Il cibo in carcere è un affare. Vince l’appalto sempre la stessa azienda, a cifre stracciate di Nello Trocchia Il Domani, 18 aprile 2022 Nonostante le promesse di cambiamento, gli interventi della magistratura, la presa di posizione della ministra della Giustizia Marta Cartabia, il cibo distribuito nelle carceri di tutta Italia continua a essere un affare per pochi, l’ultimo caso riguarda gli istituti di pena della regione Campania: costi bassi e stessa azienda fornitrice. Nel caso specifico, l’appalto per il vitto e il sopravvitto è stato assegnato alla ditta Domenico Ventura srl. Più in generale, il meccanismo di aggiudicazione degli appalti presenta diverse criticità, messe in evidenza negli anni anche dalla magistratura. Il vitto d’oro - Il vitto è il pasto che viene distribuito ai detenuti dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap): colazione, pranzo e cena. Il sopravvitto sono i prodotti che i detenuti possono comprare dallo spaccio del carcere. Le aziende che vogliono candidarsi alla distribuzione giornaliera partecipano ai bandi di appalto presentando le relative offerte. I problemi che si sono registrati negli anni sono tre. Il primo è relativo allo svolgimento delle gare, per decenni sono state segretate. Il Dap, nel 2017, dopo diverse proteste e denunce da parte dei garanti regionali dei detenuti e delle associazioni, ha eliminato il sistema della segretazione annunciando un corso nuovo. Eppure, se un problema è stato risolto, il nuovo iter ha mantenuto inalterati altri due problemi. Innanzitutto, la partenza della base d’asta per il vitto a soli 3,19 euro. Una cifra insufficiente a garantire una qualità minima dei pasti, su cui è intervenuto anche il Consiglio di stato nel 2019. È stato messo in discussione, questo il terzo problema, anche l’automatismo che concedeva la gestione del sopravvitto alle stesse imprese che si aggiudicavano la gara per i pasti giornalieri. Per risolvere i due problemi appena menzionati, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato un disciplinare con cui ha aumentato la base d’asta a 5,70 euro e ha lasciato ai provveditorati la possibilità di scorporare i bandi per fornire vitto e sopravvitto. Il caso del Lazio - Nonostante le indicazioni del Dap, molti bandi non hanno recepito le indicazioni. La Corte dei conti è intervenuta nel Lazio annullando una gara e, di fatto, terremotando le gare in tutta Italia. A giugno 2021, Carmelo Cantone, provveditore regionale del Lazio, Molise e Abruzzo, ha firmato i decreti con cui venivano confermati gli affidamenti per l’approvvigionamento e la consegna delle derrate alimentari in carcere. A inizio settembre la sezione regionale del Lazio della Corte dei conti ha deciso di non registrare i decreti di approvazione dei contratti affidati alla ditta Domenico Ventura srl. I magistrati contabili hanno sollevato perplessità “sulla legittimità a monte delle modalità di determinazione dell’oggetto del servizio”. Il rilievo ha riguardato in particolare la decisione di assegnare alla stessa azienda sia il vitto sia il sopravvitto. Pratica che avrebbe potuto produrre, per come concepita dal bando di gara, “un potenziale conflitto di interesse a discapito della qualità dei servizi alimentari primari offerti ai detenuti”. I giudici contabili hanno evidenziato che se il vitto ha una base d’asta di 5,70 euro, e le aziende propongono cifre al ribasso, si genera il seguente effetto: per compensare il basso guadagno si produce un aumento del costo del sopravvitto. Nel caso in esame l’azienda ha offerto un ribasso del 58 per cento, impegnandosi a consegnare una colazione, un pranzo e una cena a 2,39 euro per ogni detenuto. “I disciplinari non li crea il provveditore, ma il Dap che, fino a quando non si è materializzata questa bocciatura, non è mai stato soccombente”, ha detto il provveditore Carmelo Cantone. Nulla è cambiato - Il caso è arrivato addirittura in parlamento dopo la presentazione di un esposto alla procura e alla Corte dei conti da parte di Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma. La ministra Marta Cartabia ha quindi annunciato la separazione delle gare di vitto e sopravvitto, l’annullamento delle assegnazioni e l’indizione di nuovi bandi. Ma non è cambiato molto. Sul sito del ministero della Giustizia ci sono gli esiti delle gare bandite regione per regione. Le ultime assegnazioni riguardano i pasti “offerti” ai detenuti e alle detenute campane. L’appalto per il vitto è stato ottenuto dalla ditta Ventura srl a un costo di 3,29 euro per i primi due lotti, 3,47 euro per gli altri due lotti, con un ribasso di circa il 40 per cento. Ma la ditta Ventura si è aggiudicata anche la gara con procedura negoziata per il sopravvitto (quattro lotti, un altro è stato assegnato a Sepa), come emerge dal decreto firmato da Lucia Castellano, provveditore reggente della Campania. Le gare sono state separate, ma separatamente le ha vinte sempre la stessa ditta, Domenico Ventura srl. La procedura era diversa, ma l’esito era identico. Un esito che i magistrati hanno bocciato perché denotava “un potenziale conflitto di interesse a discapito della qualità dei servizi alimentari primari offerti ai detenuti”. Come è possibile garantire tre pasti dignitosi con soli 3,29 euro a detenuto? “Hanno offerto questa cifra, riusciranno a garantire il servizio acquistando le cose all’ingrosso e giocando sulla quantità. C’è un controllo molto severo sulle gare, se ne occupa una commissione di vigilanza presso il provveditorato. Applicheremo penali nel caso in cui la qualità dovesse rilevarsi scarsa”, dice Lucia Castellano, provveditore regionale della Campania che ha firmato i decreti di affidamento, già assessore nella giunta di Giuliano Pisapia a Milano e consigliera regionale lombarda. Sul perché vitto e sopravvitto vengono affidati alla stessa ditta, Castellano dice: “Sono due contratti diversi e sono due procedure di controllo diverse. Comunque vigileremo sulla qualità del cibo, auspicavamo la partecipazione di altre ditte e un prezzo di aggiudicazione diverso, ma tutto è avvenuto secondo le disposizioni di legge”. Non si poteva prevedere un divieto di cumulo di entrambi gli affidamenti? “Il conflitto d’interessi non c’è perché il vitto è stato assegnato con gara, il sopravvitto è una concessione. La ditta ha l’obbligo di calmierare i prezzi, sono obbligati a fare sconti, a fare promozioni. Aver diviso vitto e sopravvitto è stata una scelta importante e questo permette una contrattualistica diversa. Su entrambi saranno garantiti controlli stringenti”, conclude Castellano. “A Poggioreale ho verificato che, nel nuovo listino consegnato ai detenuti, i prezzi di molti prodotti si sono abbassati e questa è una buona notizia, ma adesso dobbiamo vigilare sulla qualità dei pasti”, dice Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli. L’azienda, invece, non ha voluto rilasciare commenti. Errori giudiziari, vite distrutte e 50 euro di risarcimenti ogni minuto di Viviana Lanza Il Riformista, 18 aprile 2022 Il dilemma sulla giustizia, la riforma da approvare, il sistema da cambiare, i privilegi da azzerare, i diritti da tutelare. In questo periodo si fa un gran parlare di giustizia, diritti e magistratura. Si discute di referendum, di riforma della giustizia, di interessi di casta (quella dei magistrati), di aspetti da modificare o da conservare. E intanto, ogni minuto che passa, dalle casse dell’Erario escono 50,28 euro per risarcire chi ha subìto una custodia cautelare da innocente. “Non è poco, vero? Ma allora perché invece di pagare e basta non si cercano soluzioni concrete ed efficaci per ridurre il problema all’origine?”, si legge sulla pagina dell’associazione Errorigiudiziari.com, l’associazione fondata da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da oltre vent’anni si occupano di raccogliere dati e storie su casi di malagiustizia. Come non concordare con questa loro osservazione… Perché non si cercano soluzioni? E perché di errori e vittime di ingiustizie si parla così poco, quasi per nulla? Nel dibattito sulla giustizia, infatti, tra i temi centrali non c’è quello relativo agli errori giudiziari. Come se le migliaia di vite distrutte da indagini frettolose o sbagliate, da accuse poi rivelatesi infondate, da misure cautelari applicate senza che ve fosse effettivo bisogno non fossero un macigno per la nostra giustizia. Già di per sé la custodia cautelare preventiva è una condanna anticipata che contiene il seme dell’ingiustizia, perché tra i presupposti su cui si fonda c’è quello del rischio di reiterazione del reato. Vuol dire che si fonda su un sospetto che a sua volta si basa su un altro sospetto. Perché immaginare che una persona indagata possa reiterare il reato di cui è sospettata equivale a dare per scontato che quel reato sia stato commesso e quindi che può essere commesso di nuovo. E questo - è evidente - va contro la presunzione di innocenza prevista dalla nostra Costituzione, perché una persona indagata non è detto che sia colpevole. La statistica giudiziaria ci dice che non lo è nell’oltre il 40% dei casi. Basterebbe poi ricordare quante ingiuste detenzioni ci sono ogni anno per capire le proporzioni del fenomeno e i motivi per cui dovrebbe essere un tema tutt’altro che da ignorare nelle riflessioni su giustizia e riforma. Secondo le statistiche elaborate da Errorigiudiziari.com sulla base di dati ministeriali, negli ultimi trentuno anni le persone innocenti, risarcite o indennizzate in quanto vittime di ingiuste detenzioni o di errori giudiziari, sono state in Italia 30.231. “Tanti da riempire fino all’ultimo strapuntino lo stadio di Torino”, sottolinea l’associazione Errorigiudiziari.com per rendere meglio l’idea di ciò di cui si parla. Dal 1992 al 2020 la media annua di cittadini che sono finiti in carcere da innocenti oppure che sono stati processati e condannati da innocenti è di 1.015 casi. Per niente pochi. Volendo puntare la lente su Napoli e provincia bisogna calcolare che le statistiche locali si aggirano attorno al 10% del dato nazionale. Negli ultimi anni la media delle sole vittime di ingiuste detenzioni a Napoli non è scesa al di sotto dei 100 casi. Più numerose che in altre città italiane. Ora, è vero che Napoli e il suo distretto giudiziario fanno riferimento ad aree ad alto tasso criminale ed è quindi vero che paragonare i processi di Napoli con quelli di Firenze per esempio non ha senso perché si tratta di processi con una complessità e un numero di imputati tato diversi da non poter essere equiparati, ma è anche vero che un innocente in carcere è uguale in qualsiasi parte del mondo e che un innocente in carcere è un peso che la magistratura spesso si scrolla troppo facilmente di dosso. Un peso che invece finisce per essere un macigno sulle spalle delle vittime, le quali patiscono tutte le conseguenze delle loro vite stravolte da arresti o processi ingiusti, e un fardello per la comunità, che si trova a pagare il costo sociale ed economico di queste conseguenze. Secondo recenti statistiche, nell’ultimo anno i casi di ingiusta detenzione sono stati 565 nel nostro Paese per una spesa complessiva e già liquidata in indennizzi pari a 24.506.190 euro. Un numero che appare in calo, se confrontato con quelli degli anni precedenti, ma che va letto anche tenendo conto degli effetti della pandemia che hanno rallentato un po’ tutta la macchina giudiziaria, incluso il lavoro delle Corti d’appello incaricate di definire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Per quanto riguarda, invece, gli errori giudiziari, e quindi i casi di processi che si sono definiti con condanne poi annullate in seguito a una revisione che ha stabilito l’infondatezza delle accuse su cui si basavano, nell’ultimo anno si sono contati sette casi, nove in meno rispetto all’anno precedente. Un numero che finalmente inverte la tendenza degli ultimi anni quando la media degli errori giudiziari non era mai al di sotto dei dieci casi annui. E di fronte a tutti questi numeri, vale ricordare che le valutazioni di professionalità positiva dei magistrati si attestano ancora attorno al 99,2%. Un record. Pasqua in carcere. “Anche dentro una cella, la gioia di scoprirsi perdonati” di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 18 aprile 2022 “Ma in definitiva, che cosa significa la Pasqua per te?” Una domanda tra detenuti è stata l’inizio di uno sguardo nuovo, più vero. Qualche settimana fa, parlando con una persona che non è cristiana, siamo venuti sul discorso della Pasqua e mi chiedeva che cosa fosse. Ho cominciato a spiegare il significato centrale che ha nella religione cristiana questo evento, gli ho parlato della Redenzione, del messaggio e del ruolo di Gesù, di Passione e di Resurrezione… mi ha posto molte questioni e ne abbiamo argomentato lungo, ma è stata una delle sue ultime domande a lasciarmi stupito e forse anche a spiazzarmi un po’. Mi dice: “Ma, in definitiva, che cosa significa la Pasqua per te?” Senza forse volerlo, ha proprio colto il punto centrale. Perché è un conto è “sapere” che cosa sia la Pasqua, un altro è viverla. Specialmente qui, in carcere, dove la “festa” non sta certo di casa, c’è poco per cui gioire nella quotidianità ordinaria e non è immediato dare un senso al Grande Giorno o al periodo che ci conduce là. Da quella volta, con lui e con altri abbiamo cominciato a ragionare nei pochi momenti in cui nascono i discorsi seri, facendo loro spazio tra la confusione costante. Ci siamo allontanati dalle spiegazioni formali e abbiamo provato a scavare. Qui, dove ogni tempo è una specie di quaresima, dove non sono moneta corrente parole come “sacrificio”, “penitenza”, “mortificazione” non perché non vi siano, ma proprio perché sono vita ordinaria, che cosa ci porta la Quaresima? Che vengono a dire questi 40 giorni? Nei quali, tra l’altro, non vi sono segni esterni, non c’è una chiesa o una cappella in cui trovare un silenzio ristoratore, non ci sono momenti di preghiera - quelli che abbondano nelle parrocchie - non c’è nulla. Abbiamo vissuto la Colletta Alimentare straordinaria per i profughi dall’Ucraina come piccolo nostro impegno ed è stato utile; si è strappata con fatica la celebrazione della Via Crucis una volta a settimana, cui comunque partecipa uno sparuto gruppetto; mancano anche i riti della Settimana Autentica: si salvano solo il Venerdì Santo in cui viene arcivescovo a stare con noi e la messa del giorno di Pasqua. Dunque? Ebbene, lentamente, chiacchierando e confrontandoci, è emersa una possibilità. Quella di cogliere una diversa prospettiva, un modo nuovo per vedere la situazione. Con quei compagni, fissando lo sguardo sul momento in cui Gesù risorge, abbiamo fatto esperienza di una realtà profonda: la morte, il dolore, la solitudine e il peccato non hanno l’ultima parola; non ce l’hanno per nessuno di noi. È la vita che vince. È la gioia, è la comunione. Anche qua, anche ora, anche se sembra il contrario, anche se il peso è grande, anche se l’esistenza risulta sospesa e come assente. Ogni Quaresima finisce, primo poi, e in fondo c’è la luce abbagliante della Resurrezione. È un’idea semplice ma grandiosa, che ci ha fatto bene cogliere o ritrovare e che pensiamo abbia dato senso alle settimane che portano alla Pasqua. È confortante la certezza che nessun buio può prevalere, né dentro né intorno a noi. Buona Pasqua. Domani la riforma del Csm va in Aula. E l’Anm prepara le “truppe” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 aprile 2022 Secondo alcuni addetti ai lavori l’Associazione Nazionale dei Magistrati, decidendo per lo sciopero, vorrebbe dare dimostrazione di una prova di forza contro la politica. Martedì alle 11 la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario approderà finalmente nell’Aula della Camera dopo aver ottenuto due giorni fa il via libera dalla Commissione Giustizia, e dopo un anno esatto dall’adozione del testo base. Mario Draghi non vuole porre la fiducia sul testo, ma si attende una dimostrazione di coscienziosità da parte della maggioranza. Stesso concetto ribadito dal sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto: “Con grande senso di responsabilità e profonda sensibilità verso una riforma necessaria e attesa, la Commissione Giustizia della Camera ha lavorato alacremente per approvare il mandato ai relatori per la riforma del Csm. Siamo pienamente nei tempi previsti”. Per questo le forze politiche che sostengono l’esecutivo - Italia Viva a parte - starebbero valutando di non presentare emendamenti in aula il prossimo 19 aprile. Sempre Sisto ha ammesso che “non si tratta di una rivoluzione copernicana e meno che mai di interventi punitivi, ma di significativi passi avanti per far sì che gli italiani possano contare su una magistratura pienamente in sintonia con avvocatura e politica”. Non devono pensarla alla stesso i modo i magistrati, visto che solo 90 minuti dopo l’inizio dei lavori a Montecitorio, la Giunta centrale dell’Anm ha convocato una conferenza stampa presso la propria sede di Piazza Cavour per “comunicare ai giornalisti e all’opinione pubblica le ragioni di forte preoccupazione dell’Associazione riguardo i contenuti della riforma di mediazione Cartabia”. Interverranno Giuseppe Santalucia, presidente Anm, Salvatore Casciaro, segretario generale Anm e gli altri componenti della Giunta. Non ci sarà la diretta di Radio Radicale, segno che i convocatori desiderano rispondere a tutte le sollecitazioni che arriveranno dalla platea in quanto, da quello che ci hanno raccontato in questi giorni, c’è bisogno di spiegare ai cittadini perché, nonostante il momento così difficile per il Paese, tra uscita dalla pandemia e guerra, la magistratura sarebbe pronta a scendere in piazza, provocando nuovi squilibri. Proprio l’astensione totale o parziale dei magistrati dalle proprie funzioni potrebbe essere deliberata ufficialmente nella successiva riunione del Comitato direttivo centrale. Difficile che si passi dallo step intermedio della proclamazione dello stato di agitazione. Tuttavia è altrettanto difficile resistere alla tentazione di pensare a questa iniziativa del “sindacato delle toghe” come alla rappresentazione che ne ha dato qualche giorno fa su questo giornale Luciano Violante: ossia una reazione tesa solo a non deludere la base all’avvicinarsi delle elezioni del Consiglio superiore della magistratura. L’obiettivo sarebbe più quello di salvaguardare l’immagine interna dell’Anm con i propri iscritti anziché credere davvero di incidere sul percorso parlamentare che appare abbastanza segnato anche al Senato. Insomma l’Anm vorrebbe dare dimostrazione di una prova di forza: la politica ci vuole burocratizzare, ma noi con orgoglio ci opponiamo. Il problema è quali risultati si possono ottenere in termini concreti. Staremo a vedere. Di tutt’altro tono le considerazioni del’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, che rispetto alle proteste dei magistrati relative all’ipotesi che il fascicolo di performance si traduca in una “schedatura”, ha detto: “Quindici anni fa con la riforma Castelli hanno strillato allo stesso modo, evocando favori alla mafia e ai pedofili, e prospettando un regime autoritario che imbavagliava la magistratura. Si vadano a rileggere quei proclami deliranti, sono istruttivi. Poi in realtà, come sapevamo, non è cambiato nulla, anche perché quella riforma era ancor più blanda di questa. E una reazione pavloviana dei vertici dell’Anm per non perdere potere”. Infine, sul possibile sciopero delle toghe, Nordio ha chiosato: “Spero che non lo facciano perché sarebbe illegittimo e inopportuno, farebbe perder ancor più di credibilità alla magistratura, credibilità già precipitata dopo lo scandalo Palamara. E la maggioranza dei magistrati non si merita questo epilogo triste”. Riforma del Csm, Cascini: “L’obiettivo è solo quello di spaventare i magistrati” di Liana Milella La Repubblica, 18 aprile 2022 Raffica di critiche dal togato di Area a palazzo dei Marescialli che boccia la futura legge in cui vede decisioni “sbagliate” come quella del fascicolo per ogni magistrato: “Non avrà effetto pratico, ma una forte carica intimidatoria”. Contrario anche ad un solo passaggio tra giudice e pm e viceversa. La politica? “Dopo tanti anni continua a inseguire l’obiettivo di arginare le indagini dei pm”. Oggi come con Berlusconi? “Lui tentò di farlo con una riforma costituzionale, peraltro bocciata, oggi si persegue lo stesso obiettivo con punture di spillo più o meno piccole, ma decisamente fastidiose”. La separazione delle funzioni? “Peggiora solo la qualità professionale sia dei pm che dei giudici, senza alcun reale beneficio”. Il fascicolo individuale di ogni toga? “È inutile, ma servirà solo a spaventare i magistrati”. Giuseppe Cascini, per anni pm a Roma, togato della sinistra di Area al Csm, legge il testo della riforma in attesa del via libera della Camera, e ne parla a tutto campo con Repubblica. L’Anm ha già bocciato la riforma Cartabia con un duro documento. Adesso è giusto che i suoi colleghi facciano lo sciopero? “Sono sicuro che l’Anm, come ha sempre fatto, saprà individuare le iniziative migliori per spiegare ai cittadini le conseguenze di questa riforma. Posso dire però che il testo uscito dalla commissione Giustizia è molto peggio di quello proposto dalla ministra Cartabia su cui noi del Csm ci siamo espressi”. Perché? Mi elenchi, dal suo punto di vista, i punti più dannosi per i giudici... “Innanzitutto manca l’idea stessa di una riforma sui problemi dell’ordinamento giudiziario. Le poche idee che ci sono, sono pure sbagliate, perché accentuano gli aspetti di gerarchia e di carrierismo della legge Castelli-Berlusconi del 2006, cioè proprio la causa dei nostri mali”. Anche lei paragona la riforma Cartabia a quella di Berlusconi? Che la fece sull’onda dei suoi processi, mentre l’attuale Guardasigilli arriva dalla presidenza della Corte costituzionale... “Non ha senso fare paragoni. A me pare che qui ognuno abbia voluto piantare la sua bandierina ideologica, più o meno intrisa di veleno nei confronti dei magistrati, ma senza alcuna utilità per il servizio giustizia e per i cittadini”. Quando parla di “veleni” a cosa pensa? “Penso a quest’idea di infilare nel fascicolo del magistrato gli esiti delle misure cautelari. Ovviamente non avrà alcun effetto pratico, ma avrà una forte carica intimidatoria…”. La fermo, perché da via Arenula insistono sul fatto che questo fascicolo per ogni magistrato già esiste, mentre Enrico Costa di Azione, che lo ha proposto, sostiene il contrario. Come sta la faccenda? “Certo che oggi il fascicolo già esiste, ma qui si parla di altro. Noi veniamo da anni di propaganda di una parte della politica sugli errori giudiziari e sugli eccessi della carcerazione. Oggi tutto questo si fa norma”. Ammetterà che un chirurgo non fa carriera se uccide molti pazienti. Trova strano che il destino di un pm subisca gli effetti delle eventuali manette sbagliate? Perché questo vuole Costa... “Premesso che il discorso sui medici è molto più complesso, quello che non si capisce e che rende pericolosa questa norma è che il controllo sui provvedimenti del giudice non è un rimedio all’errore, ma una fisiologica forma di garanzia a tutela della libertà delle persone. Attribuire un significato negativo all’annullamento di una misura cautelare o a una sentenza di segno opposto serve solo a rendere i giudici meno liberi di decidere e di conseguenza aumenta i rischi per la libertà delle persone”. Insomma, lei mi sta dicendo che questo fascicolo, nato con l’obiettivo di frenare il carrierismo, rischierebbe di crearne uno peggiore, nel senso che la toga si vedrebbe costretta a fare una cattiva giustizia pur di garantirsi il suo futuro... “Purtroppo a volte ho l’impressione che chi fa le leggi non conosca bene la realtà su cui vuole intervenire. Già oggi eventuali gravi anomalie nelle decisioni di un magistrato possono essere agevolmente rilevate e valutate. Quindi questo fascicolo è inutile, ma servirà solo a spaventare i magistrati”. Era l’11 dicembre del 2008 quando lei era segretario dell’Anm e, intervistato da Giuseppe D’Avanzo su Repubblica, disse: “Il Cavaliere vuole controllare i pm così i cittadini saranno meno liberi”. Oggi siamo allo stesso punto? “Dopo tanti anni è davvero triste constatare che la politica è tuttora prigioniera delle medesime ossessioni e invece di elaborare le riforme necessarie per migliorare la qualità della giustizia nell’interesse dei cittadini, continua a inseguire l’obiettivo di arginare le iniziative investigative dei magistrati del pubblico ministero. Berlusconi cercò di farlo con una riforma costituzionale peraltro bocciata, oggi si persegue lo stesso obiettivo con punture di spillo più o meno piccole, ma decisamente fastidiose e insidiose”. Tra queste ci sono anche i vari illeciti disciplinari sull’eventuale violazione della presunzione d’innocenza e sulle ingiuste detenzioni? “La parte del disciplinare è la più pericolosa della riforma. A quelle che lei citava aggiungerei le sanzioni per i magistrati che non producono abbastanza. Molte di queste previsioni sono inutili perché già oggi la legge consente di punire condotte in contrasto con i doveri del magistrato. Quindi siamo di fronte a un uso del disciplinare che non persegue lo scopo di sanzionare degli illeciti, bensì quello di conformare i comportamenti dei magistrati secondo un modello ben definito: produrre tanto, senza troppa attenzione per la qualità delle decisioni; conformarsi alle indicazioni dei dirigenti e della Corte di Cassazione; non parlare con gli organi di stampa; essere molto prudenti quando si indaga nei confronti di esponenti del potere”. Per questo si vuole ridurre a uno solo i passaggi di carriera da pm a giudice e viceversa? È una separazione delle carriere mascherata? “Questa è la prova più evidente che in questa vicenda il merito non conta nulla. Tutto si gioca sul piano della demagogia e del simbolico. Limitare il passaggio da pm a giudice peggiora la qualità professionale sia dei pm che dei giudici senza alcun reale beneficio”. La legge va in aula, ma nella maggioranza ci sono molti mal di pancia. A cominciare dal M5S che via via, dopo ogni intervista di voi magistrati, scopre troppe norme contro di voi e si allarma Mentre la Lega ripudia il sorteggio dei distretti (Bongiorno dice “chiamatela ex Bongiorno”) e punta sui referendum sulla giustizia. E già si ipotizza una proroga del vostro Consiglio, mentre il suo collega Ferri vuole far saltare tutto... “Voglio essere chiaro. Sono convinto che sia assolutamente necessaria una riforma incisiva in grado di limitare il correntismo, il carrierismo e la gerarchizzazione della magistratura. A cominciare da una legge elettorale che riduca il potere dei capi delle correnti. E sono convinto che molti degli attori in campo stiano lavorando contro questa possibilità”. Sta parlando di Ferri? “Credo che non sia opportuno lasciare che si occupi di questa riforma uno dei protagonisti del principale scandalo da cui tutta questa storia ha avuto inizio”. Il compromesso sulla legge elettorale - sorteggio dei distretti, maggioritario binominale - blocca le correnti? “Nemmeno per idea. Con questa legge la scelta degli eletti resta nelle mani di pochi capi corrente, senza nessuna possibilità di scelta per gli elettori e nessuno spazio per candidature indipendenti”. Costa: “La protesta è uno spot. I magistrati temono di perdere potere…” di Simona Musco Il Dubbio, 18 aprile 2022 Secondo il deputato di Azione lo sciopero è una trovata elettorale delle correnti in vista del rinnovo del Csm. “Ma le toghe stufe del “Sistema” non aderiranno”. “La protesta delle toghe? Hanno paura di essere valutate per ciò che fanno e di perdere potere”. Il deputato di Azione Enrico Costa è di certo uno dei “vincenti” della partita sulla riforma del Csm. Ed è proprio il suo emendamento sul fascicolo del magistrato a indignare più di ogni altra cosa i magistrati, pronti a scendere in piazza per difendersi da una riforma che considerano pericolosa e punitiva. Onorevole, qual è il giudizio complessivo sulla riforma? Complessivamente fa registrare alcuni passi avanti, ma alcuni ambiti non sono stati toccati, perché una maggioranza così ampia non ha consentito di affrontarli in modo energico. Secondo il deputato Cosimo Ferri rischia di agevolare le correnti. È così? Secondo Italia Viva una diversa legge elettorale avrebbe contribuito a cancellare l’influenza delle correnti. Penso invece che con qualunque sistema, anche col sorteggio, le correnti si sarebbero organizzate per far sentire la loro influenza. Per ridurne il potere è necessario stabilire dei meccanismi oggettivi di valutazione, tali da togliere dalle mani dei gruppi associati la vita del magistrato, lasciandola alla meritocrazia. Perché con valutazioni oggettive le correnti non possono fare delle forzature e far sì che il meno bravo, solo perché organico, superi il più bravo. Oggi c’è un appiattimento di giudizio: per il 99% dei magistrati è positivo, perché non ci sono gli elementi per giudicare, una sorta di “automatismo politico”, che fa avanzare tutti. Ma se le cose stanno così, quando si devono fare delle scelte decidono le correnti, in modo insindacabile: ad andare avanti non sarà il magistrato più bravo, ma magari quello più mediatico. Le cose cambiano graduando il giudizio. Come? Servono degli elementi per analizzare la vita professionale di ciascuna toga. E questo è il fascicolo del magistrato, previsto dal mio emendamento. Un elemento che prima non c’era, checché se ne dica. Attualmente, tutto si basa sull’autorelazione dei magistrati, poi ci sono le verifiche a campione, che sono parziali, non esaustive e non chiariscono un bel niente. Grazie alla graduazione del giudizio, invece, farà carriera solo chi merita. Contro ciò le correnti si sono scatenate e c’è un pressing sul governo e sui partiti per cambiare ancora la norma, quindi dovremo difendere questa conquista: il percorso è ancora lungo. È molto probabile che l’Anm proclami lo sciopero. Come interpreta questa protesta? Credo che dipenda dal fatto che questa riforma fa perdere loro potere. Non avrebbero fatto uno sciopero per la legge elettorale, sicuramente. Però i magistrati sostengono che questo fascicolo produrrebbe un sostanziale adeguamento delle sentenze all’orientamento prevalente... Il punto è che se un magistrato vede il 70- 80% delle proprie sentenze ribaltate in appello allora non è semplicemente un incompreso e non è così innovativo come crede. Non ragioniamo su numeri bassi, ma su gravi anomalie, sulla cui base, magari, si tengono delle persone sulla graticola per anni. Se i voti li diamo sulla base del marketing giudiziario, sulle conferenze stampa e su come vengono presentate le inchieste, allora è troppo comodo. Andiamo anche a vedere, poi, come vanno le inchieste e se ci sono delle violazioni del principio di presunzione d’innocenza. Questo è il punto. Il pg di Cassazione ha, a tal proposito, scritto una circolare molto critica... Sembra fatta quasi per anestetizzare preventivamente le sanzioni disciplinari previste da questa legge. E inoltre accusa gli avvocati di creare il processo mediatico. Ma non è possibile che se una legge non piace alla magistratura la cosa si risolva dandone un’interpretazione che la stravolge completamente. Il legislatore ha stabilito delle norme in maniera puntuale e adesso stabilirà delle sanzioni disciplinari molto chiare. Non è possibile che chi deve vigilare sull’applicazione di questa norma dica che il suo giudizio è insindacabile. Che risultato avrà la protesta dei magistrati? Sarà un boomerang. Sono convinto che i magistrati che si sentono schiacciati dal sistema delle correnti, e sono tanti, non aderiranno allo sciopero. Ma sono anche sicuro che saranno i cittadini a non capire. Non si sciopera perché vengono compressi gli scatti stipendiali o perché si aumenta il carico di lavoro, ma solo perché si viene valutati per ciò che si fa. Sarà un boomerang anche in vista delle prossime elezioni del Csm? No, il contrario: queste levate di scudi hanno un sapore elettorale. Nessuno si è preoccupato di leggere la norma e valutare. Ma penso che soprattutto le associazioni di magistrati dovrebbero tutelare il merito e non l’appiattimento professionale. Alcune parti della riforma non la convincono, ad esempio sui fuori ruolo. Perché? Avevamo raggiunto un’intesa di buon senso con la ministra Cartabia, prevedendo di ridurre gli anni di fuori ruolo da 10 a sette anni: non si può passare un quarto della propria carriera così. Ci sono ovviamente delle eccezioni di buon senso, ma una manina della presidenza del Consiglio ha inserito tra le deroghe anche gli organi di governo. È evidente, allora, che la regola si applicherà al 5% dei fuori ruolo, mentre non varrà per il restante 95%. Non cambia niente. La riforma ha dei profili che possono essere migliorati. Si potrà fare in aula? Abbiamo fatto un accordo e c’è un testo approvato: noi con lealtà ci atterremo ad esso. C’è il rischio di dover arrivare a porre la fiducia? Alla Camera non penso. Spetterà alla responsabilità delle forze politiche, e anche alla regia del governo, mantenere questo testo. Ma se qualcuno pensa di fare il furbetto, facendo solo qualche modifica pro domo sua, si rischia di compromettere tutto. Alessandria. “Mio padre malato di Sla sta seriamente rischiando la vita in carcere” cuneo24.it, 18 aprile 2022 L’appello di Valeria, figlia di Maximiliano Cinieri: “Chiediamo soltanto di poterlo avere a casa con noi per potergli stare vicino in un momento così difficile”. Le condizioni dell’uomo sono incompatibili con la detenzione per quattro medici, ma non per il dottor Francesco Romanazzi (direttore del dipartimento di Medicina Legale dell’Asl2 di Cuneo) e così Cinieri resta in carcere. L’avvocato Furlanetto: “ha grandi difficoltà, non capiamo come possano continuare a tenerlo in carcere, non trattandosi neanche di una condanna definitiva, ma di una misura cautelare, visto che non abbiamo chiesto la liberazione totale, ma che venga messo ai domiciliari con il braccialetto elettronico”. “Ogni volta che lo vediamo lo troviamo peggiorato perché la malattia sta avanzando molto velocemente. Chiediamo soltanto di poterlo avere con noi per potergli almeno tenere la mano per accompagnarlo in un percorso così difficile e per aiutarlo nelle operazioni più elementari come mangiare e vestirsi, cose che ormai non è purtroppo più in grado di fare da solo”. È il disperato appello di Valeria, figlia di Maximiliano Cinieri, 45enne astigiano in carcere dall’aprile del 2021 per una misura cautelare convalidata dal giudice a seguito dell’arresto dei carabinieri di Imperia. “Ci chiediamo come si possa pensare a una reiterazione del reato, quando un recente referto psicologico ministeriale ha attestato che mio padre pensa solo alla sua famiglia e alla sua morte”. L’uomo è gravemente malato e le sue condizioni, a detta dei quattro medici Roberto Carbone (medico referente del carcere), Gianluca Novellone (perito di parte), Luigi Ruiz (direttore della Neurologia di Alessandria) e Umberto Manera (uno dei massimi esperti di malattie neurodegenerative) non sono compatibili con il regime carcerario. Lo sono però per un quinto medico, che è quello che conta, il dottor Francesco Romanazzi, direttore del dipartimento di Medicina Legale dell’Asl2 di Cuneo. Cinieri, cui è stata recentemente diagnosticata la Sclerosi Laterale Amiotrofica (Sla), si trova nella casa circondariale Cantiello e Gaeta di Alessandria. Fino ad ora le istanze del suo legale, l’avvocato Andrea Furlanetto, sono cadute nel vuoto. Una situazione paradossale, quella dell’uomo, a cui un giudice del tribunale di Asti ha negato gli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, chiesti dall’avvocato. “Il diritto alla salute viene prima del diritto alle esigenze cautelari - dichiara Furlanetto - Altrimenti al mio assistito viene preclusa un’aspettativa di vita di 5 anni, che si potrebbe ridurre, se rimane in carcere, a soli due: tre anni di vita in meno”. I fatti. Maximiliano Cinieri era finito al centro di un’indagine svolta dai carabinieri di Imperia, l’operazione “Sonacai” (oro nel dialetto dei Sinti piemontesi), che si è conclusa il 24 aprile scorso con 11 persone arrestate su ordine della procura. Nell’occasione erano stati anche sequestrati beni per un milione di euro, frutto, secondo l’accusa di furti commessi nelle colline imperiesi e di prestiti a interessi d’usura. E proprio per alcuni episodi d’usura, commessi tra Asti e Imperia, nei confronti di pluripregiudicati e per un’estorsione con arma avvenuta ad Asti nel 2016 (dunque tre anni prima dei fatti contestati, ndr) ed emersa in fase di indagine, Cinieri è stato condannato in primo grado, con rito abbreviato, a 8 anni di carcere. “Ho depositato nei giorni scorsi la richiesta di Appello - spiega l’avvocato - Si tratta di una condanna davvero pesante considerando il tipo di reato e la scelta dell’abbreviato”. Il calvario di Cinieri è iniziato a dicembre, quando oltre ad altre patologie di cui soffre, gli è stata diagnosticata la Sclerosi Laterale Amiotrofica. “Ho visto il mio assistito la scorsa settimana - dice Furlanetto - Ha veramente grandissime difficoltà a interloquire. Capisce, ma non riesce a pronunciare più di dieci parole, poi si blocca, non riesce a muovere la mano, non riesce a scrivere, non riesce a legarsi le scarpe, ha difficoltà motorie”. Visti i problemi di salute, il detenuto è stato trasferito in un’altra sezione del carcere. “Gli hanno messo un “piantone” - aggiunge il legale - Cioè un altro detenuto che lo deve guardare h24 come se fosse un familiare. Una sorta di badante all’interno del carcere. Ma non capiamo come possano continuare a tenerlo in carcere, non trattandosi neanche di una condanna definitiva, ma di una misura cautelare e considerando anche che il mio assistito ha risarcito tutti quelli che si sono presentato a processo come parti offese e ha mandato le lettere di scuse a tutti”. “Non ho chiesto la liberazione totale, ma che venga messo ai domiciliari con il braccialetto elettronico”, dice ancora l’avvocato: “Non credo che una persona affetta da Sla, ad domiciliari e con il braccialetto elettronico possa reiterare il reato e nemmeno che ci sia un pericolo di fuga. L’inquinamento probatorio è escluso, visto che il processo è finito, per cui secondo me non esiste più alcuna esigenza cautelare”. Il legale ribadisce la volontà di compiere tutte le mosse possibili per far valere i diritti di un uomo gravemente malato rinchiuso in una cella. Potenza. Il ministro Speranza alla messa di Pasqua con i detenuti lanuova.net, 18 aprile 2022 Una Pasqua di vicinanza agli ultimi. Perché non solo oggi ma sempre l’obiettivo delle istituzioni deve puntare a non lasciare indietro nessuno. Con questo spirito il ministro alla Salute Roberto Speranza ha partecipato alla liturgia pasquale celebrata nella chiesa della casa circondariale di Potenza, da monsignor Salvatore Ligorio. Un gesto di apertura ed inclusione sociale a cui l’esponete dell’esecutivo nazionale non ha voluto sottrarsi, portando ai detenuti il messaggio del governo, ma anche facendo il punto sul lavoro messo in campo per contrastare la pandemia. “Siamo vicini in questo giorno di Pasqua a chi si trova in questa condizione, perché nessuno debba essere lasciato indietro. In questa pandemia- ha proseguito il ministro- le carceri sono state messe a dura prova, come pure il personale. Adesso puntiamo con la collaborazione delle Regioni, a garantire la qualità del sistema salute anche in questi luoghi”. Inoltre il ministro ha elencato i dossier sul tavolo del governo nazionale, dalla crisi internazionale con la guerra in Ucraina, al covid, i cui effetti devastanti sono ancora evidenti. Per questo massima prudenza. Dopo la veglia in Cattedrale con l’accensione del cero pasquale e il rinnovo delle promesse battesimali monsignor Salvatore Ligorio, arcivescovo della Diocesi di Potenza ha celebrato la messa per i detenuti portando loro un messaggio di pace in questo frangente di guerra. Padova. Pasticciere lascia la cucina di Alajmo ed entra in carcere di Antonino Padovese Corriere del Veneto, 18 aprile 2022 “Preparo i dolci con i detenuti”. Ascanio Brozzetti guida il laboratorio di pasticceria che prepara croissant, panettoni e colombe: “Iniziano che non sanno distinguere tuorlo e albume, molti sono ai livelli di chi ha studiato all’alberghiero”. Per quindici anni è stato al fianco di Massimiliano Alajmo, di cui è diventato capo pasticciere. Poi ha deciso di lasciare la cucina stellata e di cercare nuove esperienze e si è ritrovato… in carcere. Non è una storia finita male, Ascanio Brozzetti in carcere continua ad andarci ogni giorno. Parcheggia l’auto, consegna il documento di identità e il cellulare e poi si mette al lavoro nel laboratorio artigianale della pasticceria Giotto, che ha sede all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, dove ci sono i detenuti che stanno scontando la pena definitiva. Ci sono persone entrate che avevano da poco compiuto la maggiore età e che sono passati direttamente dai banchi di scuola alle celle di un carcere. E che attraverso progetti come quello della pasticceria Giotto stanno intraprendendo un percorso di rieducazione in vista della scarcerazione. Che per qualcuno arriverà un paio di anni dopo, per altri gli anni saranno cinque, dieci, per altri venti. Ascanio Brozzetti ha 41 anni, è originario di Perugia, si è sposato un paio di settimane fa ad Assisi, nella sua Umbria, e ha due figli. Come mai nel 2020 scelse di lasciare i ristoranti stellati del gruppo Alajmo? “Diciamo che non trovavo più l’equilibrio con la vita privata, c’erano stati altri cambiamenti a livello personale. Avevo bisogno di cambiare, nonostante mi trovassi bene e mi sia lasciato bene, tanto è vero che quando posso sento ancora Massimiliano (Alaimo, ndr)”. Come c’era arrivato? “Nel 2005 lavoravo al ristorante Arnoldo in Colle Val d’Elsa, due stelle Michelin. Due anni prima avevo fatto un colloquio con gli Alajmo ma non c’erano posti liberi alle Calandre e io puntavo a lavorare in un ristorante tristellato. Quando si è liberato, ci siamo risentiti e mi sono trasferito a Padova”. E come si è trovato in Veneto? “Beh, non ho avuto troppo tempo di abituarmi, un anno dopo aprirono il Calandrino a Tokyo e mi chiesero di andare a lavorarci. Con me c’era Silvio Giavedoni, che oggi è a Venezia alla guida dello stellato Quadri. Lui si occupava della cucina, io della pasticceria”. Com’è stata l’esperienza a Tokyo? “Incredibile. Un conto è andarci in vacanza, ma se ci resti un anno riesci ad apprezzarne la quotidianità. La più grande difficoltà era quella della comunicazione. Noi non parlavamo giapponese e i giapponesi che frequentavo non parlavano inglese. Ricordo ancora quando i ragazzi della cucina scrivevano in un pezzo di carta l’indirizzo dove dovevo andare, per passarlo ai tassisti. E non era detto che capissero”. Che cosa le è rimasto di quella esperienza? “Ho capito che i giapponesi nel lavoro non dicono mai di no, lo trovano irrispettoso. Hanno un’impostazione molto formale e gerarchica. Per fare un esempio, solo uno chef può portare il pantalone di colore nero, chi non ha responsabilità di comando in brigata deve indossare pantaloni di altro colore. E non vi dico per le scarpe”. Ma torniamo al 2020, come mai ha deciso di entrare in un carcere per lavorare? “E’ un’opportunità che ho cercato dopo il lockdown. Avevamo collaborato con gli Alajmo ad alcune cene di beneficenza, ho provato a ricontattare alcuni referenti dei progetti di rieducazione e ho chiesto se avessero bisogno di una mano. Durante il lockdown mi sono fatto tante domande e mi sono chiesto che cosa volessi fare. Ho pensato che fare qualcosa per aiutare un detenuto a costruirsi un futuro dopo la prigione poteva essere una cosa buona e in linea con le tante cose belle che avevo imparato da Alajmo. E oggi sono contento di questa scelta”. Che cosa fa concretamente? “Sono il capo pasticciere della pasticciera Giotto e lavoro al laboratorio che si trova dentro il carcere e fornisce con le sue preparazioni il punto vendita aperto in corso Milano a Padova, una gelateria in via Roma, sempre in centro, e poi forniamo i dolci che vengono spediti in tutta Italia”. Dove vi trovate esattamente? “Nel palazzo dove lavorano i detenuti per i progetti di inserimento, è il laboratorio più grande dello spazio dove si trovano le altre cooperative, come il call center dell’Unità sanitaria locale, quello che riceve le chiamate di prenotazione delle visite specialistiche. Abbiamo tre grandi forni rotativi, due celle di lievitazioni e abbattitori a colonna. Ci possono lavorare da 20 a 40 persone, fra noi esterni e i detenuti, anche se non contemporaneamente”. Come arriva il detenuto a lavorare con voi? “Quando ha una condanna penale definitiva, deve fare domanda di poter lavorare con noi. Viene sentito da uno psicologo che ne traccia un profilo. Poi c’è uno psicologo della nostra cooperativa, infine cominciamo un tirocinio di sei mesi. Se tutto va bene, il detenuto viene assunto con un contratto nazionale delle cooperative. Viene pagato e i soldi finiscono su un conto corrente e possono essere utilizzati dalla persona in carcere con tutti i limiti di legge”. Vale a dire? “Hanno limiti settimanali e mensile di prelievo, vengono controllate le uscite, vengono verificati gli Iban dei bonifici, per vedere che rispondano a quello dei familiari e non ad altri. I detenuti vengono assunti con un contratto di quattro ore giornaliere, non di otto, per sei giorni a settimana. A tempo indeterminato, che cessa quando escono dal carcere. Poi non possono più entrarci, neanche per lavorare”. Quanto guadagnano? “Nei periodi che precedono le feste, quando la produzione di panettoni e di colombe raggiunge il picco, possono arrivare a guadagnare mille euro. Lo stipendio poi si alza in percentuale. Ma ricordiamoci che vengono trattenuti dall’amministrazione penitenziaria 120-140 euro al mese come contributo alle spese di detenzione”. Ci fa un esempio dei prodotti che producete? “Ogni giorno informiamo croissant per i nostri punti vendita e altri bar, sono mille pezzi al giorno. Il primo turno di lavoro inizia alle 4 del mattino, l’ultimo finisce alle 17. Prima delle feste, con gli straordinari, arriviamo alle 19”. In quanti lavorate a questo progetto? “Siamo in undici, compresi tre autisti, un economo, la psicologa, un addetto della logistica e quattro pasticcieri”. Naturalmente non può portare il cellulare con sé al lavoro? “Né il cellulare né altri dispositivi elettronici. Ma non è una cosa che mi pesa. E poi siamo sempre raggiungibile attraverso la linea fissa del carcere”. Che tipo di lavoratori ha? “Nel penale c’è poco turnover perché ci sono pene lunghe, anche oltre il 2030. Altri, invece, hanno una pena più breve, fra i cinque e i sette anni. Nel 90 per cento sono ragazzi comunissimi, che tentano di imparare un mestiere”. Ovviamente accettate solo detenuti con esperienza? “Macché. Mi arrivano persone che non sanno distinguere il tuorlo da un albume. C’è gente che non ha mai lavorato in vita sua, noi dobbiamo fargli capire che ci sono delle regole e che tutto si inserisce in un percorso di rieducazione”. Conosce il passato dei detenuti? “In linea di massima sì, ma non mi sento giudicare. Giudico solo le cose che fanno lavorando con noi, anche la gestione dello stress durante il lavoro è importante”. Questo lavoro riesce a cambiare i detenuti? “Mi fa impressione vedere il cambiamento. Vedi subito una grandissima cura nel dettaglio, ma mi dicono che la maniacalità è normale perché così i detenuti scaricano l’ansia. Mi impressiona la cura che ci mettono, la spinta a fare bene un dolce e la gratificazione che hanno quando gli diciamo “hai fatto un bel lavoro”.” Una volta usciti dal carcere dimenticheranno tutto? “No, non credo, ci sono alcuni che lavorano così bene che li vedrei tranquillamente all’interno di un grande laboratorio di pasticceria, non avrebbero niente da inviare ad altri pasticcieri che hanno studiato all’alberghiero”. Che cosa le manca della vita di prima? “Forse una certa adrenalina, quella che si prova prima del servizio o durante la preparazione dei piatti. Ma questa vita di corsa non faceva più per me, la ricordo con piacere. Ma adesso sto bene qui, in carcere, con i miei aspiranti pasticcieri”. Fossombrone. Le icone realizzate nel carcere in mostra di Alessandro Marconi ilmetauro.it, 18 aprile 2022 I lavori realizzati dal laboratorio “Luce dentro” nella Casa di Reclusione di Fossombrone in mostra al Monte di Pietà. Sabato 30 aprile inaugura la mostra di icone sagre dal titolo “Sguardi verso il cielo” realizzate dal laboratorio iconografico “Luce dentro” della Casa di Reclusione di Fossombrone. La mostra allestita nell’atrio della Fondazione Monte di Pietà sarà visitabile fino al 21 maggio (dal martedi al venerdì dalle 17.30 alle 19.30 - sabato e domenica dalle 16.30 alle 19.30 - lunedì chiuso). Sabato 30 aprile alle ore 11 nella sala consigliare in via Garibaldi inaugurazione della mostra “Sguardi verso il cielo” con i saluti istituzionali di Massimo Berloni, sindaco di Fossombrone, Carmela Di Lorenzo, direttrice della casa di reclusione e Giancarlo Giulianelli, garante dei diritti dei detenuti. A seguire l’intervento di Filippo Maria Caioni, frate cappuccino, su “Icone, un percorso spirituale”, Antonio Calandriello e Franco Melegari intervengono su “La scrittura iconografica fra passato e presente”. Testimonianza di Giovanni Lentini su “L’esperienza del laboratorio Luce dentro di Fossombrone”. Alle ore 12.35 trasferimento nella sede della mostra, inaugurazione e visita guidata. Coordina Giorgio Magnanelli, presidente di “Mondo a Quadretti OdV”. “Brusca mi ha detto: per quello che ho fatto non c’è perdono” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 18 aprile 2022 In un libro i colloqui dell’ex boss con don Marcello Cozzi. Il collaboratore di giustizia, che ha confessato la strage di Capaci e l’omicidio del piccolo Di Matteo, è in libertà da dieci mesi. “Era come se io vivessi in un’altra dimensione, in un altro mondo”, gli ha sussurrato un giorno. “Era come se lavorassi per un altro Stato, soldato di un altro esercito, ed ero totalmente pieno di quelle regole, di quella mentalità, di quella cultura che tutto il resto per me era sbagliato”. Così Giovanni Brusca si racconta a don Marcello Cozzi, il sacerdote lucano che è stato vicepresidente di Libera, oggi fa parte della commissione voluta da Papa Francesco per la scomunica alle mafie. Un racconto iniziato quando l’ex capomafia diventato collaboratore di giustizia stava in carcere, da dieci mesi è un uomo libero. “Lui vorrebbe chiedere perdono - scrive il sacerdote - ma mi dice: “Mi accusano di non mostrare esternamente il mio pentimento, però io so che per un omicidio come quello del piccolo Di Matteo non c’è perdono. In simili casi cosa significa chiedere perdono? Non serve né a tornare indietro, né a farlo ritornare in vita. Anzi, a volte penso che farlo è come prenderli in giro, e che forse la cosa giusta è restare in silenzio”“. Il racconto dell’uomo che ha azionato il telecomando della strage di Capaci e ha commesso decine di omicidi è un capitolo dell’ultimo libro di don Marcello. Si intitola: “Dio ha le mani sporche - il grido degli innocenti, le angosce dei carnefici, l’arroganza dei boss” (Edizioni San Paolo). “Questo libro rappresenta il mio essere prete”, dice l’autore. Lui è un sacerdote che da anni cammina nella terra dei maledetti da tutti, li ascolta, in tanti anni di colloqui in carcere ha anche imparato a intuire quando i percorsi dei cosiddetti “pentiti” non sono autentici, e in quel caso il dialogo si interrompe. Con Giovanni Brusca, invece, il confronto prosegue da anni. “Al primo incontro, nel carcere romano di Rebibbia - racconta don Marcello - non l’avevo riconosciuto. Mi aspettavo l’uomo visto nelle foto sui giornali. Invece, mi è comparso davanti un signore dall’aspetto gentile e garbato, di mezz’età, capelli corti e barbetta appena pronunciata”. Il boia di Capaci ha confidato al sacerdote: “Non ho avuto alcuna conversione improvvisa sulla via di Damasco, e non c’è stata neanche un’intima voce carica di chissà quale mistero a parlare alla mia coscienza durante i soli tre giorni che passarono fra il mio arresto e la decisione di dare una svolta. Piuttosto - ha spiegato - ci sono stati una serie di episodi, circostanze, parole e persone che senza dubbio hanno inciso positivamente nel mio animo già in tumulto”. C’è stata soprattutto una donna che ha inciso nella scelta di Brusca: è Rita Borsellino, la sorella del giudice Paolo. “Quel giorno, in una parrocchia lontana da Rebibbia, c’erano anche mia moglie e mio figlio - racconta il pentito - Lei stava con noi come se io non fossi Brusca, mi chiedeva della mia famiglia, di mio figlio. Quanta umanità”. Con don Marcello, Brusca ha ripercorso anche la sua infanzia. “Quando aveva tredici anni portava da mangiare ai latitanti Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano nascosti a un passo da casa sua - scrive il sacerdote nel suo libro intenso - . Fino a ritrovarsi, poi, affiliato a Cosa nostra già a 18 anni, e addirittura per mano di Totò Riina, come in una sorta di predestinazione. Lui che dopo avere lasciato la scuola a dieci anni aveva iniziato da subito a lavorare nei campi. Quando diventò maggiorenne, chiese al padre di riprendere gli studi, lui gli rispose che era ormai troppo tardi”. Giovanni Brusca aveva 26 anni quando azionò il telecomando dell’autobomba che uccise il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile di via Pipitone in cui il giudice viveva, Stefano Li Sacchi. Aveva invece 35 anni quando scatenò l’inferno a Capaci. Ne aveva 36 quando ordinò la morte del quattordicenne figlio del pentito Santino Di Matteo, tenuto segregato per 25 mesi. Nel giugno 1996, un mese dopo l’arresto, Brusca iniziò a collaborare con la giustizia, anche se all’inizio in maniera non proprio convinta. “Con me lo Stato ha vinto - ha detto l’ex padrino della Cupola a Marcello Cozzi - La legge sui collaboratori di giustizia è una delle armi più vincenti che in questa guerra alla mafia lo Stato si ritrova fra le mani. E Cosa nostra scomparirà se i capi resteranno senza eserciti”. Giovanni Brusca dice anche questo: “Se si vuole davvero vincere la guerra, alla mafia bisogna confiscare le persone, bisogna strapparle manovalanza. Proprio come lo Stato ha fatto con me”. Se solo il Papa spera nella pace di Massimo Giannini La Stampa, 18 aprile 2022 Nella Pasqua di passione e di sangue il clangore delle armi è rotto solo dalla voce di Francesco: “Signore, converti al tuo cuore i nostri cuori ribelli, perché impariamo a seguire i progetti di pace; porta gli avversari a stringersi la mano, perché gustino il perdono reciproco, disarma la mano alzata del fratello contro il fratello, perché dove c’è l’odio fiorisca la concordia”. Mai preghiera è apparsa più giusta e più inutile di questa. Mentre il suo elemosiniere si inginocchia di fronte all’abisso delle fosse comuni di Bucha, dove la polvere della terra si confonde con la polvere dell’uomo, il Papa di Roma invoca pace in una Via Crucis che tutti ascoltano ma che nessuno seguirà. Le sue parole si perdono vane nel vento della Storia, perché ormai qui parlano solo le armi. E come ha scritto Lucia Annunziata, le armi dicono la crudeltà degli eserciti, la gratuità degli eccidi, e soprattutto l’implausibilità di una tregua già sepolta sotto la sabbia, insieme ai corpi dei civili innocenti. La sporca guerra è di Putin, che ne porta tutte intere la colpa e la vergogna. E questa guerra, come annuncia il segretario di Stato americano Blinken, può durare anni. Anche dieci, secondo il ministero degli Esteri britannico. Anche venti, secondo l’ultimo aggiornamento del Pentagono ai membri del Congresso. Ormai la stanno combattendo tutti, a vario titolo e in forme diverse. Ciascuno attore, materialmente e idealmente, deposita la sua pallottola nel teatro di guerra. Allargandolo a dismisura, anche oltre la fragile quinta ucraina che ora torna a separare l’Est e l’Ovest. Ormai non è più solo lo sterminio dei cittadini “giustiziati” con un colpo alla nuca e le mani legate dietro alla schiena, da Kramatorsk a Kharkiv, o lo stupro delle donne, la tortura dei bambini. Quelli sono ordinari film dell’orrore già visti nei reportage di Anna Politkovskaja dalla Cecenia tra il 2004 e il 2006, quando i funzionari dell’Fsb russa trasformati in squadroni della morte le confessavano “facevamo finta di dirigerci oltre il confine di Magas e invece poi tornavamo indietro per finire tutti quelli che avevamo arrestato”. Adesso il vero punto di non ritorno del conflitto è l’ingloriosa fine del vecchio incrociatore Moskva. Con i russi che in un moto di comicità involontaria negano l’affondamento ad opera dei missili Neptune, ma allo stesso tempo annunciano “conseguenze imprevedibili” contro l’Occidente. Con gli americani che inviano a Kiev un altro miliardo di dollari di mezzi militari, dai 18 cannoni Horowitzer ai droni kamikaze Switchblade. Con Putin che intensifica i bombardamenti a Kiev e telefona al principe saudita Salman, “mandante morale” del massacro del giornalista Kashoggi, per favorire “un ulteriore sviluppo delle relazioni bilaterali”. Con Zelenski che continua a chiedere carrarmati all’Alleanza Atlantica e teme “un’offensiva nucleare”. Con Boris Johnson che spedisce nella capitale ucraina le sue forze speciali, per addestrare l’esercito regolare all’uso dei razzi anti-carro Nlaw. Con Magda Adersson e Sanna Marin che, come la Penelope alla guerra di Oriana Fallaci, sono pronte a rinunciare a settant’anni di neutralità e a portare la Svezia e la Finlandia nella Nato. E con la Cina che schiera truppe navali sullo stretto di Tapei, nelle stesse ore in cui una delegazione bipartisan di senatori Usa incontra il presidente Tsai Ing-Wen. Ormai è davvero “la fine della pace”. E il 24 febbraio l’inizio di un nuovo secolo, dove tra gli “imperi” non regnano armistizi ma tregue intermittenti e sempre più armate, mentre tra i Paesi satelliti regna l’obbligo di schierarsi. È un cambio d’epoca. In questi decenni di guerre ne abbiamo viste diverse: secondo “Armed Conflict Location & Event Data Project” se ne contano 59 in corso. Dalla Nigeria (1.363 morti) alla Siria (1.037 morti). Dall’Iraq (267 morti) allo Yemen (5.099 morti). Dalla Birmania (3.846 morti) al Sudan (1.364 morti). Per non dire del conflitto indo-pachistano e ora anche di quello israelo-palestinese. Ma dal 1945 in poi ci eravamo anche illusi di aver trovato un obiettivo condiviso: l’idea di un “declino della guerra” e la tensione verso una “nuova pace”, come la definisce Yuval Noah Harari. Non più come casualità statistica o sogno da figli dei fiori, ma come conquista progressiva della civiltà contemporanea, suffragata persino dalle scelte di finanza pubblica (nella media degli ultimi dieci anni, le spese militari degli Stati sono scese al 6,5 per cento dei loro bilanci, a vantaggio delle risorse indirizzate all’istruzione, alla sanità e all’assistenza sociale). Ora tutto è cambiato. Stiamo precipitando in fretta nel gorgo di una doppia “militarizzazione”. C’è una militarizzazione degli Stati. E la prova - molto più che nelle baruffe chiozzotte tra i 5Stelle di Conte e il governo Draghi sull’aumento delle spese militari fino al 2 per cento del Pil - sta nella svolta storica della Germania, dove il mite Scholz investe 100 miliardi di euro in armamenti e rompe un tabù tedesco che pareva imperituro e inviolabile. Comincia l’era del riarmo, e questo riguarderà pro-quota non solo l’Europa, non solo l’Occidente, ma il pianeta intero. Lo esigono i bisogni di sicurezza degli Stati (equamente distribuiti, dai Balcani all’Artico e dal Mediterraneo al Pacifico). Lo pretendono i budget del “complesso militare-industriale” (principalmente americano, come insegnò Dwight Eisenhower nel ‘61, ma non solo americano). Ma c’è anche una militarizzazione del pensiero. Riprendo il filo dei ragionamenti sviluppati da Maurizio Maggiani sul nostro giornale. Solo in Italia si gioca il penoso campionato delle curve ultrà, i filo-russi contro gli anti-russi. Solo nel Belpaese impazza la caccia rancorosa e ossessiva al virus putinista, officiata da maitre-a-penser che sdottoreggiano su cattedre per lo più auto-attribuite e poi escono a cena. Solo nei talk show, social network e giornali tricolori si praticano tamponi a strascico per capire chi l’ha contratto e chi no. Non sto parlando delle ubriacature mediatiche (Orsini e i suoi vaneggiamenti sui bambini) o delle impuntature ideologiche (l’Anpi e i suoi veti d’antan alle “bandiere della Nato”). Sto parlando di tutti gli altri. Ormai basta dire che l’Europa ha il dovere morale di raccogliere la richiesta d’aiuto di Zelensky, e sei subito “un maggiordomo di Biden”. Per contro, basta sostenere che dopo la Caduta del Muro l’Occidente si è illuso della sua autosufficienza, e sei subito “l’utile idiota di Putin”. Come scrive Maggiani, i nostri “intellettuali” sembrano reclamare soltanto “un posto di rilievo nello stato maggiore”. Con ardore e furore, cercano i trasgressori della “consegna morale del patriottismo”. Di fronte alla guerra, non c’è tempo per pensare. “E’ il momento della semplicità, perché semplice è la questione: o con noi, o contro di noi”. Dobbiamo dire no a questa “militarizzazione del pensiero”. Che ha finito per travolgere persino la Via Crucis di Bergoglio. Anche lui “colpevole di equidistanza”, per aver voluto riunire sotto l’unica croce di Cristo una donna ucraina e una donna russa. Persino questo, nel Venerdì di Pasqua, è sacrilego agli occhi dei nostri “venerati maestri” con l’elmetto. Da laici, avremmo tanti dubbi e tante domande da rivolgere al Capo della Chiesa. A che serve pregare di fronte a tanto orrore, Santo Padre? Perché non va a Kiev, a levare le braccia al cielo per fermare le bombe? Ma accusarlo perché fa il Papa - incarnando la “teologia” contraria a un potere che ci impone la guerra, di cui ha scritto Vito Mancuso ieri - questo è troppo. È rimasto solo lui, a invocare la pace. Oltre il soglio di Pietro, i potenti della Terra hanno ormai smesso di farlo. Appello di Mattarella per la pace di Claudio Tucci Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2022 Messaggio del Capo dello Stato al Papa. “Lo spirito pasquale rinnova nelle coscienze l’invito a mantenere viva la speranza e saldo l’impegno per una pace fondata sulla giustizia, mentre il messaggio che Vostra Santità instancabilmente diffonde a difesa della dignità della persona costituisce per tutti, credenti e non credenti, una feconda fonte di ispirazione all’impegno per l’altro e verso l’altro”. È un passaggio del messaggio che Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato a Papa Francesco per la Pasqua. Sono circa 50mila i fedeli presenti a Piazza San Pietro per la Messa di Pasqua presieduta da Papa Francesco. Tempo di profonda inquietudine - “Santità, nella festività della Santa Pasqua - scrive Sergio Mattarella - mi è gradito rivolgerLe, a nome del popolo italiano e mio personale, sentiti e cordiali voti augurali. In questo tempo di profonda inquietudine i più fondamentali diritti umani vengono tragicamente calpestati, in Ucraina così come in molte altre regioni del mondo. La guerra di aggressione, somma negazione di quegli imprescindibili vincoli di fratellanza sui quali si fonda l’umana convivenza, continua in queste settimane a seminare lutti indicibili, a separare famiglie, a violare l’innocenza dei più piccoli e fragili”. Appello a rifuggire dalla violenza - Mattarella ha poi proseguito: “Con il vivo auspicio che l’appello a rifuggire dalla violenza possa essere accolto dall’intera famiglia umana - e nello spirito di profonda amicizia che unisce l’Italia alla Sede Apostolica - Le rinnovo le espressioni della massima considerazione per il Suo alto Ministero, pregandoLa di accogliere gli auguri di tutti gli italiani e miei personali per la Santa Pasqua e per l’ormai prossima ricorrenza del Suo onomastico”. Papa: pace possibile e doverosa, responsabilità di tutti - La pace è “possibile”. È quanto è tornato a dire il Papa nel messaggio Urbi et Orbi. “Ogni guerra porta con sé strascichi che coinvolgono tutta l’umanità: dai lutti al dramma dei profughi, alla crisi economica e alimentare di cui si vedono già le avvisaglie. Davanti ai segni perduranti della guerra, come alle tante e dolorose sconfitte della vita, Cristo, vincitore del peccato, della paura e della morte, esorta a non arrendersi al male e alla violenza. Lasciamoci vincere dalla pace di Cristo! La pace è possibile, la pace è doverosa, la pace è primaria responsabilità di tutti!”. “Basta mostrare i muscoli mentre la gente soffre” - Il Papa chiede quindi di smetterla “di mostrare i muscoli mentre la gente soffre”. “Chi ha la responsabilità delle Nazioni ascolti il grido di pace della gente. Ascolti quella inquietante domanda posta dagli scienziati quasi settant’anni fa: Metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?’”, ha detto citando il Manifesto Russell-Einstein del 1955. Pregando per la pace in tutto il mondo, Papa Francesco ha detto: “Sia pace per il Medioriente, lacerato da anni di divisioni e conflitti. In questo giorno glorioso domandiamo pace per Gerusalemme e pace per coloro che la amano, cristiani, ebrei e musulmani. Possano israeliani, palestinesi e tutti gli abitanti della Città Santa, insieme con i pellegrini, sperimentare la bellezza della pace, vivere in fraternità e accedere con libertà ai Luoghi Santi nel rispetto reciproco dei diritti di ciascuno”. Francesco ha ricordato che “abbiamo alle spalle due anni di pandemia, che hanno lasciato segni pesanti. Era il momento di uscire insieme dal tunnel, mano nella mano, mettendo insieme le forze e le risorse... E invece stiamo dimostrando che in noi non c’è ancora lo spirito di Gesù, c’è ancora lo spirito di Caino, che guarda Abele non come un fratello, ma come un rivale, e pensa a come eliminarlo”. Il mondo diviso di nuovo in due blocchi (su Putin) di Federico Rampini Corriere della Sera, 18 aprile 2022 Le motivazioni dei “non allineati filo-russi” nel terzo millennio sono variegate. Ma di fatto la maggioranza sostiene la posizione della Russia in Ucraina. Il leader di un grande Paese africano ha scritto su Twitter: “La maggioranza dell’umanità, che non è bianca, sostiene la posizione della Russia in Ucraina”. È una verità sgradevole ma incontestabile. Corrisponde alla mappa dei Paesi che non applicano sanzioni economiche contro Mosca. Vi figurano la maggior parte dell’Asia, Medio Oriente incluso; Africa e America latina. La Russia viene trattata come un partner rispettabile dentro quello che fu definito come il club dei Paesi emergenti, l’alternativa al G7, cioè i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica). Un membro della Nato, la Turchia, si dissocia dalle sanzioni; così come Israele e l’Arabia Saudita che pure godono da decenni di aiuti militari americani essenziali. La più grande delusione per Joe Biden su questo fronte viene da Delhi. Il governo nazionalista indù di Narendra Modi stava proseguendo un avvicinamento strategico verso gli Stati Uniti in funzione anti-cinese; però non se l’è sentita di guastarsi i rapporti con l’altra superpotenza vicina, la Russia. Quando descriviamo un Vladimir Putin isolato dovremmo aggiungere: rispetto a noi occidentali, più qualche alleato di ferro dell’America come Giappone Corea del Sud Australia. L’insieme della coalizione pro Ucraina che applica sanzioni rappresenta pur sempre la maggioranza del Pil mondiale; ma non la maggioranza delle nazioni né tantomeno della popolazione. E se sono vere le proiezioni sul futuro del pianeta - economico, demografico - il “mondo del terzo millennio” sta dall’altra parte, non dalla nostra. Questa divisione può sembrare un ritorno al passato. Nella Prima guerra fredda ci fu un movimento dei “Paesi non allineati”, detto anche Terzo mondo perché rifiutava di schierarsi con uno dei due blocchi. Più spesso le sue simpatie andavano all’Unione sovietica - fu il caso dell’India di Nehru e Indira Gandhi - sia per l’appoggio ricevuto nelle battaglie anti-coloniali, sia per l’attrazione verso l’economia socialista. Oggi l’apparenza di neutralità o equidistanza si traduce in una complicità con Putin, che può evadere le sanzioni cercando partner economici alternativi all’Occidente. Non sarà indolore, ma i precedenti dell’Iran o del Venezuela insegnano che i regimi sanzionatori si possono aggirare. Le motivazioni dei “non allineati filo-russi” nel terzo millennio sono variegate. Alcune sono geopolitiche e opportunistiche: l’India per decenni ha comprato armi made in Russia; sul mercato degli armamenti, condannato come peccaminoso qui in Occidente, le superpotenze autoritarie aumentano la penetrazione. Più in generale quello che un tempo chiamavamo Terzo mondo è stato oggetto di grandi attenzioni da parte di Pechino e anche di Mosca, con investimenti sostitutivi dei nostri. L’Occidente ha favorito la diffusione di un vasto risentimento post-coloniale nei propri confronti. Buona parte delle classi dirigenti africane si sono formate nelle università americane inglesi e francesi dove la dottrina dominante impone il processo all’Occidente, descritto come l’unico colpevole di tutte le sofferenze dell’umanità: colonialismo, imperialismo, aggressione, sfruttamento, saccheggio di risorse. Il fatto che questo processo sia a senso unico rende le élite terzomondiste culturalmente impreparate ad affrontare gli imperialismi altrui: cinese, russo, turco-ottomano o persiano che siano. La formazione anti-occidentale assorbita in Europa o negli Stati Uniti costituisce anche un alibi prezioso: le élite corrotte e predatorie dei Paesi poveri in nome dell’anti-colonialismo respingono le critiche sui diritti umani o sul malgoverno. L’Occidente ha accumulato scheletri negli armadi. L’invasione dell’Iraq nel 2003 fu motivata da menzogne spudorate; le vittime civili delle bombe, i crimini commessi a Guantanamo o Abu Ghraib contro i prigionieri sono ancora freschi nella memoria. L’America sprigionò subito degli anticorpi: le piazze delle sue città traboccavano di manifestazioni contro George W. Bush; poi Barack Obama vinse le elezioni del 2008 anche perché si era opposto a quella guerra. Oggi chi ricorda le infamie dello Zio Sam lo fa per praticare un’equidistanza morale che assolve i crimini di Putin. E non è solo l’America a subire questo trattamento. Nell’Africa francofona in seguito a diversi colpi di Stato sono stati cacciati i militari francesi e al loro posto sono state chiamate forze russe. Torna di moda lo slogan à bas la France, anche se di recente la sua presenza militare fungeva da bastione contro le milizie jihadiste. Di fronte a queste diffuse ostilità l’Occidente non si difende, arretra. Non esiste un’alternativa americana o europea alle Nuove Vie della Seta con cui la Cina costruisce infrastrutture essenziali in Asia e in Africa. In molte liberaldemocrazie, le politiche della cooperazione sono sotto accusa: per il pericolo della corruzione, o perché le grandi opere non sono abbastanza rispettose dell’ambiente. Fondo monetario internazionale e Banca mondiale hanno subito dei processi ideologici, denunciati come strumenti finanziari dell’imperialismo bianco. Il risultato è aver abbandonato molti Paesi emergenti all’avanzata di istituzioni alternative, come la banca asiatica per le infrastrutture che ha la cabina di regìa a Pechino. Gli investimenti cinesi in Asia e in Africa non devono passare gli esami politicamente corretti sul terreno dei diritti umani, dell’ambiente, delle “quote rosa” o della rappresentanza Lgbtq nei consigli d’amministrazione. Dilagano dove noi ci ritiriamo. Infine un’attrattiva culturale cementa il nuovo fronte dei “non allineati”, di fatto indulgenti verso l’aggressione all’Ucraina. I modelli di società propugnati da Putin e Xi Jinping - per esempio la difesa della famiglia tradizionale - esercitano un’attrazione reale. La società occidentale viene vista come viziosa e decadente, in molte parti del mondo. I protestanti evangelici del Sudamerica, gli islamici dell’Africa o dell’Asia meridionale guardano con ribrezzo all’evoluzione dei costumi negli Stati Uniti, giudicandola come una sorta di decomposizione morale da basso impero. L’Occidente rischia di compiacersi prematuramente per aver messo Putin nell’angolo. L’emisfero Sud del pianeta è vittima collaterale della guerra e poi delle sanzioni, con penurie e inflazione su energia e cibo; per adesso noi non lo abbiamo ancora convinto delle nostre ragioni. Armi, gran bazar Italia: flussi di denaro per oltre 14 miliardi di euro di Carlo Tecce L’Espresso, 18 aprile 2022 Raddoppiano le operazioni bancarie di materiale bellico che entra, che esce e che transita. Roma si conferma uno snodo mondiale. Le esportazioni crescono utilizzando le procedure semplificate. Qatar è il primo cliente. Affari anche con la Cina e la Serbia (inviato esplosivo). E una piccola commessa finisce in Vaticano. Ecco tutti i numeri del 2021. La palla è tonda. A volte pure la notizia lo è. L’Italia non sarà campione del mondo in Qatar, però sappiate, se vi consola, che il Qatar è campione del mondo in Italia. Il paese del golfo Persico, meno popolato di Roma e meno esteso della Calabria, è il primo cliente dell’industria bellica italiana con 813,5 milioni di euro spesi nel 2021. Il Qatar scalza l’Egitto in cima alla classifica. Cioè una monarchia assoluta prevale su un regime militare. Il risultato è provvisorio. La competizione è serrata. L’Egitto ha ceduto la posizione ai qatarini dopo un biennio con oltre 1,8 miliardi di euro di compere in Italia (e scivola al 18esimo posto). S’era detto, mai le fregate al generale Abdel Fattah al Sisi se non le baratta con la verità sull’uccisione di Giulio Regeni. Le navi da guerra sono arrivate puntuali, la verità su chi ha massacrato e torturato il giovane italiano è imbottigliata chissà dove. Il Qatar è affezionato ai prodotti italiani. L’esercito di Doha è griffato tricolore con 7,5 miliardi di euro di acquisti dopo gli accordi con il governo di Matteo Renzi, costante e comprensivo frequentatore dei reali del Golfo. Ogni anno il governo deposita alle Camere una voluminosa relazione sulle vendite di armi - L’Espresso l’ha anticipata la scorsa settimana - in ossequio alla legge numero 185 del 1990, una serie di norme invecchiate male con una serie di divieti calpestati bene: per esempio, non cedere mezzi da guerra a stati che non tutelano i diritti umani. Ogni anno ci si indigna per qualche settimana, negli ultimi tempi basta qualche minuto, pacifisti, lobbisti, analisti, politici, ciascuno si esibisce con lievi ritocchi al proprio rodato copione. “Se non lo facciamo noi, lo fanno i francesi e i tedeschi”. “Se non lo facciamo noi, bisogna licenziare migliaia di dipendenti”. E così via. Il governo italiano ha autorizzato nel 2021 l’esportazione e l’importazione di materiale bellico per un totale di 5,340 miliardi di euro (4,821 nel 2020) di cui 4,661 miliardi in uscita (4,647 nel 2020) e 679 milioni di euro in entrata (174 nel 2020). I 14 miliardi di euro del 2016 (di cui metà erano caccia europei per il Kuwait) fanno ancora emozionare i lobbisti, epoche ricche, ma le premesse sono tornate buone. Gli affari crescono se li traina la paura. E la guerra in Ucraina fa correre la paura. I trenta membri Nato stanno per rovesciare sul banco decine di miliardi di euro. Si chiama fase espansiva. Spaventa, però il ruolo della paura l’abbiamo capito. I vincoli rallentano, le leggi respingono. Invece l’Italia ha bisogno di “semplificare”, che parola, la solita parola, sempre evocata dai governi, promessa per la burocrazia, chimera per i cittadini. Con le armi funziona già. Trasferire una flotta di aerei da combattimento ai dittatori del Turkmenistan - è successo - è complicato e addirittura sfiancante per i servizi commerciali e logistici, attivare le “licenze globali e generali”, non le “licenze individuali”, è molto più comodo. La “semplificazione” fu introdotta fra il 2016 e il 2017. Il governo se ne vanta nel documento inviato ai parlamentari: “Rispetto al 2020 si è registrato un calo del 7,1 per cento del valore delle autorizzazioni individuali nonostante l’incremento (da 2.054 a 2.189) dei provvedimenti rilasciati. Questa diminuzione è compensata dal numero delle licenze globali e generali, le quali confermano la tendenza di crescita dei valori dei materiali esportati già osservata negli anni precedenti e riconducibile al fatto che tali autorizzazioni rappresentano uno strumento di semplificazione. Nel 2021 il loro valore cumulativo è stato di 922 milioni di euro”. L’Italia è un luogo parecchio battuto per lo smercio di forniture militari, lo si evince dalle analisi del ministero del Tesoro: “Nel corso del 2021 sono state effettuate dagli operatori bancari - si legge nel documento - 17.931 comunicazioni inerenti a transazioni bancarie per operazioni di esportazione, importazione e transito di materiali di armamento per un importo complessivamente movimentato pari a oltre 14 miliardi di euro”. E armi o pezzi di armi o comunque qualcosa che fa o può fare guerra avevano come destinazione l’Africa più povera, la temuta Cina e l’Ucraina. Nel 2020 erano 7,8 miliardi. Raddoppiati. Ci si deve abituare a intense relazioni con i governi non democratici. Roma fabbrica armamenti di pregevole qualità e fa parte di diversi consorzi europei. Gli interessi di Stato sono troppi per fronteggiare questioni di coscienza. Oggi l’emergenza è il gas. Va cercato altrove per non finanziare la Russia. Il Qatar è disponibile con Roma. La consuetudine incide. Il discorso è cinico, ma è soprattutto politico. La delegazione degli Esteri col ministro Luigi Di Maio ha ricevuto una calorosa accoglienza a Doha. Il metano liquefatto (Gnl) già viene stoccato nel mar Adriatico davanti alle coste di Porto Levante in provincia di Rovigo. Su un’isola artificiale, il rigassificatore, di proprietà degli americani di Exxonmobil, azionisti di minoranza Qatar Petroleum, quota simbolica agli italiani di Snam. Il piccolo emirato contribuisce con 6,5 miliardi di metri cubi di gas al fabbisogno italiano di 75 miliardi e la Farnesina ne ha recuperati altri 2 per l’avvenire. In perfetto equilibrio, nei giorni scorsi con una cerimonia allo stabilimento di Tessera a Venezia, la multinazionale italiana Leonardo ha consegnato ai qatarini una coppia di elicotteri navali Nh90 modello Nfh. La famiglia Al Thani ne ha ordinati una dozzina e ha in dotazione da dicembre un esemplare (e ne mancano 15) della versione terrestre Tth. Questa commessa è del gruppo Nhindustries che ha per capofila Leonardo con francesi, tedeschi e olandesi. Il contratto da 3 miliardi di euro per la multinazionale italiana fu sottoscritto il 14 marzo 2018, una data sospesa fra le elezioni che punirono il centrosinistra e la formazione del governo di Lega e Cinque Stelle. Per il Qatar di Tamim bin Hamad al Thani, isolato dai vicini del Golfo, accusato di legami con gli estremismi islamici, protagonista discreto e però influente in Libia, mecenate di squadre di calcio come il Paris Saint Germain e il Manchester City e organizzatore di eventi come il controverso mondiale di quest’anno, la partita di elicotteri fu l’epilogo della travolgente intesa con l’Italia maturata col renzismo. In quel periodo i qatarini hanno investito in alberghi di lusso, immobiliare, trasporti, imprese, sanità e nel mentre - giugno 2016 - hanno firmato con Fincantieri un appalto da 4 miliardi di euro per 4 corvette, 2 pattugliatori, una nave anfibia. Il patto di cooperazione militare tra Italia e Qatar fu stretto col governo Berlusconi (2010), ma fu la politica dem Roberta Pinotti, ministra della Difesa nei governi di Renzi e di Paolo Gentiloni, a soddisfare le richieste di Doha. Fincantieri e Leonardo dovranno assistere a lungo le forze armate del Qatar. I 7,5 miliardi di euro accumulati fin qui verranno ritoccati all’insù nei prossimi anni. Questo non impedisce a Roma di intrattenere lo stesso tipo di rapporti, di certo più laschi, con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Il tributo alla pubblica opinione (e al pubblico pudore) si è già consumato. Il governo Draghi, dopo una risoluzione votata dal Parlamento, ha bloccato le forniture di missili e bombe dirette in Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita perché impiegati nel conflitto nello Yemen. Il provvedimento ha cancellato 328 milioni di euro di introiti e colpito la filiale sarda dell’azienda tedesca Rwm. Da lì venivano spediti i rifornimenti per gli arabi dopo le concessioni di Palazzo Chigi nel 2016/2018. Un traffico non più tollerabile verso il regno di Riad del giovane principe Mohammad bin Salman, considerato il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Nessuno se n’è risentito. La casa reale ha prenotato da Leonardo 9 elicotteri AW139 e altri 16 per la società statale The Helicopter Company, li vogliono per utilizzi civili. Lo scorso anno emiratini e sauditi, inoltre, hanno ottenuto il nullaosta per 52 licenze di esportazioni militari per oltre 100 milioni di euro. Un terzo delle vendite italiane è concentrato in Nord Africa e in Medio Oriente. Però sul podio col Qatar ci sono Stati Uniti (762 milioni di euro) e Francia (305). Da segnalare il Pakistan quinto (203), le Filippine ottave (98). Leonardo ha il 43,4 per cento del mercato, seguono Iveco Defence Vehicles col 23,4 che fa riferimento a Exor della famiglia Agnelli/Elkann (proprietaria anche del gruppo editoriale Gedi), Mbda Italia con il 5,3 e Ge Avio con il 3,8. Nel 2021 le importazioni hanno raggiunto 678 milioni di euro, un picco mai neppure sfiorato in passato. I numeri sono parziali perché non conteggiano le operazioni con gli alleati europei e di recente assorbono i fuoriusciti della Gran Bretagna. A parte i 227 milioni di euro pagati a Londra, l’Italia ha acquistato materiale bellico da Stati Uniti (216 milioni), Canada (84), Svizzera (63). Grave apprensione in Europa per la Cina che ha inviato un carico di missili alla Serbia, da sempre incline al fascino di Mosca. Forse può consolare sapere che Pechino ha spedito in Italia strumenti militari per 3,9 milioni di euro e che Belgrado ha sbrigato commesse per altri 3,3 milioni. E infine che Roma ha girato in Serbia esplosivo per 320.000 euro. Pure il Vaticano ha garantito il suo obolo all’industria bellica, circa 30.000 euro in due anni per equipaggiamenti di protezione e apparecchiature per la direzione del tiro. Per centrare la pace, ovvio. I dubbi sulla vendita di armamenti italiani all’Arabia saudita di Futura D’Aprile Il Domani, 18 aprile 2022 La relazione sull’export bellico italiano consegnata alcuni giorni fa al parlamento conferma un dato ormai noto: l’Italia vende materiale militare a paesi che non rispettano i diritti umani o coinvolti in conflitti. Qatar, Emirati, Turchia ed Egitto sono solo alcuni dei nomi che si ritrovano nell’elenco dei primi venti paesi con cui facciamo affari, nonostante l’esistenza di una legge che pone limiti stringenti alla vendita di armamenti. Almeno in teoria. In questo elenco figura anche l’Arabia saudita, paese alla guida della coalizione attiva in Yemen dal 2015 e in cui un mese fa sono state eseguite ben 81 condanne a morte in un solo giorno. Un record per una monarchia più volte accusata dalle organizzazioni internazionali di violazione dei diritti umani. Nonostante ciò, secondo quanto riportato nella relazione riferita al 2021, all’Arabia sono state concesse licenze per l’acquisto di aeromobili, munizioni, bombe, siluri, missili e razzi, insieme ad apparecchiature elettroniche e per la direzione del tiro per un totale di 47 milioni di euro. Ma qualcosa nella relazione sembra non tornare. In uno dei due volumi che compongono la relazione risulta che nel 2021 l’Arabia saudita abbia effettuato un pagamento pari a 21 milioni alla Simmel difesa, azienda italiana con sede a Colleferro (Roma) che produce munizioni di vario tipo e calibro, testate per missili antiaerei terra-aria Aster, spolette e polveri da lancio. La transazione fa riferimento ad un’autorizzazione rilasciata dall’Autorità competente nel 2021, ma di questa licenza sembra non esserci traccia nella relazione presentata dal governo alle Camere. Una mancanza confermata anche da Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale di armamenti e armi leggere per l’Opal e la Rete per il disarmo, che nota come nessuna delle 35 autorizzazioni concesse alla Simmel possa essere collegata al pagamento effettuato dall’Arabia. A sorprendere è anche un altro dato. “Secondo quanto riportato dall’Agenzia delle dogane”, spiega Beretta, “nel 2021 la Simmel non avrebbe effettuato alcuna consegna all’estero, pur avendo ricevuto autorizzazioni all’esportazione per un valore di 95.050.406 euro nel 2021, di 24.867.085 nel 2020 e 35.624.511,40 nel 2019 e 27.656.443 nel 2018”. L’invio del materiale di cui si è ottenuta la licenza all’export viene solitamente effettuata in un arco di tempo che supera l’anno di riferimento dell’autorizzazione, ma stando alla relazione del 2021 sembra che la Simmel non abbia effettuato alcuna consegna. Come nota Beretta, o per un anno l’azienda italiana non ha effettivamente esportato alcun tipo di materiale, oppure il dato non è stato correttamente riportato nella relazione per una mancanza della stessa Simmel o dell’Agenzia delle dogane. Le vendite a Riad - Eppure i prodotti dell’azienda di Colleferro non rientrano tra quelli finiti nel mirino del governo Conte II, che a gennaio del 2021 stabilì la revoca delle autorizzazioni per l’esportazione di bombe d’areo e missili concesse alla Rwm tra il 2016 e il 2018. La decisione fu presa sulla base di una risoluzione del parlamento che impegnava l’esecutivo a sospendere le esportazioni di prodotti che potevano essere utilizzati per colpire la popolazione civile dello Yemen fino a quando non vi fossero stati sviluppi concreti nel processo di pace. Ad oggi però sono stati fatti ben pochi passi avanti verso la risoluzione del conflitto, da qui la protesta di alcuni parlamentari contro la concessione di autorizzazioni verso l’Arabia saudita per “bombe, siluri, razzi, missili ed accessori”. Secondo quanto riportato dal Fatto Quotidiano, che cita una fonte accreditata, le licenze farebbero riferimento a pezzi di ricambio e siluri navali, quindi a prodotti la cui vendita è consentita dalla risoluzione delle Camere, ma sono già state annunciate interrogazioni parlamentari in merito all’export verso l’Arabia. La relazione infatti non basta per sapere con certezza a che materiali di armamento facciano riferimento le singole autorizzazioni, con effetti negativi anche sulle capacità di controllo che spettano per legge al parlamento. Il porto di Genova - Ma a legare l’Italia e l’Arabia saudita è anche il porto di Genova. Più o meno ogni venti giorni dallo scalo ligure passa una delle sei navi della compagnia saudita Bahri, già carica di armamenti prodotti negli Usa o diretta verso le coste del nord America per ritirare i prodotti militari acquistati dalla monarchia. L’ultimo attracco risale a pochi giorni fa, quando a Genova ha fatto scalo la Bahri Jeddah con a bordo carri armati M1 Abrams e container con munizioni ed esplosivi. A rivelare il contenuto della nave sono stati ancora una volta i portuali del Collettivo autonomo (Calp) che si oppongono al transito di armamenti per il porto ligure sulla base della 185/90. La legge infatti vieta tanto la vendita quanto il transito di materiale bellico verso paesi che non rispettano i diritti umani o coinvolti in un conflitto, ma non sempre viene rispettata. Tunisia, venti di rivolta: “Le scorte di grano bastano fino a giugno” di Arianna Poletti La Repubblica, 18 aprile 2022 “Non compriamo più le verdure, la carne, il pesce. Possiamo rinunciare a tutto, ma non al pane. Senza il pane, siamo un paese finito”, racconta Marwa, una professoressa di arabo di 33 anni. Undici anni fa, anche lei è scesa in piazza per chiedere la caduta del regime di Ben Ali. Oggi non ha cambiato idea, ma rivendicare la democrazia non è più la sua priorità: “Non importa se c’è o non c’è un Parlamento. Oggi l’importante è che il presidente risolva la crisi alimentare che sta vivendo il paese. Non vogliamo trasformarci nel prossimo Libano”. Anche qui, la tv mostra le immagini delle città ucraine distrutte dalla guerra. Gli effetti della guerra si fanno sentire anche in Tunisia e ogni mattina le code di fronte alle panetterie si allungano sempre di più. Nel paese maghrebino, dove nel 2011 si scendeva in piazza impugnando simbolicamente una baguette per chiedere più giustizia sociale, oggi il grano è diventato un bene di lusso. C’è sempre meno pane. Il paese produce circa metà del proprio fabbisogno di cereali. Il restante proviene proprio dall’Ucraina (48,5%) e dalla Russia (4%). “Abbiamo scorte di grano duro fino a fine maggio 2022, di grano tenero fino a giugno 2022”, ha dichiarato in un comunicato il Ministero dell’Agricoltura. Poi, la Tunisia dovrà aggiungersi alla lunga lista dei paesi di Medio Oriente e Nord Africa alla ricerca di nuovi fornitori sul mercato internazionale. Intanto, però, i prezzi aumentano e il timore di nuovi movimenti sociali è dietro l’angolo. La Tunisia ha già vissuto le sue “rivolte del pane”. Nel dicembre del 1983, dopo l’annuncio del governo di meno sovvenzioni su beni di prima necessità come farina e semola e l’aumento dei prezzi, il paese si è riversato in piazza. Secondo gli analisti internazionali, è quello che potrebbe accadere nei prossimi mesi se il prezzo di mercato del grano rimane quello attuale: circa 400 euro a tonnellata. Un costo che un paese in piena crisi economico-finanziaria non può sostenere. Lo Stato sta faticando a pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici. Per chiudere il bilancio del 2022, il governo è tornato a negoziare con il Fondo Monetario Internazionale, che in cambio di nuovi aiuti chiede riforme impopolari: il taglio delle sovvenzioni statali su beni di prima necessità come farina e semola. A Sidi Bouzid, la città dove ha avuto inizio la rivoluzione del 2011, si sono già verificate le prime tensioni durante lo scarico della farina a mercati e supermercati. “Oggi il pane è rimasto uno dei pochi beni a basso presso, fondamentale per le fasce più vulnerabili della popolazione”, spiega Layla Riahi dell’Osservatorio Tunisino dell’Economia. “Per l’impennata dell’inflazione, la popolazione tunisina ha perso il suo potere d’acquisto”. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, l’indice del prezzo al consumo è aumentato del 78% tra il 2011 e il 2021. “Prima la mia famiglia sopravviveva con un solo stipendio, quello di mio padre. Oggi lo stipendio di tre figli non riesce a garantire una vita degna ai miei genitori”, spiega Marwa, originaria di Hay Hlel, quartiere popolare della periferia di Tunisi. Ogni mattina, anche Marwa si mette in coda di fronte alla panetteria dove si trova ancora qualche baguette di grano duro. Afghanistan, arresti e minacce contro i giornalisti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 18 aprile 2022 Con i nuovi ordini la repressione è peggiorata “soprattutto dall’inizio del 2022, e - scrive Reporter sans Frontieres - sta instillando un clima di paura e preoccupazione nelle redazioni”. Si moltiplicano le denunce contro le restrizioni dei diritti che il governo talebano continua a imporre alla società dell’Afghanistan. L’ultima in ordine di tempo riguarda la libertà di stampa. In febbraio, ha scritto Reporter sans Frontieres al neonominato inviato Onu per i diritti umani Richard Bennett, il viceministro all’Informazione Zabihullah Mujahid aveva confermato che la legge sulla stampa promulgata nel marzo 2015 era ancora in vigore. Ma poi il 28 marzo ha vietato la trasmissione sui canali privati dei mezzi di informazione internazionali Voa, Bbc e DW in lingua locale (dari, pashto e uzbeko). Il ministero si è giustificato per via di un problema… nell’abbigliamento delle giornaliste. Con i nuovi ordini la repressione è peggiorata “soprattutto dall’inizio del 2022, e - scrive Rsf - sta instillando un clima di paura e preoccupazione nelle redazioni”. Sono aumentate minacce e arresti arbitrari mentre la nuova intelligence talebana può vietare trasmissioni e programmi o recarsi direttamente in redazione e arrestare giornalisti o impiegati. Secondo Rsf, tra il 15 agosto 2021 e il 4 febbraio 2022, almeno cinquanta professionisti dei media sono stati arrestati dalla polizia e dai servizi di intelligence locali. Rsf chiede dunque a Bennet di sollevare la questione della natura arbitraria di questi arresti: ai sensi della legge sulla stampa del 2015 infatti, la polizia segreta non ha il diritto di intervenire direttamente negli affari dei media o di arrestare i giornalisti prima che si sia espressa la Commissione per l’accertamento dei reati mediatici. Commissione che però, nonostante le promesse del governo talebano, non è mai stata istituita. L’istituzione della Commissione è una richiesta più volte ripetuta dai giornalisti dell’Afghanistan, Paese che, nell’edizione 2021 del World Press Freedom Index, si trovava al 122° posto su 180 Paesi. Rischia ora di essere assai più in basso. A occuparsi della protezione dei giornalisti e della produzione editoriale in Afghanistan è stato intanto istituito l’anno scorso un fondo dall’Unesco che dovrebbe garantire posti di lavoro ma anche negoziato col governo talebano. Per ora ci sono solo 2 milioni e mezzo di euro in arrivo dall’Unione europea ma si tratta di una somma ancora insufficiente per garantire che i progetti, già elaborati da gruppi di giornalisti e giornaliste afgane, possano camminare con gambe solide.