabinetto del sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri... Sì. Sì, giusto. A dirla tutta sono stato anche presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia. Poi dal 2006 al 2008 capo della segreteria di Luigi Manconi quando Luigi Manconi era sottosegretario alla Giustizia, con delega all’amministrazione penitenziaria. Che cos’è Antigone e perché questo nome? Antigone è un’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Perché la figura di Antigone nella tragedia di Sofocle esprime sostanzialmente il conflitto tra le norme di legge e l’idea di giustizia. Fu una rivista di cui fu direttore proprio Luigi Manconi, che accompagnò il fenomeno della dissociazione dai reati di terrorismo, delle persone che vi erano coinvolte. Quando abbiamo costituito l’associazione abbiamo ripreso il nome che era stato della rivista. Che cosa fa un garante? Un garante risponde innanzitutto alle istanze dei detenuti, che arrivano nei modi più diversi, ad esempio dagli avvocati, dalle visite in istituto. Poi fa appunto verifiche negli istituti, verifica le condizioni materiali di detenzione. Ovviamente se è il caso segnala all’amministrazione penitenziaria cosa debba fare perché queste condizioni siano più dignitose. Poi un garante territoriale deve anche fare un lavoro di verifica e di sollecito sugli enti territoriali, regioni, province e comuni. Perché gli enti territoriali hanno un sacco di responsabilità, anche se spesso non lo sanno rispetto esecuzione penale, dal punto di vista sociale, dal punto di vista dell’assistenza sanitaria. Gran parte delle cose che riguardano l’esecuzione della pena dipendono anche dalla capacità degli enti territoriali di lavorarci. Il Recovery fund e il PNRR prevedono impegni di spesa per il carcere? Se sì di quale entità e in quali comparti? Ad esempio prevedono una differente politica edilizia o l’assunzione di nuovo personale educativo. Oggi c’è un educatore ogni 73 detenuti (Rapporto Associazione Antigone, marzo 2021)... Ora è in corso di svolgimento un concorso che dovrebbe portare all’assunzione di circa duecento educatori, che non è una cosa da poco. Ma non c’entra nulla con il PNRR. Purtroppo il PNRR ha investito solo sulla costruzione di otto nuovi padiglioni detentivi, che verranno aggiunti ad alcuni istituti già esistenti. Però non prevede altro. Da questo punto di vista non mi pare ancora una misura minimamente efficace. Perché ovviamente il nostro problema non è tanto quello di aumentare la capienza gli istituti di pena che già oggi ospitano molte persone che non avrebbero alcuna ragione di stare in carcere, ma invece fare una politica adeguata sul territorio per far sì che possano uscire dal carcere quelli che non dovrebbero starci. Prendo spunto dalla sua risposta per citarle alcuni dati che sono di due anni fa ma che possiamo considerare ancora validi ai fini del nostro ragionamento. Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna nel loro libro Vendetta Pubblica. Il carcere in Italia (Editori Laterza 2020) sottolineano che: “Solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82%. Inoltre, i carcerati italiani hanno in media pene più lunga rispetto ai vicini europei: coloro che scontano l’ergastolo sono il 4,4% dei condannati, in confronto al dato europeo del 3,5%”. Perché queste differenze? Perché in Italia si va così tanto in carcere? L’ordinamento ha ancora come centro la pena detentiva. Tutto ruota attorno alla pena detentiva. Le misure alternative sono ancora concepite come alternative rispetto a un quanto di pena detentiva definita per sentenza. Solo ora, con per esempio le riforme che sono state delineate anche recentemente, approvate recentemente dal Parlamento, la riforma Cartabia, si prevede che per le pene minori possa non esserci il carcere. Il rischio è che gran parte di quella che noi chiamiamo detenzione sociale continui a essere destinata al carcere. Che cosa intende con “detenzione sociale”? Detenzione sociale è un’espressione che usava un famoso magistrato di sorveglianza che è stato anche capo dell’amministrazione penitenziaria, Alessandro Margara, ed è un’espressione che sta a significare la gran parte della popolazione detenuta che è in carcere perché non ha un’adeguata politica di accoglienza e di sostegno sul territorio, per reati minimali, per condizioni di irregolarità sociale sostanzialmente. Possiamo dire dei numeri? Questa detenzione sociale quanto incide sui 54.645 detenuti oggi presenti in Italia? I detenuti per fatti legati ad organizzazioni criminali sono circa 10.000. È presumibile che ce ne siano altrettanti per fatti di qualche gravità come i reati contro la persona. Il resto sono reati legati a condizioni di marginalità sociale, piccole appropriazioni di cose, reati legati a condizioni di irregolarità sociale. Quindi, stiamo parlando di una buona metà delle persone detenute che rientrano in questa categoria della detenzione sociale. Vorrei leggerle alcuni dati e commentarli con lei. Oggi i detenuti in Italia sono 54.645. In carcere si suicidano circa 50 persone all’anno. I casi sono “oltre 10 volte in più rispetto alla popolazione libera” (Rapporto associazione Antigone, marzo 2021). Almeno la metà dei detenuti tollera il carcere con l’uso massivo di psicofarmaci. Il sovraffollamento è un problema endemico. I pestaggi non sembrano essere un’eccezione. Pensiamo ai fatti avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, nel carcere di San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000, a quelli avvenuti negli istituti penali di Ferrara, Modena, San Gimignano, Sollicciano, Torino, alle condizioni di vita del Sestante. Pensiamo agli studi dell’Università di Stanford in cui volontari suddivisi in due gruppi, uno di detenuti e l’altro di guardie, replicavano meccanismi di violenza e sopraffazione, tanto che l’esperimento fu sospeso prima del tempo. Sembra che la violenza in carcere non sia evitabile. A fronte di questi numeri e di queste considerazioni possiamo dire che il carcere assolve al dettato costituzionale di rieducare? L’articolo 27 della costituzione dice in maniera inequivocabile al terzo comma: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”... Assolutamente no. Questo è un fatto mi pare assodato, accertato, di cui sono consapevoli anche la stragrande maggioranza degli operatori penitenziari. Gli operatori penitenziari tentano di far assolvere al carcere il mandato costituzionale. Ma ci riescono in pochissimi casi, casi generalmente di persone che hanno risorse personali e sociali importanti, proprie o relazionali esterne, quindi riescono a fare del passaggio in carcere un passaggio che non li danneggia ma dà qualche opportunità in più. Oppure casi eccezionalissimi in cui si allineano tutte le stelle. Cioè, un buon trattamento penitenziario, un buon magistrato di sorveglianza, un buon territorio esterno, e altro ancora, che producono dei risultati significativi. Però questi casi si contano nell’ordine delle decine l’anno in tutta Italia. Quindi semmai dovessi finire in carcere più che un avvocato mi servirebbe un cartomante? Sì. Sì, per capire se si è sulla strada buona. La popolazione carceraria è costituita per circa il 35% da soggetti tossico dipendenti. Si tratta di detenuti che hanno commesso reati relativi allo spaccio di droga - perché per drogarsi sono costretti a spacciare -, oppure reati connessi, tipo la rapina e il furto. Il 40% 45% della popolazione è costituito da extracomunitari. Sono sempre dati pubblicati da Bortolato e Vigna nel 2020. Dal rapporto Antigone del marzo del 2021 risulta che la grande percentuale dei detenuti proviene dalle regioni del Centro Sud. Quindi, citando l’associazione Antigone “Conta pertanto sicuramente la condizione sociale ed economica di provenienza”? Sempre secondo il Rapporto Antigone “Man mano che cresce la pena diminuisce la percentuale dei detenuti stranieri, segno, ancora una volta del minore spessore criminale e di un uso selettivo della giustizia penale”. Di fondo sembra che in carcere ci vadano più coloro che non sono in linea con le norme culturali piuttosto che coloro che delinquono. Che cosa ne pensa di questa lettura? Sì. In gran parte è così. Tenendo presente però che le norme di legge spesso vengono fatte esattamente per poter controllare comportamenti socialmente devianti. Anche di questo bisogna tener conto. Per esempio abbiamo citato la legislazione sulla droga o anche quella sull’immigrazione che sono fatte in modo tale da consentire il controllo, e quindi anche la carcerazione di alcune figure sociali, consumatori di sostanze stupefacenti o migranti irregolari. E che costituiscono un problema agli occhi, o nella concezione dell’opinione pubblica. Quindi, modificando un assetto culturale si potrebbe modificare anche l’assetto del carcere? Perché non mi sembra che stiamo parlando di valori assoluti, sempre ammesso che questi esistano, ma di relatività culturale… Sì. Se appunto nella relatività culturale ci mettiamo questo fenomeno della disuguaglianza sociale. Non è solo un problema di culture, è anche un problema del modo in cui rapportiamo alle disuguaglianze. Per quanto riguarda gli stranieri però in parte riguarda tutta una serie di comportamenti non conformi, marginali, che in qualche modo urtano la sensibilità pubblica, o almeno urtano la sensibilità di coloro che parlano in nome della sensibilità pubblica. Quindi, modificando un assetto culturale si potrebbe modificare anche l’assetto del carcere? Perché non mi sembra che stiamo parlando di valori assoluti, sempre ammesso che questi esistano, ma di relatività culturale... Sì. Se appunto nella relatività culturale ci mettiamo questo fenomeno della disuguaglianza sociale. Non è solo un problema di culture, è anche un problema del modo in cui rapportiamo alle disuguaglianze. Per quanto riguarda gli stranieri però in parte riguarda tutta una serie di comportamenti non conformi, marginali, che in qualche modo urtano la sensibilità pubblica, o almeno urtano la sensibilità di coloro che parlano in nome della sensibilità pubblica. C’è una grande percentuale di detenuti con pene inferiore ai quattro anni e un’altra percentuale importante con pene residue inferiori ai quattro anni. Applicando a questi detenuti pene alternative, o percorsi rieducativi il carcere potrebbe diventare più vivibile perché si svuoterebbe. Lei mi ha già detto che le persone che riescono a usufruire di questi percorsi sono una minima percentuale. Nel libro Abolire il carcere, lei scrive che questi esempi virtuosi potrebbero rappresentare la tipica foglia di fico per nascondere una realtà molto più complessa e fatiscente. Che cosa si può fare per togliere dal carcere questa popolazione che in realtà ha finito la maggior parte della sua pena o ha una pena minimale da scontare? Io penso che dovremmo discutere a proposito del PNRR di cui abbiamo detto, dovremmo discutere di ciò che il PNRR prevede in termini di coesione politica e sociale, e del modo in cui la programmazione degli enti territoriali, che peraltro si sta facendo, tenga conto o non tenga conto dell’esistenza degli istituti penitenziari. Quello sarebbe un modo per agire in maniera ragionevole su queste questioni. Cioè, costruire servizi e politiche del territorio che consentano di far uscire dal penitenziario questa gran parte di persone detenute che sono detenute con pene brevi o pene residue brevi. Le faccio un esempio di un caso che probabilmente non avrà trovato, perché è stato minimale, ma è indicativo. In occasione dell’emergenza covid c’è stato un programma straordinario, approvato dalla Cassa delle ammende, con il concorso delle regioni. Per far uscire dal carcere le persone che avevano pene brevi o brevissime, ma non avevano un posto dove andare. Per questo programma sono state messe a disposizione della regione Lazio 95 posti presso strutture di accoglienza. In un anno sono passate 22 persone da questi 95 posti. Perché non c’è proprio la capacità di lavorare su queste cose quand’anche sia stata fatta una programmazione. Il problema è lavorare su questo. Cioè, come si fa a far uscire dal carcere quelle persone che entrano e ci stanno per un anno o due anni, e che fuori non hanno nulla? E sì, bisognerebbe fare un PNNR che riguarda la giustizia, legato al modo in cui le istituzioni penitenziarie possono entrare nella programmazione sociale territoriale. Studi recenti sembrano affermare che le teorie sulla pena non abbiano un fondamento razionale, filosofico, religioso. Non ce l’ha la teoria retributiva né quella preventiva speciale. Così come non ce l’ha la Teoria della prevenzione generale. Sembra che nessuna delle attuali concezioni della pena sia efficace. Infatti la percentuale di recidiva è altissima. Circa il 70% di coloro che entrano in carcere ci tornano in breve tempo. Con che cosa si può sostituire il concetto di pena? Il concetto di pena può essere sostituito attraverso forme di conciliazione. All’origine di qualsiasi pena c’è un conflitto relazionale tra una o più persone. L’unica alternativa al giudice, che decide autoritativamente il debito da pagare per chi ha commesso il reato, è percorrere strade di conciliazione tra le parti. In fondo è ciò che si propone la mediazione penale e si propone la giustizia riparativa. È un sogno o arriveremo ad abolire il carcere così come abbiamo abolito il manicomio? Intanto il carcere si può abolire ancora conservando il modello della giustizia penale. Salvo che la pena può non essere detentiva. Può essere una prestazione o qualsiasi altra forma di limitazione della capacità della persona che non passa attraverso la limitazione della libertà. Poi c’è anche il superamento della giustizia autoritativa, cioè della giustizia penale. È appunto un superamento che si può attuare in questa forma di valorizzazione delle forme di composizione dialogica dei conflitti. Può spiegare il concetto di giustizia autoritativa? La giustizia comminata dal giudice è una giustizia autoritativa. C’è un’autorità terza superiore. In Brasile ci sono 622mila persone recluse. È il quarto paese al mondo per numero di detenuti, dopo gli Stati Uniti. Negli USA ci sono più di 2.250.000 persone in prigione. Il 40% di queste sono afroamericane. Sebbene su una popolazione complessiva di più di 330 milioni gli afroamericani costituiscano solo il 13,1% del totale. La Russia e la Cina sono rispettivamente al terzo e al quarto posto. Le Apac brasiliane possono essere un modello alternativo? Nelle Apac i detenuti hanno le chiavi delle celle, non ci sono guardie, si esce a lavorare e c’è solo detenzione notturna, nei progetti sono inclusi anche le famiglie... Esperienze comunitarie lo sono sicuramente un modello alternativo al carcere. Ovviamente bisogna verificare in quella realtà qual è lo spazio di libertà della persona. Non dobbiamo dimenticare che nella nostra esperienza quotidiana ci sono state presenze di comunità terapeutiche, che sono state anche più dure di un’esecuzione penale in carcere. Se io rubo una maglietta vado in carcere. Se io ammazzo, come successo recentemente, una donna di ventisei anni vado in carcere. Sembra che non ci sia differenza tra il rubagalline e l’assassino. Non è una rozza stortura del sistema giuridico italiano? Sì. esattamente. Perché corrisponde alla concezione che la privazione della libertà sia un equivalente universale. Vale per tutte le forme di condotte lesive o offensive. E poi viene commisurata solo sul tempo. Mentre invece la cosa che dovremmo intanto imparare che la libertà essendo un bene fondamentale della persona, là dove lo riteniamo accettabile, debba essere privata soltanto quando c’è un reato di particolare gravità. Quindi, dovremmo essere capaci di riconoscere che tutti i reati per esempio che non sono offensivi per la persona umana non dovrebbero essere associati al carcere. Non dovrebbero poter comportare la privazione della libertà. Qual è l’origine storica del sistema custodialistico carcerario? L’origine storica è quella della prima età moderna, dell’urbanizzazione, del fenomeno del vagabondaggio, e della necessità di disciplinare e contenere le masse contadine che arrivavano delle prime grandi aree urbane del Cinquecento, Seicento. Questa è l’origine storica del carcere come modalità detentiva. Purtroppo si riproduce ancora oggi. Ancora oggi il carcere ospita principalmente marginalità sociale urbana. Quando la dottoressa Susanna Marietti mi ha inviato le fotografie del carcere a disposizione dell’associazione Antigone le ho equiparate alle fotografie che mi aveva inviato il fotografo Giacomo Doni sui manicomi. Non ho trovato molte differenze. Tra l’altro il giornalista Alberto Gaino nel suo libro Il manicomio dei bambini, sottolineava che i numeri dei ricoverati nei manicomi di Torino crescessero esponenzialmente nel momento della grande espansione della FIAT. Le masse contadine che non riuscivano ad essere assorbite dall’industria molto spesso finivano in manicomio. Mi sembra che lei mi stia parlando di un fenomeno che ha delle somiglianze con quanto accadeva per il manicomio... Sì. È esattamente la medesima cosa. Sono tutte istituzioni disciplinari che nascono dentro quel contesto, che rispondono a quella funzione, e in cui i transiti sono abbastanza significativi. Lo sono stati finché noi avevamo un manicomio e carcere, lo sono stati con l’ospedale psichiatrico e giudiziario e carcere. Continuano ad esserlo tra alcune forme di residenze psichiatriche e carcere, o per esempio le residenze per le misure di sicurezza. Comunque, queste istituzioni totali sono istituzioni disciplinari finalizzate al contenimento di una certa marginalità sociale. Poi là dove c’è il rilievo di una possibile patologia mentale si viene indirizzati sul versante manicomiale. Là dove non c’è si viene indirizzati sul versante carcerario. Però spesso si tratta delle stesse persone. Nel 2015, l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando volle gli Stati generali dell’esecuzione penale. Questa esperienza non si è tradotta in una vera riforma. Alcune delle istanze espresse sono state però accolte? In realtà è una cosa che andrebbe tutta rivista. Perché le istanze degli Stati generali sono rimaste in gran parte sulla carta. Gran parte di quelle valutazioni non riuscirono a entrare nella proposta della commissione Giostra [Commissione istituita nel 2017 ai fini della riforma del sistema penitenziario nda] che ovviamente fu limitata ai provvedimenti normativi più significativi. E poi non furono tradotti in parte nella proposta di legge che seguì. Alla fine tutta la parte che riguardava le attività alternative al carcere fu espunta dal decreto che alla fine venne approvato dal governo e portato in Parlamento. Quindi, quelle istanze sono ancora in gran parte sulla carta e si dovrebbero, e si potrebbero recuperare. Tanto più oggi che dopo la pandemia il nostro sistema penitenziario ne è uscito completamente stravolto. Per cui noi non abbiamo più una fisionomia degli istituti di pena, un’organizzazione del loro lavoro nella finalità del reinserimento sociale, o comunque nel sostegno alle persone in difficoltà. È tutta una partita che andrebbe ripresa e verificata sul campo. Trentamila persone sono state detenute per sbaglio. Ecco il vero dramma della giustizia italiana di Claudio Cerasa Il Foglio, 19 aprile 2022 Ogni anno, dal 1991 a oggi, mille persone sono finite dietro le sbarre da innocenti per ingiusta detenzione o errore giudiziario. Il tutto per una spesa complessiva da parte dello stato di quasi 900 milioni di euro. Mentre i partiti continuano ad azzuffarsi attorno alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, con l’Associazione nazionale magistrati pronta addirittura a dichiarare uno sciopero preventivo, alcuni numeri mostrano il vero sfacelo della giustizia italiana. Dal 1991 al 2021, 30.017 persone - cioè mille ogni anno - sono state vittime di ingiusta detenzione, cioè hanno subito una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi essere assolte. Il tutto per una spesa complessiva da parte dello stato di 819 milioni di euro, una media appena superiore ai 27 milioni di euro l’anno. Per quanto riguarda gli errori giudiziari veri e propri, cioè i casi di coloro che, dopo essere stati condannati con sentenza definitiva, vengono assolti in seguito a un processo di revisione, questi sono stati 214, con una spesa in risarcimenti di 76 milioni di euro. A fornire questi numeri, aggiornati al 31 dicembre 2021, è l’associazione “Errori giudiziari”, che da decenni approfondisce il fenomeno degli innocenti in manette nel nostro paese. Nel 2021 i casi di ingiusta detenzione sono stati 565. Per queste persone sono stati disposti indennizzi pari a 24 milioni e mezzo di euro. Rispetto all’anno precedente, nota l’associazione, si assiste a un calo sia nel numero di casi sia nella spesa. Le ragioni sono da legare molto probabilmente alla pandemia, che continua a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria su tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle corti d’appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Secondo “Errori giudiziari”, tuttavia, non è da escludere che incida molto anche una tendenza restrittiva dello stato, che respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o tende comunque a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge. I numeri, comunque, restano impietosi, e dovrebbero indurre la politica - così come la magistratura - a un maggiore senso di responsabilità nel trattare la riforma della giustizia. Pasqua in carcere. Il Calvario e la detenzione non sono la fine di Roberta Barbi vaticannews.va, 19 aprile 2022 Una riflessione con fra’ Beppe Giunti, dei Conventuali della Madonna della Guardia di Torino, da anni volontario nella sezione dei collaboratori di giustizia nella casa di reclusione San Michele di Alessandria, in Piemonte. È una grazia, per fra’ Beppe, poter passare un po’ del suo tempo tra i reclusi e quelli, poi, sui quali pendono le pene più lunghe perché hanno commesso le colpe più gravi, ma dalle quali hanno anche iniziato a distaccarsi. Sono i collaboratori di giustizia, storie di vita che spesso subiscono anche l’interruzione dei rapporti con i familiari, che non capiscono e non condividono. “Fratelli briganti”, li chiama fra’ Beppe, proprio come faceva il Poverello d’Assisi, e come sempre anche quest’anno li ha accompagnati per mano verso la Pasqua di Resurrezione, il momento più importante per noi cristiani: “Ho detto subito che l’ultimo appuntamento della vita terrena di Gesù è stato con un peccatore, anzi con due: i ladroni sulla croce - mette le cose in chiaro - e poi abbiamo scomposto la narrazione della Passione nel Vangelo di San Luca in tante scene, come fosse un film, ma attenzione, non è un film, è vita vera, un documentario crudo e terribile come quello che ci arriva ogni giorno dall’Ucraina”. A un certo punto del racconto c’è la scena più terribile, quella sul Calvario: “È una scena che va guardata con gli occhi ben aperti e con tanto coraggio”, spiega ancora fra’ Beppe ai suoi ragazzi, i quali l’esperienza del Calvario la fanno ora dopo ora, vivendo il tempo rallentato e spesso vuoto della detenzione, chiedendosi con quale forza riuscire ad arrivare al giorno dopo. “Ma poi c’è la promessa che Gesù fa al ladrone: se prendi consapevolezza dei tuoi peccati, se chiedi perdono per i tuoi reati, Lui ti porta via da lì”. “Ed ecco che arriva il finale del film, la scena più bella, la più libera, la più luminosa: quella della Resurrezione, che è il vero finale”, così come la redenzione è la vera fine della vita dei detenuti che passano attraverso il pentimento e per i quali la colpa il carcere sono solo una parentesi, seppure lunga e privativa, della vita. Il frate da tanti anni trascorre le feste assieme ai suoi fratelli briganti, abbastanza per dire che “la festa in carcere ha sempre due facce: c’è l’elemento positivo, di festa appunto, per chi sta facendo un percorso di riscoperta della propria fede o almeno della propria umanità, ma c’è anche la nostalgia del ricordo, del non poter abbracciare i propri parenti”. “Tra i collaboratori di giustizia questo sentimento è prevalente - precisa fra’ Beppe - perché c’è la distanza da una famiglia che spesso non ha voluto rinnegare il proprio passato e il proprio vissuto di mafia, ha invece rinnegato il recluso, il quale vive perciò un doppio abbandono”. Lo stesso abbandono che Gesù sperimenta nella Passione. Anche quest’anno, come spesso è accaduto, Papa Francesco ha scelto di trascorrere il Giovedì Santo con i detenuti, gli ultimi tra gli ultimi. Fra’ Beppe ricorda di aver accompagnato, per un po’ della sua strada, un recluso che aveva ricevuto la visita di Francesco nel carcere dove era rinchiuso e che in quell’occasione gli aveva lavato i piedi: “Raccontava sempre che poi il Papa lo ha guardato, senza pronunciare una parola, e in quello sguardo lui ha sentito lo sguardo buono, misericordioso e fraterno di Cristo che gli ha dato il coraggio di proseguire nel suo percorso di recupero, nel cambiamento della sua vita”, è la testimonianza di fra’ Beppe. E proprio lui, assieme ai fratelli briganti, vuole lanciare un augurio speciale a tutti: “Che la Pasqua sia sempre speranza nel futuro, che per i detenuti è soprattutto rieducazione e reinserimento: questo è il vero significato della Pasqua, in carcere e nel mondo esterno”. Giustizia, la riforma è un calvario. Anche i 5S all’assalto di Liana Milella La Repubblica, 19 aprile 2022 Pronta una pioggia di emendamenti nella maggioranza, si va verso un nuovo rinvio. Oggi non sarà una buona giornata per la riforma del Csm. Per almeno tre buone ragioni. La prima: alle 13 una pioggia di emendamenti, anche della maggioranza (Lega, M5S, Forza Italia), si abbatterà sul testo della Guardasigilli Marta Cartabia. La seconda: di conseguenza diventerà in bilico il destino della futura legge per questa settimana, perché dopo la discussione generale, domani incombe il Def, che va votato per forza. Quindi i tempi diventeranno stretti. La terza ragione: alle 12 l’Anm, con il presidente Giuseppe Santalucia, terrà una conferenza stampa in cui confermerà lo sciopero se il testo resta “punitivo”. Un quadro assai poco rassicurante per la maggioranza che si presenta divisa, tant’è che alle 11 il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il grillino Federico D’Incà, sentirà in una call gli umori dei capigruppo d’aula. Esclusa per ragioni tecniche, oltre alle promesse del premier Draghi, l’ipotesi della fiducia, visto che i 43 articoli richiederebbero altrettante fiducie, salvo tornare in commissione Giustizia per organizzarlo in due maxi-emendamenti. A quel punto non resta che votare tutte le richieste di modifica, con una maggioranza destinata a dividersi per l’annunciata astensione di Italia viva e per il sì della Lega su tutto quello che riguarda i prossimi referendum sulla giustizia. E pure sul sorteggio per eleggere il Csm, perché la Lega è orientata a presentarne uno ad hoc, insoddisfatta della legge elettorale della Cartabia. Si andrà al voto questa settimana o la legge slitta? La seconda ipotesi è la più gettonata. Perché dopo il voto (non rinviabile) sul Def di domani, è improbabile chiudere per giovedì. Perché l’impegno preso con Cartabia di non presentare emendamenti è saltato. Non ne faranno né il Pd, né Enrico Costa di Azione, ma tutti gli altri sì. A cominciare da M5S, che sembrava intenzionato a non farne. Ma sono andati via via aumentando i malumori sulla riforma, per la dissonanza con il testo dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafade e per le insistenti proteste delle toghe. Anche se nelle mailing list figurano messaggi contro lo sciopero. M5S presenterà un emendamento contro l’unico passaggio da pm a giudice (e viceversa) nell’arco dei primi dieci anni. La responsabile Giustizia Giulia Sarti, con il relatore Eugenio Saitta, chiederà che si torni ai quattro possibili oggi, o almeno a due, com’era nella Bonafede. E Forza Italia, con Pierantonio Zanettin, non ha dubbi quando dice “se il M5S chiede modifiche, allora lo facciamo anche noi”. Ma sono quelle della Lega a creare allarme. Ultima quella sul sorteggio, che vedrebbe il consenso di tutto il centrodestra. Nonché quelli sui referendum che la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno conferma: “Li presenteremo sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, sulla separazione delle funzioni, sulle esigenze cautelari, sulla legge Severino. In coerenza con il massimo sostegno ai referendum, sulla giustizia votiamo tutti gli emendamenti che vanno in quella direzione. Anche se non ci piace, non presenteremo modifiche sulla legge elettorale”. Proposta dalla Bongiorno che ora la chiama ex Bongiorno e la ripudia. L’emendamento sul sorteggio sarà votato anche da Iv, FdI, esponenti del Misto. Una maratona da cui la maggioranza rischia di uscire a pezzi. Di qui il rinvio strategico di una settimana per rimettere insieme i pezzi. Riforma del Csm, Lega e Iv lavorano per bloccarla di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2022 La riforma del Csm firmata Marta Cartabia arriva questa mattina alle 11 in aula alla Camera e il suo iter non sarà semplice: l’accordo raggiunto in commissione Giustizia non soddisfa due partiti di maggioranza, Lega e Italia Viva, e quindi in aula la maggioranza si spaccherà. Il governo ha deciso di non mettere la fiducia e così i partiti sono liberi di presentare e far votare i propri emendamenti. Lo faranno i renziani e i leghisti che voteranno anche quelli dell’opposizione di Fratelli d’Italia. Se Iv ha già annunciato che si asterrà sul provvedimento - il dissenso riguarda soprattutto il meccanismo di elezione del Csm - la Lega presenterà sue proposte legate ai referendum del 12 giugno: una più netta separazione delle carriere (il testo attuale prevede una separazione delle funzioni dando la possibilità di scegliere una volta nei primi dieci anni), la responsabilità diretta dei magistrati (quesito cassato dalla Consulta) e il voto diretto degli avvocati nei consigli giudiziari. Inoltre la Lega ha annunciato che voterà gli emendamenti di FdI su separazione delle carriere e responsabilità diretta dei pm. Su richiamo del ministro de Rapporti col Parlamento, Federico d’Incà, Pd, M5S e Forza Italia hanno annunciato che ritireranno i propri emendamenti per blindare i numeri alla Camera. Così non faranno Lega e IV che però sono in minoranza: i loro emendamenti, quindi, non passeranno. Ma quello di oggi sarà l’assaggio di quello che succederà presto in Senato dove i numeri sono più risicati e la riforma rischia di bloccarsi. Sicuri che lo sciopero politico dell’Anm sia davvero legittimo? di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 19 aprile 2022 Il livello di scontro tra magistratura (associata) e politica ha ormai raggiunto livelli drammatici. Da un lato, governo e parlamento, che sulla giustizia si giocano gran parte della propria credibilità interna e europea (la riforma è uno dei capisaldi del Pnrr). Dall’altro la magistratura, che si esprime attraverso l’associazione di categoria, rappresentativa - in termini di iscritti - della quasi totalità dei magistrati. Sullo sfondo i referendum sulla giustizia che del 12 giugno. La tensione è così alta che l’Anm minaccia di proclamare uno sciopero, o come si dice, con un’espressione non priva di understatement, un’astensione dall’esercizio dell’attività giurisdizionale. L’inquadramento dello sciopero dei magistrati nella cornice costituzionale ha provocato vivaci dibattiti, non solo tra i costituzionalisti. Fatto sta che ormai da anni accade che scioperi vengano proclamati, tanto che la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha “valutato idoneo” un codice di autoregolamentazione redatto dall’Anm, il quale ne disciplina le modalità di svolgimento, proprio al fine di garantire le prestazioni essenziali anche durante l’astensione. Che, per dirne una, “non è consentita nei procedimenti e processi con imputati detenuti”. Qualche interrogativo però resta. Non si tratta, infatti, in questo caso dello sciopero in senso classico, inteso come strumento di rivendicazione legato al rapporto di lavoro e ai suoi profili giuridico- economici. È sufficiente esaminare le pronunzie dell’Anm o leggere le interviste dei suoi vertici, per comprendere che la mobilitazione di cui si parla ha dichiaratamente a oggetto la contestazione di un indirizzo di politica giudiziaria. Questo è dunque, tecnicamente, uno sciopero politico. Non nel senso partitico, ovviamente, ma nel senso che si contestano delle scelte politiche, proprio in quanto scelte politiche. Le motivazioni di queste contestazioni sono argomentate dall’Anm nei termini di una difesa, se non della lettera, quantomeno dello spirito della Costituzione. Ma le motivazioni, ammesso che siano tutte fondate, non cancellano il fatto che la contestazione avvenga nelle forme di una iniziativa che, in quanto contrapposta a quella politica del governo, assume essa stessa carattere politico. L’Anm, cioè non si limita a evocare l’incostituzionalità della legge, riservandosi poi di far valere tale incostituzionalità nella sede appropriata, che è quella del giudizio di costituzionalità delle leggi. Né si è limitata ad aderire al parere, articolato, ma essenzialmente critico, espresso dal Csm qualche settimana fa, in forza di un potere consultivo che - pur non previsto espressamente in Costituzione - è stato introdotto dal legislatore allorché ha precisato i compiti del Consiglio superiore. L’Asm, invece, sta valutando di intervenire su di un altro terreno. Quello che fa capo allo sciopero come mezzo per fare pressione sul decisore pubblico affinché non assuma quella decisione politica. E il fatto che l’Anm evochi ragioni di “interesse generale” paventando ad esempio il rischio che “così si trasformerebbe il magistrato in un burocrate” rende ancor più evidente la natura “politica” (sebbene non partitica) della posizione. Perché è evidente che l’interesse generale (cioè non corporativo) evocato dall’Anm è “uguale e contrario” all’interesse generale che, per definizione, il Parlamento esprime allorché assume le proprie scelte legislative. Ogni indirizzo politico è infatti un modo di “interpretare” l’interesse generale. Il quale, com’è noto, non esiste in natura, ma è frutto delle valutazioni di opportunità, cioè politiche, svolte dai soggetti a tal fine preposti. Inquadrare bene i termini della questione è dunque importante, anche qualora non si dubiti in generale della liceità dello sciopero anche politico. È importante, cioè, non dimenticare che in questa vicenda si contrappongono due diversi indirizzi politici in materia di giustizia. Motivati, da entrambi i lati, anche con ragioni legate a una corretta attuazione della Costituzione. Posta così la questione è difficile non rilevare che la vicenda, oltre ad essere una spia molto eloquente del livello di guardia ormai raggiunto dalla crisi del rapporto tra politica e magistratura, pone degli interrogativi sul modo in cui quel rapporto debba ormai essere concepito. La Costituzione, infatti, stabilisce garanzie altissime per l’esercizio della funzione giurisdizionale. Garanzie che inevitabilmente si risolvono in garanzie personali di coloro che quella funzione svolgono. E non potrebbe che essere così. E la Corte costituzionale ha sempre dato prova di una particolare cura per queste tutele del sistema- giustizia e degli individui che vi operano. Nessuno può certo dire che vi sia sottovalutazione o negligenza da parte dell’organo guardiano della costituzionalità. Nello stesso tempo, però, e non a caso, la Costituzione è molto rigorosa nel voler tenere lontana la magistratura dalle scelte politiche e nell’affermare che chi esercita funzioni giurisdizionali non debba essere (né apparire, aggiunge la Corte dei diritti dell’uomo) portatore di un proprio indirizzo politico, né abbia particolare titolo per valutare le scelte di indirizzo politico, anche in materia di giustizia. Già la previsione di un parere del CSM sui progetti di legge in materia costituisce un’originalità, che viene giustificata in nome della natura “tecnica” del parere (comunque non vincolante). Conosciamo l’obiezione. Nessuno può impedire ai magistrati in quanto cittadini di esprimere la propria opinione. Ci mancherebbe. Ma il problema sta tutto lì. Lo sciopero ontologicamente non è l’iniziativa di cittadini, quand’anche associati. Lo sciopero è una rivendicazione di una categoria in quanto categoria, non in quanto insieme di cittadini. Qui sta, a mio parere, il corto- circuito. L’Anm non è un’associazione di cittadini che incidentalmente si trovino ad essere anche magistrati. L’Anm è l’associazione di categoria di rappresentanza dei magistrati in quanto magistrati. Né basta dire che si tratti di attività associativa, la quale non intacca l’esercizio delle funzioni, che saranno comunque svolte “in soggezione alla legge” qualunque essa sia. Ci mancherebbe. Intanto però, seppur dall’esterno, le condiziona perché per definizione ne sospende l’esercizio. Ma il punto vero è che, con questo sciopero politico, la sospensione delle funzioni avviene in nome di una visione dell’indirizzo di governo che la magistratura associata, in quanto categoria, vuole contrapporre a quello degli organi che, nella nostra forma di governo, sono costituzionalmente abilitati a stabilirlo. D’altronde se si accettasse la prospettiva dell’Anm, ci si dovrebbe chiedere per quale motivo, per coerenza, lo sciopero non sia proclamato anche per fare pressione su quel “legislatore”, portatore di indirizzo politico, che è il popolo quando vota il referendum. Ma uno sciopero per far pressione sul popolo non suona proprio benissimo. Latorre: “Il ddl farà regredire noi toghe, scioperare è un diritto di tutti” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 aprile 2022 Secondo il vertice della corrente centrista, la riforma “resuscita un modello pre-costituzionale di giudice, burocratizzato e gerarchizzato, svilisce pure la difesa”. Secondo Stefano Latorre, segretario nazionale di Unicost, la riforma con cui Cartabia sembra aver realizzato una faticosa mediazione non solo non aumenta l’efficienza del sistema giustizia, non solo non depotenzia il potere delle correnti ma ci riporta a un modello di magistratura pre-costituzionale. Pongo a lei la stessa domanda che ho rivolto qualche giorno fa al suo collega Marcello Basilico: Luciano Violante ha detto che il no incondizionato delle toghe alla riforma del Csm deriva dal fatto che sono in campagna elettorale. Che ne pensa? Non condivido questa affermazione. Una riforma dell’ordinamento giudiziario ritenuta ingiusta e punitiva sarebbe stata avversata in qualsiasi momento. Questa riforma incide sul modello del magistrato come delineato dalla Costituzione, introducendo la figura di un magistrato- burocrate non più indipendente ma legato a concetti come quello di performance. Rendere giustizia non può essere una catena di montaggio standardizzata. Il 19 arriva in Aula il ddl elaborato in commissione Giustizia: giudizio del tutto negativo? La riforma non pare centrare neanche l’obiettivo di aumentare l’efficienza del sistema giustizia italiano che, invece, necessiterebbe di maggiori risorse e di più personale amministrativo. Non credo che l’irrigidimento dei rapporti gerarchici o legare l’avanzamento in carriera alle percentuali di conferma dei provvedimenti da parte delle giurisdizioni superiori possa migliorare l’efficienza. Segna solo un ritorno indietro nel tempo a un modello di magistratura pre-costituzionale in cui esistevano magistrati di serie A e di serie B, per usare un termine calcistico facilmente comprensibile. Uno degli elementi più criticati dalla magistratura è il fascicolo di performance. Lo si è concepito, è stato detto, in virtù del fatto che finora non ha prevalso la meritocrazia ma l’arbitrio delle correnti. Quale sarebbe stata l’alternativa? Quando si pensa a uno strumento come il fascicolo delle performance si dovrebbe tenere conto di quella che è la realtà processuale, in cui il contraddittorio serve proprio a dipanare e chiarire i fatti accaduti. Da un certo punto di vista, viene svilita anche la funzione delle difese. Cerco di essere più chiaro: un processo potrebbe essere stato istruito perfettamente dal pubblico ministero, ma in dibattimento la difesa trova un testimone di cui nessuno sapeva l’esistenza che rovescia l’esito che sembrava scontato. Quale rimprovero si può fare al pm in questo caso? Inoltre molto spesso il pm che ha istruito il procedimento non è lo stesso che rappresenta l’accusa nel dibattimento, dunque se l’imputato viene assolto occorrerebbe chiarire a chi sarà da ascrivere un’eventuale responsabilità, se così la vogliamo definire. La magistratura teme che ci si dovrà adattare a un certo “conformismo”. Però Gaetano Pecorella ha fatto notare come l’orientamento costante delle sezioni unite tenda a evitare sobbalzi improvvisi nella giurisprudenza: il magistrato che sa motivare in maniera intelligente un orientamento diverso sarà sempre molto apprezzato. Che ne pensa? Nessuno mette in discussione la funzione nomofilattica della Cassazione, ma il problema è diverso, perché nel progetto di riforma si vuole legare la carriera del magistrato alla tenuta dei suoi provvedimenti davanti ai vari gradi di giudizio. Cosa che non avviene neanche negli ordinamenti di common law. Come valuta il sistema di voto ipotizzato per il Csm, binominale con quota proporzionale e sorteggio dei distretti di Corte d’Appello per formare i collegi? Anche in questo caso si tratta di soluzioni che non sembrano in grado di raggiungere l’obiettivo dichiarato, depotenziare le correnti, né riescono a soddisfare le vere esigenze dell’organo. Il sistema binominale maggioritario con correzione proporzionale non si adatta al Csm, che non è un organo che necessita di governabilità, ma deve rispecchiare la magistratura tutta, in tutte le sue diverse sensibilità. Il sorteggio dei distretti poi favorisce in modo eclatante i gruppi organizzati più strutturati, perché se un candidato di Milano, per esempio, si trova per sorteggio ad essere votato dai distretti di Bari e Reggio Calabria, soltanto se avrà alle spalle l’apparato di una corrente forte potrà avere speranza di essere eletto. Chi non può contare su un gruppo è destinato a perdere. Un tema che interessa molto ai nostri lettori è il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. La nuova norma prevede che sarà il Coa a deliberare un giudizio sul magistrato. Il coinvolgimento di un’istituzione risolve il timore del conflitto di interesse? Certo, la soluzione è meno impattante della vecchia proposta, ma il timore del conflitto di interesse non viene risolto. Il problema rimane perché l’avvocato che siede nel Consiglio giudiziario ben potrebbe avere processi o cause con il magistrato in valutazione. Come si può pensare ad una serenità di giudizio? Lo sciopero “ormai non è evitabile”, ha detto il presidente Anm Santalucia. Critiche sono arrivate anche da esponenti politici. Gasparri di FI ha parlato di “offesa alla democrazia” dal “tenore eversivo”. Secondo il sondaggista Mannheimer, se i magistrati dovessero scioperare, la loro credibilità agli occhi degli italiani potrebbe precipitare ancora di più... Prima di definire lo sciopero dei magistrati “di tenore eversivo”, forse occorrerebbe ricordare che il diritto di sciopero, nell’ambito delle leggi che lo regolano per qualunque categoria, è previsto dall’articolo 40 della Costituzione. Sull’affermazione di Mannheimer, non concordo affatto. La credibilità si basa anche sulla capacità di lottare per le cose in cui si crede, oltre che sul lavoro che ogni giorno i magistrati svolgono con abnegazione. A mio parere, la magistratura associata dovrebbe avere il compito di spiegare ancora di più il funzionamento e i problemi della giustizia, con iniziative aperte alla cittadinanza. Molti scoprirebbero una realtà che, credo, li sorprenderebbe. “Protesta dei magistrati inopportuna. Le leggi le fa il Parlamento”. Parla Flick di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 aprile 2022 “La protesta dei magistrati mi sembra inopportuna nel contenuto, nel metodo e nelle ragioni. I magistrati hanno tutto il diritto di promuovere iniziative per questioni legate alla loro posizione di dipendenti statali, ma lo sciopero non può costituire l’occasione per far valere orientamenti politici o per contestare i contenuti di scelte legislative, peraltro ancora oggetto di discussione in parlamento. Le leggi in questo paese le fa il parlamento”. Intervistato dal Foglio Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale, commenta la minaccia di sciopero avanzata dalle correnti della magistratura contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, su cui la Guardasigilli Marta Cartabia è riuscita, dopo faticose trattative, a raggiungere un accordo nella maggioranza. Proprio oggi, in “curiosa” concomitanza con l’approdo del testo di riforma all’aula della Camera, l’Associazione nazionale magistrati annuncerà le iniziative di mobilitazione contro la riforma, con le correnti che spingono per l’opzione più radicale: lo sciopero. Una possibilità prefigurata nei giorni scorsi dallo stesso presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. A colpire Flick è proprio il momento scelto dall’Anm, cioè quello “in cui il Parlamento si accinge a varare una riforma che sarà oggetto di dibattito, nel quale anche i magistrati potranno far sentire la propria voce. Mi pare inaccettabile l’idea che in questa fase la magistratura associata voglia far valere pressioni. La vicinanza tra queste iniziative e le prossime elezioni del Csm, inoltre, conferma il permanere della correntocrazia”, afferma l’ex ministro della Giustizia. “Mi pare problematico che la magistratura continui a dilapidare un patrimonio di credibilità e di fiducia che ha accumulato nel tempo attraverso comportamenti di questo genere”, aggiunge Flick, prima di riconoscere che la magistratura di credibilità “già ne ha dilapidata abbastanza” negli ultimi anni, soprattutto dopo l’emergere dello scandalo Palamara sulle “nomine pilotate” al Csm. “Se le scelte della politica dovessero tradursi in violazioni dei principi fondamentali della Costituzione relativi all’indipendenza della magistratura e all’esercizio della funzione giurisdizionale vi sono già strumenti da poter attivare, primo fra tutti il ricorso alla Corte costituzionale. Ma l’idea di tradurre il dissenso in uno sciopero, cioè in un’astensione dall’adempimento dai propri doveri di lavoro, non mi pare assolutamente giustificata”, dice Flick, “anche perché il diritto fondamentale di sciopero non può arrivare fino al punto di condizionare quelle che sono le scelte legislative del paese, attraverso il parlamento”. “Stiamo assistendo - prosegue il presidente emerito della Consulta - a un dibattito che mi pare sia andato largamente al di là del dibattito politico e giuridico sui contenuti della riforma. Credo che da parte di alcuni componenti della magistratura si sia dimostrata un’ostilità preconcetta nei confronti della riforma, così come dalla parte della politica si sia dimostrata da parte di qualcuno una sorta di desiderio di ritorsione nei confronti degli errori compiuti da alcuni magistrati. Credo che non sia questo il clima in cui si possano fare le riforme, un clima fatto di reciproci battibecchi e reciproche contrapposizioni. Inoltre, non si può risolvere la crisi della magistratura attraverso micro interventi spot su singoli frammenti processuali o ordinamentali”. Eppure, in una recente intervista il presidente dell’Anm si è spinto addirittura ad affermare che la riforma in discussione “riporterà la magistratura al periodo pre-costituzionale”. “Non condivido assolutamente una valutazione di questo genere”, commenta Flick. “Credo che alcuni esponenti della magistratura e alcuni orientamenti della correntocrazia abbiano cercato di riconoscere alla magistratura posizioni e atteggiamenti che non sono quelli che la Costituzione giustifica. La Costituzione dice che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, cura l’indipendenza e l’autonomia esterna e interna della magistratura, ma non attribuisce alla magistratura un potere di condizionare le riforme. Le leggi in questo paese le fa il parlamento. Tutti i contributi culturali e istituzionali sono ben accetti, ma non fino al punto di condizionare le riforme stesse”, spiega Flick. “È un’esperienza - aggiunge - che io stesso ho vissuto a mie spese, quando mi sono ritrovato a svolgere l’incarico di ministro della Giustizia. In molti ritenevano che il disco verde alle riforme potesse venire solo se vi fosse il placet delle correnti della magistratura. Tutto questo è avvenuto anche perché la politica ha lasciato che ciò capitasse e non ha opposto a questo atteggiamento, a mio avviso inaccettabile, un discorso costruttivo di contrapposizione e di fermezza”. “Il problema di fondo - conclude Flick - è che la politica ha abdicato a certi suoi compiti e ha lasciato che questi venissero assunti dalla magistratura. Ma la Costituzione attribuisce alla magistratura e ai giudici il compito di accertare responsabilità di persone singole attraverso il giudizio su fattispecie specifiche, non quello di affrontare problemi di sistema. L’albero della giustizia dovrebbe dare due frutti: il frutto della ragionevole durata del processo e il frutto della ragionevole prevedibilità del diritto, che si collega al principio della certezza. Non siamo stati in grado di dare nessuno di questi due frutti alla giustizia italiana”. Giustizia, la riforma è un bluff: non lo diciamo noi, ma gli stessi magistrati di Paolo Ferrari Libero, 19 aprile 2022 La riforma della magistratura approvata questa settimana è uno dei più grandi bluff degli ultimi anni. Un tarocco che ha solo lo scopo di far vedere a Bruxelles che l’Italia ha fatto qualcosa in materia di giustizia così da consentirgli di prendere gli agognati soldi del Recovery. Reclamizzata come ‘epocale’ dai partiti che appoggiano la maggioranza di governo, in realtà la riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia non cambierà un bel nulla. Ad affermarlo sono gli stessi magistrati che hanno diramato ieri un lungo elenco di cose che bisognava cambiare e che invece sono rimaste immutate. La prima riforma da fare dopo lo scoppio del ‘Palamaragate’, scrivono le toghe dissidenti sotto la sigla di Articolo101, era togliere potere alle correnti, i gruppi parasindacali di magistrati che condizionano le nomine al Consiglio superiore della magistratura. Gruppi divenuti famosi al grande pubblico per essere stati abbondantemente citati nei libri di Luca Palamara e Alessandro Sallusti. Il prossimo Csm “verrà eletto su base politica con le candidature in mano alle correnti” e il sistema elettorale scelto rafforzerà “gli eserciti organizzati perché determina che i candidati non sono neppure conosciuti nel territorio ove si svolgono le votazioni”. Il voto, in pratica, “sarà elargito per direttiva della corrente e vi saranno scambi elettorali abilmente concordati”. La separazione delle funzioni, cosa diversa dalla separazione delle carriere, è altra aria fritta, ed è “già in atto, visto che i passaggi dalla magistratura requirente alla giudicante e viceversa sono già da molto tempo una rarità”. Pm e giudici, in compenso, “continueranno ad essere rappresentati al Csm condizionandosi reciprocamente”. Ed il ‘potere’ che sarebbe stato da to ai difensori di giudicare i magistrati che sbagliano? “Agli avvocati il contentino di un ‘voto unitario’, un solo voto nell’ambito di organo collegiale, sul gradimento del magistrato in valutazione”. Se gli avvocati vorranno incide re sulla vita professionale dei magistrati, dovranno accettare a loro volta di essere giudicati dagli stessi organismi a composizione mista. Nessun cambiamento, poi, nel rapporto fra toghe e politica, dal momento che non sono stati minimamente tagliati i maxi stipendi dei pm nei ministeri. Come ricordato ieri da Libero, il magistrato che svolge attività amministrativa presso un ministero, continua a cumulare gli stipendi: quello da pm e quello, ad esempio, da capo di gabinetto. “Resta la lusinga dell’incarico d’oro, visto che il magistrato chiamato all’alta burocrazia dalla politica, oltre al ‘gettone’ di circa 250mila euro all’anno conserverà anche il suo stipendio, sebbene non metta piede in un’aula di tribunale”, ricordano le toghe. Il motivo è tutto politico: “La politica si mostra piuttosto generosa coi subalterni, magari tornano utili quando vestiranno nuovamente la toga a capo di qualche ufficio di procura”. Ed infine il fascicolo del magistrato che raccolga i suoi “insuccessi”, sentenze demolite o accuse non provate. Le tanto temute pagelle. “È, tra tutte, la vera mandrakata, degna del compianto Gigi Proietti”, scrivono ancora le toghe. Visto che le valutazioni di professionalità del magistrato avvengono ogni quattro anni ed i processi d’impugnazione durano mediamente molto di più, nessuno saprà mai che fine hanno fatto i suoi provvedimenti. “È ormai chiaro a tutti che non sarà riformato un bel nulla. Quindi si brinda, anzi si sciopera!”, prosegue quindi il comunicato dei magistrati di Articolo101. “Ogni riforma”, concludono le toghe, “che riguarda la magistratura, per tradizione, va sugellata con uno scioperino dei magistrati: è il brindisi all’accordo tra la politica e le correnti che della prima sono la longa manus. E il fatto che l’Anm stia proprio in queste ore allestendo il cerimoniale della protesta di rito, conferma e rinnova la vicinanza tra politica e magistratura”. Auguri e buona riforma! L’ira dei magistrati: la giustizia è cosa nostra di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 aprile 2022 Dopo le traversie in commissione, le nuove norme dell’ordinamento e del Csm approdano alla Camera. Ma nelle stesse ore l’Anm prova a rubare la scena al legislatore fissando la riunione per decidere sullo sciopero. Oggi è il grande giorno. La riforma Cartabia su Csm e Ordinamento giudiziario approda in aula, dopo un travagliato lavoro in Commissione Giustizia. Ma sono anche le stesse ore in cui i furbini del sindacato delle toghe, la Anm, ha fissato un incontro per decidere lo sciopero e concentrare su di sé l’attenzione dei media. Una dichiarazione di guerra. La giornata è stata preceduta da commenti e interviste da parte dei magistrati più esposti e più esibizionisti, e anche da un vero grido di vittoria. Ci siamo ricompattati, finalmente di nuovo tutti insieme, hanno detto in coro Di Matteo, Ardita, membri del Csm, e lo stesso Giuseppe Santalucia, il capo del sindacato. Oggi è il grande giorno. La riforma Cartabia su Csm e Ordinamento giudiziario approda in aula, dopo un travagliato lavoro in Commissione Giustizia. Ma sono anche le stesse ore in cui i furbini del sindacato delle toghe, la Anm, ha fissato un incontro per decidere lo sciopero e concentrare su di sé l’attenzione dei media. Una dichiarazione di guerra. Un po’ come se, mentre la miss viene incoronata reginetta, una sua concorrente si spogliasse nuda davanti alle telecamere. La giornata è stata preceduta da commenti e interviste da parte dei magistrati più esposti e più esibizionisti, e anche da un vero grido di vittoria. Ci siamo ricompattati, finalmente di nuovo tutti insieme, hanno detto in coro Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, membri del Csm, e lo stesso Giuseppe Santalucia, il capo del sindacato. Pare non esser successo niente: la riunione dell’hotel Champagne tra toghe ed esponenti politici, il trojan nel telefonino di Luca Palamara, lo scandalo di inchieste penali e le dimissioni a catena dal Csm. E poi punizioni di incolpevoli come il pg Marcello Viola cui fu bloccato l’accesso alla Procura di Roma (e qualcuno voleva impedirgli anche a quello di Milano). E infine il libro “scandaloso” di Sallusti e Palamara, che diventerà subito una sorta di best-seller con il dito puntato contro le toghe, a loro disdoro e vergogna. Così il 19 aprile rischia di diventare una data simbolica, quella in cui il premier Draghi indossa l’abito di Berlusconi e la ministra Cartabia quello del suo ex collega Castelli, ambedue presi di mira da una minaccia di sciopero delle toghe del tutto senza senso. Il consigliere Di Matteo non teme di avanzare il paragone tra i due momenti storici, spiegando che quel governo di centro-destra era più sincero, più esplicito nel proprio progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Questi qui invece, dice ancora Di Matteo, mi hanno deluso: “È incredibile che quel disegno si stia realizzando in un momento in cui al governo non c’è solo il centro-destra ma una coalizione che arriva fino al Pd e ai Cinquestelle, partiti e movimenti che avevano fatto del contrasto a questo tipo di riforme un loro cavallo di battaglia politica”. Eccovi ben sistemati cari esponenti del Pd! Arruolati dal pubblico ministero preferito dal Fatto quotidiano (che lo intervista) nello splendido mondo del grillismo contro-riformatore e amico delle forche. In questo mondo vive prima di tutto il disprezzo per il Parlamento, quello strano organismo pieno di furfanti e parassiti che rubano lo stipendio e che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, essere aperto come una scatola di tonno. In questo mondo non esiste la divisione dei poteri. E sulla giustizia non c’è libertà per l’esecutivo né per il legislativo, esiste solo la spavalderia di una Casta in toga priva del pudore dei propri limiti e dei propri errori. Il “Sistema” denunciato da Luca Palamara è ormai alle spalle. E in questo clima di guerra, anche le toghe hanno dichiarato guerra al mondo della Politica. Ai partiti, al governo, al Parlamento. Hanno l’atomica -le manette- e la sanno usare. Paiono andare ai matti all’idea che il mondo politico stia “osando” presentare norme, sia pur piccole piccole, che non abbiano ricevuto il loro imprimatur, il loro bollino blu. E, se la riforma Cartabia andrà in porto, se questo pur debolissimo Parlamento troverà in sé la forza, tra mille compromessi e contentini a ogni partito o frazione di esso, di guardare a un futuro in cui non saranno più i Di Matteo e i Santalucia a comandare nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama, allora diremo anche noi “viva la riforma Cartabia”. Anche se riteniamo che le varie norme e deleghe in essa contenute non cambieranno molto. Perché liberarsi, finalmente e dopo trent’anni, dal giogo dei pm è forse oggi la cosa più importante. Del resto dovrebbe essere sufficiente esaminare punto per punto il modo di ragionare dei capofila della protesta che sfocerà quasi sicuramente nello sciopero delle toghe. Premettiamo che Nino Di Matteo è contrario all’astensione dal lavoro, ma solo perché è uno molto attento alla comunicazione e teme che “lo sciopero sarebbe scambiato per un tentativo per tutelare interessi di casta”. Invece? Risulta per caso a qualcuno, o qualcuno si accorto del fatto che dopo lo scandalo denunciato nel “Sistema” sia stata avviata all’interno della magistratura, del loro sindacato dello stesso Csm una qualche forma di discussione, di autocritica, di progettualità per un futuro diverso? Non risulta. Viene in mente quel detto siciliano che suona più o meno così: calati giunco, che passa la piena. Lasciamo perdere la legge elettorale del Csm, come se bastasse una modifica dei sistemi di votazione per riformare la magistratura. Per lo meno la proposta di sorteggio, che in tempi normali sembrerebbe assurda, avrebbe potuto evitare il trionfo delle correnti e i loro comportamenti a volte peggiori di quelli dei peggiori politici. E magari avremmo avuto nel Csm invece dei vari Davigo e Ardita, qualche signor Rossi o Bianchi, sconosciuti. Non male, eh? Ma non possiamo lasciar perdere la scandalosa cultura politica che appartiene a certe toghe. Sentiamo ancora Di Matteo, che è uno importante, uno che dovrebbe essere d’esempio per i giovani magistrati che si affacciano alla carriera. Le norme della riforma Cartabia secondo lui manifestano “una voglia di vendetta nei confronti di quella parte della magistratura che è stata capace di portare a processo la politica, la grande finanza, le grandi deviazioni dello Stato”. C’è da sentirsi agghiacciati. Dunque il compito del pubblico ministero non è quello di cercare i responsabili dei reati, ma quello di dare l’assalto al mondo della politica e della finanza? Un dubbio: è quello che il dottor Di Matteo ha tentato nel fallimentare e costoso processo “Trattativa”? Ma lasciamogli rispondere chi ne sa più di noi, il professor Sabino Cassese, intervistato dal Foglio. “In quella frase ci sono tre errori”, dice Cassese. “Quello di ritenere che una parte della società, la magistratura, possa portare a processo un’altra parte della società, la politica. Quello di pensare che un governo presieduto da Draghi, con Cartabia ministra della giustizia, possa esser animato da un desiderio di ‘vendetta’. Quello di ritenere che un magistrato possa esprimersi in tal modo sugli organi costituzionali della Repubblica”. Il punto è che non solo si permettono. Ma si consentono questo tono e questo linguaggio perché sono abituati a tenere il mondo istituzionale sotto il proprio giogo. Per dire No persino a una riforma piccola piccola che osa affacciarsi all’orizzonte, con una timida separazione delle funzioni (neppure totale), con un assaggio di valutazioni di qualità (e magari produttività) del lavoro di chi è chiamato a giudicare gli altri. Se si chiede di non fare di ogni processo qualcosa di simile a quello della “Trattativa”, è proprio per pensare a una giustizia che sia il contrario di quel che intendono i magistrati alla Di Matteo. Che cosa vuol dire infatti, quando afferma che con la riforma, allora il magistrato “si limiterà a esercitare l’azione penale nei casi di assoluta evidenza della prova”? Non dovrebbe essere sempre così? O facciamo a ripetizione il circo Barnum del processo “Trattativa”? Oggi è il 19 aprile, data simbolica per la giustizia. Santa Maria Capua Vetere. Torture in carcere, altri detenuti pronti a costituirsi contro gli agenti di Attilio Nettuno casertanews.it, 19 aprile 2022 Sale il numero delle parti civili nel processo a carico di 108 persone coinvolte nell’inchiesta sulla mattanza. Altri detenuti si costituiranno parte civile nel processo a 108 persone - tra agenti della polizia penitenziaria, funzionari del Dap e due medici - coinvolti nella maxi inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere sulla mattanza avvenuta il 6 aprile del 2020 all’interno della casa circondariale “Francesco Uccella”. L’annuncio è arrivato nel corso dell’ultima udienza, celebrata dinanzi al gup Pasquale D’Angelo all’aula bunker di Santa Maria Capua Vetere e rinviata per l’astensione degli avvocati riuniti in assemblea indetta dalla Camera Penale per la proroga delle restrizioni Covid in tribunale, in particolare di quelle che regolamentano l’accesso alle cancellerie. Le nuove costituzioni di parte civile verranno formalizzate nella prossima udienza, in programma dopo la Liberazione. Nella stessa seduta verranno sciolte le riserve sulle 32 proposte di patteggiamento avanzate dalla Procura - con pene tra i 2 anni e 1 anno e 6 mesi tutte sospese - nei confronti ai agenti che avrebbero avuto un ruolo minore. Inoltre, verrà formalizzata anche la doppia veste di Asl e Ministero della Giustizia quali responsabili civili. Nel processo complessivamente sono oltre 90 le parti civili ammesse tra detenuti, Ministero della Giustizia, Asl, i garanti nazionale e regionale per i diritti dei detenuti oltre ad alcune associazioni. Tra gli avvocati che difendono i detenuti vittime delle aggressioni ci sono: Carmine D’Onofrio (tra i primi a depositare una denuncia per uno dei detenuti facendo avviare l’indagine), Luca Viggiano, Goffredo Grasso, Fabio Della Corte, Giuseppe De Lucia, Gennaro Caracciolo, Ferdinando Letizia, Marco Argirò, Pasquale Delisati, Andrea Balletta e Giovanni Plomitallo. A rappresentare l’Asl di Caserta, invece, l’avvocato Marco Alois mentre l’avvocatura dello Stato si è costituita per il Ministero della Giustizia. Napoli. Il cappellano di Nisida: “Recuperiamo sin da piccoli i figli dei camorristi” di Anna Laura de Rosa La Repubblica, 19 aprile 2022 Don Gennaro Pagano: “Scuola e forze dell’ordine devono collaborare per avvicinare le famiglie criminali. Nel patto per Napoli bisognava coinvolgere anche l’arcivescovo Battaglia e il ministero dell’Istruzione”. “Negli ultimi mesi sono arrivati quattro ragazzi a Nisida per accoltellamenti. Nei minori che entrano in carcere vedo il disagio di giovani non intercettati dalla parte sana della comunità. Sono figli di famiglie che danno come unici esiti di vita il carcere o la morte. Il loro destino sembra segnato. Il patto per Napoli firmato dalla ministra Lamorgese è stato un appuntamento mancato: bisognava coinvolgere anche l’arcivescovo Battaglia e il ministero dell’istruzione”. Don Gennaro Pagano è il cappellano del carcere minorile di Nisida, dove è detenuto anche uno dei due ragazzi coinvolti nella lite scoppiata in un Luna Park a Torre del Greco e finita con la morte del 19enne Giovanni Guarino. Da sempre impegnato nel reinserimento sociale dei giovani a rischio, il sacerdote anima il progetto “Puteoli Sacra” che ha riaperto cattedrale, museo e ipogei nel Rione Terra di Pozzuoli impiegando ragazzi dell’area penale. Un’iniziativa inaugurata da Mattarella. Don Gennaro, aumenta la ferocia di giovanissimi che sempre più spesso estraggono un coltello anche per futili motivi... “Solo da una comunità attenta ai ragazzi fin da piccoli può arrivare una svolta. Anche i figli dei camorristi vanno seguiti e avvicinati per spezzare la catena di violenze. È questo quello che manca: una comunità capace di fare sistema e non solo rete”. Un sistema legale... “La camorra è un sistema di morte che produce disvalore e ingabbia. La società civile non è in grado di creare un sistema di vita. Finché non facciamo questo passaggio a tutti i livelli, non saremo in grado di intercettare i ragazzi”. Quali in particolare? “I figli di nessuno abbandonati a se stessi e i figli dei camorristi che apprendono la devianza fin da piccoli. Il 70 per cento dei minori arrestati nel Napoletano ha un parente in carcere”. Qual è la soluzione? “Fare in modo che nessun ragazzo venga abbandonato”. Come avvicinare i figli dei camorristi? “Il gap è nei due ministeri che non lavorano insieme: quello dell’interno che controlla il territorio e il mondo della scuola che deve fare prevenzione. Per arginare la deriva malavitosa devono collaborare. Una famiglia di camorra è nota anche alla gente comune: lì bisognerebbe intervenire con una forte rete di servizi sociali, scuola, parrocchia. E a mio avviso, quando non c’è altra possibilità, bisogna avere il coraggio di chiedere il ravvedimento delle famiglie o un percorso di tutoraggio. Non dico la sottrazione dei figli, ma i bambini abbiano almeno una figura di riferimento esterna che garantisca loro il diritto di scegliere. Questo può accadere solo se c’è forte interazione tra scuola e forze dell’ordine”. Chi può realizzare la sintesi? “L’arcivescovo Battaglia in questo momento è la figura più autorevole e immersa nella realtà cittadina, e il meno interessato a speculazioni. Ci si preoccupa solo di Pnrr, di “come” spendere i soldi ma mai “per chi”. L’appello per il patto educativo era rivolto anche al governo che ha risposto ma in maniera divisa: ogni ministero per conto suo”. A Puteoli Sacra sono stati assunti 6 ex ragazzi dell’istituto di Nisida... “Inseriti in contesti di bellezza rispondono, ed è assurdo non averli intercettati da piccoli, magari avrebbero evitato il carcere. Questi ragazzi hanno fatto un percorso di revisione critica e non vogliono più tornare nel contesto di origine”. Alessandria. Detenuto con la Sla, sui domiciliari deciderà la Corte d’Appello di Massimo Coppero La Stampa, 19 aprile 2022 Questa settimana il fascicolo di Maximiliano Cinieri, 45 anni, il detenuto affetto da Sla per il quale i magistrati hanno ripetutamente respinto le istanze di scarcerazione, sarà trasferito dal tribunale di Asti alla Corte d’Appello di Torino. Venerdì 8 aprile l’avvocato difensore Andrea Furlanetto aveva depositato l’appello contro la sentenza di condanna in primo grado a 8 anni per usura ed estorsione, pronunciata nel dicembre scorso dal giudice del rito abbreviato di Asti, Giorgio Morando. Non appena l’incartamento avrà raggiunto la Corte di secondo grado, l’avvocato Furlanetto presenterà una nuova richiesta di concessione di arresti domiciliari. A questo punto a decidere saranno i magistrati dell’Appello, e non avrà più poteri il giudice Morando che aveva ripetutamente detto “no” ad ogni beneficio per Cinieri, con l’avallo a fine marzo di un’ordinanza di conferma della misura cautelare in carcere da parte del tribunale del Riesame. L’ex calciatore astigiano ha trascorso Pasqua e Pasquetta in una cella del Don Soria di Alessandria, lontano dai familiari. “Mia madre ed io siamo andate a trovarlo pochi giorni fa - ha spiegato ieri la figlia Valeria - È arrivato al colloquio sulla sedia a rotelle. Ci ha raccontato che a causa dei dolori non riesce a dormire. Ora confidiamo nei giudici dell’Appello. Speriamo che almeno loro capiscano la situazione”. La petizione promossa dalla famiglia su facebook per chiedere la scarcerazione ha raggiunto le 200 firme: molti anche i commenti critici sulla magistratura postati dagli utenti dei social. Il mondo del carcere e i suoi fallimenti raccontato a chi non se ne è mai interessato di Francesco D’Errico* Il Dubbio, 19 aprile 2022 Il 27 ottobre del 1948 Piero Calamandrei, in un celebre intervento alla Camera, sottolineò che “in Italia il pubblico non sa abbastanza - e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di esperimentare la prigionia, non sanno - che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”. A distanza di più di settant’anni, queste parole sono ancora di grande attualità: nonostante gli istituti penitenziari rappresentino tutt’oggi “l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta” (Filippo Turati, cit.) i più, in osservanza a una concezione di giustizia fondata esclusivamente sul paradigma afflittivo, sono ancora convinti che la pena inframuraria sia dotata di proprietà palingenetiche. Anche per questo Alessandro Capriccioli, militante di Radicali Italiani e dal 2018 consigliere regionale del Lazio tra le fila di + Europa- Radicali, ha scritto “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere” (pubblicato di recente da People, con prefazione a firma di Luigi Manconi e Lucrezia Fortuna): per “raccontare il carcere a chi non se ne è mai interessato”, per parlarne alla comunità “dopo aver visto”, per affrontare il tema a partire dalla sua esperienza sul campo. Da quando è stato eletto, infatti, Capriccioli ha scelto di svolgere il maggior numero possibile di visite ispettive nei luoghi dove si trovano costretti coloro che sono privati della libertà personale (non solo nelle carceri ma anche nei Cpr e nelle Rems), dando corpo alla prerogativa di natura garantista concessa dall’art. 67 della legge sull’ordinamento penitenziario e riconosciuta, tra gli altri, ai consiglieri regionali, che permette di recarvisi, senza previa autorizzazione, col fine di verificare in prima persona le condizioni di detenzione. Capriccioli, dunque, insieme alle sue collaboratrici Federica Delogu e Federica Salvati, considerando i poteri ispettivi non solo un diritto ma una “precisa responsabilità” collegata al suo ruolo, dal 2018 al 2021 si è immerso tra i sommersi; tanto per “accertare eventuali opacità” e dare segnali forti all’amministrazione quando necessario, quanto per capire, con spirito collaborativo, se ci fossero “necessità, problemi, criticità sulle quali tentare di dare una mano”. Pur essendo geograficamente limitato, l’itinerario offerto dal radicale permette di visualizzare nitidamente l’universo carcerario (con una non scontata attenzione anche alle questioni minorili e alla detenzione femminile) e di cogliere plasticamente le ragioni del suo fallimento. Nel diario, grazie a una riuscita coesistenza di diversi elementi (impressioni personali, riflessioni politiche e considerazioni giuridiche), si susseguono le descrizioni dei molti istituti visitati, e con esse quelle delle varie figure che li abitano, da un anziano malato e non autosufficiente che cammina “con passo incerto”, alle donne recluse per reati di tipo associativo, con le quali “nonostante la distanza” tra i mondi di provenienza, tra le culture che hanno ispirato le loro vite e quelle del consigliere, alla fine, “ci vuole poco a trovare argomenti comuni di dialogo”. Secondo l’autore “sono le cose minute a dare la misura della concretezza dei grandi ideali”; si potrebbe dire, in effetti, che l’abissale distanza tra il principio costituzionale dell’umanità della pena e l’aspra vita reclusa dal carcere sia misurabile soprattutto attraverso elementi di carattere tragicamente quotidiano e tangibile. D’altronde, “a che serve discutere di rieducazione se il cesso di chi dovrebbe essere rieducato è a mezzo metro da dove si mangia? Che senso ha parlare di recupero quando manca l’acqua calda?”, o, ancora, “perché è così difficile parlare di diritto all’affettività delle persone detenute? Cosa c’entra l’astinenza sessuale con le pene previste dal codice penale?”. Leggendo, episodio dopo episodio, emergono molti dei mali che affliggono il sistema penitenziario: la collocazione nell’estrema periferia delle strutture, una sistemazione extra- territoriale cui corrisponde, di fatto, anche una collocazione extra- ordinamentale; il sovraffollamento, cui fa chiaro riferimento il titolo dell’opera, e che è causato, tra le altre cose, dalle politiche proibizioniste in materia di stupefacenti (come ricordato nel libro, un terzo dei detenuti è recluso per violazione del T. U. sulle droghe); le strutture fatiscenti, gli spazi claustrofobici e inadatti allo svolgimento di attività utili alla risocializzazione dei condannati; l’evidente carenza di organico e di risorse; il tragico fenomeno dei suicidi (oltre 1200 negli ultimi vent’anni, tanti da indurre l’autore a definire il carcere una “fabbrica dei suicidi”). Conoscere il carcere, sostiene poi Capriccioli, è utile anche a chi, per sua fortuna, si trova al di là delle mura: “visitare le carceri è una chiave di lettura della realtà, uno strumento imprescindibile” per capire il mondo di fuori. Comprendere per quali ragioni i penitenziari siano divenuti soprattutto un “deposito”, un “serbatoio di un “grumo di umanità dolente”, una “discarica di marginalità”, è un passaggio necessario per decifrare la nostra società, un’attività che consente di individuare ciò che essa allontana ed esclude, quello che preferisce rimuovere per non dover affrontare a viso aperto i propri fallimenti, scegliendo troppo spesso di rispondere col diritto penale a questioni di natura sociale. Capriccioli, così, si è convinto che sia necessario riflettere in termini di abolizione dell’opzione carceraria. Lo ripete più volte nel volume e lo sottolinea con forza nell’epilogo: il carcere è “uno strumento che ha come scopo quello di infliggere dolore, afflizione e sofferenza alle persone; “per ragioni incomprensibili”, continua, “pretendiamo che quel dolore, quell’afflizione e quella sofferenza consentano di rieducare”. E ancora: “ritengo qualsiasi punto di vista che non si ispiri, in prospettiva, alla sua abolizione un punto di vista del tutto irragionevole”. La conclusione cui perviene il politico romano, invero, è la medesima cui giunse Altiero Spinelli nel ‘ 49, quando sostenne che l’unica riforma carceraria da fare fosse l’abolizione del carcere (“non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”). Eppure è difficile, ad oggi, immaginare di poter fare a meno della carceralità come dispositivo (e d’altronde anche Capriccioli, pur da una posizione chiaramente abolizionista, parla di “prospettiva”), anche se è evidente che l’esperienza carceraria, nella maniera in cui è stata gestita finora, abbia prodotto più danni che benefici. Il punto di partenza, in tal senso, mentre si riflette sull’elaborazione di un modello diverso, consiste nell’abbandono dell’attuale paradigma carcerocentrico, con l’obiettivo di dare corpo a un’istituzione penitenziaria compatibile con la Costituzione. Il carcere dovrebbe diventare veramente l’extrema ratio; la privazione della libertà personale dovrebbe rappresentare l’unica reale limitazione imposta a chi è recluso, e non la prima di una serie infinita di altre ingiuste e inutili privazioni; le misure alternative dovrebbero cessare di essere un’opzione sostituiva della detenzione e divenire vere e proprie pene autonome, valorizzando al massimo la declinazione plurale dell’articolo 27 comma 2 della carta costituzionale (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”); si dovrebbe fare un utilizzo realmente residuale del diritto penale, per lasciarci alle spalle l’ossessione panpenalistica che ha caratterizzato, seppure con alcune differenze, gli esecutivi di ogni colore degli ultimi trent’anni. Nulla di tutto ciò sarà possibile se non muterà la percezione del Paese nei confronti del carcere. Proprio per questo, un libro come “Tre metri quadri” rappresenta, senza dubbio, un prezioso tassello e merita la massima diffusione. *Presidente Associazione Extrema Ratio Raccontare davvero il carcere, fin quasi a evocarne la verità più intima: l’odore di Luigi Manconi e Lucrezia Fortuna Il Dubbio, 19 aprile 2022 Riportiamo di seguito la prefazione, firmata da Luigi Manconi e Lucrezia Fortuna, al libro di Alessandro Capriccioli “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere”. Il volume (anno 2022, 176 pagine, 15 €) è pubblicato dall’editore People per la collana “Storie”. Nel libro, la prefazione è accompagnata dal titolo “L’odore della galera”. Del carcere, e della condizione di privazione della libertà, si è detto tutto o, comunque, molto, ma si è visto e sentito assai poco. Questo “Tre metri quadri. Quattro anni di vite in carcere” ci aiuta a guardarlo dall’interno, anche se non ne siamo prigionieri. Tuttavia, il prossimo libro che, ci auguriamo, Alessandro Capriccioli vorrà scrivere sul tema dovrà ovviare a un limite che noi prefatori irrispettosi immediatamente segnaliamo. Ovvero il fatto che in questa rappresentazione della galera così fisica e corporale, così anatomica e materiale, l’autore non racconta quale sia l’odore del carcere. Descrivere questo odore è impresa, anzitutto letteraria, assai ardua, ma possiamo dire che la tonalità olfattiva prevalente è definibile come acida. Comprensibilmente: perché è il risultato di tutta una varietà infinita di olezzi, puzze, tanfi, fetori, miasmi e persino profumi che, non trovando mai sufficiente circolazione, ventilazione, cambiamenti d’aria, si coagulano in un unico effluvio penetrante e, nel fondo, sottilmente rancido. Questo libro è fatto proprio così: si trovano dentro il corpo dei custoditi, il corpo dei custodi e il corpo dell’edificio che li custodisce entrambi. Ossia il carcere nella sua concretezza di costruzione destinata a contenere, trattenere e serrare. Alessandro Capriccioli attraversa questi spazi e incontra questa umanità, raccontandone innanzitutto la vita coatta; e, poi, ciò che le molte parole ascoltate esprimono, nel tentativo di comunicare all’esterno quanto, nonostante tutto, resista all’interno. L’interno è, diciamolo, uno spazio generalmente orribile, soprattutto se osservato nella realtà materiale dell’organizzazione delle celle. In una buona parte di esse è come se un architetto di interni, improvvisamente impazzito, avesse deciso di combinare insieme tutte le soluzioni di arredamento che le riviste patinate di settore illustrano e, così, in circa tre metri quadri si trovano, l’uno accanto all’altro, un tubo piantato nel muro da cui defluisce, a mo’ di doccia, un filo d’acqua e, immediatamente dopo, un muretto alto un metro e mezzo, al cui interno un water o un cesso alla turca assolvono ai bisogni fisiologici primari. Poi, un altro muretto, e, a seguire, un lavabo destinato a faccia, mani e denti, pulizia di stoviglie e pentole, e quant’altro richieda l’utilizzo dell’acqua. Ancora, un ripiano con sopra un fornelletto a gas, tipo camping e, all’altezza di due metri, un singolare accrocco di vetusto artigianato o di recente composizione realizzato con pezzi di risulta e molta fantasia dove si trovano piatti, barattoli del caffè e dello zucchero, detersivi e quant’altro. Questo spazio, così angusto, precario e disagevole, riassume appunto il living e i servizi, in una promiscuità obbligata, nella quale tutte le funzioni biologiche della persona si incrociano e si sovrappongono tra loro. Poi, certo, il carcere non è tutto così, eppure sono ancora migliaia le celle, all’interno del nostro sistema penitenziario, che presentano una simile conformazione. Nulla di più pertinente, di conseguenza, del ricorso al paradigma del bidet (l’intuizione è dell’avvocata Maria Brucale). Mettiamola così: come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia traccia di quell’indispensabile apparecchio igienico? Se volessimo immaginare, noi liberi, che cosa sia davvero la reclusione, per bruttura e ignominia, pensiamo a una intera vita “senza bidet”. E, come si è detto, per una parte delle celle, con cesso “alla turca”, in genere esposto alla vista. Ci si dirà, e ci è stato detto (dai più callidi globalisti da Touring Club tra i nostri critici): ma il bidet è una prerogativa quasi solo italiana e si può vivere benissimo senza. Abbiamo condotto una piccola indagine e abbiamo accertato che, in realtà, quell’apparecchio igienico è diffuso, per limitarci all’Europa, nei seguenti Paesi: Grecia, Albania, Spagna e Portogallo. Ma, soprattutto, abbiamo immaginato una vita “senza bidet” nella promiscuità parossisticamente antigienica dell’ambiente prima descritto. La totale assenza di bidet, specialmente nelle celle delle sezioni femminili, esprime un notevole disprezzo per la salute e la dignità delle persone recluse, oltre a misurare il degrado generalizzato del sistema penitenziario nazionale. Ma perché tanto scandalo? La rivendicazione di quell’apparecchio sembra richiamare, nei critici, un’immagine del carcere che costituisce una sorta di ossessione paranoide per le fantasie di vendetta che si scaricano su di esso. In altre parole, la richiesta del bidet sembra connotare quel presunto “hotel a 5 stelle” fornito di “televisione a colori” contro cui si indirizzano tutti i livori, i rancori e le pulsioni più torve del giustizialismo nazionale (a partire dalle parole del dimenticato ministro della Giustizia, tra il 2001 e il 2006, Roberto Castelli). Ecco un altro dettaglio interessante: se, invece che “a colori”, volessimo che in ogni cella vi fosse un più severo e afflittivo apparecchio in bianco e in nero (non più prodotto in alcun Paese al mondo), dovremmo aprire una nuova fabbrica di televisori destinati esclusivamente alla prigione. Ma torniamo al bidet. Sfugge agli ostili che un uomo - e tanto più una donna, per ragioni che forse è superfluo richiamare - può trovarsi a usare lo stesso rubinetto per bere, lavarsi viso, mani e ascelle, per il bucato, per riempire d’acqua una pentola e farla bollire e, infine, per pulirsi genitali e natiche. Se ne deduce che il “paradigma del bidet” è appropriato, eccome. In ogni caso, in questo testo, spazi e misure assumono, fin dal titolo, un intenso significato. Da una parte, perché danno plasticità e tangibilità a un mondo che rischia costantemente di perdere la sua sostanza, reale e umana, sia quando viene agitato come oggetto di propaganda politica in chiave reazionaria, sia quando se ne parla, in perfetta buona fede e con i migliori propositi, per reclamare attenzione e tutele. D’altra parte perché, nei loro, terribili, limiti strutturali, quegli spazi e quelle misure, o troppo angusti o troppo desolati - o entrambe le cose -, costituiscono la proiezione mutila e monca di bisogni schiacciati, compressi e repressi. Dalla precarietà del costruito e dal suo povero arredamento emerge, ancora più brutalmente, il contrasto con la sensazione di una insensata eternità che suggerisce sempre l’espiazione della pena. La provvisorietà delle condizioni di vita viene accentuata dall’interminabilità della reclusione - quand’anche fosse di appena pochi giorni - e proprio perché la dimensione detentiva sembra sempre oscillare tra stato di sospensione (il limbo come veniva disegnato dal catechismo della Chiesa cattolica) e stato di degrado: la “discarica sociale” evocata da Don Luigi Ciotti. In proposito, si può utilmente richiamare quello che, nel diritto civile, è il contratto di deposito. In virtù di esso, una parte riceve dall’altra una cosa, con l’obbligo di custodirla e restituirla. Chi la riceve non può servirsene, né disporne, la detiene nell’interesse del depositante: in questo caso la società tutta. Senza la dovuta diligenza e senza impegno attivo da parte del depositario (il carcere), quest’ultimo non potrà adempiere la propria obbligazione. Ebbene, è chiaro che il carcere risulta in genere inadempiente, fallendo due volte: la permanenza in quel deposito si rivela da un lato insensata, priva di efficacia educativa, morale e sociale, e dall’altro suscettibile di produrre gravissimi danni, talvolta irreversibili. L’attenzione per i danni, contenuta in questo libro, ci aiuta a comprendere la centralità e la crucialità di alcune “cose” qui trattate con tanta precisione e tanta ampiezza: sesso, amore, salute mentale, integrità fisica ma anche cibo, acqua calda e servizi igienici. Nozioni elementari e familiari. Eppure così trascurate - fin quasi alla impronunciabilità -, quando riferite alla realtà carceraria. Di tale, insopportabile, realtà, come si è detto, in questo libro manca solo l’odore. Proviamo a immaginarlo e questo, forse, ci aiuterà a pensare. Diritti civili, riparte in Parlamento la battaglia su ius scholae e suicidio assistito di Giovanna Casadio La Repubblica, 19 aprile 2022 Forza Italia favorevole alla cittadinanza. Alla Camera in commissione si votano gli emendamenti per dare la cittadinanza italiana ai ragazzi figli di stranieri che abbiano completato un ciclo di 5 anni di scuola. In Senato riunione di maggioranza sul fine vita. In commissione Affari costituzionali di Montecitorio si votano gli emendamenti al testo per dare la cittadinanza italiana ai ragazzi figli di stranieri che abbiano completato un ciclo di 5 anni di scuola. Una legge attesa da decenni, che nella passata legislatura è arrivata a un passo dall’approvazione, per poi inabissarsi nel porto delle nebbie del Senato. Riguarda circa 800 mila giovanissimi italiani di fatto, ma non di diritto. Sono oltre 600 le modifiche presentate dai leghisti e da Fratelli d’Italia, le più strambe, come sostenere esami d’italiano sulle sagre regione per regione o avere il massimo dei voti scolastici per presentare la richiesta di cittadinanza. La destra non entra neppure nel merito di quello che definisce “ius soli” camuffato. La proposta, scritta dal grillino Giuseppe Brescia, presidente della commissione, prevede due soli articoli. Tuttavia l’intenzione della Lega è di fare ostruzionismo, picconando la legge e sostenendo che la cittadinanza ai figli comporti di conseguenza la cittadinanza anche per i genitori stranieri. Ma a sorpresa si è verificata una novità politica: Forza Italia si è dissociata da Salvini e Meloni e voterà a favore dello ius scholae. Renata Polverini, che aveva presentato una legge simile, ha convinto il partito. Per il Pd è la battaglia di sempre. Afferma Matteo Mauri, a cui il segretario Enrico Letta ha affidato il dossier cittadinanza: “Noi Dem andremo avanti, nonostante le difficoltà, per portare a casa il risultato entro la fine della legislatura, perché i diritti sono una priorità”. La strada è in salita. Se le destre continueranno a fare ostruzionismo, il centrosinistra, insieme con i forzisti, potrebbero tentare di portare la legge direttamente in aula. Diversamente non basterebbero gli undici mesi che restano a questa legislatura, per completare l’esame. Suicidio assistito - E a Palazzo Madama oggi, o domani al più tardi, è prevista una riunione di maggioranza sul suicidio assistito. Qui gli ostacoli sono già al primo varco: lo scontro infatti è sul relatore. Salvini e il capogruppo leghista Massimiliano Romeo puntano su Simone Pillon. Pillon, ultra cattolico, promotore della battaglia contro il ddl Zan sull’omofobia e della campagna contro l’utero in affitto per punire le coppie che vi fanno ricorso all’estero, dal momento che in Italia è una pratica vietata, ha detto: “Sono pronto”. Formalmente spetta al presidente della commissione Giustizia, il leghista Andrea Ostellari decidere. Mentre Annamaria Parente, la presidente dell’altra commissione competente, la Salute, potrebbe affidare il ruolo di relatori alla dem Caterina Biti e al grillino Giuseppe Pisani. Pillon aveva già dichiarato che la legge sul fine vita è da modificare per evitare pratiche eutanasiche, e che il testo approvato alla Camera il 10 marzo scorso, non va bene. I numeri dei giallo-rossi al Senato sono più risicati che a Montecitorio. Inoltre Forza Italia è contraria, sia pure tra molti mal di pancia. In otto articoli, la legge sul suicidio assistito riprende le indicazioni della Consulta dopo la sentenza del 2019 sul caso Cappato, processato e poi assolto per avere aiutato nel suicidio medicalmente assistito Dj Fabo. Sono stati previsti molti paletti, tra cui il passaggio attraverso le cure palliative e il requisito di potere accedere al suicidio assistito solo se attaccati a macchine di sostegno vitale. Per i radicali e l’associazione Coscioni il rischio è che la legge provochi discriminazioni tra malati terminali e chiedono di allargarne le maglie. Ma per i centristi come Paola Binetti, medico, cattolica, “è una pratica eutanasica”. Franco Mirabelli, vice capogruppo dem, è tuttavia convinto che la legge arriverà all’approdo. Se il pacifismo è il partito della resa altrui di Giancristiano Desiderio Corriere della Sera, 19 aprile 2022 Al tempo della guerra in Vietnam, i pacifisti chiedevano agli americani di andarsene non certo ai vietnamiti di arrendersi. Quando si discute di pace e di pacifismo non bisognerebbe mai dimenticare che gli stessi pacifisti, vuoi ingenuamente vuoi consapevolmente, sono stati usati nella storia del Novecento come delle armi per delegittimare il nemico. Non è un mistero per nessuno - o almeno non dovrebbe esserlo - che il movimento pacifista fu strumentalizzato dal Pci che era attentissimo nel mostrare le guerre in atto e in potenza degli Stati Uniti ma era distratto sulle azioni e intenzioni belliche dell’Unione Sovietica. Vi è nel pacifismo un’ambiguità di fondo, colta molto bene anni fa da Gabriella Mecucci nel libro Le ambiguità del pacifismo, che andrebbe sempre dissolta per evitare che il giusto sentimento di pace degli uomini pacifici e di buona volontà sia trasformato in un’arma di propaganda dal pacifismo ideologico. Purtroppo, dimenticando o ignorando la tragica storia totalitaria del Novecento, il pacifismo dei nostri giorni è riuscito persino a passare dalla propaganda alla caricatura. Infatti, chiedere agli ucraini di arrendersi per avere la pace, che sarebbe una sottomissione, è ridicolo e immorale ossia grottesco. Al tempo della guerra in Vietnam, i pacifisti non chiedevano ai vietnamiti di arrendersi ma agli americani di andarsene. Oggi perché non si chiede alla Russia di Putin di abbandonare l’Ucraina? Perché si incontrano due tabù: da una parte gli Usa e dall’altro la Russia che per molti pacifisti italiani, tanto di sinistra quanto di destra, sono nient’altro che i loro fantasmi mentali che non hanno superato. Purtroppo, non è solo un problema privato. È anche una grande questione pubblica: è la fragilità della nostra democrazia vista dal lato della politica estera. Quella più importante. Il pacifismo italiano è, allora, una sorta di partito della resa altrui che vive con risentimento ancora nella politica dei due blocchi e desidera la pace come sconfitta del mondo che ha vinto la “guerra fredda”: le democrazie occidentali, noi stessi. Quella politica che nega il dolore di Eugenia Tognotti La Stampa, 19 aprile 2022 Un dolore prolungato, nascosto e persino negato dalla politica della pandemia. L’unico risvolto sottaciuto. Di cui non si parla nell’incessante e ininterrotto fluire dei discorsi pubblici su virus, varianti, vaccini, crisi sanitaria. Sarà la scomparsa del dolore “l’ultimo tradimento pandemico”, sostiene il giornalista scientifico e premio Pulitzer, Ed Yong. Che su The Atlantic ha scritto - con brevi cenni biografici di persone qualunque uccise dal Covid - della gigantesca operazione di rimozione del dolore negli Stati Uniti, dove l’infezione, la terza causa di morte - e quindi di sofferenza - ha fatto registrare 844 mila decessi, un totale ampiamente sottostimato, stando alle stime del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) e ad altre fonti ufficiali. Ogni morto di Covid - inaspettatamente e, spesso prematuramente - ha lasciato dietro di sé un mondo. Milioni di persone in lutto hanno visto le vite perdute dei loro cari dissolversi nei tassi di mortalità, scomparire dietro le statistiche, confluire nel gigantesco bilancio della tragedia collettiva. Ora, gli Stati Uniti “sembrano intenzionati a cancellare le proprie perdite nel desiderio di superare la crisi - osserva Yang - ma il dolore di milioni di persone non sta scomparendo”. A raccogliere materiali, in ogni Stato, stanno pensando attivisti, organizzazioni no-profit e antropologi sociali. Come la professoressa Sarah Wagner, della George Washington University, che ha individuato somiglianze tra le esperienze delle persone che hanno perso persone care per il Covid-19 e quelle colpite da lutti durante le guerre. Concentrata, dal 2020 sulla morte e sul ricordo di Covid 19, sta lavorando, con un team di docenti e studenti, su un grande progetto finanziato dalla National Science Foundation. Il dolore non scompare. E non solo negli Stati Uniti. Il fatto è che questa pandemia del XXII secolo - così diversa, e per tanti aspetti, da quelle del passato - a cominciare dall’isolamento di massa della fase più drammatica - ha lasciato dietro di se troppe ferite che renderanno difficile, per tanti, tornare alla normalità. È difficile da sopportare il non aver potuto dire addio - se non con FaceTime, un ben povero surrogato di voce e presenza - a persone care, ricoverate in ospedali blindati, intubate e circondate da fantasmi in tuta e mascherina. Ed è stato impossibile elaborare il dolore senza la routine e il sostegno collettivo, assicurato in passato dalla rete di amici o familiari, sfilacciata dalle circostanze e dalle divisioni provocate dalla politicizzazione sulla pandemia, dalla disinformazione, dalla stanchezza. Lo sconforto per non aver potuto piangere e celebrare i propri morti, col venir meno dei rituali sociali - veglie, funerali, cerimonie degli addii - è invece simile, se si fa eccezione per l’isolamento di massa, a quello che si ritrova nella pandemia di Spagnola nel 1918. In Italia, il divieto di celebrare funerali nelle chiese e l’obbligo dei funerali collettivi, con le salme portate al cimitero sui camion, “senza preti, né croci, né campane”, provocò un orrore che nel paese in guerra e ingessato dalla censura, trovava parole solo nelle lettere private di congiunti di emigrati all’estero che vivevano in Italia. Niente appariva più spaventoso del venir meno dell’individualità della morte e dell’attenzione rituale che universalmente e da sempre circondava i defunti. Difficile pensare che Covid-19 sarà ricordata in futuro come una “pandemia dimenticata” come la Spagnola. In Italia - guerra, pandemia d’influenza e altre malattie, vecchie e nuove - provocarono insieme, nel quadriennio 1915-18, uno spaventoso eccesso di morti rispetto ai tempi normali stimato intorno a 1.140.000 secondo le stime dei demografi. Ma nel 1920 nessuno ne parlava e ne scriveva più. Tanto che alcuni storici affermano che la grande lezione che possiamo imparare dalla pandemia del 1918 è la rapidità con cui i sopravvissuti s’ingegnarono a dimenticarla. Forse stiamo già ripetendo l’errore e c’è di che preoccuparsi dei pericoli individuali e collettivi che questa amnesia annuncia. Fa male alla nostra salute mentale e accresce la nostra vulnerabilità a future pandemie che vediamo profilarsi all’orizzonte. Ucraina. Autopsie, foto, perizie. La Cpi immersa nei massacri di civili a Bucha di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 19 aprile 2022 Karim Khan in missione in Ucraina: mai prima d’ora il procuratore della Corte penale internazionale era andato sulla scena del crimine con una guerra ancora in corso. “A Bucha, durante l’occupazione dell’esercito russo è stato ucciso un abitante su cinque”, tuona Anatoliy Fedoruk sindaco della città ucraina diventata il simbolo degli orrori di guerra. Sull’onda dell’emozione in molti hanno parlato di “genocidio”, di stragi pianificate, di pulizia etnica. Altri si sino limitati a evocare “semplici” crimini di guerra, altri ancora di crimini contro l’umanità. Di sicuro a Bucha è accaduto l’inferno; le immagini di civili giustiziati con un colpo alla tempia, le fosse comuni e le stanze delle torture hanno scosso il mondo. Ma anche messo in moto la macchina della giustizia, di solito lentissima e pachidermica nelle sue istruttorie sui crimini di guerra. Stavolta la Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) si è mossa con grande solerzia, un po’ per la rapidità con cui le testimonianze dei massacri sono venute a galla, dai video alle interviste dei superstiti, un po’ per lo stile risoluto del suo nuovo procuratore capo, l’avvocato britannico Karim Khan che lo scorso 13 aprile è volato personalmente a Bucha: è la prima volta che il capo della Cpi visita una scena del crimine a conflitto ancora in corso. Il viaggio di Khan non è stata infatti una parata per i fotografi o un gesto di solidarietà umana nei confronti del governo di Kiev da quasi due mesi sotto invasione militare: “Siamo qui perché abbiamo motivi ragionevoli per credere che vengano commessi crimini all’interno della giurisdizione del tribunale. Dobbiamo dissolvere la nebbia della guerra per arrivare alla verità”. Assieme a Khan, a Bucha era presente una folta squadra di investigatori che sono all’opera da diversi giorni; periti balistici, medici legali, specialisti della polizia scientifica e persino ufficiali della gendarmeria francese che collaborano con le procure ucraine. Verranno effettuate centinaia di autopsie per capire le cause dei decessi, per controllare se i proiettili conficcati nei cadaveri appartengano effettivamente alle forze armate russe o delle loro milizie locali. E naturalmente saranno raccolte migliaia di testimonianze dirette tra la popolazione ucraina che ha assistito ai massacri. Alla fine delle indagini verrà anche disegnata una mappa delle esazioni, villaggio per villaggio, allo scopo di verificarne l’ampiezza e la sistematicità. Questo è un elemento centrale per stabilire se c’è stata una pianificazione dei massacri e una specifica volontà da parte delle autorità russe di “de-ucranizzare” il territorio. È un lavoro importantissimo anche perché la propaganda del Cremlino ha inizialmente negato gli eccidi, parlando di “messa in scena ucraina”, definendo “figuranti” i corpi riversi sul ciglio delle strade e inondando il web con queste fake news. Poi, di fronte all’evidenza delle prove ha cambiato versione, accusando i militari ucraini di aver assassinato i loro stessi compatrioti per poi poter dare la colpa a Mosca. Insomma, un grande classico. Per la prima volta dunque ci sarà la possibilità di mettere a fuoco delle responsabilità di crimini di guerra con una relativa rapidità come suggeriscono i passaggi già compiuti della Corte penale dell’Aja e dal suo volitivo procuratore capo. “Scommetto che in questo caso le indagini penali e l’individuazione dei fatti saranno molto più veloci rispetto a quanto accaduto in altri teatri di guerra e di crimini contro l’umanità come nell’ex Jugoslavia oppure in Sudan”, spiega l’avvocato Emmanuel Daoud, specialista di diritto penale internazionale intervistato da France info che fu parte civile nel processo contro la banca francese Parisbas poi condannata per complicità nei crimini commessi in Sudan dal regime Omar el-Bashir. Temelkuran: “Gli europei ignorano come funzionano i regimi autoritari” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 aprile 2022 Intervista alla scrittrice e attivista turca emigrata in Germania: “Ci sono stati molti russi che hanno dimostrato di non volere il conflitto e noi li abbiamo lasciati soli. “Ci sono stati molti russi che hanno dimostrato di non volere la guerra e noi li abbiamo lasciati soli”. Non è tenera con l’Occidente Ece Temelkuran, giornalista e scrittrice turca emigrata in Germania nel 2016 dopo essere stata licenziata dal quotidiano Habertürk per i suoi articoli troppo critici verso il governo. “L’Europa e gli Stati Uniti stanno usando questa crisi per vendicarsi di Putin e creare un sentimento anti-russo”, sostiene. Ma quello che rincuora l’attivista è la reazione al conflitto che si è vista in Europa: “Siamo stati in grado di accettare la paura facendola diventare parte della nostra vita. Invece di chiuderci in noi stessi abbiamo accolto i profughi. Questo dimostra che l’umanità non è egoista come ci vogliono far credere”. La guerra in Ucraina peggiora di giorno in giorno, le immagini dei massacri di Bucha sono davanti ai nostri occhi. Lei cosa ne pensa? “Sono ad Amburgo, tutta la città è dipinta di giallo e blu, penso che succede anche da voi, tutti vogliono dire che stanno dalla parte dell’Ucraina ma poi mi sembra una cosa vuota solo simbolica, i poteri occidentali, specialmente gli Stati Uniti, hanno infiammato l’Ucraina ma ora la lasciano sola ad affrontare Putin. Questa è la cosa che più mi dà fastidio se le intenzioni di Europa e Usa fossero state sincere oggi farebbero dei gesti concreti come cancellare il debito ucraino invece usano questa crisi per vendicarsi di Putin, confiscano i beni agli oligarchi e, ancora più importante da mio punto di vista, è che stanno creando un sentimento antirusso. Oggi ho sentito di una università tedesca ha deciso di buttare fuori sia i ricercatori che gli studenti. Tutto ciò si associa a tutte le altre cose che abbiamo letto come mettere fine al corso su Ciajkovskij o l’orchestra di Vienna che ha chiuso il contratto con il direttore russo”. Addirittura lo stanno creando? “Sì il tentativo è di creare il vuoto attorno a Putin, di lasciarlo in solitudine ma non funziona così. Penso che gli europei non capiscano come funzionano i regimi autoritari. Pensano che i russi possano cambiare il corso della storia ma non vogliano farlo. Non funziona così, c’è una pressione estrema sui russi e molti di loro hanno dimostrato che non vogliono la guerra. Sono stati molto coraggiosi, hanno rischiato e sono finiti in prigione. Io non capisco perché l’Europa stia compromettendo quei russi. Non è giusto. L’Europa lascia soli gli ucraini ma anche i russi. E non sono solo gli Stati ma anche le persone. La gente pensa che si deve distanziare dai russi. Ma non possiamo dire che la Russia e il suo dittatore siano la stessa cosa. Io ho lo stesso problema in Turchia. La politica di Erdogan è così disfunzionale che non possiamo nemmeno parlare perché scatta la repressione. È una cosa pericolosa questa discriminazione contro i russi, anche nelle università, potremo arrivare a non controllarlo”. Lei è una giornalista e questa è anche una guerra sull’informazione. I russi stanno cercando di costruire una narrativa diversa sul conflitto e alcune persone ci credono. Cosa possiamo fare? “Questa è una domanda da un milione di dollari, prima di tutto penso che la democratizzazione dell’informazione, come l’hanno chiamata, sia diventata un’altra cosa. Qui ognuno prende e scrive quello che pensa sui social media. Non c’è un regolamento da rispettare. In questo modo è impossibile combattere le fake news. Si pensa che questo fenomeno possa essere combattuto con il fact checking ma non è così: questo è un problema politico e morale. Tra l’altro i giornalisti sono sottopagati e sempre nel mirino. Siamo una specie in pericolo, a rischio d’estinzione. Questo è un buon momento per parare di un regolamento editoriale. Non parlo di evitare i contenuti violenti o di mettere un filtro ma di un vero controllo editoriale. Nel ventesimo secolo c’era per una ragione. La verità è la verità, i fatti sono fatti. Penso che i soldi che guadagnano Facebook, Twitter e gli altri social network debbano essere investiti assumendo redattori che sappiano distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo. Altrimenti tutto diventa materia di dibattito: se il mondo è tondo o piatto. Oggi se hai soldi per mettere su una troll factory puoi diffondere la tua falsa verità. E c’è pure chi ti crederà”. C’è stata molta discussione sull’invio di armi all’Ucraina da parte di Europa e Stati Uniti, lei cosa ne pensa? “La Nato e Putin dovrebbero sedersi intorno a un tavolo e parlare. Zelensky ha già detto che l’Ucraina può essere neutrale. Mandare armi? Trovo difficile sia da un punto morale che politico parlare di questo.Vorrei pensare a come possiamo fermare la guerra che a come possiamo continuarla. Questo è il momento giusto per parlare. Ma la Nato deve essere al tavolo perché è uno scontro tra due poli, infatti non a caso si parla di terza querra mondiale. Lo scontro non è solo sull’Ucraina, è su altro”. Nel suo libro “La fiducia e la dignità. Dieci scelte urgenti per un presente migliore” lei dice che non bisogna aver paura di avere paura. Sicuramente mai come in questo momento abbiamo avuto paura. Prima della pandemia, ora della terza guerra mondiale. Come dovremmo reagire? “Il sottotitolo del libro è diventare amici della paura. Il che significa che la paura non si deve cancellare. I momenti in cui abbiamo paura sono dei momenti preziosi perché è allora che diventiamo solidali con gli altri. Infatti è quello che sta accadendo oggi con l’invasione dell’Ucraina. Avrei voluto che avessimo fatto lo stesso per la Siria ma questo è un altro discorso. Non abbiamo avuto paura, al contrario abbiamo aperto le porte e accolto i profughi. Tanta gente in Germania ospita gli ucraini, penso che accada anche da voi. Questo è l’unico modo di fare amicizia con la paura. Farla diventare parte della nostra vita. È stato bello vedere questa risposta. Non è vero che l’umanità è egoista, competitiva, avida, come ci vogliono far credere. Penso che vedere questa realtà possa creare fiducia. L’essere umano è cattivo? Direi di no e questo potrebbe riflettersi anche nella politica”. Gli ucraini stanno combattendo con tutte le loro forze per il proprio Paese. Come giudica questa reazione? “Stanno reagendo alla situazione insieme in modo da combattere la paura”. Erdogan si sta mettendo al centro dei negoziati e sembra convinto di riuscire a realizzare un incontro tra Putin e Zelensky. La Turchia potrebbe essere la carta vincente per la risoluzione del conflitto? “Erdogan mi sembra che abbia il complesso di Tito che riusciva a rimanere in equilibrio tra est e ovest grazie al suo carisma. Ma chiaramente è impossibile. Sfortunatamente, al momento, non c’è una crisi internazionale in cui la Turchia non sia coinvolta e questo è esasperante per la popolazione che lotta contro la crisi economica. Da noi la gente è stremata, anche la medio borghesia, c’è chi è alla fame. Erdogan quindi non può giocare a fare il leader del mondo quando non riesce nemmeno a controllare i prezzi del cibo nel suo Paese. Comunque quando si parla di Erdogan, Putin e leader simili non si sa mai bene dove possano andare a parare. Il giornalismo non funziona in questi casi. Sono imprevedibili. Non danno informazioni”. Lei ha lasciato la Turchia nel 2016 e ha scritto un libro dal titolo “Come sfasciare un Paese in sette mosse. La via che porta dal populismo alla dittatura”. Pensa che questa sia una guerra tra due mondi? Da una parte chi crede nella democrazia e nel libero pensiero, dall’altra le dittature? “Penso che le vostre democrazie non siano in un buono stato. Da voi sta succedendo quello che è successo in Turchia dieci anni fa. Nel 2016 ero a Londra e a una conferenza dissi che Boris Johnson sarebbe diventato il primo ministro britannico e che avrebbero vissuto un periodo buio, al tempo loro risero ma invece poi si è verificato. Voi occidentali pensate che non possa succedere da voi, di avere una sorta di eccezionalità. Lo vedo in Germania, negli Stati Uniti questo sentimento che la democrazia sia intoccabile. Invece le istituzioni democratiche stanno collassando, il capitalismo sta collassando, la verità è che dove non c’è giustizia sociale non c’è democrazia. Dagli anni ‘60 la giustizia sociale è stata incrinata quindi se non puoi ripristinare la giustizia sociale non c’è speranza per la democrazia e non è importante quanto il tuo parlamento sia antico come in Gran Bretagna o quanto sia forte la tua economia come negli Stati Uniti. È così che è cominciato tutto in Turchia. La destra e i leader autoritari hanno fatto leva proprio sulla mancanza di giustizia sociale. È questo l’anello debole della democrazia. È un peccato che l’eccezionalità dell’Occidente impedisca alla sua popolazione di vedere questi fatti. Questo è successo in Turchia, in Pakistan, in India perché le istituzioni democratiche non erano così potenti da resistere al populismo. Ma non crediate che non abbiamo tentato di farlo”. Spagna. Politici e giornalisti catalani spiati dal software Pegasus di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 aprile 2022 Una nuova ricerca di Citizen Lab ha rivelato che tra il 2015 e il 2020 decine di politici e giornalisti della Catalogna, insieme ai loro familiari, sono stati spiati dal software Pegasus, prodotto dall’azienda israeliana NSO Group. Tra le persone spiate figurano Elisenza Paluzie e Sónia Urpí García, dell’Assemblea nazionale catalana, un’organizzazione indipendentista. Paluzie è l’attuale presidente del gruppo. È stata spiata anche la giornalista Meritxell Bonet, proprio nei giorni del 2019 in cui la Corte suprema stava esaminando il caso di suo marito, Jordi Cuixart, attivista ed ex presidente dell’associazione Omnium Cultural, poi condannato per “sedizione”. Per quasi cinque anni, dal settembre 2015 al luglio 2020, è stato spiato Jordi Sánchez, docente universitario e attivista, presidente dal 2015 al 2017 dell’Assemblea nazionale catalana, arrestato nell’ottobre 2017 per “sedizione”. Nell’ottobre 2020 Amnesty International aveva chiesto al governo spagnolo di rendere pubbliche le informazioni su tutti i contratti sottoscritti con agenzie private di sorveglianza digitale. Rispondendo a una successiva richiesta dell’organizzazione per i diritti umani circa l’uso di Pegasus da parte dell’intelligence spagnola, il ministero della Difesa aveva replicato che si trattava di informazioni riservate. La NSO Group continua a sostenere che il suo prodotto è venduto ai governi allo scopo di combattere la criminalità organizzata e il terrorismo. Ma da quasi un anno il Pegasus Project dice che le cose stanno diversamente. Domani la Commissione d’inchiesta del Parlamento europeo terrà la sua prima riunione. Il suo scopo è verificare se vi siano state violazioni delle norme dell’Unione europea legate all’uso di Pegasus e di spyware simili. La settimana scorsa l’agenzia Reuters ha rivelato che alti rappresentanti dell’Unione europea erano stati spiati da Pegasus. Iran. Lasciati morire nelle carceri senza cure mediche. Ma per le autorità sono “esemplari” di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2022 Secondo le autorità dell’Iran, la qualità delle prestazioni sanitarie offerte ai prigionieri è “esemplare” e “senza precedenti” nel mondo. Peccato che nelle carceri di quel paese i detenuti muoiano a causa del rifiuto intenzionale di somministrare cure mediche vitali o per la mancata o ritardata autorizzazione dei ricoveri ospedalieri urgenti. Martedì scorso Amnesty International ha pubblicato un rapporto che esamina i decessi in carcere di 92 uomini e quattro donne, avvenuti dal gennaio 2010 in 30 prigioni di 18 province iraniane. Questi casi, precisa l’organizzazione per i diritti umani, sono illustrativi e non esaustivi: il totale potrebbe essere assai più alto poiché tanti altri casi non vengono denunciati per il ben fondato timore di rappresaglie. I 96 casi non comprendono le morti in carcere dovute alla tortura, su cui Amnesty International aveva già pubblicato un rapporto nel settembre 2021. Almeno 11 prigionieri sono morti dopo che erano state loro negate cure mediche adeguate per traumi provocati al momento dell’arresto o del trasferimento in carcere. Gli altri 85 sono morti a seguito del diniego di cure mediche per gravi problemi di salute - infarti, complicazioni gastro-intestinali o polmonari, insufficienze renali, Covid-19 o altre infezioni - emersi improvvisamente in carcere o relativi a preesistenti patologie non curate durante la detenzione. Il rapporto denuncia la prassi comune di non autorizzare o ritardare ricoveri ospedalieri di prigionieri in condizioni critiche di salute e quella, altrettanto comune, di negare cure mediche adeguate, test diagnostici, controlli periodici e terapie post-operatorie: situazioni che aggravano i problemi di salute, procurano dolori aggiuntivi e causano o contribuiscono a causare morti precoci. I reparti clinici delle prigioni iraniane non hanno a disposizione attrezzature per gestire situazioni sanitarie gravi né sufficiente personale di medicina generale, per non parlare di quello specialistico, che è autorizzato a fare visite per una o più ore nel corso della settimana “se necessario”. Di conseguenza, i detenuti che hanno bisogno di cure urgenti o specialistiche dovrebbero essere immediatamente trasferiti fuori dal carcere, cosa che invece solitamente non accade. Sessantaquattro del 96 prigionieri di cui si occupa il rapporto di Amnesty International sono morti in carcere. Almeno 26 prigionieri sono morti durante il trasferimento in ospedale o poco dopo il ricovero, ritardati intenzionalmente per giorni dalla direzione delle carceri o dal personale medico. Infine, in almeno sei casi, prigionieri in gravi condizioni di salute erano stati trasferiti in isolamento, in celle di punizione o in quarantena. Quattro di loro sono morti mentre erano soli in cella, due sono stati autorizzati al ricovero ospedaliero quando era troppo tardi. Nella maggior parte dei casi, i prigionieri deceduti erano in età giovanile o media: 23 avevano tra 19 e 39 anni, 26 tra 40 e 59 anni. Le prigioni con un’ampia popolazione carceraria appartenente alle minoranze oppresse sono citate spesso nel rapporto di Amnesty International: 22 delle 96 morti sono avvenute nella prigione di Urmia, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, in cui la maggior parte dei detenuti è di origine curda e azera. Tredici morti si sono verificate nella prigione di Zahedan, nella provincia del Sistan e Belucistan, dove si trovano in gran parte prigionieri beluci. Dei 96 detenuti, 20 erano in carcere per reati di natura politica. *Portavoce di Amnesty International Italia