Le carceri durante la pandemia di Mauro Palma treccani.it, 16 aprile 2022 L’annuncio è stato importante: negli istituti penitenziari del nostro Paese, 1.246 detenuti sono iscritti a corsi universitari, molti di tipo triennale, ma anche un quarto di essi frequenta corsi di laurea magistrale e ben 25 quelli post-laurea. Accanto a questo dato, un altro di segno ben diverso: 851 sono i detenuti italiani analfabeti e altri 627 non hanno completato la scuola elementare; più di 5.000 si sono fermati a questa soglia del primo grado di istruzione. Il carcere vive, dilatandole, le contraddizioni che affliggono la società esterna: il divario è eclatante e diviene ancora maggiore se si considera che molti sono i casi non rilevati. La dilatazione delle differenze sociali appare chiara quando si esamina l’elevato numero di coloro che sono in carcere per scontare una pena inflitta - non un suo residuo - inferiore a uno o due anni: insieme si giunge a più di 3.000 persone che rappresentano ‘plasticamente’ la povertà che affligge il territorio esterno a quelle mura e che si riflette al di dentro di esse. Superfluo è, infatti, chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta; importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, quindi, che parla di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo. Al di là della volontà del costituente e delle indicazioni dell’ordinamento penitenziario queste detenzioni si concretizzano soltanto in tempo vitale sottratto alla normalità - interruzioni di vita destinate probabilmente a ripetersi in una inaccettabile sequenzialità. Per questo sono spesso le altre voci, di natura non istituzionale, che nel nostro sistema detentivo frequentano il carcere a determinare la possibilità che questi tempi non siano vuoti, ma abbiano valore, intercettando bisogni, interloquendo, prospettando alcuni progetti. Un ritmo di presenze che si è fermato negli ultimi due anni per la pandemia da Covid-19, che stenta tuttora a riprendere e che costituisce uno dei più gravi danni all’interno di un sistema che già era molto critico per più aspetti, in primo luogo per l’affollamento dei suoi anonimi spazi. Se, infatti, si può dire che il sistema detentivo ha contenuto dal punto di vista sanitario il temuto espandersi a dismisura del contagio, altrettanto non è possibile affermare per quanto è avvenuto nelle dinamiche relazionali al suo interno e, quindi, per il rischio del permanere di una situazione di staticità centrata soltanto sul contenere. Già i primi giorni dei provvedimenti di chiusura hanno fatto vivere qualcosa di assolutamente inconsueto: la morte di ben 13 persone nel contesto di dimostrazioni e rivolte sviluppatesi all’annuncio dell’interruzione dei colloqui con i propri affetti. L’ansia che all’esterno si sviluppava verso un pericolo inedito che individuava in ciascuno di noi la vittima e il potenziale veicolo del pericolo stesso si raddoppiava all’interno dei luoghi di privazione della libertà e soprattutto in carcere si scontrava con l’impossibilità di adottare quelle minime misure igieniche o di distanziamento che pur venivano indicate come essenziali. Una società presa dalla propria angoscia ha troppo frettolosamente archiviato quelle morti, quasi come effetti collaterali di una grave situazione complessiva. È stato il ricorso alle possibilità offerte dalle tecnologie della comunicazione a far rientrare una certa calma, attraverso i video-colloqui con i propri familiari. Tuttavia, la quotidianità in carcere è mutata e quei corridoi, quelle celle sono diventati luoghi di semplice contenimento. Ci si è abituati a una privazione del significato del tempo recluso; e si stenta ora a riprendere il cammino. Ecco perché l’afflizione punitiva vissuta negli ultimi due anni è divenuta ancor più pesante: la pena si è fatta più afflittiva e tutto ciò dovrebbe trovare una compensazione da parte del legislatore. Forse una compensazione in termini di accelerato accesso alle misure alternative, assegnando una maggiore incidenza in termini di tempo ai giorni e ai mesi trascorsi in queste particolarissime condizioni; forse una maggiore immissione di investimenti culturali e di attività volte a ridare significato al proprio tempo recluso, cercando di ridurre quella distanza che separa anche simbolicamente coloro che seguono un percorso alto di studi e coloro che stentano a scrivere la propria firma nell’Italia del XXI secolo. Forse una compensazione in termini di modifica dello sguardo esterno con cui ci si rivolge a questo mondo, quasi sia distante e diverso da noi, spesso con parole di rifiuto e ritorsione, senza comprendere che è parte di noi: del nostro corpo sociale. Carcere, ripartire dalle vittime di Anna Pozzi Avvenire, 16 aprile 2022 A colloquio con Cosima Buccoliero, direttrice del penitenziario di Torino, sui temi della giustizia riparativa. “Bisogna spostare l'attenzione dalle strutture di reclusione e dai detenuti ai percorsi di mediazione possibili”. La prima cosa che tiene a far notare è che la Costituzione italiana non parla mai di carcere. La prima che si nota è che lei non parla mai di detenuti. Parla di persone detenute, ponendo l'accento sulla persona, appunto. Detenuto è l'aggettivo che la qualifica per un periodo più o meno lungo della sua vita. Cosima Buccoliero è molto attenta alle parole, dal momento che si occupa di persone in una condizione di privazione della loro libertà. Perché hanno commesso un reato, certo, ma anche perché il sistema italiano della pena continua a mettere al centro quasi esclusivamente il carcere. Buccoliero è attualmente direttrice del penitenziario di Torino, ma sino a pochi mesi fa ha guidato il carcere “modello” di Bollate e l'Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano. Esperienze che, in modo diverso, testimoniano della possibilità di creare contesti di umanità e dignità anche dietro le sbarre e di costruire occasioni di inclusione e di “apertura” alla comunità affinché - dice - “il carcere riesca nel suo mandato istituzionale di rieducazione e di creazione di percorsi di accompagnamento, che offrano competenze e professionalità sia per minori che per adulti”. “Il carcere deve poter realizzare un ponte con l'esterno - precisa Cosima Buccoliero che si è molto spesa proprio in questo - per dare un senso al tempo trascorso in detenzione: la comunità deve entrare e il carcere deve uscire. Anche per abbattere pregiudizi e scardinare la mentalità per cui se non è carcere non è pena”. Non solo. Specialmente riguardo ai minorenni, Buccoliero rimarca l'importanza del confronto con specialisti e psicologi per far sì che la reclusione non sia stigmatizzante e neppure pregiudizievole per la salute psico-fisica del ragazzo. “A volte ci siamo sentiti impotenti. Specialmente quando il carcere diventa luogo di separazione e di alienazione, luogo di “invisibilità”, che aggrava la pena e la situazione del detenuto. In questi casi diventa un luogo che non ha senso”. Che fare dunque per portare una luce dietro le sbarre, per non togliere la speranza e provare a ricostruire prospettive di futuro? “Bisogna superare l'ottica della centralità del carcere, ma anche della centralità del condannato. Bisogna spostare l'attenzione sulla vittima e attivare percorsi di mediazione e di giustizia riparativa. Non è facile, anzi. Sono molto difficili da far recepire e da condividere intimamente. A Bollate, ci sono stati tanti esempi e abbiamo visto che funzionano. Non solo di incontro della persona detenuta con la vittima specifica, ma anche con vittime aspecifiche, ad esempio comunità o gruppi colpiti dallo stesso reato”. La giustizia minorile ha già avviato da diversi anni questi percorsi, anche grazie all'intervento delle istituzioni. A Milano, ad esempio, il Comune ha un ufficio specifico per la giustizia riparativa e la mediazione penale, sia attraverso la partecipazione ai percorsi individuali all'interno del carcere sia soprattutto all'esterno con persone che vengono segnalate dal tribunale dei minori. “Per gli adulti è più complicato - deve ammettere la direttrice - anche in una città come Milano che ha un contesto favorevole. E poi non ci si improvvisa in questi percorsi che sono sempre molto delicati: servono professionisti preparati in grado di accompagnarli”. Insiste, tuttavia, sulla necessità di diffonderli e rafforzarli. “Quello che ho potuto vedere è che la cultura della mediazione e della conciliazione serve non solo alla persona detenuta, ma a tutti quelli che sono intorno e ne beneficiano”. Racconta di un uomo condannato alla detenzione e della famiglia che se n'era allontanata, in particolare del figlio che rifiutava di incontrarlo. Dopo la sua morte improvvisa, altri detenuti hanno espresso il desiderio di incontrare la famiglia per raccontare, dal loro punto di vista, chi era quell'uomo, come lo avevano conosciuto e come era riuscito ad aiutare altre persone. “Con molte cautele - racconta Buccoliero - abbiamo contattato la famiglia che ha accettato di fare una serie di incontri con gli altri detenuti. Questo ha smosso qualcosa nei familiari che si sono riconciliati non solo con il loro congiunto, ma si sono riappacificati intimamente anche con loro stessi e con il loro senso di colpa per averlo abbandonato. La giustizia riparativa in fondo fa questo: “ripara” le ferite. È un esempio di quello che può fare la cultura del perdono e della riconciliazione”. Perdono e riconciliazione, del resto, non appartengono solo alla dimensione del passato, ma aprono a una prospettiva di liberazione e dunque di futuro. E alla speranza, come possibilità concreta e responsabile di riannodare fili spezzati. Taser in carcere, rischio fatale per i detenuti cardiopatici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2022 La ministra Cartabia non ha chiuso a un eventuale utilizzo della “pistola” in carcere in casi particolari, ma lo strumento può essere letale per i detenuti con patologie cardiovascolari. La settimana scorsa, rispondendo a una interrogazione parlamentare, la ministra della Giustizia Cartabia non ha escluso una eventuale sperimentazione dell’utilizzo del Taser in carcere, almeno in caso di eventi critici. Nel frattempo, da metà marzo scorso, la pistola elettrica è arrivata in pianta stabile in 18 città. Nel 2007, l’Onu ha classificato il Taser come arma di tortura. Nel gennaio del 2020, il Consiglio Superiore di Sanità ha evidenziato come l’utilizzo di quest’arma può comportare arresti cardiaci nei soggetti destinatari, sottolineando come ciò dipenda “dalla potenza dell’arma, dalla durata della scarica elettrica e dalla sua eventuale reiterazione, nonché dalla sede del bersaglio”. Il Taser, che ricorda una pistola per forma e grandezza, si compone di due elettrodi capaci di colpire un obiettivo con un flusso di corrente elettrica ad alto voltaggio, ma basso amperaggio. L’elettricità che scorre nei due cavi del Taser altro non è che un flusso di energia - sotto forma di carica elettrica - che scorre attraverso un materiale conduttore (che può essere un cavo di metallo o un corpo umano). Per analogia, si potrebbe dire che la corrente elettrica scorre in un cavo di metallo allo stesso modo in cui un flusso d’acqua scorre all’interno di un tubo. Proseguendo con questa analogia, è possibile descrivere il Taser come una pistola ad acqua che spara a grande pressione (alto voltaggio), ma a bassa velocità (basso amperaggio). Il voltaggio, infatti, misura la “pressione” la forza o differenza di potenziale) effettivamente esercitata per far “scorrere” la carica elettrica all’interno del conduttore; l’amperaggio il “flusso” attuale di elettroni (più o meno il numero di elettroni che passa nella sezione di cavo nell’unità di tempo) che passa nel conduttore. Il Taser è in grado di stordire la persona colpita - Proprio per questo motivo, il dissuasore elettrico è in grado di stordire la persona colpita - sino a immobilizzarlo per alcuni secondi - senza provocare, al livello solo teorico, danni letali. Il dissuasore elettrico è in grado di stordire la persona colpita - sino a immobilizzarlo per alcuni secondi - senza provocare, al livello solo teorico, danni letali. Nella sua configurazione standard, la scarica del Taser dura non più di 5 secondi; sufficienti, comunque, a inviare segnali intensi al sistema neuro- muscolare della persona colpita. Questi segnali provocano grande dolore e stordiscono l’obiettivo, che non può far altro che cadere a terra, immobilizzato. Il Garante Mauro Palma: “usare con estrema cautela e in situazioni assolutamente eccezionali” - All’indomani dell’arrivo in pianta stabile dell’utilizzo della pistola, Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, ha raccomandato di usare “con estrema cautela e in situazioni assolutamente eccezionali” il Taser, perché, ha ricordato “è un’arma”. Il Garante, inoltre, ha invitato le autorità preposte a “vigilare con grande attenzione al fine di evitarne un improprio utilizzo che può avere gravi conseguenze per la salute soprattutto dei soggetti più deboli o addirittura configurare un trattamento in violazione di obblighi nazionali e internazionali”. E ha ricordato “l’obbligo del suo non impiego in luoghi chiusi privativi della libertà personale”, raccomandandone “la speciale cautela nel suo utilizzo nei confronti di persone di particolare vulnerabilità psichica o comportamentale”. Dal 2000 ad oggi oltre 1.000 persone sono morte nei soli Stati Uniti per l’utilizzo del Taser - Come ha anche ricordato Patrizio Gonnella di Antigone, numerosi organismi internazionali che si occupano di diritti umani e di prevenzione della tortura hanno denunciato la pericolosità di questo strumento e anche il rischio che se ne abusi. Nei giorni del Black Lives Matter, in cui la polizia statunitense è sotto accusa per le violenze contro le comunità nere, la Reuters ha rilanciato una sua inchiesta in cui si appura che dal 2000 ad oggi oltre 1.000 persone sono morte nei soli Stati Uniti per l’utilizzo del Taser e che, di questi, la maggior parte erano persone nere. Un’altra ricerca, condotta da Apm Reports, sempre negli Usa nel 2019, sui Dipartimenti di Polizia di 12 città, tra le quali New York e Los Angeles, ha messo inoltre in forte dubbio l’efficacia di questo strumento. Il Taser oltre che pericolosa, quest’arma non è neanche efficace - Il Taser, secondo la ricerca, messa in risalto anche Garante, nella Relazione al Parlamento del 2020, è stato infatti efficace solo circa nel 60% dei casi e, tra il 2015 e il 2017 per 250 volte, al suo impiego non efficace è seguita una sparatoria; in 106 casi, inoltre, il suo utilizzo ha determinato un aumento della reazione violenta della persona che si voleva ridurre all’impotenza. Dunque, oltre che pericolosa, quest’arma non è neanche efficace e, come suggerisce lo studio, lo è ancora di meno in ambienti come quelli con spazi ristretti o verso persone con disagio psichico che potrebbero avere una reazione di aggressività, controllabile invece con altri mezzi. L’avvio della sperimentazione nel 2018 - Ricordiamo gli eventi che hanno portato alla dotazione, in pianta stabile, del Taser in 18 città. Tutto ha avuto inizio con il decreto legge n.119/2014 (Governo Renzi), che introdusse la possibilità della sperimentazione. Nel luglio 2018, l’allora ministero dell’Interno, guidato da Matteo Salvini, adotta una circolare con cui ne prevede l’avvio della sperimentazione per la gestione dell’ordine pubblico da parte di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza. Con il decreto legge n.113/2018 (art.19) ossia il Decreto “sicurezza” di Salvini, la sperimentazione viene estesa alle forze di polizia locale nelle città con più di 100.000 abitanti, previa adozione di un apposito regolamento comunale. Nel 2020 adottato il regolamento per far entrare il Taser nell’armamento ordinario di reparto - I periodi di sperimentazione del Taser - inizialmente solo per tre mesi - sono stati, via via, prorogati tramite decreti del ministero dell’Interno fino al 6 marzo 2019. Nel gennaio del 2020, su proposta della ministra Lamorgese, viene adottato da parte del consiglio dei Ministri un regolamento con l’intento di far entrare il Taser nell’armamento ordinario di reparto. Arriviamo al luglio del 2020. Il bando da 10 milioni di euro per fornire 4.482 Taser viene vinto dalla multinazionale statunitense Axon. Tuttavia, lo stesso mese, il Viminale emana una circolare per comunicare la “non aggiudicazione” per “prove balistiche non superate”, di fatto bloccando la ditta, che dopo un ricorso al Tar alla fine vince l’appalto nell’ottobre 2021. Nei casi più gravi c’è anche la morte per arresto cardiaco - Il Taser, di fatto, è candidato a potenziali rischi di abuso, derivanti proprio dalla sua pretesa non letalità. La sofferenza provocata dalla scarica elettrica alla quale è associato, oltre alla perdita di controllo del sistema muscolare, provoca anche un dolore acuto. Nei casi più gravi c’è anche la morte per arresto cardiaco. I più vulnerabili sono le persone che hanno problemi cardiovascolari e quelle che soffrono di stress e il cui organismo è già saturo di catecolamine, gli ormoni da stress endogeni. Patologie che per chi vive recluso in carcere, sono diffusissime. In un contesto, tra l’altro, dove gli abusi non mancano. Il Taser in carcere rischia di diventare anche uno strumento pericoloso di contenimento del disagio psichico. La sfida della giustizia, dopo le trattative l’Aula: ecco cosa cambierà di Francesco Grignetti La Stampa, 16 aprile 2022 Il 19 aprile va in Aula sistema elettorale misto per il Csm e basta porte girevoli, ma i renziani restano contrari. È stata davvero una lunga notte, a metà tra psicodramma e spettacolo di varietà, la scorsa notte nella commissione Giustizia della Camera. Una confusione pazzesca, perché bisognava chiudere la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura entro l’alba, costasse quel che costasse. Chi c’era, racconta che a un certo punto si votava per inerzia, per stanchezza, per disperazione. Da una parte, le opposizioni all’attacco su ogni singola virgola. Dall’altra, quelli della maggioranza che si guardavano in cagnesco, timorosi di sgambetto a ogni emendamento, eppure pressati perché era imperativo chiudere e dire al mondo che ce l’avevano fatta e che martedì 19 si comincia a votare la riforma in Aula. In mezzo, i renziani. Si sono dichiarati fuori dalla maggioranza, su un tema non da poco come il futuro ordinamento della magistratura. Ma tant’è, Matteo Renzi ha dato la linea: “Riforma inutile, ma almeno non dannosa”. E i suoi si sono subito allineati. Nella commedia della notte, sono però successe cose che hanno lasciato l’amaro in bocca a molti. Il meccanismo funziona così: prima i parlamentari discutono tra loro e con il ministro, e trovano l’accordo su alcune idee; poi il governo mette nero su bianco l’articolato; quindi la maggioranza lo vota. Il passaggio si chiama “riformulazione”. Ebbene, quando ormai era troppo tardi per rimetterci mano, e appunto c’era quella fretta indiavolata di chiudere, un comma li ha fatti saltare tutti sulla sedia: i partiti avevano trovato l’accordo su un tetto di non più di 200 magistrati fuori ruolo, di equiparare gli amministrativi a quelli ordinari, e per tutti si fissava un tetto di 7 anni al massimo di incarichi fuori ruolo, cioè distaccati ad altro ufficio. Qui il governo aveva chiesto una deroga per i magistrati distaccati alla Corte costituzionale perché lì tradizionalmente si sta 9 anni, o per le corti internazionali dove in genere c’è un mandato di 10. Quando è arrivata la riformulazione, invece, la deroga era praticamente per tutti. Si afferma un tetto di 7 anni, e subito dopo si lascia correre. “La forza della corporazione dei capi di gabinetto”, dice a denti stretti Enrico Costa, di Azione, che su questo si è astenuto. In complesso, però, al netto del blitz sui fuori ruolo, la riforma del Csm finalmente c’è. L’Aula quanto prima voterà un nuovo sistema elettorale per entrare nel Csm; il blocco delle porte girevoli (assoluto per chi sia stato eletto, parziale per chi ha avuto incarichi tecnici); i meccanismi per evitare le cosiddette “nomine a pacchetto” che venivano spartite tra le correnti; la possibilità per ogni magistrato di un solo passaggio di funzione, tra giudicante e inquirente, nel corso della propria carriera; lo sviluppo di un fascicolo personale del magistrato per tenere conto dei suoi risultati. La maggioranza ha retto, pur con i suoi mal di pancia. Dei grillini, ad esempio. “Il sistema elettorale rischia di peggiorare la situazione esistente e comunque non sembra in grado di garantire la parità di condizioni tra magistrati indipendenti e sostenuti dalle correnti, come invece avrebbe assicurato il sistema proposto dall’ex ministro Bonafede”, lamenta il M5S. Si segnalano anche due voti in dissenso della Lega sulla separazione delle funzioni e delle carriere. Tutto molto annunciato ma inoffensivo. “Abbiamo evitato più volte che la riforma venisse affossata - dice ora Anna Rossomando, a nome del Pd - e siamo soddisfatti di aver contribuito a introdurre contenuti innovativi utili ad accompagnare il necessario processo di autorigenerazione della magistratura, mettendo il Parlamento al centro e dando seguito alle parole pronunciate dal presidente Mattarella nel discorso di insediamento”. Un grande impulso è venuto infatti dal Quirinale. Il resto è stato un miracolo di equilibri da parte della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che aveva la missione impossibile di trovare una sintesi tra spinte così contraddittorie. Su un principio, però, tutti si sono trovati d’accordo: lo scandalo Palamara segna un crollo di autorevolezza della magistratura, che non fa bene al Paese. E proprio la magistratura, che si sente messa nell’angolo, reagisce a testa bassa. Martedì si riunisce l’esecutivo dell’Anm, in vista di una assemblea generale per sabato 30 aprile a Roma. All’ordine del giorno, valutazioni e iniziative sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Significa che ci si avvicina a larghi passi verso uno sciopero dei magistrati. Giustizia, sulla riforma del Csm la maggioranza si divide sul prossimo voto alla Camera di Liana Milella La Repubblica, 16 aprile 2022 Lega e Italia viva rivendicano l’intenzione di presentare propri emendamenti. Anche M5S verso proposte alternative su legge elettorale e separazione delle funzioni. Pd e Leu dicono no a richieste di modifica. Berlusconi dice che la legge può essere migliorata. Azione teme “il pantano parlamentare”. Il countdown segna meno 72 ore dall’arrivo in aula della riforma Cartabia del Csm. Che martedì prossimo affronta a Montecitorio la discussione generale. E già la maggioranza si divide. Lega e Italia viva non rinunciano a presentare i propri emendamenti sui temi per cui si battono, tutti quelli del referendum sulla giustizia. I renziani trasformeranno in proposte alternative i loro distinguo sulla riforma e confermano che alla fine si asterranno. Ma anche il M5S è intenzionato a chiedere delle modifiche su legge elettorale e separazione delle funzioni, e in queste ore ne sta discutendo al suo interno, visto che il presidente Giuseppe Conte aveva insistito sulla necessità di chiudere il testo. Forza Italia vuole soprattutto evitare il ricorso alla fiducia. Pd e Leu non presentano nulla. Azione già dice che parlare di modifiche porta ad impantanarsi. Una dinamica del prossimo voto in aula che ovviamente preoccupa palazzo Chigi, deciso a non mettere la fiducia, almeno a Montecitorio, come il premier Mario Draghi ha garantito, anche se poi sarà scontato pretenderla al Senato dove i numeri risicati fanno già ipotizzare il flop per la legge Cartabia. E c’è addirittura chi, preoccupato per un’eventuale sconfitta a palazzo Madama, già pensa a una proroga di un paio di mesi dell’attuale Csm, da decidere proprio dopo il sì della Camera e prima del voto al Senato. Ma il film di ieri rischia di rovinare la Pasqua alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Perché le certezze sull’atteggiamento “indipendentista” di Lega e Italia viva, nonché di quello del M5S, si materializzano subito dopo che un prudente e preveggente Federico D’Inca, il ministro per i rapporti con il Parlamento, di prima mattina, invia un sms ai capigruppo della maggioranza. Che suona così: “In vista dell’appuntamento parlamentare sulla riforma del Csm si auspica che il testo rimanga quello concordato. Pertanto è utile sapere in anticipo se avete intenzione di presentare emendamenti oppure no”. E qui si apre lo scenario preoccupante sul futuro parlamentare della riforma. Perché D’Incà apprende che, pur dopo il voto in commissione Giustizia e il faticoso accordo sul testo, non c’è solo Italia viva a smarcarsi dalla maggioranza. Se Matteo Renzi ha già annunciato l’astensione, e il suo delegato alle trattative, il deputato e tuttora magistrato Cosimo Maria Ferri parla di “una riforma a ribasso”, a sorprendere è non solo la decisione della Lega di presentare sotto forma di emendamenti tutti i temi del prossimo referendum sulla giustizia, ma anche quella del M5s di non rinunciare al tentativo di ottenere delle modifiche. Perché, dicono le fonti pentastellate che ne stanno discutendo, sia la legge elettorale che la soluzione della separazione delle funzioni potrebbe essere migliorata”. E poi pesa sul M5S la reazione durissima dei magistrati. Proprio martedì l’Anm, con il presidente Giuseppe Santalucia, farà una conferenza stampa e nel pomeriggio riunirà il “parlamentino”. Mentre le liste bollono di messaggi anti riforma. E sabato 30 aprile l’assemblea generale degli iscritti potrebbe dare il via libera allo sciopero. La Lega sicuramente non rinuncia neppure a votare - proprio come ha già fatto in commissione Giustizia - gli emendamenti di altri gruppi, in particolare quelli di Fratelli d’Italia, che coincidono con i quesiti referendari. Dalla responsabile Giustizia della Lega, la senatrice e avvocato Giulia Bongiorno, arriva la conferma che il gruppo della Camera depositerà proposte di modifica sulla netta separazione delle funzioni (chi entra in magistratura decide subito se fare il pm o il giudice senza cambiare mai più), sulla responsabilità civile diretta (paga la toga e non lo Stato se l’errore è confermato), sugli avvocati nei consigli giudiziari. Il risultato sarà quello di una maggioranza spaccata. Gli unici fedeli al testo Cartabia, perché già frutto di uno stressante compromesso come ha ribadito la responsabile Giustizia Anna Rossomando, sono il Pd e Leu. Ed entrambi i gruppi hanno rassicurato D’Incà. Mentre Enrico Costa di Azione dice che “se non si resta sullo stesso testo si rischia di impantanarsi”. Lui e Riccardo Magi di +Europa, al messaggio di D’Incà, hanno risposto al mattino con un “vedremo”. Ma è evidente che nel corso della giornata la tenuta della maggioranza è andata sgretolandosi. Tant’è che alla fine anche Forza Italia si è attestata sulle posizioni di Berlusconi, ossia che “il testo può sempre essere migliorato”. Di fatto una via libera agli emendamenti. Ma in concreto cosa accadrà in aula? Martedì si chiude la discussione generale. Mercoledì il programma dei lavori è pieno di altre questioni, cui segue in coda la riforma del Csm. Un’inversione dell’ordine del giorno potrebbe portarla al primo punto. Ma se esplodono gli emendamenti una giornata di dibattito non sarà sufficiente. A questo punto, per palazzo Chigi, si riaffaccia la scelta sulla fiducia. Nel garantire che non ci sarebbe stata, Draghi ha sempre parlato di “scelte condivise”, ma se il quadro dovesse cambiare, come sta cambiando, un ripensamento potrebbe essere inevitabile. La riforma del Csm non tocca le correnti e salva molti privilegi di Giulia Merlo Il Domani, 16 aprile 2022 Leggendo tra le righe del testo approvato in commissione, emerge come la sintesi raggiunta dalla maggioranza lasci ancora margini di manovra alle dinamiche delle correnti e non tocchi alcuni interessi privilegiati. I magistrati che assumono ruoli tecnici nei ministeri vedono alleggerito il meccanismo del divieto di rientro ad incarichi giurisdizionali; non si mette veramente un argine al numero di fuori ruolo e rimane la possibilità di cumulo di compensi. A rischiare una eterogenesi dei fini è anche la nuova legge elettorale del Csm, con il sorteggio delle corti d’appello che formano i collegi elettorali. Questo compromesso, trovato per ovviare al sorteggio dei candidati, rischia di indurre proprio il meccanismo che vorrebbe evitare. La riforma dell’ordinamento giudiziario arriverà in aula il 19 aprile, con testo chiuso e accordo di maggioranza in commissione. L’approvazione, salvo imboscate impreviste e con l’astensione di Italia Viva, dovrebbe essere assicurata. Parallelamente, proprio il 19 aprile l’Anm - il sindacato delle toghe composto dai rappresentanti dei gruppi associativi - deciderà i passi verso lo sciopero contro una riforma che metterebbe a rischio l’indipendenza delle toghe, buracratizzando il lavoro ed enfatizzando il carrierismo. Leggendo tra le righe del testo approvato in commissione, però, emerge come la sintesi raggiunta dalla maggioranza lasci ancora margini di manovra alle dinamiche delle correnti e non tocchi alcuni interessi privilegiati. Tecnici e fuori ruolo - La riforma prevede lo stop delle cosiddette “porte girevoli” tra politica e magistratura: i magistrati eletti poi non potranno più tornare a svolgere funzioni giurisdizionali, ma svolgeranno altre funzioni dentro amministrazioni ministeriali. La regola, che nella prima bozza valeva anche per i magistrati “prestati” alla politica come capi di gabinetto dei ministeri, è stata invece ammorbidita: solo un anno fuori ruolo prima di rientrare in attività e tre anni senza possibilità di assumere incarichi ai vertici degli uffici giudiziari. La ragione di questo diverso trattamento è che i primi sono magistrati che scelgono di candidarsi in politica, i secondi magistrati “chiamati” dalla politica a prestare funzioni tecniche. Si tratta però pur sempre di funzioni di tipo fiduciario, la cui chiamata arriva da ministri politici. Questo permette il perpetrare di una prassi: quella dei magistrati, spesso esponenti di gruppi associativi, che lasciano le funzioni giurisdizionali per dirigere gli uffici dei ministeri, ovvero i luoghi dove le riforme si pensano e si scrivono. Per fare solo qualche esempio: il ministro Andrea Orlando al ministero della Giustizia aveva come capo di gabinetto l’attuale procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo, vicino alle toghe progressiste di Area. Ora, a quello del Lavoro, c’è la toga di Magistratura democratica, Elisabetta Cesqui. Alfonso Bonafede, invece, è stato affiancato prima di Fulvio Baldi della corrente di Unicost e poi da Raffaele Piccirillo, considerato vicino ad Area, il quale oggi è rimasto nello stesso ruolo con la ministra Cartabia. La riforma prevede anche una stretta alla durata degli incarichi fuori ruolo: la modifica riguarda il numero di anni da poter svolgere fuori ruolo, ridotto da 10 a 7 anni. Questa riduzione, però, vale per un numero residuale di magistrati, visto che è prevista la deroga a 10 anni per le toghe che prendono servizio in organi costituzionali (Senato, Camera, parlamento, presidenza del Consiglio e presidenza della Repubblica), di rilievo costituzionale come il Csm e organi di governo, vale a dire tutti i ministeri e quindi la gran parte dei fuori ruolo. Il cumulo di compensi - Rimane possibile, inoltre, il cumulo di compensi. La riforma non interviene sulla possibilità per i magistrati fuori ruolo che ricoprono incarichi ministeriali di sommare gli stipendi, “con compensi che arrivano a 267 mila euro l’anno”, ha detto il deputato di Italia Viva e magistrato Cosimo Ferri, che ha votato per l’abolizione. Inoltre, continua ad essere permesso lo svolgimento in simultanea di più funzioni per i magistrati amministrativi e contabili, che possono affiancare funzioni giudiziarie a incarichi nella pubblica amministrazione. Il risultato di queste eccezioni rischia di essere quello di favorire proprio l’uscita dei magistrati dal lavoro nei tribunali, in ottica di una carriera esterna in organi che, pur istituzionali, hanno connotati politici. Il sorteggio dei collegi - A rischiare una eterogenesi dei fini è anche la nuova legge elettorale del Csm, maggioritaria con correttivo proporzionale e sorteggio delle corti d’appello che formano i collegi elettorali. Questo compromesso, trovato per ovviare al sorteggio dei candidati, rischia di indurre proprio il meccanismo che vorrebbe evitare. Modificando ogni volta i collegi, si dovrebbero scoraggiare gli accordi correntizi. In realtà, un ex magistrato conosce i meccanismi elettorali del Csm commenta: “In questo modo si inducono ancora di più gli accordi. Se Roma viene associata a Lecce, la prima cosa che faranno tutti sarà contattare i propri referenti locali per organizzare la campagna ai propri candidati. Non si favoriranno di certo i magistrati sconosciuti”. Qualche distorsione potrebbe crearla anche il nuovo metodo di valutazione dei magistrati, che dovrebbe prendere in considerazione parametri oggettivi (molti dei quali già previsti nelle attuali valutazioni) e grada i voti con giudizi come “buono” e “ottimo”. “Così i magistrati silenziosi che lavorano e rimangono sconosciuti prenderanno “buono”, mentre quelli che fanno vita associativa, si creano una rete di contatti e partecipano ai seminari prenderanno “ottimo”. Un’ipotesi per rendere la valutazione meno arbitraria sarebbe stata il rafforzamento dell’ispettorato, con funzioni di controllo trimestrali. Invece, si rischia di perpetrare i vecchi mali con nuove regole, pur teoricamente valide. Il costituzionalista Celotto: “Le toghe sbagliano, la riforma Cartabia non è quella di Berlusconi” di Liana Milella La Repubblica, 16 aprile 2022 Né profili di incostituzionalità, né “schedature”, ma una riforma frutto “di un’ampia maggioranza in cui gli approcci dei partiti sono diversi e la sintesi è ancora più travagliata”. Questa l'opinione del docente di Roma Tre. “Serve una norma transitoria per i magistrati oggi in politica come il presidente della regione Puglia Emiliano”. Riforma del Csm incostituzionale? “Non mi pare proprio”. Magistrati sotto l’incubo della schedatura? “Non corrono questo rischio, il grande fratello di Orwell non deve entrare nei palazzi di giustizia”. La stessa riforma di Berlusconi? “Oggi siamo proprio su un altro pianeta”. Il costituzionalista di Roma Tre Alfonso Celotto valuta la riforma del Csm e dice: “Forse non sarebbe piaciuta a Montesquieu, che voleva una magistratura come ordine e non come potere, ma comunque è un buon compromesso”. I giudici sono contro la riforma Cartabia, per loro è incostituzionale... “Io non vedo grandi profili di incostituzionalità, vedo preoccupazioni e polemiche perché si tratta di un nodo molto difficile da affrontare. Sappiamo che il nostro modello di ordinamento giudiziario risale per gran parte ancora a 80 anni fa e sappiamo anche che si tratta di un modello che non ha dato buona prova negli ultimi anni, come dimostra il caso Palamara, che in fondo è solo l’epifenomeno di un malessere più ampio”. Sì, ma qui i magistrati scenderanno in sciopero, come non avveniva ormai da anni e anni... “Lo sciopero è un diritto legittimo per manifestare il dissenso. Mi preoccupa vedere molto ‘benaltrismo’, cioè tanti dicono che ci vorrebbe ben altro, ma senza fare proposte concrete, operative e costituzionalmente legittime”. La riforma, come si può leggere nelle chat e nei documenti dei giudici, è quella che avrebbe voluto Berlusconi? “Questa non mi pare proprio la riforma che arriva da un solo partito, né da un solo leader, anzi è una legge frutto di una maggioranza sofferta e con molte anime. Ma, a differenza della riforma costituzionale di Berlusconi, quella di Cartabia non affronta per nulla temi come gli ‘scudi’ e le prerogative per proteggere la politica dalle inchieste, come aveva tentato di fare l’allora premier con i lodi Schifani e Alfano”. Però le toghe vedono punti della riforma che intaccano la loro autonomia e indipendenza. Come il fascicolo personale per ognuno di loro... “Il fascicolo già esiste. Va letto e applicato come strumento di trasparenza e non come strumento di controllo. Ovviamente per ora siamo di fronte a una legge delega e bisognerà vedere come sarà concretamente applicata. Comunque sarebbe impensabile arrivare a un fascicolo che vada a controllare e a giudicare i singoli provvedimenti. Ma può e deve essere un criterio concreto e trasparente per misurare la professionalità dei magistrati. Anche perché il punto è questo: come fai a giudicare se il singolo magistrato è effettivamente produttivo se non andando a verificare i suoi singoli provvedimenti, non a fini di giudizio ma per offrire la fotografia complessiva del lavoro svolto. In quest’ottica è importante che il fascicolo sia aggiornato annualmente, e non come adesso ogni quattro anni”. Però Enrico Costa di Azione, che ha proposto la modifica, parla di “una svolta storica” rispetto al fascicolo che esiste già oggi, ma il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ci vede una schedatura che scatenerà una corsa alla carriera più che alle buone decisioni giudiziarie... “Non sono valutazioni queste che spettano a un professore di diritto costituzionale. Ma a me pare che questa forma di fascicolo, con le dovute garanzie, sia uno strumento di efficienza e professionalità, anche perché contiene, e non può che contenere, dati, e non valutazioni di merito”. Però conterrà anche l’esito dei processi e le eventuali bocciature a cui, per esempio, un pm può andare incontro. Non ci vede il rischio di controllare l’attività giudiziaria, con l’effetto di spingere una toga a pensare più agli effetti sulla carriera che non a fare effettivamente giustizia soprattutto di fronte a casi difficili, o ancor più che riguardano la politica? “Il mestiere del giudice è difficilissimo. Il grande re Carlo Magno, nel nono secolo, per avere una giustizia più giusta, dovette imporre ai magistrati di svolgere i processi soltanto al mattino perché dopo pranzo erano stanchi e obnubilati dal cibo e dal vino”. Che c’entra adesso Carlo Magno? “C’entra, perché applicare la legge con saggezza ed equilibrio è un problema antico come la storia dell’uomo. La macchina della giustizia, che oggi affronta ogni anno un milione di processi, deve avere strumenti di efficienza e di valutazione, nel rispetto delle garanzie costituzionali. Anche i magistrati, come tutte le persone, non sono tutti i uguali. E questo deve emergere anche nella raccolta dei dati di produttività”. Ma il punto è proprio questo, il rischio di spingere la toga verso una logica aziendalista e che ovviamente rischia di scatenare, e non certo frenare, la corsa alla carriera... “La giustizia è un servizio indispensabile per far funzionare bene uno Stato. L’interpretazione di come i singoli magistrati applicano la propria funzione resta sempre affidata al carattere della persona. Ma il sistema deve garantire una cultura della giustizia e strumenti trasparenti, oggettivi ed efficaci per garantire i singoli e la funzione nel suo insieme. Ovviamente si tratta di un punto difficile. Ancor più perché questa è una riforma obbligata nei tempi, in quanto va approvata prima del rinnovo del Csm, e nel contesto di un governo a così ampia maggioranza in cui gli approcci dei partiti sono diversi e la sintesi è ancora più travagliata”. Già, la legge è urgentissima, la fiducia è dietro l’angolo, e già si parla di una possibile proroga dell’attuale Csm. Mentre fioccano le critiche alla scelta elettorale, con il sorteggio dei distretti e un sistema maggioritario binominale. Ma lei, proprio da esperto di sistemi elettorali, come la giudica? “Non esiste mai un sistema elettorale perfetto. Il sorteggio puro è un modello che poteva funzionar soltanto nell’Atene del quinto secolo avanti Cristo. Qui è importante invece introdurre elementi di imprevedibilità in un meccanismo che era troppo legato alla rappresentatività per correnti. Ben venga allora un pezzo di sorteggio, come pure è avvenuto secoli fa nella nomina del Doge a Venezia. Mi pare anche utile che sia previsto il sistema binominale e la possibilità di candidature individuali, sempre al fine di evitare spartizioni e calcoli elettorali”. Mattarella ha chiesto più volte una legge per sconfiggere le correnti. Questo metodo elettorale può farlo? “Quando bisogna eleggere una decina di persone su una base di diecimila votanti è inevitabile che ci siano partiti e correnti. L’importante è cercare strumenti che limitino la prevedibilità dell’esito e la spartizione preventiva dei posti”. Un solo passaggio di carriera da pm a giudice e viceversa. Svuota il referendum radical leghista sulla separazione delle carriere? “Una vera separazione deve passare da una riforma costituzionale, perché sappiamo che i costituenti hanno scelto l’indipendenza dei pm dal governo come forma di garanzia. Negli ultimi decenni sono stati introdotti per legge elementi sempre maggiori di differenziazione delle funzioni. Già oggi sappiamo che un magistrato può passare all’altra funzione solo quattro volte, e comunque non nello stesso palazzo di giustizia. Arrivare a un solo passaggio completerà questo percorso”. La stretta sulle cosiddette “porte girevoli”, per cui il magistrato che si candida non potrà tornare operativo, non si presterà a un ricorso alla Consulta? “La Costituzione limita la libertà politica dei magistrati escludendo che possano iscriversi ai partiti. Pur tuttavia è ben giusto che una toga possa candidarsi e che, al suo rientro, non lavori più in un palazzo di giustizia”. E che succede per chi, già oggi, è in politica? Penso ai due magistrati in Parlamento, Ferri e Bartolozzi, nonché al presidente della Regione Puglia Emiliano... “Nessuna legge può essere retroattiva, e quindi queste giuste limitazioni saranno operative soltanto per chi si candiderà dopo la loro entrata in vigore. Alle toghe oggi in politica va garantita una norma transitoria che possa farle tornare in magistratura, visto che quando loro si sono candidate era possibile farlo”. Il giudice Reale: “La riforma consegna il Csm alle correnti” di Paolo Comi Il Riformista, 16 aprile 2022 Assolutamente no. L’utilizzo del sorteggio dei collegi, invece che debellare la piaga che divora il governo autonomo della magistratura, la aggraverà. È un salto indietro, alla fine degli anni 90 del secolo scorso, ossia un ritorno al pieno splendore della correntocrazia. Assegnare ai collegi dei distretti più grandi forza trainante, unitamente a una legge elettorale di tipo maggioritario, vuol dire consegnare dolosamente il Consiglio superiore della magistratura allo strapotere dei gruppi associativi, che agiscono come veri partiti politici e che hanno snaturato la natura tecnica e il carattere imparziale di questo organo di rilevanza costituzionale. La Lega ha fortemente voluto questo sorteggio dei distretti, un meccanismo che favorirà, è stato ricordato durante il dibattito in Commissione giustizia dall’onorevole Giusi Bartolozzi (Misto), magistrato, i gruppi progressisti, quelli più organizzati. Si tratterebbe delle correnti, utilizzando questa volta le parole di Matteo Salvini, maggiormente ‘politicizzate’. Non le pare un ‘autogol’ della Lega? Sicuramente, è un controsenso rispetto alle intenzioni politiche tanto declamate. Soltanto recidendo il meccanismo di scelta dei componenti togati da parte delle segreterie dei gruppi mediante l’estrazione a sorte degli eleggibili si può ovviare alle storture del sistema. Mi faccia aggiungere una cosa. Prego... Dispiace davvero che il Presidente della Repubblica, che presiede anche il Csm, non abbia inteso, in questi mesi, dare seguito e ascolto a quelle decine di magistrati che dal tempo dell’esplosione di “Magistropoli” ne avevano chiesto un intervento risolutivo ed efficace e che avevano tentato di suggerire, dall’interno dell’Ordine giudiziario e dalla parte estranea alle logiche dell’appartenenza correntizia, l’unico modo (il sorteggio temperato degli eleggibili, appunto) per evitare ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti. Un magistrato senza l’appoggio delle correnti può pensare di eletto al Csm? Impossibile. Il Csm sarà per altri decenni occupato abusivamente dai partiti dei magistrati, che ne intaccano terzietà e imparzialità. Davvero una debacle, che induce i magistrati estranei alle logiche correntizie e spartitorie a pregare che non sia mai tradotta in legge e che il presidente della Repubblica si rifiuti di promulgare un atto che evidenzia profili di palese illegittimità costituzionale, penso agli articoli 101, 107 e 108, solo per citare quelli di maggiore evidenza, e che si rivela del tutto in contrasto con gli scopi che lo avrebbero dovuto animare. È favorevole allo sciopero? Il pm Nino Di Matteo ha detto che l’iniziativa potrebbe essere controproducente essendo la magistratura in grave crisi di credibilità... Come rappresentanti del gruppo Articolo 101 dentro il Comitato direttivo dell’Anm avevamo chiesto di attivare le più forti azioni di dissenso sin dal mese di marzo scorso nel corso della riunione dell’ultimo comitato direttivo centrale. Siamo rimasti inascoltati. Oggi questa necessità parte dalla “base” dei magistrati, della quale siamo orgogliosi di fare da sempre parte, e non può che essere accolta con favore da chi, come noi, sostiene la massima partecipazione democratica degli iscritti all’attività associativa. Va perciò assecondata. L’importante che, dietro ad essa, non si nascondano proteste di mera facciata, specialmente ad opera dei gruppi correntizi rimasti inerti fino ad oggi, e che ad esse si accompagnino altre forme di reazione particolarmente efficaci, rivolte alle Istituzioni e alla cittadinanza, per dimostrare come questa riforma sia esiziale per l’autonomo esercizio della giurisdizione. Siamo tutti consapevoli della crisi di credibilità della magistratura, ma proprio per recuperare il terreno perso è nostro dovere evidenziare in tutte le forme possibili le criticità di una riforma che renderebbe i magistrati simili a burocrati, assoggettati non alla legge ma ai loro “direttivi”, all’autogoverno, al potere disciplinare monocratico e persino alle istruzioni ministeriali. Chiaro. Vuole aggiungere qualcosa? Sì. È a rischio l’indipendenza dei magistrati e abbiamo il dovere di manifestare il nostro disappunto. Sono certo che la società civile comprenderà e starà vicina a quei magistrati, la stragrande maggioranza, che sono estranei a logiche clientelari e di potere e che oggi sono i primi a ritenersi vittime del famigerato “Sistema” e che hanno voglia di fare sentire la loro voce. Veleno, coltello e correnti: la magistratura torna alle origini di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 aprile 2022 La tempesta innescata dallo scandalo Palamara nel giugno 2019 sembra ormai essere stata dimenticata, e dalla cambusa della nave decrepita della giustizia italiana sono rispuntate loro, agguerrite come non mai: le correnti della magistratura. Sono tornate a monopolizzare le procedure di nomina al Csm dei dirigenti dei più importanti uffici giudiziari del paese, ma, soprattutto, sono tornate a fare la guerra alla politica, con una spavalderia quasi invidiabile. Basta citare una data: il prossimo 19 aprile. È il giorno in cui all'aula della Camera approderà il testo di riforma del Csm e dell'ordinamento giudiziario sul quale le forze di maggioranza (esclusa Italia viva) hanno raggiunto l'accordo, dopo settimane di trattative. Ebbene, proprio quello stesso giorno, con una coincidenza dall'alto valore simbolico, l'Associazione nazionale magistrati si riunirà per stabilire le iniziative di mobilitazione da assumere contro la riforma. Un'entrata a gamba tesa contro il parlamento e il governo. Nei giorni scorsi il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, ha evocato lo sciopero dei magistrati e così hanno fatto tutte le correnti togate (Magistratura indipendente, Autonomia e indipendenza, Area, Unicost), che con una raffica di comunicati stampa hanno invitato i vertici dell'associazione ad adottare decisioni drastiche contro norme ritenute punitive. Inutile ricordare che il compromesso raggiunto tra i partiti di maggioranza alla fine ha partorito un topolino: innovazioni positive su alcune questioni (le porte girevoli tra politica e magistratura, il passaggio di funzioni tra pm e giudici, le valutazioni del magistrato), ma un sistema elettorale bizzarro per l'elezione dei membri togati del Csm, basato sul sorteggio dei collegi, che non ridurrà in alcun modo il peso delle correnti. Senza parlare della mancata ridefinizione del ruolo e delle attribuzioni dell'organo di governo autonomo della magistratura, possibile solo con una riforma costituzionale. Nonostante ciò, le correnti si oppongono alla riforma Cartabia e minacciano lo sciopero. Con quale faccia tosta, verrebbe da dire, ricordando il giro di manovre spartitorie e di raccomandazioni (per la verità, già noto agli addetti ai lavori) emerso dallo scandalo Palamara. Un “quadro sconcertante e inaccettabile”, lo definì subito il capo dello Stato Sergio Mattarella, che un anno dopo rincarò la dose: n'E' il momento di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l'interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile”. Ma il coraggio, come diceva Manzoni, se uno non ce l'ha, mica se lo può dare. Così, all'interno della magistratura non si è innescato nessun dibattito autocritico. Si è lasciata passare la tempesta, per poi ritornare alla situazione precedente come se nulla fosse accaduto. Ciò vale nei rapporti con la politica, contro la quale si minacciano scioperi, ma anche nei rapporti tra le stesse correnti, ciascuna impegnata a tutelare i propri interessi, senza risparmiare colpi. Pochi giorni fa, ad esempio, il gruppo di sinistra di Area si è opposta in Csm alla nomina di Marcello Viola (sponsorizzato da Magistratura indipendente) alla guida della procura di Milano, poi comunque avvenuta, preferendo sostenere il proprio candidato Maurizio Romanelli, affermando che “l'immagine di indipendenza” di Viola fosse “oggettivamente appannata” a causa del caso Palamara, a cui però il magistrato è risultato estraneo. Quando nei giorni scorsi in parlamento è saltato il tentativo di innalzare l'età pensionabile delle toghe da 70 a 72 anni, Magistratura indipendente ha emanato una nota polemica avanzando “il sospetto” che lo scopo dell'iniziativa non fosse quello di mantenere in servizio qualche anziano magistrato e mettere una toppa ai vuoti di organico, bensì “favorire o penalizzare singoli magistrati”. Bersaglio indiretto della frecciata era Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione ed esponente delle toghe di sinistra. Le correnti sono tornate. Anzi, non sono mai andate via. Il processo mediatico? Colpa degli avvocati. Parola di Salvi di Simona Musco Il Dubbio, 16 aprile 2022 Presunzione d’innocenza, il pg di Cassazione: “La comunicazione non va abbandonata alla disponibilità delle parti private, non hanno obbligo di correttezza nell’informazione”. Il processo mediatico? Colpa degli avvocati. A sostenerlo è il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, in un documento con il quale definisce gli orientamenti della Suprema corte in materia di comunicazione istituzionale sui procedimenti penali. Ben vengano il rispetto della presunzione d’innocenza e della dignità della persona, afferma il pg - che, è bene ribadirlo, è anche il titolare dell’azione disciplinare a carico dei magistrati - ma la direttiva europea recepita dal governo italiano, che impone ai capi delle procure una comunicazione più sobria, avrebbe come effetto quello di lasciare tutto in mano alle parti private - gli avvocati, appunto -, con il rischio “che il processo si svolga non nelle aule di giustizia, ma in quelle dei mezzi di comunicazione di massa”. Il tutto, aggiunge Salvi, “senza alcun contraddittorio in grado di ripristinare, non si dice la parità delle armi, ma almeno la verità di quanto accertato nelle aule giudiziarie rispetto alle prospettazioni mediatiche delle parti”. Insomma, in 10 pagine Salvi ribadisce quanto già affermato al convegno di “Giustizia Insieme”, quando aveva evidenziato che “il pubblico ministero e il giudice devono contrastare le informazioni errate e fuorvianti che vengono fornite dalle parti che non hanno obbligo di verità, non hanno obblighi specifici di correttezza. Anche questa è una cosa che dobbiamo discutere: il difensore ha obbligo di verità? Ha obbligo di correttezza? Non so, è un tema però che forse va posto, perché non è possibile che la disciplina sia solo quella del magistrato”. Il suo pensiero, ora, viene condiviso con tutti i procuratori delle Corti d’Appello e tramite loro con i capi di tutti gli uffici inquirenti d’Italia, che useranno proprio questa circolare per applicare la direttiva sulla presunzione d’innocenza. Salvi ha ricordato che informare l’opinione pubblica “non è un diritto di libertà del magistrato del pubblico ministero o del giudice, ma è un dovere preciso dell’Ufficio”. Che dovrà, certamente, preoccuparsi di fornire un’informazione “corretta e imparziale”, “rispettosa della dignità della persona”, “completa ed efficace”, oltre che rispettosa della segretezza di alcuni atti. Ma senza nessun altro limite. E la presunzione di innocenza, dunque, “non deve comportare che la comunicazione sia interamente abbandonata nella disponibilità delle parti private, nel corso del procedimento; parti per le quali non è invece posto alcun obbligo di rispetto di canoni seppur minimi di correttezza nella informazione”. Il rischio è, appunto, il processo mediatico, del quale il pg dà la colpa ai soli avvocati, nonostante il loro ovvio interesse a garantire il rispetto della presunzione d’innocenza e nonostante siano stati proprio i magistrati, negli anni, a monopolizzare la comunicazione, sia sulla carta stampata sia nei salotti televisivi, spesso presentando come colpevoli i semplici indagati. E Salvi critica anche “il sempre più frequente commento mediatico alla decisione del giudice, in termini spesso offensivi e aggressivi”. Condotte che, se poste in essere dai magistrati, “costituiscono illecito disciplinare”, mentre non esisterebbero “sanzioni analoghe” nei confronti dei difensori delle parti private. Da qui l’invito ai colleghi a segnalare ai Consigli di disciplina forense tali condotte “nei casi gravi”. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali “è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”, ribadisce il pg. Sarà il procuratore a stabilire quando tale interesse sussista, sulla base di “circostanze fattuali, temporali, e territoriali che non possono essere univocamente previste”. Di conseguenza la scelta “non può essere sindacata, se non nei casi di palese irragionevolezza”. Insomma, il margine d’azione rimane amplissimo, secondo l’interpretazione data da Salvi alla direttiva e al decreto che le dà attuazione. E se è necessario motivare la convocazione di una conferenza stampa, tale obbligo anche per i comunicati stampa sarebbe irragionevole, in quanto contrasterebbe non solo con la norma, ma anche “con la tutela dell’interesse pubblico all’informazione, avente certo rilievo costituzionale”. Non sono vietate le interviste, anche perché, “come per qualunque altro cittadino, la manifestazione del pensiero è libera e costituzionalmente garantita” dall’articolo 21 della Carta. “Ad essere regolamentata è soltanto la comunicazione “istituzionale”, afferma Salvi, ma va “evitata ogni indebita espressione di opinioni, considerazioni e notizie, che ove non trasfuse negli atti dell’indagine divenuti sino a quel momento pubblici, deve considerarsi illecita”. Ogni violazione della presunzione d’innocenza si trasformerebbe, comunque, in violazione degli scopi e della lettera della direttiva, “con ogni conseguenza”. La comunicazione diretta con il giornalista è dunque lecita, ma “non deve trattare delle posizioni di singoli indagati”, mentre sono “vietate” interviste, “specialmente in esclusiva, volte alla trattazione di questioni inerenti singoli procedimenti o specifiche posizioni processuali”. Sarà possibile ancora consegnare ai giornalisti copie delle ordinanze di custodia cautelare, ma non gli atti di indagine. Ma nel redigere l’ordinanza, il giudice ha “il dovere della presentazione degli elementi indiziari a carico dell’indagato in termini tali da un lato, da giustificare l’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, e dall’altro da lasciare impregiudicata la presunzione di innocenza”. Roma. Dramma a Regina Coeli: morto per malore detenuto 36enne di Maria Concetta Alagna ilcorrieredellacitta.com, 16 aprile 2022 Un detenuto straniero di 36 anni è morto ieri, 14 aprile, nel carcere romano di Regina Coeli, dove avrebbe dovuto scontare per altri due anni una condanna per rapina aggravata. A darne notizia il sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe. “L’uomo aveva precedenti di tossicodipendenza che possono avere significativamente inciso sulle cause della morte, che allo stato risultano legate a un malore ma sulle quali sono in corso accertamenti più approfonditi”, riferisce il segretario nazionale, Maurizio Somma, facendo riferimento al fatto che il corpo sarà comunque sottoposto ad autopsia, così come disposto dall’autorità giudiziaria. “Ancora un decesso per un soggetto che, forse, poteva anche non essere in carcere in relazione alla sua posizione giuridica e stato di salute”, aggiunge Somma. Per il segretario generale del Sappe, Donato Capece, “ci troviamo a commentare una tragedia umana avvenuta in quei moderni lazzaretti che sono diventati i penitenziari italiani, nei quali secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti”. “Questo significa - chiarisce - che almeno due detenuti su tre sono malati e fa comprendere - rimarca - in quali critiche, difficili e pericolose condizioni lavorano le donne e gli uomini del Corpo di polizia penitenziaria”. San Gimignano (Si). Spionaggio nel carcere delle torture di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 16 aprile 2022 Due agenti sotto accusa: intercettati e minacciati il direttore e le educatrici. Un direttore di carcere intercettato abusivamente e minacciato mentre cercava di avviare un dialogo con i detenuti per superare il clima di tensione nell’istituto di San Gimignano dopo la vicenda delle torture in cella che nel febbraio 2021 ha portato alla condanna di dieci agenti. È quanto emerge dall’inchiesta della Procura di Firenze che ha portato alla sospensione di un ispettore. Indagato l’ex comandante. Nuova bufera sul carcere di San Gimignano. A distanza di tre anni dall’inchiesta che ha portato sul banco degli imputati quindici agenti di polizia penitenziaria accusati del pestaggio di un detenuto, sono finiti nel mirino l’ex comandante dell’istituto penitenziario e un ispettore (entrambi sono stati trasferiti, uno a Volterra, l’altro a Prato). Le indagini, condotte dai carabinieri e dalla polizia postale, coordinate dal procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, hanno portato alla sospensione del servizio per nove mesi dell’ispettore che all’epoca dei fatti era un viceispettore. L’inchiesta avrebbe rivelato una vera e propria attività di spionaggio all’interno del carcere messa in atto dai due della penitenziaria. Per questo il direttore del carcere Giuseppe Renna sarebbe stato intercettato abusivamente e minacciato mentre tentava di avviare un dialogo con i detenuti nel tentativo, come ha spiegato lui stesso agli inquirenti, di superare il “clima pesante” che si respirava nel penitenziario dopo l’inchiesta sulle torture. “Ritengo che quando le richieste dei detenuti vengono rigettate sia importante dare la motivazione - è la linea del direttore - e soprattutto non dire che l’aveva detto il direttore quando questo non corrispondeva al vero”. A dare il via all’inchiesta è stato il magistrato di sorveglianza di Siena che in una nota riservata alla Procura comunicava di aver appreso che all’interno del carcere di San Gimignano sarebbero stati apposti dispositivi abusivi per registrare illecitamente i colloqui del personale, in particolar modo del direttore del carcere con alcuni detenuti. “Avevo avviato i colloqui - ha raccontato davanti agli inquirenti il direttore del carcere - perché il clima stava peggiorando”. Lui aveva anche allontanato gli ispettori responsabili di un reparto che erano collegati alla vecchia gestione (i dieci agenti condannati per complicità nel pestaggio di un detenuto) sostituendoli con due più giovani ma poco dopo anche loro si erano irrigiditi e i detenuti erano scontenti e si lamentavano di essere trattati male. Sarebbe stato il comandante a riferire al direttore che i suoi colloqui erano stati intercettati, minacciando anche di renderli pubblici e di inviarli ad un’emittente televisiva. Durante una riunione nel marzo 2021 con le educatrici (le stesse che avevano denunciato le torture e che quindi erano oggetto di astio) il comandante disse: “State attenti che pioveranno denunce per tutti”. E rivolgendosi a Renna: “Lei è andato a sentire i detenuti di domenica in assenza dei coordinatori”. Poi l’ammissione: “Sì, c’abbiamo la registrazione. Lei è stato ascoltato, intercettato, queste conversazioni possono essere diffuse. Le registrazioni sono state ascoltate da tutti gli ispettori e sono tutti sul piano di guerra. Nella stanza c’è un computer che registra”. Gli accertamenti svolti non avrebbero permesso di stabilire chi sia stato a realizzare queste registrazioni, una cui copia è stata trovata in una chiavetta custodita nell’alloggio di servizio del commissario capo. L’ispettore sospeso avrebbe intercettato abusivamente almeno 165 conversazioni, tra telefonate di detenuti (almeno nove tra il 24 dicembre 2020 e l’1 gennaio 2021) e discussioni in cella (almeno 156, tra 13 e il 16 novembre 2020). I file sono stati trovati nell’hard disk del suo pc, che è stato sequestrato. “Dieci poliziotti condannati ingiustamente”, la frase postata sullo stato whatsapp del suo telefono. A lui sarebbe da ricondurre l’attività di controllo e di spionaggio, non solo nei riguardi dei detenuti ma, viene ipotizzato, anche delle educatrici e dei colleghi di lavoro. I reati ipotizzati a vario titolo nell’inchiesta sono quelli di abuso d’ufficio, violenza privata, accesso abusivo a sistema informatico, violazione di sigilli, intercettazione o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche. “Il vice ispettore - si legge nell’ordinanza firmata dal gip Agnese Di Girolamo - pienamente solidale e assolutorio con i colleghi ritenuti responsabili dei gravi fatti di tortura commessi all’interno del carcere di San Gimignano, è stato spregiudicato nel violare i sigilli apposti alla sua casella di posta elettronica mostrando indifferenza per le indagini in corso e in spregio degli ordini dell’Autorità. Viene descritto come contrario a qualsiasi attività di recupero dei detenuti, che per lui devono soffrire e basta”. Tutte circostanze, che denotano, secondo il giudice, “un atteggiamento fortemente corporativo e una personalità oppositiva e un agire spregiudicato nel violare le libertà altrui e una incapacità di rispettare i diversi ruoli e competenze all’interno della struttura carceraria. È attuale il pericolo che il vice ispettore, se non limitato, possa commettere reati della stessa indole”. Il fatto che sia stato trasferito in un’altra struttura carceraria con mansioni diverse, “non è rassicurante”. San Gimignano (Si). “Si sentivano minacciati dal direttore perché era troppo sensibile ai diritti” di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 16 aprile 2022 La garante Ciuffoletti (Altro Diritto): la nostra attività non è ben accolta. “Consideravano il direttore Giuseppe Renna troppo vicino a istanze e diritti dei detenuti. Troppo orientato ad ascoltarli. Si sono sentiti minacciati, dopo che il caso delle torture a San Gimignano è deflagrato. Perché quella che dovrebbe essere considerata una normale politica di direzione carceraria è stata vissuta dagli agenti come fosse in contrasto alle loro esigenze. Come se le due cose fossero in alternativa. Ma non è così, non deve essere così: un carcere che funziona persegue entrambe le istanze, i diritti dei detenuti e il benessere degli agenti”. La rappresentante legale dell’associazione L’Altro Diritto Sofia Ciuffoletti, in questa veste anche garante dei detenuti nella casa circondariale di massima sicurezza, spiega così il legame tra l’inchiesta - e le prime condanne - per le torture, e questo nuovo capitolo relativo alle intercettazioni ai danni del direttore reggente. Nel 2020 a San Gimignano - i primi casi risalgono alla fine del 2018 - per la prima volta è stata riconosciuta esplicitamente la “tortura di Stato”. Ma ora, avverte Ciuffoletti, “sono una quindicina le case circondariali in cui si rischia di trovarci di fronte a situazioni simili”. Per questo “l’amministrazione penitenziaria dovrebbe fare tesoro di questa vicenda e capire che non si può lasciare ingovernate situazioni così esplosive”. L’attività de L’Altro Diritto “non è ben accolta, per usare un eufemismo”, scherza Ciuffoletti, in ambienti come quello, chiusi, isolati, dal corpo di polizia penitenziaria. “Tutto è cambiato quando è arrivato il nuovo direttore, una persona estremamente in gamba e sensibile ai problemi”. È stato lui stesso a sollevare il caso. Anzi: “La cosa che appare più grave è proprio l’ipotesi che ci sia stata una minaccia nei confronti del direttore del carcere”, prosegue. “Renna stava applicando una politica più che normale di ascolto dei detenuti e molto chiara sui diritti, e lo intercettavano per questo, arrivando a minacciarlo di rendere pubblico il contenuto delle conversazioni. É significativo che il direttore abbia mostrato di non essere assoggettato alla logica del “o con noi o con loro”. Lo hanno fatto a partire dal 2021 “appena dopo la condanna dei 10 agenti con rito abbreviato”, cosa che ha creato “uno stato di agitazione in carcere, che è una delle situazioni di cui il Dap dovrà in futuro prendersi cura con misure per prevenire un clima di questo tipo: quando gli agenti si sentono sotto accusa e il giudizio si polarizza, con le posizioni alla Salvini da una parte, incondizionatamente dalla parte degli agenti, e quelle che invece li dipingono tutti come mostri torturatori, anche se non è così. La situazione va gestita ed è fondamentale tranquillizzare gli agenti non coinvolti nell’inchiesta”. È stato da poco nominato un nuovo capo dipartimento a Roma: Carlo Renoldi. “Magari potrà pensare strategie per affrontare situazioni come questa. Altrimenti continueranno a verificarsi casi di illegalità”. Perché “il problema a San Gimignano è la necessità di riprendere in mano la gestione del personale e lavorare affinché istanze dei detenuti e tranquillità degli agenti vengano garantite insieme. Come Altro Diritto confermiamo supporto e collaborazione a questa direzione”. San Gimignano (Si). Tre anni fa l’inchiesta choc. Già dieci agenti condannati, più un medico di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 16 aprile 2022 L’inchiesta che ha travolto il carcere di San Gimignano inizia da una lettera recapitata ad un’associazione che si occupa di diritti dei detenuti in cui si raccontano le violenze da parte di un gruppo di agenti penitenziari nei confronti di un detenuto tunisino di 33 anni, in cella per spaccio: “Alle 15.20 dell’11 ottobre 2018 arriva nella sezione isolamento una squadriglia. Oltre venti agenti, compresi due ispettori, ci fanno assistere a un pestaggio nei confronti di un extracomunitario colpito con calci e pugni”. Parte così l’inchiesta della Procura di Siena che ipotizza il reato di tortura, introdotto nel nostro Paese, con la legge 110 del 2017. Le telecamere di sorveglianza del carcere riprendono alcune scene della violenza. Un filmato di quattro minuti diventa il principale atto di accusa. Sotto indagine finiscono 15 agenti. Nel novembre 2020 c’è stato il rinvio a giudizio per cinque agenti ed è tuttora in corso il processo a Siena, l’udienza con ogni probabilità non arriverà prima di un anno. Nel febbraio 2021 è arrivata invece la condanna con il rito abbreviato di dieci agenti (con pene dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi) che non avrebbero partecipato materialmente al pestaggio ma sarebbero stati considerati dal giudice “complici” delle violenze. La sentenza è stata impugnata dai difensori degli agenti ma il processo di Appello non è stato ancora fissato. Probabile che si attenda l’esito del processo di primo grado del procedimento principale. La decisione del giudice di riconoscere per la prima volta la tortura come reato autonomo e non come aggravante è stata accolta da più parti come “storica”. Di diverso avviso l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che fin dai primi momenti ha espresso solidarietà agli agenti. “Solo sentire accostare questi padri di famiglia al termine tortura mi fa arrabbiare” aveva detto nel marzo 2021 durante una visita al penitenziario di San Gimignano. Il gup di Siena ha poi condannato a 4 mesi anche il medico dell’istituto, accusato di rifiuto di atti d’ufficio perché si sarebbe rifiutato di visitare e refertare il tunisino. Gli agenti sono stati tutti sospesi dall’amministrazione penitenziaria nell’agosto 2021 con grande polemica da parte dei sindacati che rivendicavano il principio della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva. Firenze. Basta con il “codice Floyd”: lettera aperta al sindaco Dario Nardella di Luigi Manconi La Repubblica, 16 aprile 2022 Bisogna bandire questa tecnica di fermo perché si è rivelata molto pericolosa. Cancellarla è un primo passo per ridurre il numero delle vittime incolpevoli. Gentile sindaco Dario Nardella, la stima che provo per lei mi induce a scriverle a proposito di una vicenda accaduta nella città di Firenze. Il 5 aprile scorso alcuni agenti della Polizia municipale hanno adottato quello che vorrei definire “codice Floyd” ai danni di un venditore ambulante senegalese, Pape Demba Wagne. Provvidenzialmente, l'azione non si è conclusa con la morte del fermato, ma un video ha riproposto, ancora una volta, la tecnica già attuata nei confronti dell'afroamericano George Floyd, deceduto per asfissia il 25 maggio del 2020 a Minneapolis. La modalità è esattamente questa: il fermato, che si sottrae o resiste, viene bloccato a terra in posizione prona con i polsi legati dietro la schiena, mentre uno o più agenti gli gravano su spalle, scapole e dorso. Intanto, il braccio di uno degli agenti ne stringe il collo: e la duplice pressione sul torace e sulla gola, impedendo la normale respirazione, può causare l'asfissia. A mia conoscenza l'ultima applicazione di quella manovra è del primo gennaio del 2021, quando, all'interno dell'ambasciata italiana di Montevideo, un poliziotto uruguaiano affronta il nostro connazionale Luca Ventre provocandone la morte. L'autopsia del medico legale italiano ha constatato che la fine di Ventre è stata causata da “asfissia meccanica, violenta ed esterna”, scaturita dalla presa con cui l'uomo è stato bloccato per diversi minuti. La prima volta che ho appreso di quella modalità di fermo - ma chissà quanto frequentemente era già successo - risale all'ottobre del 2006 e ne fu vittima Riccardo Rasman. Il processo per la sua morte dimostrerà che “sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia” era stata esercitata “un'eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie”. Era già accaduto a Federico Aldrovandi e accadrà, ancora, a Bohli Kaies, Arafet Arfaoui, Vincenzo Sapia, Bruno Combetto e chissà a quanti altri ancora. E, la notte del 3 marzo del 2014, a Riccardo Magherini, in borgo San Frediano, a Firenze. Per quest'ultimo, la Corte europea dei Diritti umani (Cedu) ha chiesto al governo italiano risposte circostanziate a proposito dei comportamenti dei carabinieri autori del fermo. Un passo indietro. Il 30 gennaio del 2014, una circolare del Comando generale dell'Arma dei Carabinieri, affissa sulle bacheche di tutte le caserme italiane, chiedeva ai militari di evitare “i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona”, aggiungendo che “la compressione toracica può costituire causa di asfissia posturale”. Un mese dopo, la morte di Magherini. Nel 2016, mentre era in corso il relativo processo, quella circolare venne sostituita da un altro documento nel quale si omettevano le raccomandazioni sui rischi di un ammanettamento “nella posizione prona a terra”. Una ulteriore vicenda riporta a quanto accaduto, qualche giorno fa, a Firenze. Il 5 agosto del 2015, a Torino, Andrea Soldi, affetto da schizofrenia paranoide, subisce un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Identiche le modalità e uguali gli operatori: agenti della polizia municipale. È questo, caro sindaco Nardella, che la chiama in causa. Lei, opportunamente, ha detto che sarà avviata “una verifica interna alla polizia municipale” e che gli eventuali responsabili “saranno sanzionati disciplinarmente”. Giusto. Ma, forse, può essere questa l'occasione per promuovere proprio a partire da Firenze una iniziativa pubblica che arrivi a porre al bando quella tecnica di fermo perché rivelatasi così altamente pericolosa. Prevedibilmente, gli appartenenti ai corpi di polizia diranno che il “codice Floyd” si rende necessario a causa della reazione del fermato. Ma questo evidenzia un problema grande come una casa: troppi episodi dicono inequivocabilmente che la formazione tecnica dei membri delle polizie, pure sotto il profilo strettamente operativo, rivela gravissime carenze. Anche quando non vi sia alcuna volontà esplicitamente aggressiva. Dunque, cancellare il “codice Floyd” è un primo passo per ridurre il numero delle vittime incolpevoli degli abusi causati da appartenenti, talvolta altrettanto incolpevoli, agli apparati dello Stato democratico. Modena. Apertura di una sezione 41 bis al carcere di Sant'Anna, smentita l'ipotesi modenatoday.it, 16 aprile 2022 Il sindaco Muzzarelli ha risposto all’interrogazione della consigliera Moretti (Lega Modena) dopo aver contattato a riguardo anche l’amministrazione penitenziaria. “Come Amministrazione comunale non abbiamo alcun riscontro né politico né istituzionale in merito all'ipotesi di creare nel carcere di Sant'Anna di Modena una sezione dedicata al regime speciale di detenzione ex art. 41 bis del Codice Penale. Dall’inizio della legislatura che ha visto tre Governi avvicendarsi alla guida del Paese, nessun parlamentare o esponente politico nazionale mi ha mai dato notizie o anche solo segnali in tal senso”. Lo ha affermato il sindaco Gian Carlo Muzzarelli durante la seduta del Consiglio comunale di giovedì 14 aprile rispondendo a un’interrogazione di Lega Modena illustrata dalla consigliera Barbara Moretti. L’istanza partiva dal presupposto che “nel 2017 il dibattito politico parlamentare e locale si concentrò sull’ipotesi dell’allora amministrazione penitenziaria di realizzare nel carcere circondariale Sant’Anna, una sezione di massima sicurezza per il regime di 41 bis” e proseguiva dicendo che “da informazioni, non confermate ufficialmente, risulterebbe che per il carcere di Modena si prospetterebbe nuovamente l’ipotesi di una sezione riservata ai detenuti in regime di cosiddetto carcere duro”. La consigliera ha quindi chiesto “se risulti, e a quale livello, confermata l’ipotesi” e “quale sarebbe nel caso la posizione dell’amministrazione comunale”. Il sindaco ha precisato di non aver alcun riscontro in tal senso non solo per quanto riguarda la consiliatura in corso, iniziata nel 2019, ma anche in quella precedente quando era ministro della Giustizia Orlando. “Abbiamo ovviamente chiesto anche informazioni all’amministrazione della casa circondariale di Sant'Anna - ha continuato Muzzarelli - inoltrando il testo dell’interrogazione alla direttrice e la dottoressa Anna Albano ha testualmente risposto che ad oggi non vi sono provvedimenti comprovanti quanto oggetto dell’interrogazione”. Il sindaco ha poi assicurato che vista la rilevanza dell'argomento, si riserva in ogni caso di fare nuove verifiche in futuro, se necessario anche attivando contatti diretti con la ministra Cartabia. Ammettendo quindi l’impossibilità di esprimere una posizione politica dell'Amministrazione comunale in merito a qualcosa che oggi non sussiste, Muzzarelli si è limitato ad una considerazione generale valida per tutte le amministrazioni dello Stato centrale che si trovano sui territori e che sono completamente al di fuori delle competenze degli Enti locali, come appunto il comparto giustizia ed istituti penitenziari. “Qualunque implementazione, modifica o cambiamento venga decisa a Roma - ha affermato Muzzarelli - deve sempre prevedere garanzie per le comunità locali. La collaborazione istituzionale è alla base di una Pubblica amministrazione che funziona e a Modena la mettiamo in pratica da sempre. Però quando lo Stato prende una decisione che ha implicazioni sulle città e sulla vita quotidiana delle persone, è tenuto a prendersi fino in fondo tutte le responsabilità, mettendo a disposizione risorse economiche, persone e competenze. È una considerazione ovvia, ma, purtroppo, assolutamente attuale come ci testimoniano anche le ultime istanze dei sindaci italiani nei confronti del Governo centrale”, ha concluso. In replica, la consigliera Moretti ha ribadito che l’ipotesi di realizzare una sezione per il 41bis al Sant’Anna “non è una nostra idea ma ci era stata rappresentata. Da informazioni della Commissione parlamentare antimafia - ha aggiunto - sappiamo che sono stati fatti sopralluoghi per verificare se la casa circondariale è idonea per una dislocazione temporanea e di poche unità”. Cagliari. I detenuti inseriti nella manutenzione del verde pubblico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 aprile 2022 L'iniziativa, denominata “Mi riscatto per il futuro”, intrapresa nel 2019 e sospesa nel 2020 a seguito della pandemia, si pone l'obiettivo di realizzare un programma formativo qualificante a favore dei carcerati. Rinnovato, per i prossimi 3 anni, il protocollo d’intesa tra la Città Metropolitana di Cagliari, la società in house Proservice Spa e la direzione della Casa Circondariale E. Scalas di Cagliari-Uta per la promozione del lavoro di pubblica utilità attraverso l’inserimento lavorativo dei detenuti nella manutenzione del verde pubblico e nel recupero del patrimonio ambientale. Con il documento, sottoscritto dal sindaco metropolitano Paolo Truzzu, dal direttore dell’istituto penitenziario Marco Porcu e dall’amministratore unico di Proservice Carlo Poddesu, il ministero della Giustizia e la Città Metropolitana si impegnano ad una proficua collaborazione per favorire l’inclusione sociale dei soggetti sottoposti a procedimenti penali, attraverso opportunità di lavoro nell’ambito di progetti condivisi tra le parti. L’iniziativa, denominata “Mi riscatto per il futuro”, intrapresa nel 2019 e sospesa nel 2020 a seguito della pandemia, si pone l’obiettivo di realizzare un programma formativo qualificante a favore dei detenuti, finalizzato all’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro, nell’intento di contribuire ad arginare il problema della difficoltà di inserimento dei soggetti in esecuzione penale. I progetti, della durata di sei mesi rinnovabili, saranno predisposti dalla Proservice Spa, in qualità di soggetto esecutore, e attuati nel territorio dei 17 Comuni della Città Metropolitana di Cagliari con l’impiego dei detenuti individuati dalla Casa Circondariale, per lo svolgimento di attività lavorative nel campo della salvaguardia ambientale, del recupero di spazi pubblici e aree verdi e di supporto alle attività amministrative e tecniche della società. Lecce. Detenuti a fine pena lavorano in lab gastronomico ansa.it, 16 aprile 2022 Mette in luce una via di riscatto sociale sia per i detenuti a fine pena che per i luoghi di una città-gioiello del Salento, Lecce. Si tratta di “Social Food Corporation” che da sede dell'ex carcere minorile ora è un laboratorio gastronomico inclusivo che offre nuove chance di inserimento lavorativo ai detenuti a fine pena. Un progetto voluto da un imprenditore di successo nel settore horeca, Davide De Matteis, il patron del 300mila di Lecce, più volte miglior bar d'Italia per il Gambero Rosso, e di un gruppo che annovera un ristorante, una società di catering e Orecchiette à porter, nuovo format di cultura gastronomica salentina in giro per l'Italia. Ha deciso di condividere questi successi restituendone in parte a coloro che, dopo aver scontato la pena, hanno necessità di riacquistare valore e dignità, di essere autonomi e sentirsi di nuovo cittadini. Il 4 luglio 2019 nasce Social Food Corporation, nell'ambito di una proposta di cooperazione per il reinserimento lavorativo dei detenuti della Casa Circondariale di Borgo San Nicola, vicini al termine della pena, con il Ministero della Giustizia, che mette a disposizione oltre mille metri quadrati nell'ex carcere minorile di Lecce, con l'intento di arrivare ad assumere venti detenuti. Il 300mila Group si impegna nella ristrutturazione e adeguamento degli spazi, apporta tutte le attrezzature necessarie, crea un percorso di formazione di pasticceria e di cucina. Attualmente sono tre i detenuti coinvolti. Qui si producono confetture, conserve, sughi, pane, frollini, pasticciotti, cioccolato, latte di mandorla e tanti altri prodotti salati e dolci, come anche la “Colomba 300mila per l'Ucraina” in limited edition (solo 100 pezzi), confezionata con i colori dell'Ucraina e prodotta dal 300mila nel laboratorio Social Food Corporation per raccogliere fondi da destinare all'Unicef per l'Ucraina. Nell'attuale mondo carcerario italiano solo il 34% dei 54mila reclusi è impegnato in un lavoro (15.827 alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e 2.130 di cooperative esterne), secondo il recente studio “Valutare l'impatto sociale del lavoro in carcere” promosso da Fondazione E. Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud e Fondazione Cariparo con il patrocinio del Ministero della Giustizia. Eppure con l'inserimento lavorativo il tasso di recidiva scende e la produttività sale. Se il 50% dei detenuti in Italia fosse impiegato nelle aziende produrrebbe un fatturato di 900 milioni di euro in più all'anno. Venezia. Un incontro sul progetto di teatro realizzato nelle carceri veneziatoday.it, 16 aprile 2022 Si chiama “Passi Sospesi” il progetto realizzato nei due penitenziari di Venezia (Santa Maria Maggiore e Giudecca) da Balamòs Teatro, che mercoledì 20 aprile presenterà l'iniziativa nel corso di un incontro pubblico che include anche una mostra fotografica in video di Andrea Casari e un video documentario di Marco Valentini. L'evento è organizzato in collaborazione con la Fondazione di Venezia in occasione della sessantesima Giornata mondiale del teatro. Nella stessa circostanza sarà anche presentata la prossima edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini Incrociati”, che quest’anno avrà anche una sezione internazionale, e si svolgerà il prossimo novembre a Venezia. L'iniziativa è promossa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che dal 2014 ha istituito la Giornata nazionale del teatro in carcere. L'idea è di promuovere e ideare eventi, spettacoli, incontri, iniziative di confronto e dibattito dentro e fuori dagli istituti penitenziari. Sarà un’occasione per fare una riflessione sul ruolo del teatro in carcere e confrontarsi sul rapporto tra il carcere e il territorio per capire se, e come, la società possa contribuire nel percorso rieducativo della pena. Al centro dell’attenzione dei promotori c’è la considerazione che le buone pratiche del teatro, nella loro più ampia accezione, costituiscono un elemento fondamentale per una reale crescita del percorso di risocializzazione delle persone detenute. Il progetto teatrale Passi Sospesi è finanziato dalla Regione del Veneto, ed è promosso e sostenuto dal Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, Ministero per i Beni e le Attività Culturali (progetto nazionale Destini Incrociati), International Network for Theatre in Prison (Unesco), Teatro Stabile del Veneto, Università Ca’ Foscari di Venezia, Centro Teatro Universitario di Ferrara, Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, Comune di Venezia. La mala, da Vallanzasca a Turatello: quando Milano era come Chicago di Benedetta Tobagi La Repubblica, 16 aprile 2022 La banda della Comasina e gli “indiani” di Epaminonda, le rapine epocali e le evasioni, gli inseguimenti e le sparatorie: su Sky una docuserie ripercorre l'escalation di violenza degli anni 70 con tutti gli uomini che misero le mani sulla città. “Milano come Chicago”, titolava La Notte nel 1976. Ci sono i leggendari night all’ombra della Madonnina dove, tra spogliarelliste, coca e fiumi di champagne, accade che un criminale come il “tebano” Angelo Epaminonda regali a Bettino Craxi un cucciolo di leone. Ci sono le strade buie in cui s’incrociano le traiettorie di bande criminali, che a suon di sparatorie e omicidi si contendono i soldi della Capitale morale tra rapine, bische illegali, sequestri di persona (ben 161 soltanto in Lombardia tra il 1973 e l’84) ed evasioni da film: dagli uomini di Francesco “Francis” Turatello alla banda della Comasina del “bel Renè” Renato Vallanzasca, feroce e ruspante, e il suo scontro con gli “indiani” di Epaminonda, che sembrano gli “88 folli” di Kill Bill volume I. Ci sono le mafie: i siciliani, i calabresi e l’anonima sequestri che, con metodo, mettono le mani sulla città per reinvestire i capitali accumulati coi rapimenti e poi col narcotraffico. Ci sono i poliziotti e i magistrati che danno loro filo da torcere, con poche risorse, molto ingegno e un insolito savoir faire. Ci sono gli avvocati, i fotoreporter e i cronisti di “nera” che raccontano un’escalation di violenza che nemmeno nei film di Brian De Palma. C’è la Milano degli anni Settanta e Ottanta, oscura e bellissima, che non ha nulla da invidiare alle metropoli delle serie crime statunitensi; una città in cui, passando dalle periferie al centro, ti ritrovi in mondi sideralmente distanti, dal conflitto di classe ai giochi sporchi della finanza. C’è una storia che ha riempito per anni le pagine di cronaca nera, per poi sprofondare nell’oblio, oscurata prima dal protagonismo strabordante dei terrorismi politici, poi dal bailamme della “Milano da bere”. Ne La Mala. Banditi a Milano di Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, registi e autori, coautore il giornalista Salvatore Garzillo (una docu-serie Sky Original prodotta da Sky e Mia film, in collaborazione con Seriously) c’è tutto questo e molto di più. È tutto vero, e vi terrà incollati alla sedia. Come Sanpa, questa produzione in cinque puntate (Malavita notturna, Guardie e ladri, La stagione dei sequestri, Alleanze e tradimenti, L’ultima evasione), disponibile sul canale Sky Documentaries e su Now dal 17 aprile, rivisita una stagione clamorosa, ma rimossa, e lo fa con ritmo serrato, regia e montaggio curatissimi, un linguaggio dal sapore cinematografico che mescola ad arte ironia, dramma e suspense, mentre strizza l’occhio al cinema di Tarantino - dai molti inserti di B movies dell’epoca alla grafica giallo taxi che gioca con gli split screen. Molto efficace anche la colonna sonora originale di Yakamoto Kotzuga. Una serialità, insomma, che parla ormai un linguaggio internazionale. L’arco narrativo (dal 1970 all’87) s’incupisce in parallelo all’affermarsi del crimine organizzato, fino all’orgia di sangue dei regolamenti di conti dentro e fuori le carceri, un grumo di cui a tutt’oggi non si riescono a decifrare fino in fondo i contorni. Tutti i fili si aggrovigliano intorno al cadavere di Francis Turatello, sgozzato in carcere, un delitto dai troppi moventi possibili, che salgono (o scendono?) fino alle connessioni con risvolti indicibili del caso Moro. Sullo schermo si alterna un pool di personaggi efficacissimi, tra cui spiccano gli ultimi sopravvissuti della banda della Comasina, il “bel Renè”, ancora in carcere, Tino Stefanini e Osvaldo Monopoli e il collaboratore di giustizia sotto copertura “Vincenzo”, esperto di cose finanziarie per anni a servizio del crimine organizzato. Sul fronte dello Stato, il “poliziotto senza pistola” Achille Serra, che gode ancor oggi del rispetto dei criminali per la sua correttezza, il segugio Giuliano Turone, che dai sequestri arrivò al boss Luciano Liggio, Piercamillo Davigo e Alberto Nobili allora ai loro primi passi, l’umanità strabordante del direttore di carceri Luigi Pagano. Sic transit gloria mundi: vedere l’imbarazzo di un Vallanzasca ingrigito, che calca sulle parolacce come un adolescente che deve darsi un tono, oppure il re dei night Lello Liguori rinchiuso in una casa di riposo (in cui ritrova molti ex clienti) scongiura il rischio di fascinazione romantica che è sempre dietro l’angolo, nel raccontare vite e imprese criminali che hanno indubbiamente del romanzesco. La Mala ci restituisce storie e personaggi che superano la fantasia di qualunque sceneggiatore, le sorprese e i colpi di scena accompagnano lo spettatore fino alle fine della quinta puntata, ma forse quel che resta addosso di più è il modo in cui gli autori riescono a far emergere, nelle interviste e attraverso lo sguardo empatico della cinepresa, la profonda, a volte terribile, umanità dietro le maschere di tutti i personaggi, delle guardie e dei ladri. Nucleare di pace e di guerra: la doppia faccia della scienza di Massimo Sideri Corriere della Sera, 16 aprile 2022 Terminata la Guerra fredda sembrava che fosse svanita la minaccia delle armi atomiche, invece se torna a parlare Per questo si mobilita la diplomazia della ricerca e della cultura. Nel 1939 Albert Einstein e Leó Szilárd scrissero al presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, che la Germania nazista e Hitler avrebbero potuto utilizzare la fissione nucleare per costruire un ordigno atomico. Consigliarono dunque, come meccanismo deterrente, di avviare ricerche in tal senso anche negli Usa. Anni dopo lo stesso fisico premio Nobel si rammaricò per quel gesto: “Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a costruire la bomba atomica, non avrei mai alzato un dito”. È celebre anche un’altra frase di Einstein dopo l’utilizzo dell’atomica in Giappone: “Se solo avessi saputo avrei fatto l’orologiaio”. Scienza e guerra, scienziati e generali: è difficile immaginare due mondi così distanti, polarizzati, eppure così vicini in determinati momenti della storia. Nel 1945 il premio Nobel Enrico Fermi dovette fare parte, con Oppenheimer, della commissione americana sull’utilizzo distruttivo dell’atomo. Il gruppo di scienziati si dichiarò non competente in materia bellica, ma alla fine dovette ammettere che, se utile per salvare milioni di persone e bloccare la Seconda guerra mondiale, l’arma nucleare andava sviluppata. Terminata la Guerra fredda tutto ciò era stato volutamente dimenticato: lo stesso termine “atomico” era scomparso dai nostri dizionari, anche se ora la guerra della Russia all’Ucraina non sembra voler fare sconti alla memoria dell’umanità. Ci ricorda prepotentemente che la scienza e la tecnologia hanno due facce, una civile e una militare, una che ha come scopo il benessere e l’altra che può essere usata per la distruzione. E sta a noi lanciare la moneta. Poche cose come la rottura dell’atomo hanno incrinato anche l’equilibrio tra pace e guerra. Marie Curie che scoprì l’effetto delle radiazioni morì studiandole, come la figlia. Gli scienziati come Fermi ed Einstein furono tra quelli più consapevoli di questa ambivalenza ed è probabile che abbiamo portato questo peso con sé. Tra le molte ipotesi sulla scomparsa di Ettore Majorana c’è anche quella di una visionaria capacità di vedere a cosa andasse incontro il mondo. La cronaca di poco più di un mese e mezzo di guerra ci riporta ora a riflettere sul risveglio da questo oblio. L’atomo è tornato anche nelle parole. Prima con l’occupazione militare di Chernobyl e di parte degli altri reattori nucleari ucraini, a partire da Zaporizhzhia. Poi, più espressamente, con il ritorno della minaccia nucleare militare: l’ha citata il portavoce di Putin Dmitry Peskov alla “Cnn” con la giornalista Amanpour. L’ha ricordata anche qualche giorno fa l’ambasciatore russo in Italia Sergey Razov; il rischio atomico? “Nessuna minaccia nucleare da parte di Mosca, solo riflessioni di scenari in caso di minacce per la sicurezza della Federazione Russa”. Due settimane fa è stata citata una possibile “Hiroshima” dopo che un missile è esploso a 800 metri da una delle ex fabbriche di testate nucleari dell’Urss. Mentre Dmitry Medvedev , il “Robin” di Putin, ha commentato così le notizie su Svezia, Finlandia e Nato: “Dimenticatevi lo status denuclearizzato”. Bunker, ansie radioattive, valigette con bottoni di distruzione di massa (in realtà fantasiose: la nuclear football, come si chiama la valigia che segue sempre il presidente Usa, contiene dei codici da comunicare, non un bottone per lanciarli). Perfino Hollywood, sempre alla ricerca di ansie collettive, aveva ormai preferito i virus alla radioattività: “War Games”, un famoso film degli anni Ottanta, aveva già concluso come anche l’intelligenza artificiale - semplicemente giocando a tris - potesse comprendere che non ci sono vincitori in questa sfida. Per i più giovani, cresciuti senza gli ultimi spifferi della Guerra fredda, Chernobyl e il referendum per dire no al nucleare (al limite con le immagini distanti di Fukushima) deve essere difficile capire come tutti i fili lasciati sospesi possano intrecciarsi per ridiventare una matassa radioattiva. Se proprio dobbiamo essere costretti a risvegliare i demoni dell’atomo rianimiamo allora anche i possibili antidoti. È stato lo stesso Ugo Amaldi, parlando al Corriere, a ricordare come la scienza, chissà forse anche per un inconscio senso di responsabilità, abbia sempre giocato un ruolo di mediazione, proprio per evitare che la guerra da “fredda divenisse calda” come aveva scritto Franco Venturini, il collega appena scomparso. Finora sono scesi in campo astronauti, cosmonauti, giornalisti (anche russi), artisti, musicisti, oligarchi, politici e oppositori storici come l’ex campione di scacchi Kasparov. La diplomazia della scienza che per decenni ha operato efficacemente attraverso il muro di Berlino per evitare che da ambo le parti si dimenticasse che esiste un pericoloso punto di non ritorno forse è già in azione. La sua voce potrebbe contribuire a fare la differenza nel ricordarci che con gli atomi non sono ammessi errori, nemmeno involontari. Iryna, Minerva e le altre: le donne che sfidano i dittatori di Arianna Farinelli La Repubblica, 16 aprile 2022 Quelle che si oppongono ai regimi vengono sempre punite allo stesso modo: colpite negli affetti, violate nel corpo e uccise. Chissà cosa sarebbe stato il mondo se molte di loro non avessero avuto il coraggio di lottare. I regimi temono le donne. Non è un caso che gli attacchi alla democrazia e alla libertà coincidano sempre con la repressione dei loro diritti. Gli autocrati limitano la partecipazione delle donne alla vita pubblica, il loro diritto allo studio, alla possibilità di ricorrere all'interruzione di gravidanza. Eppure, la Storia abbonda di esempi di donne che hanno sfidato dittatori, lottato per la democrazia e, in alcuni casi, pagato con la vita per il coraggio. Qualche giorno fa, durante una trasmissione tv, mi sono trovata a conversare con la vicepremier ucraina Iryna Vereshchuk. Di lei mi ha colpito la risolutezza, il suo rispondere Nyet alla domanda sulla cessione del Donbass alla Russia. Iryna - politica quarantenne, madre di due figli, ufficiale dell'esercito ucraino, laureata alla scuola militare di Leopoli - piega il braccio in segno di forza quando le viene chiesto se ha paura per la propria vita. Per Vladimir Putin lei è un bersaglio almeno quanto il presidente Volodymyr Zelensky. Le donne hanno scritto alcune tra le pagine più belle sull'opposizione ai regimi. Nel 1949 Minerva Mirabal, una ragazza domenicana di 23 anni, respinse il dittatore Rafael Trujillo che voleva divenisse la sua amante. Trujillo non accettò il rifiuto e quando lei si laureò in Legge a Santo Domingo le negò la possibilità di esercitare la professione. Per Minerva l'attivismo politico coincise, almeno all'inizio, con il diritto di rifiutare una relazione sessuale che non voleva. Lottare per la democrazia era anche lottare contro il machismo del dittatore. Insieme alle sorelle Patria e Maria Teresa, Minerva prese parte alla resistenza. Con l'aiuto dei mariti e dei figli adolescenti, le tre sorelle sfidarono il regime: distribuirono volantini con i nomi di tutti coloro che Trujillo aveva fatto assassinare in trent'anni di governo. Nel 1960 le sorelle Mirabal vennero raggiunte in macchina dai sicari del dittatore. La loro morte scosse le coscienze e fece vacillare il regime più di ogni altro crimine commesso fino a quel momento. Sei mesi dopo Trujillo venne assassinato. Aung San Suu Kyi, politica birmana e Premio Nobel per la Pace, vinse le elezioni parlamentari del 1990 ma i generali si opposero al passaggio di potere e la costrinsero agli arresti domiciliari per 15 anni. Durante la detenzione Suu riuscì a incontrare i figli e il marito solo cinque volte. Quando lui si ammalò di cancro lei decise di non andare nel Regno Unito a fargli visita: temeva che se avesse lasciato il Myanmar i generali non le avrebbero consentito di tornare. Dopo essere diventata primo ministro del suo Paese nel 2016, Aung San Suu Kyi è stata arrestata di nuovo a seguito del golpe che ha riportato i militari al potere. Nadia Murad è una delle cinquemila donne Yazide rapite e ridotte in schiavitù sessuale dallo Stato Islamico. Quando il Califfato occupò l'Iraq la sua famiglia venne sterminata. Dopo essere sfuggita per miracolo ai suoi aguzzini, Nadia ha raccontato al mondo l'oppressione delle donne Yazide denunciando gli stupri commessi dai jihadisti. Ha vinto il Nobel per la Pace nel 2018. Sviatlana Tsikhanouskaya era la moglie di uno degli oppositori al regime di Lukashenko, in Bielorussia. Dopo l'arresto del marito, questa mamma di Minsk che nella vita non aveva mai pensato di fare politica, si presentò alle elezioni contro il dittatore bielorusso. Fu minacciata di stupro e le dissero che le avrebbero tolto i figli ma lei decise di continuare. Il suo programma politico era incentrato sulla indipendenza della Bielorussia dalla Russia, il ripristino di elezioni libere e democratiche e la reintroduzione del limite di due mandati - Lukashenko è al potere da 28 anni. Alle elezioni del 2020 Sviatlana ha ottenuto il 10 per cento dei voti, Lukashenko l'80 per cento. L'opposizione ha denunciato i brogli ed è montata la protesta popolare, la più grande nella storia del Paese. Il regime, però, ha represso la rivolta con arresti e torture. Nel 2021 il marito di Sviatlana è stato condannato a 18 anni di carcere e lei ora guida l'opposizione dall'esilio in Polonia. Nel 2020 è stata insignita del Premio Sacharov. E infine ci sono le donne russe che si sono opposte al regime di Putin. Nel 2006, Anna Politkovskaya pagò con la vita la denuncia dei crimini di guerra commessi dall'esercito russo in Cecenia. Le Pussy Riot, ragazze di un gruppo punk-rock fondato nel 2011, furono arrestate per aver messo in scena spettacoli contro Putin e la Chiesa ortodossa di Mosca. Le loro performance vennero considerate sacrileghe e il loro attivismo per i diritti della comunità Lgbtq fuorilegge. La giornalista televisiva Marina Ovsyannikova, invece, teme per la sua vita e per quella dei figli da quando ha mostrato un cartello contro l'invasione dell'Ucraina in diretta tv. Le donne che si oppongono ai regimi vengono sempre punite allo stesso modo: colpite anzitutto negli affetti, violate nel corpo, separate dalle famiglie e infine barbaramente uccise. Chissà cosa sarebbe stato il mondo se Minerva, Suu, Nadia, Sviatlana, Anna e le altre non avessero avuto il coraggio di opporsi, il coraggio di dire Nyet. Ucraina. La procuratrice di ferro che indaga sui crimini russi “Voglio inchiodare lo zar” di Brunella Giovara La Repubblica, 16 aprile 2022 Venediktova ha già aperto 8mila fascicoli sulle atrocità degli invasori. Cerca ogni dettaglio per identificare gli autori e arrivare fino al Cremlino. L'altro giorno era a Bucha, con gli scarponi e il giubbotto antiproiettile, in una ispezione senza preavviso sul campo, accompagnata dal suo staff di investigatori. Nei luoghi in cui sono stati commessi i crimini di guerra più famigerati che al momento si conoscono, nella guerra mediatica che si sta combattendo a fianco della guerra vera. “Bisogna raccogliere anche questo, e questo... Tutto servirà per il processo”, diceva indicando i resti della occupazione russa, scatole di viveri, mimetiche abbandonate, persino immagini sacre che i soldati si sono lasciati dietro. E nel posto preciso in cui erano stati trovati sette cadaveri di civili, eccola impartire ordini: raccogliere, catalogare, preservare. Pugno di ferro in guanto di ferro, questa Iryna Venediktova, la carica più alta della magistratura inquirente. Procuratore generale, nelle sue mani i processi contro i russi, e l'imputato numero uno sarà Putin in persona. Tanto per dire il tipo, ieri a proposito “del detenuto Medvedchuk” ha detto che “se accetta, è possibile effettuare uno scambio in tribunale con prigionieri di guerra ucraini, prima del processo. Ma comunque il mio ufficio chiederà la modifica della pena: la detenzione in carcere invece degli arresti domiciliari”. Non sappiamo se abbia personalmente interrogato l'oligarca catturato a Kiev tre giorni fa, e considerato l'uomo di Putin in Ucraina. Ma è probabile che non si sia lasciata scappare l'occasione per farlo. Di sicuro vuole mandarlo in galera. Per molti motivi, questa sembra essere anche una questione privata, forse perché Venediktova è nata 43 anni fa a Kharkiv, città pluribombardata dai russi. Giovedì il governatore della regione, Oleg Sinegubov, ha fornito il bollettino della sua area: “Oggi i russi hanno inflitto 35 colpi con i lanciarazzi Mlrs e l'artiglieria. Hanno sparato su Zolochiv e sugli insediamenti vicini, provocando il ferimento di otto persone e un decesso”. Ieri, altre vittime: “Sette morti, uno è un bambino, e 34 feriti, di cui tre bambini”. Dall'inizio dell'invasione quindi, 510 vittime civili, di cui venticinque sono bambini. “Io proteggo l'interesse dei cittadini ucraini”, ha dichiarato all'Associated Press il procuratore Venediktova (la prima donna a ricoprire questa carica, nel 2020), ma ha poi aggiunto di non essere purtroppo riuscita “a proteggere quei bambini che sono morti. Questo per me è doloroso”. Ha due figli, Danylo e Adelina, un marito che è ufficiale di polizia. È un avvocato, (laureata all'università di Kharkiv), nonché docente di materie giuridiche, con madre avvocato e professore universitario. Padre docente e avvocato pure lui: Valentin Semenovic Venedikta, che è anche General-mayor della Polizia. Da questo le viene forse il piglio militare che si porta dietro, brusco e ultimativo, almeno a vederla in azione. Dunque, in queste sue mani ci sono 8mila indagini su vari episodi già catalogati come crimini di guerra: uccisioni di civili, stupri, torture. E 500 persone già identificate come possibili responsabili, tra ministri e comandanti dell'esercito. I russi. Il nemico. I soldati semplici, a cui cerca di dare un nome attraverso il ricordo delle vittime: lineamenti, grado e qualunque altro particolare. E il presidente, supremo responsabile di tutto questo. Per arrivare a lui sta cercando di ricostruire le linee di comando, il che non è facile. Chi ha dato quell'ordine, da chi l'ha ricevuto, su su fino al Cremlino. “La maggiore funzione della legge è quella di proteggere, ma anche di risarcire le vittime. Io spero che riusciremo a farlo, perché al momento queste sono solo bellissime parole. Io voglio che funzionino, anche”, che si arrivi alle condanne. Spesso appare in televisione, come ha fatto con l'appello in cui ha chiesto a tutti di raccogliere materiali utili alle indagini, facendo foto con i cellulari, e poi di mandargliele. Ha funzionato: dall'inizio della guerra sono arrivate 6mila segnalazioni, altre ne arriveranno. Una delle ultime sere ha detto “sarò felice quando venderemo la villa di qualcuno, o lo yacht, e potremo risarcire gli ucraini costretti a lasciare la loro nazione. Quando riceveranno un risarcimento concreto, allora sarò soddisfatta”. In passato è stata anche molto criticata, ma la sua totale adesione alla causa zelenskiana la rende oggi forse il personaggio più popolare del Paese, dopo Zelensky medesimo. Il che significa una fama duratura, anche quando la guerra sarà finita: la donna che condannerà Putin, insomma. La Polonia che accoglie gli ucraini continua a costruire il muro anti-migranti di Natasha Caragnano La Repubblica, 16 aprile 2022 ll governo sta realizzando una barriera d'acciaio lunga 186 chilometri al confine con la Bielorussia per impedire a quelli che descrive come migranti “illegali” di entrare nel Paese. Tra loro ci sono anche sfollati di guerra come gli ucraini. Al confine tra Polonia e Ucraina gli agenti di frontiera polacchi aiutano gli ucraini fuggiti dalla guerra a portare borsoni, tengono in braccio bambini stanchi e scortano i rifugiati in posti sicuri. Ma lungo un'altra linea di confine, lungo la Bielorussia, il governo polacco sta costruendo un muro d'acciaio lungo 186 chilometri per impedire a quelli che descrive come immigranti “illegali” di entrare nel Paese. “Non riesco a sopportare questo contrasto”, ha detto al quotidiano statunitense The Washington Post Ancipiuk, consigliere comunale di 65 anni che fornisce di nascosto aiuti agli immigrati che cercano di spostarsi di notte attraverso la foresta polacca. “Gli ucraini sono considerati rifugiati di guerra e gli yemeniti sono considerati migranti. Come mai? Qual è la differenza?”, si chiede. Da lontano la recinzione metallica di cinque metri e mezzo, equipaggiata con telecamere e rilevatori di movimento, sembra una striscia d'argento traslucida. Isola quasi metà della lunghezza totale della frontiera, dove solo a novembre 2021 sono stati effettuati più di 5mila tentativi di attraversamento. La realizzazione di questa barriera è stata annunciata dall'esecutivo di Varsavia a novembre, nel pieno delle tensioni con il regime di Alexander Lukashenko, accusato di utilizzare i migranti come arma di pressione nei confronti dell'Europa. Migliaia di persone, partite dal Medio Oriente hanno raggiunto la Bielorussia con la falsa promessa da parte del governo di un canale facilitato verso l'Unione europea grazie a visti turistici e passaggi in autobus verso il confine polacco. In molti sono rimasti in bilico tra le frontiere, mentre alcuni di quelli che sono riusciti a entrare in Polonia sono stati arrestati e detenuti in centri malsani e sovraffollati, sottoposti a trattamenti violenti. Nel corso del 2021 almeno 2.000 richiedenti asilo sono stati sottoposti a questo trattamento, ha denunciato Amnesty International. Anche se è illegale espellere cittadini stranieri senza dare loro la possibilità di chiedere asilo, le ricerche della Ong impegnata nella difesa dei diritti umani hanno appurato che le guardie di frontiera polacche rastrellano e respingono in modo violento i rifugiati che arrivano dalla Bielorussia. Una pratica, in realtà, che Varsavia ha legalizzato a ottobre 2021. “Questo trattamento violento e degradante stride profondamente con l'ospitale accoglienza che la Polonia sta mostrando nei confronti delle persone sfollate dall'Ucraina. La Polonia deve estendere la sua ammirevole compassione a tutti coloro che varcano i suoi confini in cerca di salvezza”, ha dichiarato Jelena Sesar, ricercatrice di Amnesty International sull'Europa. Anche al culmine della crisi tra Polonia e Bielorussia, lo scorso novembre, le persone che attraversavano il confine erano circa 700 al giorno, rispetto a decine di migliaia di ucraini. Ora, il numero degli arrivi dalla Bielorussia è diminuito. Alcuni giorni, secondo i dati del governo polacco, il numero di rifugiati non supera i 130. Altri, sono solo poche decine. Al quartier generale dell'agenzia di frontiera polacca a Varsavia, la tenente Anna Michalska ha spiegato al The Washington Post che il suo Paese sta rispondendo come dovrebbe: difendendo l'ordine e le proprie leggi. Secondo Michalska, le persone che hanno accettato di andare in Bielorussia non stanno cercando il primo posto sicuro, a differenza degli ucraini. Ma tra i rifugiati che cercano di attraversare il confine polacco ci sono molti che provengono da Paesi come lo Yemen, devastato dalla guerra, o la Siria, dove le città sono state decimate dagli attacchi aerei russi. “È orribile sentirsi provenire da un altro pianeta”, ha detto Ibrahim Al Maghribi un ragazzo siriano di 27 anni in un messaggio WhatsApp ai giornalisti statunitensi. “Le stesse autorità polacche che ora accolgono gli ucraini non ci hanno offerto nemmeno un bicchiere d'acqua”, ha scritto. Stati Uniti. Louisiana, pena di morte sospesa: mancano i farmaci per l’iniezione letale di Valerio Fioravanti Il Riformista, 16 aprile 2022 Ci sono le questioni “di massimi sistemi”, e quelle di “minimi sistemi”. Nessuno tocchi Caino, nonostante il nome biblico, è più incline a occuparsi dei minimi. Sui “valori” di solito nessuno ascolta davvero l’altro, al limite per buona educazione gli si lascia terminare la frase, ma poi di fatto ognuno rimane della propria opinione. Allora è meglio fornire piccole informazioni, di cui poi ognuno farà l’uso che vuole. Dalla Louisiana ci arriva una notizia poco importante: una giudice federale ha messo in “stand by” il contenzioso tra detenuti del braccio della morte e amministrazione penitenziaria su come possono essere effettuate le esecuzioni. Sembra surreale: lo Stato vuole ucciderti in un modo e tu contesti che vorresti essere ucciso in un altro modo. E noi cinici europei diremmo “vabbè, anche se gli ultimi 30 secondi di vita sono un po’ stressanti o dolorosi, poi è finita. Alla fine che te ne importa se ti uccidono con un barbiturico invece che un altro”. Invece dal 2010 la scelta di un farmaco letale piuttosto che un altro ha rallentato le esecuzioni in quasi tutti gli Stati, in diversi casi bloccandole del tutto. Un ruolo lo ebbe Nessuno tocchi Caino che, appunto nel 2010, individuò in una fabbrica italiana (lo stabilimento Hospira di Liscate, in provincia di Milano) il luogo dove una multinazionale intendeva trasferire la produzione di Pentotal, il barbiturico nato come anestetico nelle sale chirurgiche, ma dirottato, negli Stati Uniti, nelle camere della morte. All’epoca una interrogazione parlamentare dell’allora deputata Elisabetta Zamparutti fece partire la valanga, e nell’arco di pochi mesi le varie major farmaceutiche smisero di fornire prima il Pentotal e poi anche gli altri farmaci che le varie amministrazioni penitenziarie adottavano in sostituzione. Con una serie quasi infinita di passaggi, alternando almeno una decina di farmaci diversi, e modificando le leggi in quasi tutti gli Stati che ancora usano la pena di morte (una decina), siamo arrivati alla “piccola notizia” della Louisiana: lo Stato “ammette” di non riuscire ad acquistare i farmaci letali e la giudice “archivia” la complessa causa su chi possa scegliere un farmaco letale sostitutivo, come debba essere testato e più in generale se e in che modo possa essere lecito modificare i protocolli di esecuzione. La giudice ha motivato l’archiviazione con il fatto che lo Stato ammette di non avere farmaci, il Parlamento della Louisiana ha rifiutato di modificare la legge in vigore, il Procuratore Generale avanza proposte alternative, ma le proposte del Procuratore contano poco (o niente) fino a quando non hanno l’avallo di una nuova legge. Una legge che consentiva di non rendere note le fonti di approvvigionamento dei farmaci era stata approvata nel 2014 sia dalla Camera che dal Senato, mancava solo un voto di ratifica per un emendamento minore, ma a poche ore da quella che sembrava l’approvazione definitiva la legge venne ritirata dallo stesso deputato che l’aveva presentata, il quale disse di essersi reso conto di “insormontabili problemi di costituzionalità”. Da allora i politici della Louisiana non hanno voluto forzare ulteriormente le leggi e di certo non hanno fatto come in altri Stati dove è stata riesumata la fucilazione o addirittura - come in Alabama Oklahoma e Mississippi - inventata una camera a gas “più ecologica” dove il detenuto non verrebbe avvelenato ma “solo” privato completamente dell’ossigeno. In South Carolina è stata “ristrutturata” la camera della morte nel caso si decidesse di procedere con un redivivo plotone di esecuzione, ed è notizia di questi giorni che una fucilazione è stata fissata per il 29 aprile. La stessa South Carolina aveva fissato per giugno due esecuzioni con la sedia elettrica, ma la procedura è stata annullata dalla Corte Suprema dello Stato. In Arizona un direttore fantasioso dell’amministrazione penitenziaria ha acquistato 2.000 dollari di acido cianidrico, sollevando dure proteste della locale comunità ebraica visto che si tratta di un gas che durante la seconda guerra mondiale era tristemente noto come “Zyklon B”. Queste “piccole notizie” evidenziano lo zelo dei funzionari penitenziari (a proposito, alcuni hanno proposto di usare il Fentanil sequestrato agli spacciatori o la candeggina), solo in parte arginato da una maggiore ponderatezza dei politici. Non ci sono grossi cambiamenti all’orizzonte, nelle prossime settimane sicuramente gli Stati Uniti riprenderanno a uccidere i propri “cattivi cittadini”. Sarà anche quella una “piccola notizia”, e Nessuno tocchi Caino ve la darà. Stati Uniti. Pena di morte, ondata di sostegno per Melissa Lucio France-Presse, 16 aprile 2022 L'incombente esecuzione di una madre di 14 figli, condannata a morte con l’accusa controversa di aver maltrattato a morte una figlia piccola, ha provocato reazioni da parte di celebrità come Kim Kardashian e un crescente movimento di solidarietà che va ben oltre i confini degli Stati Uniti. Lucio è una donna di origine ispaniche, che oggi ha 53 anni, madre di 14 figli, 9 dei quali vivevano con lei al momento dei fatti. È accusata di aver maltrattato la più piccola delle sue figlie, Mariah Alvarez, di due anni, causandone la morte. Il 17 febbraio 2007 i paramedici sono stati chiamati nella casa che la Lucio divideva con il suo convivente, Robert Alvarez, perché la figlia più piccola, Mariah Alvarez di due anni, non reagiva e non respirava. Lucio aveva detto alla polizia che Mariah si era addormentata e non si era più svegliata. La Lucio ipotizzava che la causa del malore fosse stata una caduta da una scala ripida durante il trasferimento della famiglia in un nuovo appartamento due giorni prima, ma non sembrava gravemente ferita. La bambina è morta in ospedale. Secondo l'ufficio del procuratore distrettuale della contea di Cameron, sul corpo della piccola sono stati notati segni di abusi. Secondo quanto riferito, aveva lividi sparsi, segni di morsi sulla schiena, chiazze di capelli che erano state strappate e un braccio rotto. Successivamente è stato stabilito che la frattura del braccio della bambina risaliva a due settimane prima, e l'autopsia ha evidenziato anche un trauma cranico e lividi ai reni, ai polmoni e al midollo spinale. Ore dopo la morte di Mariah, la Lucio è stata interrogata dalla polizia per oltre cinque ore. I suoi avvocati hanno evidenziato che in quella fase era particolarmente vulnerabile, poiché era in lutto per sua figlia, era incinta di due gemelli, e aveva alle spalle una lunga storia di aggressioni fisiche e sessuali, tossicodipendenza e insicurezza finanziaria. Secondo i difensori la polizia ha fatto leva sulle evidenti fragilità della donna per indurla a confessare. Dopo aver ripetuto “quasi 100 volte” che la bambina era solo caduta dalle scale, alle 3 di mattina ha fatto una confessione che Sabrina Van Tassel, regista del documentario “The State of Texas vs. Melissa,” uscito nel 2020, ha definito “completamente estorta”. “Credo di averlo fatto”, ha detto la Lucio a chi la interrogava chiedendole conto della presenza di lividi sul corpo della bambina. Quella confessione era “l'unica cosa che avevano contro di lei”, ha detto la Van Tassel, convinta che “non c'è nulla che colleghi Melissa Lucio alla morte di questa bambina, non c'è DNA, nessun testimone”. Il documentario della Van Tassel ha suscitato un interesse diffuso, creando un intero movimento attorno alla Lucio. Il docufilm è stato proiettato al Tribeca Film Festival nel 2020 e ha vinto il premio come miglior documentario al Raindance Film Festival. Il 6 marzo 2022, nel segmento principale dello show della HBO “Last Week Tonight with John Oliver” intitolato “Wrongful Convictions” (Errori giudiziari), il suo caso è stato citato come il principale motivo per una importante riforma del sistema giudiziario, in particolare, per l’abolizione dell'Antiterrorism and Effective Death Penalty Act del 1996 (AEDPA). Durante il processo del 2008, un medico aveva fortemente influenzato la giuria popolare dicendo che era il “peggior caso in assoluto” di abusi su minori che avesse mai visto. Secondo i difensori la piccola Mariah aveva una disabilità fisica che la rendeva instabile mentre camminava, e che avrebbe potuto spiegarne la caduta dalle scale. La difesa ha anche affermato che i lividi potrebbero essere stati causati da un disturbo della circolazione sanguigna. Nessuno dei figli di Melissa l'aveva accusata di essere violenta. Quanto al pubblico ministero, Armando Villalobos, nel 2014, per un caso non collegato, è stato condannato a 13 anni di carcere per corruzione ed estorsione. Il 5 aprile 2022 la star del reality Kim Kardashian ha twittato alle sue decine di milioni di follower che c'erano “così tante domande irrisolte su questo caso e sulle prove che sono state usate per condannarla”, e si è rivolta al governatore del Texas perché intervenisse con un provvedimento di clemenza. E la storia di Lucio ha acceso i media in America Latina, interessati alla storia della prima donna ispanica condannata a morte in Texas, lo stato americano che ha giustiziato il maggior numero di persone nel 21° secolo. In Francia, l'ex candidata alla presidenza Christiane Taubira ha affermato che Lucio è probabilmente una “vittima di un errore giudiziario”. Anche uno dei giurati che l'ha condannata ha espresso il suo “profondo rammarico” in un editoriale pubblicato domenica. Lucio sta ottenendo anche il sostegno dei repubblicani statunitensi, tradizionalmente difensori della pena capitale. 87 deputati del Texas (su 150), di entrambi i partiti, hanno chiesto alle autorità di annullare l'esecuzione. Molti sono stati a farle visita in prigione. “Come repubblicano conservatore che è stato a lungo un sostenitore della pena di morte... non ho mai visto un caso più preoccupante del caso di Melissa Lucio”, ha detto uno di loro, Jeff Leach. Il 6 aprile, un gruppo di 7 parlamentari del Texas, sia repubblicani che democratici, ha visitato Melissa Lucio in prigione e ha pregato con lei. Una petizione di Innocence Project che chiede di fermare l'esecuzione di Lucio ha raccolto oltre 185.000 firme. Secondo diversi esperti, questo caso porta alla luce la questione delle false confessioni. Difficile calcolare numeri precisi, ma secondo i dati di The Innocence Project, che tiene un registro delle persone prima condannate a morte e in un secondo tempo prosciolte (esonerate), una su 4 delle persone che hanno ottenuto il proscioglimento grazie a incontrovertibili test del Dna aveva confessato. Il numero potrebbe essere alto fino al 60 per cento, secondo Saul Kassin, professore di psicologia al John Jay College of Criminal Justice. E chi, come la Lucio, ha subito traumi e violenze è “meno resistente, più propenso a obbedire, ha meno tolleranza per lo stress di un interrogatorio”, ed è quindi più propenso ad ammettere un crimine che non ha commesso. Come è noto, il tema delle false confessioni è stato spesso al centro di condanne annullate, perché si ritiene che i pubblici ministeri, nei casi in cui le prove sono insufficienti, utilizzino la minaccia di una condanna a morte per indurre gli imputati, soprattutto se fragili, a confessare pur di avere salva la vita. A questo punto la Lucio non ha più appelli legali disponibili, e può fare affidamento solo un eventuale provvedimento di clemenza, di solito discusso nell’imminenza dell’esecuzione, che deve essere “raccomandato” da una apposita commissione, e poi convalidato dal Governatore. Greg Abbott, 64 anni, bianco, Repubblicano, è un convinto sostenitore della pena di morte e da quando è governatore (2015) ha firmato un solo provvedimento di clemenza. In alternativa, ma succede molto raramente, la Pubblica Accusa potrebbe unilateralmente ritirare le accuse, e decidere di riesaminare il caso. Il team legale di Lucio ha presentato una petizione di grazia il 22 marzo 2022, sostenendo che un riesame dell’autopsia fatto alla luce delle migliorate conoscenze scientifiche dimostrano che la bambina è morta per una caduta accidentale dalle scale. La petizione include dichiarazioni di sostegno di giurati, esperti forensi e medici, attivisti contro la violenza domestica, leader religiosi, esonerati (ex condannati a morte in seguito prosciolti), parenti e figli di Lucio.