Oltre le sbarre: quella zona d’ombra che accomuna democrazie e regimi autoritari di Christian Raimo La Stampa, 17 aprile 2022 Cresce il dibattito su come riformare il sistema carcerario e alcuni studiosi teorizzano la sua abolizione. Quella del carcere è una metafora che spesso usiamo nelle nostre conversazioni personali, nei nostri dibattiti pubblici, per definire qualcosa di osceno, spregevole, infernale: questa vita mi sembra una galera, questa scuola è un carcere, questa stanza d’ospedale sembra una cella. Eppure le prigioni, quelle reali, continuano a esistere, e ad aumentare; nelle carceri vivono tutti i giorni forme di esistenza contrarie al nostro senso di umanità. Il dibattito sull’abolizionismo del carcere in Italia non ha mai avuto la dignità nemmeno di un palco secondario. Eppure testi di grande valore etico e politico continuano ad uscire, e di alcuni altri se ne comprende l’importanza storica. Dovrebbe essere accolto in qualunque libreria di saggistica politica contemporanea per esempio Aboliamo le prigioni? di Angela Davis. Lo ha appena ripubblicato minimum fax (la traduzione è di Giuliana Lupi) ed è la raccolta di due testi rispettivamente del 2003 e del 2005. Davis ricostruisce la storia prossima di quello che definisce il “complesso carcerario-industriale” statunitense: dagli Anni 80 reaganiani la popolazione detenuta americana è progressivamente aumentata - oggi siamo oltre due milioni e mezzo di persone, un cittadino Usa su 120 è dietro le sbarre - costituendo un settore fondamentale dell’economia capitalista. Angela Davis è stata riconosciuta in questi ultimi anni come una delle maggiori intellettuali sul Pianeta - il suo testo Donne, razza, classe del 1981 è giustamente considerato un classico contemporaneo e un riferimento imprescindibile per i movimenti politici di oggi - ma non si comprende a pieno la sua statura se si pensa che la sua riflessione sul carcere sia minore e non paradigmatica nel rendere Davis un’autrice cardinale del pensiero del nuovo secolo. La prima edizione di Aboliamo le prigioni? conteneva una postfazione - anche questa ristampata - di Guido Caldiron e Paolo Persichetti sul welfare del populismo penale: un argomento quasi mai affrontato con analisi, quello dell’indotto generato dal lavoro gratuito dei detenuti. Nella nuova edizione è aggiunta anche una postfazione di Valeria Verdolini, che ha diverse qualità. Mostra come interrogarsi sul carcere vuol dire sempre interrogarsi su di noi, sul nostro privilegio e sul nostro rapporto con il potere, se il carcere è la forma prototipale dell’istituzione repressiva, ma anche della discriminazione, del margine, dello stigma: “Il carcere è un elemento comune sia alle democrazie che alle forme autoritarie, spesso ne è elemento distintivo, ed è orizzonte di relazione e parte del meccanismo di funzionamento e di gestione del corpo sociale”. La natura del carcere è riprodotta sempre identica a sé stessa, tale per cui per provare a ragionare criticamente bisogna indagarne i suoi elementi costitutivi singolari, altrimenti ci sembrerà davvero di avere a che fare con una natura immutabile. Verdolini ha anche da poco pubblicato un libro per Carocci L’istituzione reietta, che è un testo utilissimo per molte ragioni, compresa la fluviale e aggiornatissima bibliografia di riferimento sul carcere, dalla quale si può partire per formarsi. Tra le molte citazioni ce n’è una particolarmente illuminante: “La forma del sistema carcerario è simile a una forma d’arte come il cinema: si possono eliminare le imperfezioni (usando ad esempio attrezzature più complesse), si possono apportare innovazioni tecniche (il colore o la tridimensionalità), è possibile anche compiere certe esperienze estetiche radicali (come il surrealismo e il cinema-verità), ma la forma rimane intatta”. È presa da un saggio di Stanley Cohen contenuto in un’antologia a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro, Crimini di pace, e rischiara una delle ragioni per cui il carcere è così difficile da mettere in discussione: la sua forma, la sua estetica verrebbe da dire, è così sclerotizzata che ripensarla diventa inimmaginabile. Un esercizio possibile utile, allora, è moltiplicarne le narrazioni, e a questo scopo ci possono aiutare due libri anche questi usciti da poco. Il primo l’ha scritto Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio con i radicali, per People, s’intitola Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere, ed è un viaggio all’interno delle carceri del Lazio che l’autore ha deciso di intraprendere accompagnato da Federica Delogu e Federica Salvati tra il 2 maggio 2018 e il 7 dicembre 2021; la maggior parte dei luoghi sono stati visitati più volte. Il periodo raccontato da Capriccioli comprende sia la vita prima che durante la pandemia, ed è straziante riconoscere come per il carcere non muti molto rispetto alla condizione standard: nelle visite al Mammagialla di Viterbo o a Regina Coeli assistiamo al paesaggio infinito di un’umanità piegata alla sua stessa alterazione. Il carcere è carcerogenico: non lo dicono solo le statistiche sulle reiterazioni dei reati, ma è evidente per come tutto ciò che resiste al processo di disumanizzazione del carcere sembra un’eccezione al sistema detentivo, che invece prevede come effetti collaterali già messi a bilancio una certa quota di atti di autolesionismo, un’altra quota di suicidi, etc… Leggendo dei libri sul carcere, provando a riconoscere delle storie in un sistema che anche da un punto di vista dello scorrere del tempo sembra disumano, si insinua in noi la possibilità che occorrerebbe realizzare in maniera più strutturale una relazione tra carcere e narrazione. In tutta Italia ci sono molti laboratori di scrittura anche nelle carceri, e per capirne la loro preziosità possiamo leggere Letteratura d’evasione, libro uscito anche questo da poco a cura di Ivan Talarico e Federica Graziani con una prefazione di Alessandro Bergonzoni e Luigi Manconi, che hanno condotto un laboratorio al carcere di Frosinone. I racconti di El Mehdi Belaabdouni, Raffaele Borrelli, Abdel Hadi Bousmara, Andrea Ciufo, Alfredo Colao, Pjetri Gjergj, Ermal Gripshi, Andrea Lombardi, Emanuel Mingarelli, Stefano Palma, Christian Pau, Omar Saidani, Mohamed Shoair, Antonio Vampo ci inducono a concludere che la potenza della riflessione, della presa di coscienza, ma anche l’esercizio di stile intorno a un moloch sempre identico a sé stesso consente a noi che stiamo fuori e a quelli che sono dentro di ritrovarsi in un altrove comune. L’incognita del referendum sulla giustizia pesa sul centrodestra di Giulia Merlo Il Domani, 17 aprile 2022 Parallelamente all’attività in parlamento, la Lega si sta preparando anche a un’altra data importante per la giustizia: il 12 giugno, il giorno del ballottaggio alle elezioni amministrative, si voterà infatti anche su cinque quesiti referendari proprio in materia penale e di ordinamento giudiziario. Nessuno nella Lega è disposto a scommettere sul fatto che i referendum raggiungano il quorum. Contro remano due fattori. Il primo è la complessità dei questi, su temi su cui non è facile mobilitare l’opinione pubblica. Il secondo è il fatto che si voti in una sola giornata. Inoltre tre quesiti referendari riguardano previsioni che saranno modificate dalla riforma dell’ordinamento giudiziario: quelli sulle firme per candidarsi al Csm, sulla separazione delle funzioni e sul voto degli avvocati nei consigli giudiziari. La riforma dell’ordinamento giudiziario arriva in aula alla Camera il 19 aprile, dopo un turbolento percorso di mediazione tra le posizioni dei partiti di maggioranza. Contiene lo stop alle cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura; la modifica della legge elettorale del Csm e una serie di novità nel metodo di valutazione dei magistrati e di nomina per i ruoli di vertice negli uffici giudiziari. L’obiettivo è quello di approvarla, in entrambi i rami del parlamento, entro maggio: in tempo per eleggere con la nuova legge i prossimi componenti del Csm. Parallelamente all’attività in parlamento, però, la Lega si sta preparando anche a un’altra data importante per la giustizia: il 12 giugno, il giorno del ballottaggio alle elezioni amministrative, si voterà infatti anche su cinque quesiti referendari proprio in materia penale e di ordinamento giudiziario. I quesiti - I quesiti ammessi sono cinque (il sesto, quello sulla responsabilità civile dei magistrati, non è stato ammesso dalla Corte costituzionale). Il primo riguarda la presentazione delle liste per candidarsi al Csm: ora un magistrato deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme, mentre il referendum chiede di abrogare questo vincolo. La ragione è che, secondo i proponenti, la raccolta di firme obbliga necessariamente il candidato a venire a patto con i gruppi associativi. Eliminandole, invece, ogni magistrato potrà liberamente candidarsi senza alcun condizionamento. Il secondo riguarda la custodia cautelare in carcere, che oggi il pubblico ministero può disporre nella fase delle indagini preliminari, nel caso in cui esistano gravi indizi di colpevolezza sommati a pericolo di fuga, pericolo di reiterazione del reato e pericolo di inquinare le prove. Il quesito referendario punta a limitare la possibilità di ricorrere alla carcerazione preventiva prima della sentenza definitiva. Il terzo prevede la separazione delle funzioni: attualmente i magistrati requirenti (i pubblici ministeri) e i giudicanti, nel corso della carriera, possono passare da un ruolo all’altro per un massimo di quattro volte. Possibilità che il referendum chiede di eliminare. Il quarto riguarda l’abrogazione della legge Severino, che prevede regole di incandidabilità, in caso di condanna anche solo di primo grado per alcune specifiche ipotesi di reato, in particolare quelle contro la pubblica amministrazione. L’ultimo, infine, prevede che, al momento della valutazione di professionalità dei magistrati dei consigli giudiziari, il voto spetti anche ai componenti laici dell’avvocatura, che oggi sono esclusi. Le mosse della Lega - I leghisti, che hanno promosso i cinque referendum insieme al partito radicale, hanno iniziato a muoversi e lo hanno fatto anche da parlamento con alcuni voti in commissione contro le indicazioni del governo. Emendamenti che ricalcavano i quesiti referendari per quella che è stata ribattezzata la “giustizia giusta”, infatti, sono stati presentati anche nel ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario e l’indicazione della Lega è stata quella di votarli, anche con la consapevolezza che non sarebbero passati perchè fuori dall’accordo di maggioranza. Anche questo fa parte del percorso di avvicinamento al voto ed è parte dei sintomi di insofferenza della Lega rispetto alla maggioranza di governo. Non a caso, il partito di Salvini ha bocciato più volte la riforma del Csm durante i vertici di maggioranza e fino all’ultimo ha minacciato di non votarla. Ancora ora, il leader ha specificato che “la riforma Cartabia non risolve i problemi della giustizia, ma è un passo avanti in attesa che gli italiani si esprimano con il referendum di giugno. Noi, cercheremo di migliorarla il più possibile, evitando di creare guai al governo”. Al netto delle schermaglie all’interno della maggioranza, tuttavia, nessuno nella Lega è disposto a scommettere sul fatto che i referendum raggiungano il quorum. Contro remano due fattori. Il primo è la complessità dei questi, su temi su cui non è facile mobilitare l’opinione pubblica. Infatti, in molti sospirano che lo scenario sarebbe stato molto diverso se “la Corte avesse ammesso anche uno solo tra i quesiti sulla cannabis o sull’eutanasia”. Il secondo è il fatto che si voti in una sola giornata: Lega e Forza Italia, infatti, hanno chiesto di prevedere la votazione in due giorni, anche il 13 giugno, come normalmente avvenuto in passato. Certo, la concomitanza con il secondo turno di amministrative potrebbe favorire l’affluenza, almeno nei comuni dove si eleggerà il sindaco, ma la speranza di raggiungere il 50 per cento dei votanti più uno è comunque molto bassa. I quesiti salteranno? Esiste però anche un’altra incognita. Tre quesiti referendari riguardano previsioni che - se il ddl verrà approvato in tempo - saranno modificate dalla riforma dell’ordinamento giudiziario: quelli sulle firme per candidarsi al Csm, sulla separazione delle funzioni e sul voto degli avvocati nei consigli giudiziari. Esiste una questione procedurale: la riforma non è tutta una legge delega al governo, ma una parte è fatta di norme immediatamente applicative. Tra queste ultime rientra la legge elettorale del Csm, che prevede l’abolizione delle firme, e dunque - a seconda di come verrà approvata la versione finale della legge - verrebbe proprio meno la parte di testo da sottoporre al referendum. Lo stesso non avviene per separazione delle funzioni e voto degli avvocati: entrambe le modifiche rientrano nella parte delegata al governo e inoltre la delega non ricalca esattamente il contenuto dei referendum. Tuttavia, dal punto di vista politico si pone comunque una questione di attualità dei quesiti. Il tema è stato sollevato dal deputato del Pd, Walter Verini, che ha sottolineato come, con la riforma dell’ordinamento giudiziario votata anche dalla Lega, “potranno venire “assorbiti” i contenuti dei quesiti di almeno tre dei referendum ammessi dalla Corte”. I comitati e i sostenitori - Ad oggi, la mobilitazione intorno ai referendum rimane comunque scarsa. Si sono formati due comitati, uno promosso dal Partito socialista italiano di Riccardo Nencini e uno - il “comitato 6G” - creato da giovani giuristi (Alfonso Maria Fimiani, Rosa Argia D’Elia, Marco Anguissola, Michele Costabile, Emma Staine e Francesco Tetro). Presente è anche il partito radicale, che si era adoperato per la raccolta firme e la presentazione dei quesiti in un inedito fronte unito con Salvini. Si attende poi, ovviamente, la mobilitazione della Lega in parallelo con le campagne elettorali locali, che però sono rallentate dal fatto che molte città sono ancora senza candidato ufficiale per il centrodestra. Sul fronte del sì al referendum, tuttavia, si sono collocati almeno due partiti: Forza Italia e Azione. Carlo Calenda ha confermato che il suo partito farà campagna per il sì, mentre per gli azzurri il leader Silvio Berlusconi ha dichiarato che “la riforma varata dal governo contiene aspetti positivi” ma può essere migliorata ed “è importante che i cittadini si possano finalmente pronunciare su un tema che li riguarda in modo diretto”. Fratelli d’Italia, invece, non sembra interessata al dibattito referendario, mentre al momento della raccolta firme aveva dato il via libera a quattro quesiti su sei, escludendo quello sulla custodia cautelare e quello sulla Severino. Anche sul referendum, quindi. il fronte del centrodestra è diviso e questo non aiuterà le già poche possibilità di raggiungere il quorum. Una riforma sbagliata che intimidisce i magistrati di Giuseppe Santalucia* L’Espresso, 17 aprile 2022 La speranzosa attesa di una riforma capace di rafforzare la fiducia nel sistema giudiziario sta ricevendo una risposta assai deludente. Il progetto di iniziativa del Governo ha perso di vista che il mestiere di magistrato è tra i più lontani dal concetto di carriera, intesa burocraticamente; e che pubblico ministero e giudice esercitano sì funzioni diverse ma appartengono allo stesso ordine, con le stesse prerogative di autonomia e di indipendenza, per non attrarre l’azione penale nell’area del Potere esecutivo. Nella Costituzione è scritto che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni! Per null’altro: non per gradi, non per supremazia gerarchica o per soggezione ad essa. Ed è sancita l’unicità del ruolo tra pubblici ministeri e giudici. La riforma in gestazione, indifferente ai principi, si muove in continuità con quelle dei primi anni 2000 a firma dei ministri Castelli prima e Mastella dopo, e ne amplifica gli aspetti critici. All’insegna di troppi luoghi comuni, del tipo “i magistrati non vogliono essere valutati” e “il pubblico ministero deve rivolgersi al giudice con il cappello in mano”, si porta avanti il completamento di un disegno che viene da lontano. Si enfatizza la regola meritocratica per avere magistrati timorosi; si invoca l’imparzialità dei giudici per giungere, di fatto, alla separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici, indebolendo così sia l’uno che l’altro ruolo. È una riforma in danno della giustizia. Il malessere della magistratura non ha motivazioni, che pure sarebbero nobili, di tipo sindacale, perché oggi è in gioco il profilo autenticamente democratico della giurisdizione. Faccio solo un esempio, sul tema più esposto alle semplificazioni per slogan, quello delle valutazioni di merito. I magistrati, già oggi e da tempo, sono periodicamente valutati, come poche altre categorie professionali. Con un facile artificio retorico si mostra stupore per il fatto che dette valutazioni non falcidino percentuali elevate di magistrati. E non si considera, o si ignora deliberatamente, che sarebbe sorprendente il contrario, come lo sarebbe apprendere che i piloti di aerei, che ci hanno condotto in giro per il mondo, alla successiva verifica attitudinale dovessero risultare inidonei e fossero privati della patente in misure percentuali consistenti. Si alimenta confusione, e ciò al fine di introdurre meccanismi di valutazione insidiosi, incentrati, assai più di oggi, sull’esito delle cause nei successivi gradi di giudizio. Si accredita come indiscutibile la premessa, falsa e fuorviante, che la riforma in Appello o l’annullamento in Cassazione significhi che il giudice, la cui decisione sia stata riformata o annullata, sia impreparato e tecnicamente scadente. Se questo progetto diverrà legge, i magistrati saranno indotti al conformismo interpretativo, pur quando ciò dovesse risultare iniquo; non proveranno a far mutare giurisprudenza, per il timore di ricadute sulle valutazioni del loro profilo professionale. Saranno impauriti, concentrati sul loro fascicolo personale e meno inclini a trattare le cause con il coraggio che a volte è richiesto per aprirsi all’ascolto di qualunque istanza di giustizia, anche la più imprevedibile. Non occorre essere profetici per immaginare che il prezzo più alto di questa improvvida riforma sarà pagato dai cittadini, da quelli meno forti che più hanno bisogno di un giudice che agisca senza timori e senza speranze di carriera. *Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Riforma Cartabia, difendiamo lo Stato di diritto contro lo strapotere delle toghe di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 17 aprile 2022 Il testo della riforma dell’ordinamento giudiziario ha subito nel tempo numerose modifiche, come è anche naturale attendersi in un percorso così accidentato e con una maggioranza così irrimediabilmente divisa proprio sulle idee di fondo della organizzazione e della amministrazione della giustizia. Al centro della riforma, come sappiamo, il sistema elettorale del Csm. Per noi penalisti si tratta di un vizio originario, bastevole a farci dire dal primo giorno che il percorso di questa riforma era anni luce lontano dalle questioni davvero cruciali che occorre invece affrontare. È pura illusione pensare che un sistema elettorale piuttosto che un altro possa restituire credibilità e forza alla magistratura italiana, considerata la gravità della sua crisi, che è crisi di credibilità della funzione agli occhi del cittadino. E perciò dal primo giorno indicavamo gli ambiti di intervento invece indispensabili: rafforzamento della terzietà del giudice; responsabilizzazione professionale del magistrato, attraverso giudizi di professionalità finalmente rigorosi e legati innanzitutto a ciò che il singolo magistrato ha fatto nella sua quotidiana attività; eliminazione di ogni assurda commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo, ponendo fine allo spostamento di magistrati in ruoli amministrativi nel Governo, che dovrebbero essere naturalmente riservati a funzionari di carriera. Anche il tema delle porte girevoli non ci ha mai scaldato il cuore, non fosse che per la marginale sua rilevanza in termini di numeri. Dobbiamo pur riconoscere che la nostra forte (ed assolutamente isolata) insistenza, politica e mediatica, su questi tre temi ha in qualche modo fatto breccia nelle attenzioni del Governo e del Parlamento. E così sono comparse successive versioni della legge delega che hanno progressivamente incluso interventi sui fuori ruolo, poi sui criteri delle valutazioni professionali quadriennali, ed anche sulla accentuazione della separazione delle funzioni. Queste novità sono a nostro avviso ancora lontane dalle migliori e più efficaci capacità di incidere in modo risolutivo su quelle questioni, ma almeno quei tre temi sono finalmente presenti nel corpo della legge delega. E non è certo un caso che siano esattamente quelli i temi che hanno scatenato la furibonda reazione della magistratura associata, che aveva mantenuto un atteggiamento molto più controllato, fino a quando la riforma si risolveva grossomodo in alchimie elettoralistiche del Csm. Ora, credetemi: quelle novità, prese in sé sono assai poco rivoluzionarie. Siamo ancora ben al di sotto del minimo necessario per una reale riforma della magistratura italiana, che le restituisca forza, credibilità, affidabilità, autorevolezza. Eppure è bastato sfiorare quei temi, per scatenare una reazione che non andava in scena da molti lustri, cioè dai tempi dei governi Berlusconi. Ecco allora che bisogna chiedersi perché. Quale può essere la ragione di una reazione così sopra le righe, che fa per esempio gridare alla “schedatura” sol perché il fascicolo personale del magistrato, che già esiste da sempre, verrebbe implementato con i provvedimenti che egli ha adottato nel corso del quadriennio; o fa gridare alla separazione delle carriere (magari!) sol perché si riducono da quattro a due le già ridotte possibilità, in carriera, di passare dalla requirente alla giudicante. Questa è roba che costituisce certo un primo passo avanti verso un ragionamento riformatore di qualche sensatezza, ma è ancora lontanissima dal diventarlo sul serio, e nessuno lo sa meglio di lor signori magistrati. La cosa che invece li sta facendo impazzire è che Parlamento e Governo, per la prima volta, seppur timidamente e tra mille distinguo, sembrano voler recuperare spazio e prerogative che la Costituzione gli assegna, e che il potere giudiziario ha loro espropriato da trent’anni a questa parte. L’idea che li fa impazzire è che il legislatore pretenda di legiferare ed il Governo di governare sulla organizzazione della macchina giudiziaria e della magistratura, senza il previo consenso della magistratura stessa. L’idea che Governo e Parlamento pensino di potersi assumere la responsabilità politica di disegnare un ordinamento giudiziario nella pienezza della propria autonomia costituzionale, e non sotto dettatura delle toghe, è vissuto dalla magistratura italiana come un sacrilegio, un atto di insubordinazione inconcepibile, una sovversione dell’assetto squilibrato (in favore del giudiziario) dei poteri dello Stato come avveratosi in questi ultimi trent’anni. Questa è la vera partita in gioco oggi. Io non so come andrà a finire, visto che il percorso parlamentare è tutt’altro che concluso. Ma se davvero lo scontro sarà portato, come sembra, ai suoi estremi, occorre che i liberali di questo Paese e tutti coloro che abbiano a cuore il ripristino della divisione e del rigoroso equilibrio tra poteri dello Stato comprendano con lucidità da che parte stare. Non facciamoci distrarre dalla modestia dei contenuti di quella riforma, che pure ribadiamo con forza. Ora la partita che si è aperta con la minaccia dello sciopero dei magistrati è un’altra, molto ma molto più importante, ed occorre giocarla e vincerla. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Napoli. “Bisogna sradicare modelli sbagliati” di Antonio Averaimo Avvenire, 17 aprile 2022 Il cappellano del carcere di Nisida don Pagano: colpa di decenni di politiche educative fallimentari. Nel dicembre scorso l’arcivescovo di Napoli, Mimmo Battaglia, ha lanciato la proposta di un Patto educativo per l’area metropolitana di Napoli capace di dare risposte adeguate alla questione minorile napoletana. Alla proposta dell’arcivescovo hanno risposto subito positivamente la Regione Campania, il Comune di Napoli, la Prefettura e diversi enti del Terzo settore locale. A coordinare il progetto dell’arcidiocesi di Napoli è don Gennaro Pagano, cappellano del carcere minorile di Nisida. Fu proprio lui, prima dell’impegno assunto dall’arcivescovo Battaglia, a sostenere la necessità di un patto educativo che mettesse insieme istituzioni, Chiesa e Terzo settore contro povertà educativa e devianza minorile. Proprio a Nisida, nella chiesa dell’Immacolata a Mezzacosta, nascerà l’Osservatorio sulle risorse e sulle fragilità educative, previsto nell’ambito del Patto a cui stanno lavorando l’arcidiocesi di Napoli e quella di Pozzuoli (quattro municipalità di Napoli ricadono nel territorio di quest’ultima). Don Gennaro, mentre Chiesa, istituzioni e Terzo settore lavorano al progetto del Patto educativo, a Napoli e in provincia continuano a verificarsi episodi di violenza che vedono dei minori come protagonisti. A Napoli si presentano le stesse dinamiche di disagio presenti in tutte le grandi città. Ciò che però caratterizza il contesto napoletano è la presenza di una cultura camorristica che va ben oltre la camorra stessa e permea una parte consistente della società. Il non rispetto delle regole è la manifestazione più chiara di questa cultura. Col progetto del Patto educativo vogliamo dire a tutti: “Iniziamo a pensare a lungo termine, a pianificare. Creiamo dei tavoli”. Come quelli che si sono susseguiti in seguito all’annuncio di don Mimmo. È, necessario innanzitutto distinguere fra emergenze e urgenze. Il Patto introduce anche uno stile, che è quello del lavorare tutti insieme per un obiettivo. Vuole in qualche modo essere anche una spina nel fianco delle istituzioni. In effetti, la questione minorile napoletana appare caratterizzata da una drammaticità maggiore rispetto al resto d’Italia. Questo si spiega anche col fatto che a Napoli sono i ragazzi del posto a delinquere. Nelle altre carceri minorili, la stragrande maggioranza dei minori reclusi è costituita da figli di stranieri. Qui accade il contrario. Quando mi confronto con i cappellani delle altre carceri minorili italiane, sono quasi l’unico ad aver a che fare con ragazzi che non siano figli di immigrati. Ciò indubbiamente caratterizza la realtà napoletana. Ma come si è giunti a una situazione così critica? Quali sono le radici storiche della questione minorile napoletana? Bisogna innanzitutto tener presente che proveniamo da decenni e decenni di scarso controllo del territorio e di politiche educative fallimentari. Finora si è andati avanti per brand (il brand Scampia, per esempio). Si è data enorme attenzione ad alcuni quartieri, lasciando nell’ombra altre aree della città e della provincia. Tutto ciò ha portato a scarsissimi risultati in entrambi i casi. Da anni lei è quotidianamente a contatto con i minori napoletani finiti in carcere. Cosa le ha insegnato questa esperienza? Tante cose. Per esempio, che bisogna intervenire il prima possibile. Bisogna concentrare gli sforzi educativi quando questi ragazzi sono ancora bambini. È da bambini, infatti, che iniziano a respirare nelle loro famiglie e nel contesto in cui vivono quella cultura camorristica che fornisce loro modelli sbagliati. Firenze. Si fa presto a dire “codice Floyd”: il sindaco risponde a Luigi Manconi di Dario Nardella* La Repubblica, 17 aprile 2022 Ho intenzione di approfondire il tema delle tecniche di fermo meno pericolose. Ma non può essere un singolo sindaco a prendersi questa responsabilità. La questione va affrontata a livello nazionale Ringrazio Luigi Manconi per la sua lettera aperta pubblicata ieri (sabato 16 aprile) su questo giornale e, con la stessa stima, provo a rispondere su un tema non facile. Firenze è una città sicura, con un buon livello di qualità della vita, che però talvolta registra - al pari di altre città - episodi di microcriminalità che vanno arginati. L’opinione pubblica è molto attenta ai temi della sicurezza urbana: scippi, commercio abusivo, piccoli spacciatori, schiamazzi notturni. A Firenze, come nelle altre città italiane, si chiama in causa il sindaco, la figura riconosciuta più prossima ai cittadini. Io ho a cuore la serenità degli abitanti e dei turisti. Ma, visto che anche in questa occasione si fanno paragoni con gli Usa, ricordiamo che i sindaci italiani non hanno gli stessi poteri di polizia dei loro colleghi americani. In Italia l’autorità di sicurezza pubblica è il ministero dell’Interno, con le forze dell’ordine. La normativa nazionale non classifica gli agenti di Polizia municipale come incaricati di ordine pubblico, ma è prevista la loro attività di supporto e su questo fronte sono continuamente sotto la pressione dei cittadini e degli organi di informazione. Appena due giorni fa, gli addetti alla sicurezza di un fast food sono stati aggrediti da un uomo con un coltello da sub. E sempre nei giorni scorsi agenti in borghese della nostra polizia locale durante un controllo hanno arrestato un pericoloso ricercato internazionale. Venendo al caso del 5 aprile, l’intervento degli agenti della Polizia municipale sull’ambulante senegalese Pape Demba Wagne è stato documentato da un video diffuso sul web che riprende solo la parte finale dell’accaduto, quando un agente immobilizza l’ambulante. I due agenti hanno riferito di essere intervenuti dopo essere stati aggrediti, hanno avuto prognosi di 3 e 5 giorni, e hanno denunciato a piede libero l’ambulante per resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e rifiuto di generalità. Il video sui social, per quanto impressionante, non può essere assunto come dato unico ed esclusivo, verrà ricostruita tutta la dinamica. L’Italia è un Paese democratico, la cui Costituzione garantisce e tutela i diritti di tutti e per questo non consentiremo che si facciano processi sommari; sarà la magistratura a fare chiarezza. Va ricordato che il rapporto tra i cittadini e chi ogni giorno si impegna a far rispettare la legge si basa sulla fiducia reciproca e sul rispetto: non esistono diritti senza doveri. Nella sua lettera aperta mi invita a farmi promotore di un’iniziativa pubblica per mettere al bando quella tecnica di fermo che lei ha definito “codice Floyd”, in riferimento al drammatico caso di Minneapolis. Sono d’accordo con lei e ho intenzione di approfondire il tema delle tecniche di fermo meno pericolose, ma occorre essere chiari: non può essere un singolo sindaco a prendersi questa responsabilità. Non si può lasciare ai sindaci di decidere come affrontare i problemi della legalità e della sicurezza con le proprie polizie municipali. Sullo stesso tema è ancora vivo il dibattito sull’uso del taser: a Firenze abbiamo deciso di non usarlo, anche se è in sperimentazione per le forze di polizia statali e le polizie locali in altre città ne stanno valutando l’impiego. Lasciamo che ogni città faccia come vuole? A Verona il taser sì e a Firenze no? In una città la “manovra Floyd” e in un’altra no? Si parte da Firenze a discutere di questo perché il caso più recente è accaduto qui, ma di situazioni del genere se ne saranno certamente verificate altrove, senza telefonini a riprendere la scena. La questione va affrontata a livello nazionale: gli agenti di polizia locale sono equiparati alle forze di polizia per l’ordine pubblico? Quali manovre di fermo o di immobilizzazione sono consentite? Il taser si può usare o no? Non sono decisioni da sindaco. Credo che non basti un’iniziativa per cancellare il “codice Floyd”, ma sento l’urgenza di un confronto con esperti, guidato dal ministero dell’Interno, per individuare soluzioni adeguate. Noi sindaci siamo sempre in prima linea, sempre disponibili a cercare soluzioni, ma non possiamo essere chiamati in causa solo quando si manifesta un problema, senza essere mai coinvolti sul serio quando si prendono le decisioni o si scrivono le leggi. *Sindaco di Firenze Reggio Calabria. La sanità penitenziaria è un problema e le istituzioni si aprono al confronto reggiotoday.it, 17 aprile 2022 Si è riunito il tavolo fra le istituzioni interessate voluto dal garante dei detenuti del Comune di Reggio Calabria, Giovanna Russo: “Primo passo per un’azione permanente”. Si è riunito per la prima volta il tavolo sulla sanità penitenziaria a Reggio Calabria, fortemente voluto dal Garante per i diritti delle persone private della libertà personale Giovanna Russo. Erano presenti oltre alla Garante, per la Regione Calabria: Antonio Loprete Morabito commissario straordinario Vibo Valentia e membro regionale task force sanità penitenziaria; la dottoressa Bernardi dirigente di settore Dipartimento tutela della salute Regione Calabria in rappresentanza della dirigente generale Iole Fantozzi; il commissario Asp di Reggio Calabria Gianluigi Scaffidi, il direttore del 118 Domenico Minniti; il direttore facente funzioni dell’istituto “Panzera” di Reggio Calabria Patrizia Delfino; il coordinatore sanitario Luciano Lucania e la comandante dell’istituto penitenziario di Reggio Calabria, plesso Arghillà, Maria Luisa Alessi. Ha introdotto i lavori ed il confronto la garante Russo, condividendo con tutti i presenti l’importanza della sinergia e del confronto istituzionale, necessario al fine di trovare delle misure risolutive agli annosi problemi che investono la sanità penitenziaria. Ha detto la garante: “qui non si tratta di attaccare nessuno, ma analizzate le criticità di procedere secondo un indirizzo fattibile e condiviso che raggiunga il risultato principale: garantire e tutelare il diritto alla salute delle persone detenute”. Ed è lungimirante il garante Russo quando prospetta che una prima concreta azione da compiere deve ricadere sull’individuazione del personale medico specialistico, sulla stabilizzazione dei precari e la necessità che ci sia, in particolare per il plesso di Arghillà, un dirigente sanitario con funzioni di indirizzo e coordinamento. Una struttura che funziona equivale a raggiungere il risultato sperato: il benessere delle persone detenute. Gli interventi successivi di Patrizia Delfino e della comandante Alessi hanno contribuito a rafforzare il messaggio di sinergie necessario quando si parla di tutela della salute delle persone detenute. Entrambe hanno rappresentato non solo la volontà di fornire il loro apporto professionale, ma consentito ai presenti di fotografare le carenze che nel quotidiano vivono le persone detenute ad a cascata l’amministrazione tutta. Patrizia Delfino ha ribadito le problematiche più importanti su cui lavorare richiamando una nota del 7 marzo scorso inviata dal direttore Tessitore agli uffici competenti. Per l’Asp di Reggio Calabria è intervenuto il commissario Scaffidi il quale ha fornito una panoramica circa le difficoltà del sistema sanitario reggino, e nello specifico la problematica nel reperire personale medico che scelga di operare e prestare il proprio servizio all’interno degli istituti penitenziari, nonché le connesse disfunzioni circa le risorse economiche. In tal senso si è pensato a delle iniziative di sensibilizzazione, attraverso i rispettivi ordini professionali, dei professionisti della sanità in generale verso la realtà penitenziaria. La dottoressa Bernardi ha chiarito la linea dettata dalla Regione sulla sanità più volte rappresentata anche dal suo commissario ad acta Roberto Occhiuto. La sanità calabrese può e deve dare risposte ai calabresi tutti. Ha chiesto che vengano forniti i dati circa le visite specialistiche al fine di inserire anche gli istituti penitenziari nel sistema di recupero delle liste di attesa. Antonio Loprete Morabito nel riprendere le criticità del sistema sanitario calabrese e perciò anche reggino ha evidenziato il lavoro messo in campo dalla task force regionale che sta tracciando delle linee guida di indirizzo unico per tutte le aree della sanità penitenziaria calabrese. “Tutelare i diritti delle persone private della libertà personale ha affermato Antonio Loprete Morabito, lo dico da medico impegnato in prima linea, significa spendersi con competenza ed umanità dando risposte che siano fatti concreti e tangibili per i detenuti in primis”. Luciano Lucania ha fornito atti e documenti circa la disponibilità a reperire personale medico qualificato e si è soffermato sulla prosecuzione dei lavori afferenti l’installazione di un gabinetto radiologico che consentirebbe di eseguire gli esami direttamente in loco evitando il trasferimento dei detenuti e le conseguenti lungaggini burocratiche cui spesso si assiste. “Un passo importante che fornisce un segnale di chiara attenzione verso i detenuti” ha dichiarato Lucania. Si è ridiscusso anche del problema degli specialisti e la possibilità di individuare la figura di un coordinatore per il plesso di Arghillà. Lo aveva preannunciato la Garante che si sarebbe da subito attivata per un tavolo permanente per la salute in carcere. “Tutti i professionisti coinvolti, a qualsiasi titolo, nella gestione dei detenuti - ha concluso la garante - hanno dialogato senza se e senza ma, dimostrando grande disponibilità e costruendo in tal modo un approccio multidisciplinare/inter-istituzionale estremamente efficace che tiene in considerazione anche l’interazione tra individuo e ambiente con l’obiettivo di contemperare finalità di cura e controllo in un equilibrato bilanciamento in cui la condizione di malato non venga interamente assorbita da quella di detenuto. Si attendono adesso per il prossimo incontro i primi riscontri circa le proposte avanzate”. Genova. “Delirio di una notte d’estate”, i detenuti di Marassi tornano in scena con Shakespeare di Rosaria Corona Il Secolo XIX, 17 aprile 2022 Lo spettacolo viene messo in scena dall’Associazione Culturale Teatro Necessario. Dal 19 al 24 aprile sul palco del Teatro Ivo Chiesa lo spettacolo diretto da Sandro Baldacci e Fabrizio Gambineri con protagonista la compagnia teatrale “Scatenati”. Come avrebbe scritto la sua celebre “Sogno d’una notte di mezza estate” se Shakespeare fosse vissuto ai nostri giorni? Questa la domanda a cui si ispira “Delirio di una notte d’estate”, in scena da martedì 19 a domenica 24 aprile al Teatro Ivo Chiesa e dal 26 al 28 aprile al Teatro dell’Arca. Lo spettacolo con protagonisti gli attori della compagnia teatrale “Scatenati”, formata dai detenuti della Casa Circondariale di Genova Marassi, e prodotto dall’Associazione Culturale Teatro Necessario si ispira a una delle più celebri commedie del drammaturgo e poeta inglese, rivisitandola in chiave attuale sotto la regia di Sandro Baldacci e Fabrizio Gambineri. E così il bosco incantato diventa la periferia di una metropoli, gli spiriti e i folletti si trasformano in altre creature della notte che non dispensano filtri d’amore ma sostanze molto pericolose. Uno spettacolo dallo scenario non del tutto idilliaco ma al contempo leggero, comico e speranzoso: “Nonostante tutto, il lieto fine si realizza, quasi a significare che, in qualunque contesto e a dispetto di qualunque infausto pronostico, l’amore, la fantasia e il teatro sono sempre in grado di trasformare il peggiore dei “deliri” nel più bello dei “sogni”, spiega il regista Baldacci. Dopo “Profughi da tre soldi” che lo scorso anno aveva debuttato in streaming, la compagnia, formata da detenuti e attori professionisti, torna finalmente in presenza su uno dei più importanti palchi della città. Un ritorno tanto atteso, dopo due anni di stop legati alla pandemia, e al contempo per niente semplice per via delle restrizioni: “E’ stato un anno difficile sul piano organizzativo. Per via delle problematiche legate al perdurare della pandemia, non eravamo certi di arrivare fino in fondo. E’ stata una sfida con un carico di impegno notevole sia per noi che per l’amministrazione del carcere, guidato da Tullia Ardito, e per la polizia penitenziaria. Fino all’ultimo non eravamo così certi di farcela, è stato un miracolo”, racconta al Secolo XIX Mirella Cannata, presidente di Teatro Necessario Onlus, associazione che da anni porta avanti la realizzazione di spettacoli teatrali come strumento educativo, di recupero e reinserimento sociale arrivando nel 2016 all’apertura, all’interno del carcere genovese, del Teatro dell’Arca. “Salire su un palco importante come quello della Corte è un’esperienza unica per chiunque, ma per i detenuti è un qualcosa di esponenziale e straordinario. Durante le prove erano davvero molto emozionati”, aggiunge Cannata. Martedì sera, al debutto di “Delirio di una notte d’estate”, saranno presenti anche il sindaco Marco Bucci, gli assessori Ilaria Cavo e Barbara Grosso e il viceprefetto Valerio Massimo Romeo che consegnerà la medaglia che il Presidente della Repubblica ha conferito alla Compagnia per la rilevanza del progetto. Insegnare a non avere paura, un potere formidabile di Cristina Dell’Acqua Corriere della Sera, 17 aprile 2022 Nelle fasi di emergenza bisogna trovare la strada che ci consenta di dare il meglio. Soprattutto i giovani che il loro lato umano terribile e meraviglioso lo stanno coltivando sui banchi. D einós è un aggettivo greco. Significa terribile e meraviglioso al tempo stesso. Questa piccola parola - deinós - per i Greci ha un significato immenso, quasi intraducibile (croce e delizia di studenti di ogni epoca). La sua radice etimologica significa temere e descrive quel senso di stupore misto a paura, quasi una vertigine, che proviamo davanti a qualcosa di stra-ordinario. Deinós è la guerra con la sua potenza distruttiva come lo è l’amore con la sua forza travolgente. Un aggettivo che sta molto a cuore a Sofocle, il tragediografo del V secolo a. C., e che ben si addice a chi, come lui, ha una spiccata propensione introspettiva per l’animo umano. Per Sofocle lo è la compassione (che bella parola!) di una donna per un’altra donna, nata libera e strappata alla sua casa e alla sua famiglia in quanto prigioniera. E più di ogni altra cosa per Sofocle terribili e meravigliosi siamo noi, gli esseri umani. Le sue tragedie, in particolare le Trachinie e l’Antigone qui citate, sono libri con cui dovremmo di tanto in tanto restare soli per soppesarne le parole. Noi uomini siamo fatti del coraggio e dell’intelligenza necessari per vivere tra le fatiche e i pericoli della vita. Il nostro lato meraviglioso. Ma sappiamo anche mettere in campo l’aspetto di noi stessi più terribile e distruttivo. Due è il numero del dubbio, della scelta e dei lati opposti di cui siamo fatti: nell’arco di una vita gli incontri, gli studi, le letture e la cultura possono valorizzarne il migliore. Nei momenti di emergenza bisogna trovare la strada che ci metta in condizioni di dare il meglio di noi. E questo vale soprattutto per i giovani che il loro lato umano e deinós lo stanno coltivando sui banchi di scuola. Si tratta di momenti storici molto delicati, occorre scommettere sui talenti e puntare sulla caparbietà di chi non rinuncia a immaginare un futuro e a crederci. Siamo davanti a una prova di maturità dell’intero mondo scolastico. La partita è delicata. Da un lato professori che conoscano, amino e, soprattutto, sappiano trasmettere ciò che insegnano. Fatico a immaginare che il talento di un professore per un compito così complesso possa essere individuato da test a quiz come quelli a cui è sottoposto in questi giorni l’esercito dei precari (molti di loro insegnano già da anni senza un’assunzione). Sia chiaro che conta moltissimo la conoscenza di ciò che si vuole insegnare. Rem tene, verba sequentur, prima possiedi i contenuti, le parole arriveranno da sole. Ma la priorità è sperimentarsi con gli animi delle studentesse e degli studenti per sentire in modo vivo la responsabilità della loro formazione umana e professionale. È arrivato il tempo di dare una forma stabile a corsi di laurea magistrale in metod i (e metodo significa strada) di insegnamento specifici per ogni corso di laurea e che prevedano dei tirocini nelle aule vere con studenti in carne e ossa. Tempo che i futuri docenti dedicheranno per affinare la loro professionalità. Insegnare non vuol dire improvvisare. Vuol dire lavorare (anche su se stessi, come in ogni professione) per veicolare ciò che si sa in modo interdisciplinare, con il supporto di tecnologie (dove serve per avvicinarsi al linguaggio dei più giovani), di laboratori (di chimica e di teatro), di molta cultura personale e capacità di osservazione. E tradurlo in vita degli altri. È più che mai il momento di scommettere sui giovani, accettare le sfide dichiarate ma non sempre affrontate. Le professioni dove si giocheranno le sfide del futuro prossimo si basano sui temi delle fonti energetiche e della sostenibilità (umana prima di ogni altra cosa). Abbiamo bisogno dei nostri giovani, forze che credano fortemente di essere tra i protagonisti del cambiamento. Dall’altro lato gli studenti, anime porose su cui non scivola via nulla di inosservato: ricettive a ogni sguardo, parola o gesto. L’anima degli adolescenti è costellata di microscopici spazi ancora vuoti, quei pori che in greco suonano anch’essi come poroi, porte che aprono al mondo tutti i loro sensi. Un professore deve saper osservare le attitudini naturali dei suoi alunni. Ci sono alunni refrattari alle regole e alunni che si trovano a loro agio solo con paletti molto stretti; altri (in apparenza?) svogliati, poi quelli che hanno paura a esporsi. In classe si deve saper trovare la strada per arrivare a ognuno di loro, capire cosa li illumina, quale effetto può avere un rimprovero o una gratificazione. Solo allora si è vicini al loro talento e solo quando si è creato un terreno di lavoro si possono cominciare a seminare i semi delle proprie discipline. La scuola ha un potere formidabile: non avere paura, insegnare ai suoi giovani a non averne e svelare il loro lato meraviglioso perché sia di tutti. E formidabile è una parola che incute rispetto. La libertà di noi tutti, e chi non vuol capire di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 17 aprile 2022 Mini sondaggio: “Quale @Twitter volete? Un luogo dove si possa insultare, diffamare e mentire impunemente? O un posto dove si è liberi di esprimersi rispettando la legge?”. Twitter si è rivelato un formidabile strumento di comunicazione collettiva. Forse perché non intende far concorrenza al giornalismo, ma lo affianca. Forse perché opera, per natura, contro il totalitarismo (che prova a usarlo, ma non è capace). Forse perché, tra tutti i social, è quello che si presta meno a intrusioni pubblicitarie: alla lunga, tendono ad adulterare il prodotto. Twitter è la finestra cui possono affacciarsi tutti, e diffondere le proprie novità, i propri dubbi e le proprie paure. Non c’era bisogno della guerra in Ucraina, per capirlo. L’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, ora intende comprarselo. L’annuncio ha scatenato due reazioni diverse. C’è chi sospetta che voglia farne un megafono planetario; e chi teme che il padre della Tesla lo trasformi in un’immensa arena dove tutto è consentito. Insultare, diffamare, minacciare, diffondere notizie false e pericolose. Un social dove chiunque può essere accusato di qualunque cosa, e non ha modo di difendersi. Risalire all’identità dietro un account è faticoso, non solo in Italia: il destino di quasi tutte le denunce è l’archiviazione. Questa possibilità preoccupa le persone di buon senso: ma quante sono? Quanti sono in grado di capire che, se tutto fosse ammesso, Twitter diventerebbe una fogna? Elon Musk, come ha ricordato Massimo Gaggi, è “un libertario con tendenze anarchiche e un certo gusto per il surreale”. Si rende conto che rischia di distruggere un’invenzione geniale? Già oggi l’anonimato rende possibile attacchi vergognosi e azioni pericolose (come il rovesciamento del voto Usa, tentato dagli estremisti trumpiani). Quanti se ne rendono conto? Per capirlo, ho tentato un piccolo esperimento pasquale. Ho lanciato un sondaggio su Twitter: “Quale @Twitter volete? Un luogo dove si possa insultare, diffamare e mentire impunemente? O un posto dove si è liberi di esprimersi rispettando la legge?”. Nelle prime otto ore hanno votato 5.523 persone (una ogni 204 fra 1.130.000 follower). Risultato: per la libertà senza regole 67,3%, per la libertà nella legge 32,7%. È vero: sui social, gli esagitati sono più loquaci. Ma resta un cattivo segnale: c’è chi non capisce, o non vuol capire. Buona Pasqua a tutti. Così la guerra mette fine alla Globalizzazione di Alessandro De Nicola La Stampa, 17 aprile 2022 Volendo individuare una data dalla quale far cominciare le serie difficoltà in cui si dibatte il fenomeno Globalizzazione, potremmo indicare il 20 gennaio 2017, giorno di inaugurazione della presidenza Trump. Infatti, da quel momento il Paese (ancora) più potente del globo, artefice dell’architettura istituzionale mondiale che aveva permesso la Globalizzazione, assumeva una posizione ostile al libero commercio, molto restrittiva sull’immigrazione e scettica nei confronti proprio delle organizzazioni e trattati internazionali di cui era stata il perno, dalla Nato al Nafta, dall’Onu al Wto. Dopo pochi anni la pandemia ha poi colpito duramente le catene di rifornimento globali e i governi, inclusi quelli europei, hanno emanato leggi restrittive sulle acquisizioni transfrontaliere (il nostrano golden power). Il 24 febbraio è cambiato il mondo: l’aggressione russa all’Ucraina non solo sta sconvolgendo le vite di milioni di persone, ma scombussola gli equilibri geopolitici ed economici del pianeta. Diventa perciò urgente porci alcune domande per ragionare sul mondo dei prossimi 5-10 anni. Primo quesito: è finita la Globalizzazione? Sì e no. Le cosiddette catene del valore si riformeranno, privilegiando di più i Paesi amichevoli con stabilità politico-istituzionale anche rispetto a quelli con manodopera a basso costo, buone infrastrutture e tecnologia. L’Indonesia sulla Cina, per dirne una. Inoltre, ci sarà una maggiore diversificazione per non rischiare di essere dipendenti da un solo fornitore anche quando questo potrebbe essere conveniente e, per i Paesi Ocse (quelli più sviluppati) si assisterà a un fenomeno di rimpatrio di alcune produzioni. Diventerà più complicato compiere acquisizioni transfrontaliere, l’informazione in alcuni Paesi circolerà con molta più difficoltà (Russia e Cina), il commercio di beni tecnologici verrà ristretto. Naturalmente non si tornerà completamente indietro, ma la politica potrà peggiorare le cose: dimenticandoci per un attimo il paria Putin, Trump o Le Pen sono sempre minacce incombenti e la Cina potrebbe avvitarsi su sé stessa. Quali saranno le conseguenze? Per un liberale la risposta è ovvia: una diminuzione di benessere e di conoscenza nonché un possibile aumento dell’autoritarismo e delle tensioni militari (“dove non passano le merci passano gli eserciti” ammoniva Bastiat). Fortunatamente dei benefici effetti del libero scambio se ne stanno accorgendo pure quelli che mettevano in guardia contro l’olio tunisino, a volte con l’argomento di rara pelosità che le sanzioni alla Russia danneggiano altresì l’Italia: e chi l’avrebbe mai detto? Bastava leggersi Hume, Smith e Ricardo, roba buona di 250 anni fa. Però, poiché nel trentennio 1945-1975 il mondo era molto meno interconnesso e ancor più diviso in blocchi e nonostante tutto la crescita è stata impetuosa, non tutto è perduto. E quindi, terza domanda: che fare? La cosa più sensata è di non esagerare: non è necessario estendere il golden power alla vendita di drogherie, anzi bisogna allentarne l’estensione quando le transazioni commerciali sono tra Paesi non ostili. Né il rimedio alla temporanea crisi di approvvigionamenti alimentari consiste nell’aumento sconsiderato e a lungo termine dei finanziamenti all’agricoltura europea come i gruppi di interesse del settore si stanno affrettando a sollecitare. In secondo luogo, bisogna riprendere con grande vigore l’integrazione commerciale e i trattati di libero scambio tra Occidente, area Pacifico e Africa. Ci siamo appunto resi conto di quanto la circolazione di idee, merci, capitali, servizi, persone sia fondamentale. Il pallino è soprattutto nelle mani degli Usa, ma l’Europa e l’Italia possono fare la loro parte: nel nostro Paese, ad esempio, favorendo le politiche di concorrenza e l’efficienza delle imprese. Peraltro, ci accorgiamo quanto i sussidi pubblici siano distorsivi quando arrivano le imprese cinesi sovvenzionate a competere con le nostre e a cercare di comperarle. Ebbene, sono distorsivi sempre: la pandemia ha richiesto un grande afflusso di denaro pubblico, ma il metadone non è mai stata la soluzione definitiva allo stato di dipendenza. È bene quindi che ritorni e si rafforzi la normativa europea sugli aiuti di Stato, rendendola parte integrante anche dei trattati commerciali. In conclusione, politica e pandemia ci impoveriscono, ma abbiamo ancora frecce all’arco: grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. I sonnambuli occidentali in marcia verso il disastro di Piero Ignazi Il Domani, 17 aprile 2022 Gli ammonimenti sull’orrore della guerra, anche quelli che vengono dal Papa, scivolano via come acqua fresca. L’escalation sul terreno coinvolge anche gli alleati occidentali. Per cui si usano parole a sproposito - genocidio - si invoca una Norimberga per i dirigenti russi, e si alza il livello del conflitto militare. Di de-escalation, nemmeno l’ombra. Anzi, chi la propone finisce per essere tacciato come un collaborazionista putiniano, un nemico interno, un traditore della patria. Siamo i sonnambuli degli anni Duemila? Ci stiamo avviando alla catastrofe? Gli ammonimenti sull’orrore della guerra, anche quelli che vengono dal papa, scivolano via come acqua fresca. C’è una esaltazione bellicista in giro che può prendere la mano. Passo dopo passo tutto l’occidente si sta coinvolgendo sempre più nella difesa dell’Ucraina. Scopo nobile aiutare gli aggrediti, purché non lo si ammanti di troppi abbellimenti ideologici. Semplicemente, era una ottima occasione per mettere in ginocchio l’Orso russo. E ci siamo già riusciti visto l’esito disastroso della sua “operazione speciale”. Ma lasciamo stare il diritto internazionale e altri sommi princìpi perché buona parte dell’occidente, ma non Francia e Germania, si porta sulla coscienza l’aggressione dell’Iraq. Delle decine di migliaia di civili morti - qualcuno ricorda il nostro agente Nicola Calipari freddato a un posto di blocco americano? - nessuno ha mai fatto ammenda o pagato pegno. Eppure sono stati commessi crimini che solo la coscienza civile e il senso dell’onore di qualche militare ha permesso di svelare. È angosciante che in questa guerra nessun ufficiale russo denunci quanto ha fatto la sua soldataglia. Questo significa che siamo già scesi sotto il gradino più basso dello ius in bello, che tutto è possibile perché l’uomo è ridotto a cosa. Quando questo accade da una parte, la tentazione di render colpo su colpo è fortissima, e qualche episodio già trapela tra gli ucraini. L’escalation sul terreno coinvolge anche gli alleati occidentali. Per cui si usano parole a sproposito - genocidio - si invoca una Norimberga per i dirigenti russi, e si alza il livello del conflitto militare. Di de-escalation, nemmeno l’ombra. Anzi, chi la propone finisce per essere tacciato come un collaborazionista putiniano, un nemico interno, un traditore della patria. Eppure è il momento, e non da ora, di cercare una strada per porre fine alla guerra. Perché più aumentano le distruzioni, i morti, le atrocità, più sarà difficile la coesistenza pacifica tra ex nemici. A meno che non interessi la de-escalation e si voglia la distruzione del nemico, la debellatio romana. Una pax cartaginese. Se l’intenzione della Nato è questa, allora siamo nel pieno del sonno della ragione. Perché diventa concreto il rischio di un conflitto nucleare. Il solo fatto di parlare con nonchalance di armi nucleari come si sta facendo da mesi, le dediabolizza, le fa uscire dal recinto dell’indicibile, come per l’Olocausto. Il famoso orologio che segna la fine del mondo sta correndo troppo forte. Va rallentato. Con la diplomazia.