Cedu: riconosciuto il diritto allo studio per chi è al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 aprile 2022 La Corte europea di Strasburgo ha dichiarato ricevibile il ricorso di Natale Dantese, recluso al 41 bis, che si è visto ledere il diritto allo studio. Secondo la difesa, rappresentata dall’avvocato Vinicio Viol del foro di Roma, considerate le rigide modalità dei colloqui visivi con vetro divisorio e registrazione audio- video e tenuto conto dell’utilizzo consolidato di video conferenza anche a mezzo Skype per le udienze con la partecipazione dei detenuti sottoposti al 41 bis, vietare a Dantese di incontrarsi con un insegnante- tutor appare una misura ingiustificata e lesiva del suo diritto allo studio e alla formazione. Andiamo con ordine. Avendo il diploma di licenza media, il detenuto recluso al 41 bis ha maturato la decisione di proseguire gli studi, iscrivendosi alla scuola secondaria superiore. A tal fine ha chiesto alla Direzione del carcere de l’Aquila di avere i libri di testo necessari e, inoltre, di avere l’ ausilio di un insegnante all’interno del carcere; infine, dato lo stato di accertata indigenza del detenuto, egli ha chiesto la possibilità di una fornitura gratuita dei libri di testo scolastici da parte dell’amministrazione penitenziaria. Quest’ultima ha disatteso entrambe le richieste, sostenendo che la fornitura dei testi a spese dello Stato per i detenuti indigenti non è prevista, mentre per la seconda richiesta essa non può essere accolta poiché le restrizioni imposte dal regime differenziato non consentono l’ingresso e l’incontro dei detenuti con insegnanti esterni, neanche nelle forme del video- collegamento. Dantese - tramite l’avvocato Viol - ha presentato tempestiva istanza al Magistrato di Sorveglianza di L’Aquila, con la quale ha chiesto l’autorizzazione all’iscrizione scolastica, la fornitura dei testi scolastici necessari, di consentire l’accesso al carcere a un insegnante due volte alla settimana per almeno due ore affinché il detenuto possa essere sostenuto nella didattica; in alternativa ha chiesto di collegarsi attraverso Skype, con un insegnate per almeno due volte la settimana per due ore consecutive. Niente da fare. Il magistrato ha rigettato l’istanza precisando che Dantese poteva liberamente iscriversi presso un istituto vicino al luogo di detenzione e che il 41 bis è incompatibile con la possibilità di far entrare in carcere un insegnante o consentire il collegamento tramite Skype. Avverso al rigetto, il ricorrente, attraverso i suoi difensori, ha presentato reclamo al tribunale. Rigettato anche quello ponendosi sostanzialmente sullo stesso solco del Magistrato di Sorveglianza. Non è rimasto che fare quindi ricorso in Cassazione. Quest’ultima lo ha però dichiarato inammissibile, sottolineando che il diritto allo studio resta, in ogni caso, tutelato, seppure con le inevitabili limitazioni giustificate dal particolare regime del 41 bis cui egli è sottoposto, e che attengono esclusivamente a determinate modalità di esercizio del diritto stesso. L’avvocato Vinicio Viol ha fatto quindi ricorso alla Cedu, evidenziando che il diniego opposto a Dantese, relativamente alla possibilità di incontrare un insegnante/ tutor durante l’anno scolastico, ha violato l’art. 2 Protocollo Addizionale della Convenzione, che garantisce il diritto all’istruzione, oltre ad essersi tradotto in una violazione degli articoli 3 e 14 della Convenzione europea stessa. La difesa sottolinea che il detenuto, in virtù della sua sottoposizione al regime del 41 bis, viene sostanzialmente abbandonato a sé stesso nell’intero arco del ciclo scolastico di 5 anni, avendo la possibilità di incontrare gli insegnanti solo in occasione degli esami di fine anno e trovandosi, pertanto, a dover studiare da autodidatta libri di testo difficili che normalmente richiederebbero l’ausilio, se non quotidiano, ma almeno costante, di un insegnante o di un tutor. In sostanza, la difesa argomenta che il percorso per conseguire il diploma della scuola secondaria “necessita di un confronto continuo, lezioni e verifiche; un alunno delle superiori - a differenza di uno studente universitario - non ha infatti competenze e maturità scolastica tali da consentirgli di arrivare al diploma da autodidatta e in uno stato di completa solitudine”. Viene evidenziato che il carcere de L’Aquila, inoltre, è già attrezzato, come tutti gli istituti penitenziari che ospitano la sezione 41 bis, quindi viene garantita la sicurezza che richiede il carcere duro. In più c’è la piattaforma Skype, sistema già utilizzati dai detenuti al 41 bis e dunque validati e considerati sicuro dal Dap. Per la difesa, il divieto nei confronti di Dantese si traduce in un “trattamento degradante che viola l’articolo 3 della Cedu, poiché il ricorrente, già molto limitato in relazione alle attività che può svolgere proprio in ragione del regime differenziato, si vede sminuire un percorso di studi che certamente invece lo potrebbe aiutare nel percorso rieducativo”. Come detto, la Corte Europea ha dichiarato ricevibile il ricorso. Ora si attende la pronuncia. L’irresistibile ipocrisia (per alcuni) della mancanza di risorse: aspettando i referendum di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2022 A fronte del continuo aumento delle morti in carcere pochi si sentono di rifiutare la litania della necessità di aumentare le risorse destinata ai penitenziari, dato di per sé incontestabile ma di certo non sufficiente. È ben vero che qualunque legge, soprattutto se in gran positiva, come l’ordinamento penitenziario vigente, necessità di strumenti efficaci di attuazione. Il ricorso alle misure alternative sconta la carenza di lavoro, di abitazioni, l’irrisolto tema dell’immigrazione, la carenza di organici anche e a volte soprattutto nella magistratura di sorveglianza, nei ruoli degli operatori penitenziari (medici, educatori, agenti, per es.), i tempi della giustizia, ecc. Da decenni lo diciamo in tanti. Ma certo è che continua ad imperare l’idea del carcere come strumento necessario di sanzione principale. E così restano le preclusioni normative alle misure alternative, il sovraffollamento, l’inutilità del tempo trascorso nel nulla, almeno ancora per tanti. Aumenta il disagio psichico, dentro i luoghi di reclusione, anche tra gli operatori, come purtroppo anche fuori. E così si susseguono commissioni ad hoc, i cui componenti esprimono il meglio della cultura in ambito penitenziario, ma che devono ripartire dagli Stati generali dell’esecuzione penale del Ministro Orlando, meritevole sforzo di cambiamento normativo quanto infruttuosa operazione di studio e predisposizione di progetti di cambiamento. Il carcere, nonostante i cambiamenti effettuati, anche per gli interventi della Corte Costituzionale, resta lì, attraversato e martoriato anche dalla pandemia, sconosciuto a molti, anche tra i legislatori. La presenza ormai da anni di figure di garanzia di monitoraggio delle condizioni di vita detentive non ha sortito ancora del tutto l’effetto sperato ed è un sistema alla ricerca di una fisionomia che metta insieme autonomia, indipendenza, competenza, uniformità di intervento in sintonia con la figura del garante nazionale. Il grande progetto della ministra di giustizia di inserire davvero la mediazione penale nel nostro sistema sconta l’assenza di un diverso approccio valoriale della comunità. Il carcere come ed extrema ratio, utilizzabile di fronte ad un reale pericolo di reiterazione di condotte violente, efferate, oggi spesso concentrate contro le donne, resta un’utopia. La riduzione della custodia cautelare in fase di indagine, pur in parte avvenuta, ha bisogno di uno sforzo culturale e di coraggio. Ha bisogno di una nuova cultura della giurisdizione e della pena. Vedremo se la stagione dei referendum rilancerà queste battaglie, tra cui da quello della separazione delle carriere, fondamenta di un processo più giusto. Intanto la carenza di organici, a qualunque livello, diventa la panacea di tutte le disfunzioni per chi nulla vuole cambiare, ed un dramma per chi davvero ha a cuore questi temi. * Avvocato, già Garante dei detenuti del comune di Bologna e della regione Emilia Romagna Io non sono il mio reato, non sono il male che ho fatto di Giuseppe Perrone* Il Riformista, 15 aprile 2022 La mia storia detentiva è lunga trent’anni, per questo va raccontata “bene”. Comincio dall’ultimo capitolo, perché sia nota non più e solo la mia biografia criminale, bensì la biografia culturale, famigliare e delle mie relazioni umane. L’identità di una persona non è un monolite. Non siamo statue di sale, immutate e immutabili socialmente o geneticamente. So bene che conta “chi sono stato”, ma credo valga la pena scoprire anche chi sono diventato, e se rappresento ancora un pericolo per la società. In fondo è questo ciò che conta. Il nostro ordinamento giuridico è laico, non moralistico e le carceri non sono istituti di correzione. È opportuno che uno abbia una sua moralità, ma ai fini della libertà non è la morale a fare la differenza. Per essere arrestato devo commettere un reato, per riottenere la libertà devo smettere di commettere reati. Bene! Io non commetto reati da trent’anni. Ho sradicato ogni rapporto con gli ambienti criminali. Non mi passa per l’anticamera del cervello riprendere l’attività delinquenziale. E ripudio ogni forma di violenza in piena sintonia con lo spirito dei laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino. È da qui che inizia la mia nuova vita: dalla nonviolenza, dalla legalità, dalla cultura. Nel dicembre 2021, Castelvecchi ha pubblicato un mio romanzo, Sofia aveva lunghi capelli. Per il critico Filippo La Porta è “scritto in una lingua tesa, vibrante, sia riflessiva che fortemente narrativa”. Andrebbe letto per capire che la sofferenza è il viatico molecolare della resipiscenza. Scrivere è la mia passione. La pubblicazione di un libro è un fatto culturale, legale e sociale importante che andrebbe forse considerato nelle decisioni inerenti al mio destino. Alla scrittura unisco la creatività. Ho ideato due giochi di società, non ancora pubblici. Ho quattro lauree e sono titolare di borse di studio. Dal carcere, essere l’82° in graduatoria nell’Ateneo bolognese non è scontato. È frutto della tenacia con cui mi sono dedicato allo studio: otto, dieci, dodici ore al giorno indicano un isolamento detentivo volontario. Ho praticamente consumato il culo sullo sgabello dell’amministrazione, consapevole che la cultura mi avrebbe liberato dalla croce della pena, anche fisica, e mi avrebbe risvegliato la mente… assopita dal male di pensieri e azioni non “banali”. Dopo la prima laurea, nel 2007, al DAMS di Bologna, l’Alleanza Assicurazioni mi offrì un lavoro, ma allora non mi si volle dare fiducia. Nel 2009, per la seconda laurea, il magistrato di sorveglianza di Parma mi ha concesso un permesso di necessità di due giorni, libero nella persona e affidato a Don Umberto Cocconi. Scaduto il permesso, sono rientrato in carcere. Quel permesso non è caduto dal cielo. La manna, nella mia riabilitazione, non è mai esistita. Proprio come Adamo, per aver “peccato”, ogni frutto mi è costato sacrificio. Il parere favorevole a esperienze di permesso premio non è stato improvvisato. Prima di esprimersi, il carcere mi ha assegnato per un anno alle cure della criminologa. Adesso sto a Rebibbia. Nonostante siano passati trent’anni, ho una moglie che mi ama e siamo genitori di un bambino che non abbraccio dall’inizio della pandemia. Quanta sofferenza in questa assenza. Con Sonia abbiamo deciso di non far entrare più in carcere il bambino, sperando in un beneficio che invece mi è stato negato, malgrado l’ottimo percorso rieducativo. Il 23 marzo scorso, la direttrice Rosella Santoro aveva proposto che io presenziassi a un evento all’Università di Tor Vergata, ateneo nel quale mi sono laureato. Il magistrato di sorveglianza ha prima approvato la proposta, poi ha cambiato idea. Saputo dell’approvazione, Sonia ha preso le ferie, ha comprato i biglietti del treno Lecce-Roma, ha prenotato l’albergo e “preparato” il bambino dicendogli che “sarebbero andati da papà”. Col diniego tutto è svanito. Inevitabile il danno affettivo del bambino, non dico di mia moglie. Ho scontato 40 anni tra liberazione anticipata e indulto. Nel mio curriculum universitario si contano 80 esami e uno splendido rapporto umano con professori e tutor. In quello teatrale molti spettacoli e la partecipazione al film Rebibbia Lockdown di Fabio Cavalli. Ho seguito un corso di giornalismo. Ho partecipato al laboratorio di pratica filosofica. Sono autore con altri delle seguenti opere: La ferita della pena e la sua cura; Naufraghi in cerca di una stella; Parola e rappresentazione nel teatro antico; Il Senso della Pena. È vero che ho l’ergastolo e che alla collaborazione esteriore con la giustizia ho preferito la strada lunga del cambiamento interiore. Questa categoria del cambiamento dà frutti che non si possono raccogliere né subito né dopo, giacché il cambiamento è un processo inarrestabile che non finisce mai. Ho commesso reato, ma io non sono il mio reato. Ho fatto del male, ma io non sono il male. *Ergastolano detenuto a Rebibbia Riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario il 19 in aula alla Camera di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2022 La Commissione Giustizia della Camera ha approvato il mandato al relatore sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. In favore la maggioranza, tranne Iv che si è astenuta; contro Fdi e Giusi Bartolozzi (Misto). Il testo sarà esaminato dall’aula di Montecitorio il 19 aprile. Tra le novità introdotte dalla riforma ci sono: lo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura; la separazione delle funzioni; un sistema elettorale misto per l’elezione dei consiglieri togati del Csm con il sorteggio dei collegi; nuove regole per evitare le ‘nomine a pacchetto’ per i capi degli uffici. Ecco una breve sintesi dei contenuti della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, in base a quanto reso noto dal ministero della Giustizia. CSM - La composizione torna a 20 membri togati e 10 laici, oltre ai tre membri di diritto (presidente della Repubblica, il presidente e il procuratore generale della Cassazione). Il sistema elettorale sarà misto, binomiale con quota proporzionale. Rispetto alla proposta approvata in Consiglio dei ministri, nel passaggio in Commissione è stato inserito il sorteggio dei distretti di Corte d’Appello per formare i collegi. Non sono previste liste: il sistema si basa su candidature individuali, ciascun candidato presenta la sua candidatura senza necessità di presentatori. Dovranno esserci un minimo di 6 candidati in ogni collegio binominale, di cui almeno la metà del genere meno rappresentato; se non arrivano candidature spontanee o non si garantisce la parità di genere ci sarà un sorteggio per arrivare al minimo dei candidati previsti. Nomine - Cambiano le regole per l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi: in primo luogo il Csm dovrà procedere alle nomine in base all’ordine cronologico delle scoperture. Vengono introdotte norme di trasparenza, sul sito saranno pubblicati gli atti e i curriculum. Inoltre si prevede l’obbligo di audizione obbligatoria di non meno di 3 candidati per quel posto Porte girevoli - Viene introdotto il divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi, sia per cariche elettive nazionali e locali, sia per gli incarichi di governo nazionali/regionali e locali. A fine mandato, i magistrati che hanno ricoperto cariche elettive non possono più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale: i magistrati ordinari vengono collocati fuori ruolo presso un ministero o presso Consiglio di Stato, Corte dei Conti e Massimario della Corte di cassazione, con funzioni non giurisdizionali. Chi si è candidato ma non è stato eletto per tre anni non potrà tornare a lavorare nella regione. Con i decreti attuativi sarà anche ridotto il numero massimo di magistrati fuori ruolo (oggi 200). Passaggi di funzione - Sarà possibile un solo passaggio di funzione tra requirenti e giudicante nel penale entro i 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Fascicolo personale - Attualmente, ad ogni valutazione di professionalità (ogni 4 anni), il magistrato deve inviare al Consiglio giudiziario - e poi al Csm - provvedimenti a campione sull’attività svolta e statistiche relative alle attività proprie e comparate a quelle dell’ufficio di appartenenza. Con la riforma, si prevede l’implementazione annuale (non più ogni 4 anni). Il fascicolo contiene dati, non valutazioni di merito: la ratio è una “fotografia complessiva del lavoro svolto, non un giudizio sui singoli provvedimenti”. Csm, la riforma supera la boa Commissione, ora la partita in Aula di Francesco Grignetti La Stampa, 15 aprile 2022 “Faticoso” è stato l’aggettivo usato da tutti i partiti per definire l’accordo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, sancito dal via libera al testo da parte della Commissione Giustizia della Camera. In effetti, pur partendo da posizioni assai distanti, in alcuni casi contrapposte, i partiti hanno raggiunto una intesa su un testo che nessuno considera la propria riforma, ma che tutti valutano come una buona riforma, innovativa, in grado di aiutare la magistratura a superare le storture correntizie. Un giudizio non condiviso dai magistrati stessi che il 19 aprile, giorno dell’insidioso approdo in Aula del provvedimento, potrebbero proclamare lo sciopero. In mezzo, la ministra Marta Cartabia può dirsi soddisfatta per l’equilibrio raggiunto, non solo per le norme introdotte nel testo, ma anche per quelle che è riuscita a non farvi entrare nonostante il pressing dei partiti. Dopo una seduta notturna terminata all’1,30 in cui la Commissione ha concluso il voto di tutti gli emendamenti, nella tarda mattinata è stato dato il via libera formale per l’approdo in Aula del provvedimento. Ciascun partito della maggioranza ha sottolineato il contenuto entrato nel testo a cui teneva di più: Pierantonio Zanettin (Fi), ha ricordato l’introduzione della separazione delle carriere, Ingrid Bisa (Lega), il sorteggio dei collegi nella legge elettorale del Csm; Valentina D’Orso (M5s) il mantenimento dello stop alle porte girevoli; Alfredo Bazoli (Pd), i nuovi criteri di valutazione dei magistrati; Federico Conte (Leu) l’assenza di misure punitive verso i magistrati; Enrico Costa (Azione), il fascicolo per la valutazione dei magistrati. Nella maggioranza l’unica a sfilarsi è Iv, che con Cosimo Ferri e Lello Vitiello, ha annunciato l’astensione di fronte a un testo considerato “timido”. Ma c’è anche chi, come Maurizio D’Ettore e Martina Parisse di Ci chiedono in Aula “ulteriori approfondimenti” sul testo. Insomma, come ha detto Bazoli, “un equilibrio fragile” che il deputato Dem auspica “regga la prova dell’Aula”. E fragile è tutto il contesto di maggioranza, con Iv e M5s che hanno detto che non accetteranno a scatola chiusa un accordo sul fisco tra Mef e centrodestra. Dal 19 aprile la riforma del Csm approda infatti nell’Assemblea di Montecitorio dove il governo si è impegnato a non porre la fiducia, cosa che permetterebbe anche di correggere eventuali piccole sbavature del testo, come ha evidenziato il presidente Mario Perantoni (M5s), a condizione che tutti mantengano l’impegno di votare secondo i patti di maggioranza. In Commissione la Lega per due volte ha votato un emendamento di Fdi, e M5s non ha partecipato al voto sulla separazione delle funzioni. Potendo arrivare centinaia di emendamenti, le preoccupazioni di uno sfilacciamento esistono. Il 19, giorno della prima seduta dell’Aula, è convocato l’esecutivo dell’Anm che potrebbe proclamare uno sciopero contro la riforma. Per la prima volta nella storia della Repubblica, a fronte delle ripetute proteste delle toghe, nessun partito le ha fatte proprie. Una situazione che ha generato un senso di frustrazione nelle diverse correnti della magistratura. Da parte sua la ministra Marta Cartabia, nelle interlocuzioni informali che ha avuto con il mondo delle toghe, ha evidenziato anche le misure che non sono entrate nel testo, stoppate proprio da lei, e che alcuni partiti volevano, come il sorteggio per l’elezione dei membri togati del Csm, o come la responsabilità civile diretta. Un equilibrio, dunque, che ai magistrati viene chiesto di apprezzare. Magistrati in subbuglio, si avvicina lo sciopero: “Ce lo chiede la base” di Simona Musco Il Dubbio, 15 aprile 2022 Lo sciopero non è “ormai evitabile”. Le parole affidate dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, a Repubblica, non lasciano spazio a dubbi: le toghe sono pronte a scendere in piazza contro la riforma del Csm, considerata dannosa e addirittura pericolosa. E a indispettire è stata soprattutto la scelta di condensare la storia di ogni magistrato in un fascicolo, dal quale far dipendere il suo futuro. Scelte che per AreaDg si possono riassumere nell’espressione “imbarazzanti pagelline”, i cui effetti su “autonomia e indipendenza” saranno devastanti. Lo sciopero, dunque, è ormai cosa certa: “È la base - tutta - a chiederlo”, confermano dalle parti di Anm. “Non ci resta altra scelta - afferma AreaDg -. Questa protesta non è una difesa di corporazione perché non cambierebbe nulla, per noi: ci basterebbe adeguarci al volere dei superiori, con buona pace di chi ci chiede giustizia”. La protesta verrà annunciata ufficialmente martedì 19, durante il Comitato direttivo centrale, lo stesso giorno in cui il testo licenziato dalla Commissione Giustizia arriverà in aula. La giunta esecutiva ha inoltre annunciato, per sabato 30 aprile, la convocazione dell’Assemblea generale dei soci, durante la quale verranno espresse le valutazioni sulla riforma e decise le iniziative da assumere. La minaccia di sciopero non ha però agitato i sonni della ministra della Giustizia Marta Cartabia, che giovedì notte è riuscita a portare a casa il voto di tutti gli emendamenti in Commissione Giustizia. Ma ad indispettirsi è il senatore forzista Maurizio Gasparri, secondo cui la protesta “contro il Parlamento” sarebbe “un’ulteriore offesa alla democrazia e ad organi istituzionali”, dal “tenore eversivo”, il tentativo di “alcune correnti politicizzate” di impedire al Parlamento “di assumere decisioni nel rispetto dei principi costituzionali”. Ma non solo, si tratterebbe anche di una “reazione corporativa”, afferma il vicesegretario di Azione, Enrico Costa, secondo cui “la levata di scudi delle correnti dimostra chiaramente come temano di perdere il controllo che detengono grazie a quel 99% di valutazioni di professionalità “automaticamente” positive”. Il fascicolo personale del magistrato, dunque, rappresenterebbe la fine di un’era. Tale “strumento” esiste in realtà dal 2006, ma ora verrà aggiornato anno per anno, e non più a campione, raccogliendo così la storia complessiva delle attività svolte e l’iter dei vari provvedimenti. Un fascicolo che contiene tra gli indicatori anche quello della “sussistenza dei caratteri di grave anomalia” e che garantirebbe “una fotografia complessiva del lavoro svolto, non un giudizio sui singoli provvedimenti”. Ma le novità della riforma sono tante. A partire dal sistema elettorale binominale con quota proporzionale, nonché il sorteggio dei distretti di Corte d’Appello per formare i collegi per eleggere i 30 membri del Consiglio. Non sono previste liste: le candidature sono individuali e in caso di carenza di candidati (ogni collegio deve contarne minimo sei) si integra con il sorteggio. Un modo, nell’ottica del governo, per garantire maggiore imprevedibilità, rendendo più difficili le spartizioni tra correnti. Sul punto i più critici sono sicuramente i parlamentari di Italia Viva, che hanno già annunciato la loro astensione. Per il deputato Cosimo Ferri, infatti, si tratta di una “riforma al ribasso che accentua posizioni di potere e aumenta le poltrone. Non ci sarà nessun cambiamento”. Tant’è, afferma, che “le correnti forti in realtà gongolano: è stato scelto lo stesso sistema elettorale che tagliò fuori dal Csm Giovanni Falcone, noi chiedevamo discontinuità e una spinta riformatrice innovativa”. E non è completamente soddisfatto nemmeno il M5S, secondo cui tale sistema “rischia di peggiorare la situazione esistente”. Ma nel complesso i grillini esultano, soprattutto per lo stop alle porte girevoli, che definiscono un loro successo. La riforma introduce infatti il divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi, come invece attualmente possibile. Sarà impossibile essere eletti dove si è esercitata, negli ultimi tre anni, la funzione di magistrato e a fine mandato le toghe che hanno ricoperto cariche elettive non potranno più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale, finendo per essere collocati fuori ruolo. Oggi la Commissione ha votato, con l’astensione di Italia Viva, il mandato ai relatori Walter Verini (Pd) e Eugenio Saitta (M5S). Si è trattato di un percorso “faticoso” per raggiungere un equilibrio, caratterizzato però da alcuni distinguo. Per Alfredo Bazoli (Pd) aver evitato di introdurre “elementi incostituzionali” come il sorteggio rappresenta un successo, in quanto lo stesso avrebbe rappresentato una “pericolosa manifestazione di sfiducia verso i magistrati”. Soddisfatto anche il forzista Pierantonio Zanettin, felice di aver ridotto ad uno i passaggi di funzione tra requirenti e giudicante penale. Ed anche la Lega, nonostante il voto all’emendamento di Fratelli d’Italia, ha ribadito la propria fedeltà agli accordi, tramite Ingrid Bisa. Ma le novità sono tante, come la separazione tra disciplinare e nomine, per “contrastare gli accordi di potere”, ha sottolineato il Pd, lo stop alle nomine a pacchetto, con l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi seguendo l’ordine cronologico delle scoperture, e il diritto di voto unitario per l’avvocatura nei Consigli giudiziari, ma solo se a monte c’è una segnalazione sul magistrato in valutazione (sia positiva che negativa) e, in ogni caso, con possibilità di sollecitare una delibera del Consiglio dell’ordine. Prevista anche una riduzione del numero massimo dei magistrati fuori ruolo, numero che verrà stabilito successivamente con i decreti attuativi. Non chiamatela riforma: è una vittoria delle toghe di Tiziana Maiolo Il Riformista, 15 aprile 2022 I magistrati non volevano cambiare proprio niente e sono stati accontentati. L’unico risultato della “riforma” tra virgolette è il fascicolo delle performance proposto dal deputato Costa: uno zuccherino. Cominciamo a scriverla tra virgolette, questa “riforma” Cartabia. Altrimenti si dovrebbe chiamarla controriforma. Anche se non piace alle toghe, e non capiamo il perché. I magistrati fanno i virtuosi dichiarando, con qualche ragione, che la “riforma” non supera lo scandalo correntizio denunciato da Palamara, anzi rafforza le cricche politiche. Però i vertici della Anm non volevano neanche il sorteggio, pur se temperato. E in realtà non volevano cambiare proprio niente. Non hanno capito che sono stati accontentati, perché non cambia niente, e che la ministra Cartabia ha solo offerto ai politici lo zuccherino proposto dal deputato Enrico Costa: il fascicolo delle performance. Cominciamo a scriverla tra virgolette, questa “riforma” Cartabia. Altrimenti si dovrebbe chiamarla controriforma. Anche se non piace alle toghe, e non capiamo il perché. Sono tonti o vogliono stravincere? Quel che è certo è che siamo di fronte a un obiettivo mancato. Non la rivalsa, la vendetta per le ferite violente che il Partito dei pm aveva inferto al Parlamento e alla classe politica. Ma l’occasione per ritrovare quella verginità perduta, l’identità e la dignità di una democrazia liberale diventata repubblica giudiziaria. Quindi illiberale e reazionaria, come se improvvisamente avessero assaltato il Palazzo d’inverno uomini in divisa oltre che in toga. Sarebbe bastata un po’ più di grinta da parte del Parlamento, senza pretendere il coraggio da partiti costretti dal giogo di accordi di governo che tengono insieme le mele con le pere, i Cinque Stelle con Forza Italia e il Pd con la Lega. Ma sta scritto sulle sacre tavole che Enrico Letta debba prendere ordini da Conte e Casalino, dopo aver detto signorsì per trent’anni ai pubblici ministeri, e che Forza Italia non sappia più ritrovare il proprio orizzonte garantista se non per i processi di Berlusconi? Quanto alla Lega, che pure ha fatto il proprio salto di qualità facendosi promotrice dei referendum, sulla giustizia non ha mai avuto le idee molto chiare, fin da quando, nel primo governo Berlusconi, il ministro Maroni non fece il famoso “disconoscimento di paternità” sul decreto Biondi da lui promosso insieme al guardasigilli. Così, si affida a un picccolo partito corsaro come Italia Viva e al suo spregiudicato segretario il compito di disvelare tutti i passagggi in cui il re è nudo e nessuno glielo dice tranne un birichino coraggioso che -paradosso dei tempi- ha le sembianze di due deputati, Cosimo Ferri e Giusi Bartolozzi, che fino a ieri indossavano la toga da magistrati. A proposito dei quali, i loro ex colleghi, visto che la riforma non c’è, e se c’è è una controriforma, non si capisce se, quanto meno nelle persone dei loro vertici sindacali, siano semplicemente un po’ tonti o se invece vogliano stravincere. Fanno i virtuosi dichiarando, con qualche ragione, che la “riforma” non supera lo scandalo correntizio denunciato da Palamara, anzi rafforza le cricche politiche. Però i vertici della Anm non volevano neanche il sorteggio (anche se duemila magistrati di base avevano detto di sì in un sondaggio interno), pur se temperato, cioè aggiustato in modo da non essere incostituzionale. E in realtà non volevano cambiare proprio niente. Non hanno capito che sono stati accontentati, perché non cambia niente, e che la ministra Cartabia ha solo offerto ai politici lo zuccherino proposto dal deputato più attivo e creativo del Parlamento, Enrico Costa: il fascicolo delle performance. In verità se ogni sondaggio vede la fiducia dei cittadini nella giustrendere zia sempre a livelli più bassi, uno dei motivi è proprio lo sbilanciamento tra il numero di persone inquisite o addirittura arrestate e proscioglimenti e assoluzioni. E c’è sempre quello scandalo del 90% di toghe che ogni anno passano indenni dal “tribunale” del Csm che, più che assolvere, pare sempre perdonare il magistrato che commette errori o addirittura si accanisce nei confronti di qualche indagato, specie se politico. Ecco perché non di vendetta si tratta, se anche giudici e pubblici ministeri lavoreranno in una vera casa di vetro, in cui la loro attività, il rendimento, la produttività saranno sotto gli occhi di tutti, come è per i parlamentari o per chiunque lavori in azienda. La minaccia di sciopero, che ha al centro proprio l’insofferenza a manifeste le capacità da una parte e la pigrizia dall’altra, ma anche e soprattutto l’osservanza delle regole e le procedure, ha reso palese anche un fatto singolare. E cioè quel che le toghe pensano di se stesse e della categoria. È stupefacente sentir dire che nella prospettiva di esser giudicato nel proprio lavoro, ogni magistrato sarà indotto a fare il minimo, a compiacere il proprio capo, ad abbandonare la “giustizia creativa”. Ecco, magari questa è una buona notizia. A noi piace di più l’osservanza del codice che non la fantasia di certi pm e giudici che non leggono le carte, che si appiattiscono sulla prima relazione della polizia giudiziaria, che poi capiscono roma per toma nelle trascrizioni delle intercettazioni e “creativamente” infilano manette ai polsi di persone che poi, spesso molto poi, saranno riconosciute estranee ai reati contestati. Diciamo la verità, lo zuccherino del fascicolo delle performance è l’unico risultato della “riforma”. E, se le cose stanno così, se davvero i riformatori del Parlamento portano a casa solo questo, può sembrare una rivalsa della politica sulla magistratura. Perché non si è assolutamente risolto per esempio l’affollamento di toghe in tutte le istituzioni. Possibile che ci siano sempre questi duecento magistrati che non sanno star fermi nel banco e nel loro ruolo di inquirenti o giudicanti? Se la ministra Cartabia continua a muoversi con un codazzo di gente in toga, come potrà assumere provvedimenti senza subirne qualche, pur indiretto condizionamento? E tutti questi capi e capetti, più che gli eletti alle camere, che sono ormai pochi, potranno tornare poi indisturbati a inquisire e giudicare? Non c’è una vera “riforma” su questo andirivieni. E dovremo aspettare il referendum, e contare non soltanto i partecipanti al voto, ma anche il numero dei “si”, per avvicinarci non alla separazione delle carriere, ma almeno a quella delle funzioni. Che rilevanza ha il fatto che si consenta al pm di diventare giudice (o viceversa) una o due o tre volte nella carriera? Il vero cambiamento sarebbe lo zero assoluto. Quella sarebbe una riforma. E piantiamola con la favoletta della cultura della giurisdizione, per favore! Meglio un pm pistolero piuttosto che un imbroglione, che va a sciacquare i panni in Arno e torna più accanito di prima. Buono sciopero dunque, signori magistrati, dopo l’assemblea sindacale del prossimo 19, quando la “riforma” sbarcherà in Parlamento e voi dichiarerete di aver perso una guerra che avete stravinto. “Riforma dannosa e vendicativa, ma allo sciopero delle toghe preferisco critiche costruttive” di Liana Milella La Repubblica, 15 aprile 2022 L’ex procuratore di Milano e leader dell’Anm, Bruti Liberati, non salva quasi nulla della riforma. Boccia, nell’ordine, la legge elettorale, il fascicolo delle singole toghe, l’illecito sulla presunzione d’innocenza. E sulle porte girevoli commenta: “La politica le chiude, l’onorevole Ferri propone il modello open space”. Riforma “dannosa e vendicativa”. Il fascicolo per ogni magistrato? “Con i punteggi entriamo nell’assurdo”. L’illecito sulla presunzione di innocenza? “Demagogico”. Il sorteggio dei distretti elettorali? “Mito della casualità più ossessione del contrasto alle correnti producono nonsense”. Le porte girevoli? “La politica le chiude per i magistrati parlamentari, ma con l’onorevole Ferri propone il modello open space”. La riforma è un flop, ma l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, leader dell’Anm quando la magistratura scioperò contro le riforme di Berlusconi, non si schiera adesso per l’astensione verso cui sta andando l’Anm di Giuseppe Santalucia. Ha seguito la nottata del voto in commissione Giustizia sulla riforma del Csm e adesso parla con Repubblica. Il suo in effetti fu l’ultimo sciopero “importante” delle toghe. Adesso - dopo anni di sole proteste a mezza bocca - i suoi colleghi ne vogliono fare uno contro la legge Cartabia. Ci sta oppure no? “Tra i magistrati di base c’è un sentimento diffuso di frustrazione per riforme ispirate a intenti punitivi. Mentre troppo poco si fa per migliorare l’efficienza del sistema. Spetterà proprio all’Anm e alle vituperate correnti canalizzare i sentimenti di protesta in una critica costruttiva”. Ammetterà che la decisione sulla separazione delle funzioni - un solo passaggio dopo 10 anni di lavoro - assomiglia proprio a una separazione delle carriere. Rischia dal punto di vista costituzionale? “Finché ci sarà un’unica carriera, come prevede la Carta, limitare così i passaggi è un non senso. Solo dopo un primo trasferimento e uno scambio proficuo di esperienze il magistrato potrà fare una scelta meditata: due passaggi dovrebbero essere consentiti”. Anche il fascicolo delle performance del magistrato può rischiare un ricorso perché trasforma in elementi di punteggio e di valutazione ai fini della carriera le decisioni assunte sul piano giurisdizionale? Nell’idea di Costa di Azione, che lo ha proposto e ha vinto la battaglia, se un pm perde molti processi vuol dire che non è bravo e non va promosso... “Una disposizione inutile e dannosa. I gradi di giudizio presuppongono la possibilità di valutazioni diverse; capita che un’interpretazione minoritaria qualche tempo dopo divenga quella assestata. Se un pubblico ministero avesse il 100% dei successi non si direbbe che quel pm è un genio, ma che i giudici successivi si sono “appiattiti” sull’accusa. Stabiliamo un numero diverso, 75, 80 o 60 per cento? Con i punteggi entriamo nell’assurdo, che tale rimane anche se si pretende di nobilitarlo con l’inutile anglismo della paroletta ‘performance’“. Una grande battaglia c’è stata sull’illecito disciplinare per chi viola la presunzione d’innocenza. Ma alla fine, anche in questo caso, ha vinto Costa, l’illecito ci sarà e punirà chi aggira la conferenza stampa prevista solo per ragioni pubbliche. Giusto, o sbagliato? E che conseguenze avrà? “La norma sulla presunzione di innocenza è un importante richiamo di un principio spesso dimenticato, ma ha preteso di ingessare le modalità della comunicazione. A demagogia si aggiunge demagogia, minacciando sanzioni disciplinari impraticabili a fronte di norme del tutto imprecise. Ancora una volta una logica punitiva nei confronti della magistratura, quando invece la sfida è operare per una deontologia della comunicazione da parte di tutti magistrati, avvocati e operatori della comunicazione”. Lei è un esperto di leggi elettorali del Csm. La Bongiorno aveva proposto il sorteggio dei collegi, ma solo a una settimana dal voto. Adesso, dopo le modifiche alla sua stessa proposta fatte da via Arenula, per esempio il sorteggio 4 mesi prima, ormai lei stessa la battezza ex Bongiorno e la vota a fatica. Ma alla fine, tra sorteggio dei distretti e sistema maggioritario binominale, lei vede effettivamente un sistema anti correnti? “Fino ieri andava di moda lo slogan “piccoli collegi maggioritari uninominali per avvicinare candidati ed elettori”. Oggi contrordine: sorteggio dei collegi. Il magistrato di Udine voterà tra i candidati di Catania. Assecondando la moda, tirerà i dadi per esprimere il suo voto o chiederà di accedere al fascicolo delle performance dei candidati, ovvero chiederà indicazioni a un suo collega di Catania che ha conosciuto in un’iniziativa della corrente cui entrambi fanno riferimento? Mito del sorteggio più ossessione del contrasto alle correnti producono nonsense”. Alla fine considera almeno risolutive le scelte sulle porte girevoli? “Finalmente rigide regole di incompatibilità per le amministrazioni locali, che sono il problema più sentito e sul quale per anni non si è fatto nulla nonostante le ripetute sollecitazioni dell’Anm. Ma la politica lancia un messaggio contraddittorio: chiude le porte girevoli per i magistrati parlamentari, ma con l’onorevole Ferri propone il modello open space. Da magistrato in aspettativa e sottosegretario alla Giustizia ha fatto campagna elettorale per suoi candidati al Csm. Come parlamentare nel 2019 ha partecipato alla famosa riunione all’Hotel Champagne dove si trattava della nomina del procuratore di Roma. Adesso, a sottolineare la sua posizione di parlamentare, fa valere le sue prerogative contro le intercettazioni. Infine è il parlamentare che rappresenta il suo partito nel confronto sulle norme da introdurre per evitare che si riproducano episodi come quello dell’Hotel Champagne”. Questa doveva essere una legge anti-Palamara, secondo lei complessivamente lo è? Mattarella aveva chiesto questo, e per questo lo hanno applaudito alla Camera. “La proposta Cartabia ha corretto storture della proposta Bonafede e contiene alcune innovazioni utili e ragionevoli. Il dibattito parlamentare si è attardato su rigidità e demagogie. Almeno ora, svoltata questa pagina più male che bene, magari ci si potrà impegnare a misure concrete per una giustizia più efficiente. Due temi finora sono stati ignorati. Primo, il ritorno al ringiovanimento dell’ingresso in magistratura con l’accesso al concorso subito dopo la laurea richiede un deciso impegno sul tirocinio iniziale dotando la Scuola superiore della magistratura del personale docente necessario. Secondo, ma qui entro nell’isola di Utopia, portare a termine la incompiuta riforma della geografia giudiziaria sopprimendo quattro Corti di Appello e una ventina di Tribunali, con il recupero di circa cinquecento magistrati e la soppressione di una cinquantina di posti direttivi e semidirettivi”. Pecorella: “Giusto chiedere alle toghe di essere responsabili degli errori che fanno” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 aprile 2022 Per l’ex presidente dei penalisti italiani la riforma rappresenta il minimo sindacale per contenere il potere dei magistrati. “Avevamo approvato in Commissione una norma che prevedeva l’esecuzione dei test psicoattitudinali per i magistrati. Poi arrivò Clemente Mastella e decise di cancellare tutto”. L’avvocato Gaetano Pecorella è stato presidente della Commissione giustizia della Camera dal 2001 al 2006, gli anni dei governi Berlusconi e dello scontro violentissimo fra toghe e politica. Anche allora si discuteva di riforme della giustizia e l’Associazione nazionale magistrati decise di indire nel 2002, come adesso, uno sciopero per contestare l’operato Presidente Pecorella, nulla di nuovo viene da dire? Da parte dei magistrati no, appena si toccano i loro privilegi partono subito violente reazioni. Ai suoi tempi l’accusa delle toghe era quella di voler salvare Silvio Berlusconi dai suoi processi. E adesso? Il premier è un signore che si chiama Mario Draghi e la ministra della Giustizia è Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, che non ha mai esercitato la professione forense. Una persona di grande sensibilità che non penso possa essere accusata di conflitti d’interesse. Quindi come si spiega la reazione dei magistrati? Semplice: i magistrati non vogliono essere considerati dei pubblici funzionari e pertanto soggetti a delle valutazioni. Si riferisce alle “pagelle”? Esatto. Non è pensabile che tutti i magistrati italiani abbiano oggi una valutazione altissima e che facciano carriera per logiche di appartenenza correntizia. Abbiamo avuto magistrati eletti in Parlamento che continuavano a progredire in carriera pur non svolgendo alcuna attività giurisdizionale. È un sistema che non funziona. Purtroppo da sempre vige questo malinteso secondo il quale è sufficiente aver vinto un concorso per non dover più essere valutati seriamente. Il pilota di un aereo se sbaglia fa al più 200 vittime. Quante vittime, invece, in termini di carriere rovinate, famiglie distrutte, o anche di persone che decidono di togliersi la vita, ha sulla coscienza un magistrato che sbaglia e non viene mai fermato? Un pm che vede sempre archiviati i propri procedimenti, deve per forza continuare a svolgere quella funzione? L’avvocato che sbaglia i processi viene punito dal mercato. I magistrati affermano che le pagelle saranno fonte di “conformismo” nelle decisioni... Già adesso ci sono principi sulla certezza del diritto. L’orientamento costante delle sezioni uniti della Cassazione tende ad evitare sobbalzi improvvisi nella giurisprudenza. Il magistrato che sa motivare in maniera intelligente un orientamento diverso sarà sempre molto apprezzato. Non certo quello che si discosta dalla Cassazione solo perché è prevenuto o ha per le mani un imputato eccellente. Esiste una legge con il suo nome, la numero 46 del 20 febbraio 2006, che prevede l’inappellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento, introducendo il principio che la sentenza vada pronunciata solo ‘ al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ebbe un iter alquanto travagliato. La legge venne prima rimandata alla Camera dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e, una volta approvata, fu poi bocciata dalla Corte Costituzionale che ne evidenziò il carattere incostituzionale in varie parti... Guardi, ricordo benissimo. Era il tentativo di tagliare le unghie ai pm che oggi, come ieri, possono tenerti sotto processo una vita. La decisione della Corte della Costituzione sul principio di parità di accusa e difesa è uno scherzo. La ministra Cartabia non ha avuto coraggio di riproporla. Sarebbe stata una battaglia di civiltà. Torniamo al governo Berlusconi... I magistrati le fecero una opposizione ferocissima. Tutto, come è stato spesso ricordato, iniziò con Mani pulite. Il Pci fu l’unico partito ad essere risparmiato e con il segretario Achille Occhetto era pronto ad andare al governo... Berlusconi fece saltare i piani. La saldatura fra il Pci e Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, ha fatto il resto. La separazione dei poteri non esiste più da allora. Cosa possono fare i mezzi di informazione? Devono far capire che serve migliorare la giustizia. Ci sono delle regolale. Autonomia e indipendenza non significa che il magistrato possa fare quello che vuole. Per concludere, che giudizio si sente di dare sulla riforma Cartabia? Una riforma che cambia ben poco. Serviva la separazione fra pm e giudici se si voleva cambiare qualcosa. Ed è la Costituzione a dirlo, prevedendo il giudice terzo, che non ha nulla a che vedere con il pm che è parte del processo come l’avvocato. Un giudice che deve anche essere imparziale, quindi senza pregiudizi. Costa (Azione): “Farà carriera solo chi merita. Lo sciopero dei magistrati è un boomerang” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 15 aprile 2022 “Niente può eliminare le correnti dei magistrati. Ma era la battaglia della Lega. Ciascuno ha fatto la sua. Noi il merito, FI la separazione delle funzioni, il M5S contro le porte girevoli, il Pd in difesa dei magistrati capi di gabinetto”. “Questa legge ha un’impronta: chi merita fa carriera, chi non merita no. E testimonial ne è il fascicolo delle performance”. Enrico Costa, lei esulta per la “innovazione storica”, ma il ministero dice che c’era già... “Eh no. Legga: si chiede di “prevedere l’istituzione”. La valutazione c’era ma questa è un’altra cosa”. Per i magistrati forse merita uno sciopero... “Siamo in periodo pre-elettorale per il Csm. Ma lo sciopero sarebbe un boomerang, i cittadini non capirebbero”. Perché? “Se il 99% delle valutazioni è positivo o sono tutti geni o qualcosa non funziona”. Le sentenze non sono bulloni, non si giudicano sulla quantità, dicono... “E su cosa? L’ex ministro Castelli voleva il concorso, hanno detto di no. Ma l’autovalutazione non basta”. Il sorteggio dei collegi elimina le correnti al Csm? “Niente ci può riuscire. Ma era la battaglia della Lega. Ciascuno ha fatto la sua. Noi il merito, FI la separazione delle funzioni, il M5S contro le porte girevoli, il Pd in difesa dei magistrati capi di gabinetto”. Cosa intende? “Invece di creare una classe dirigente dello Stato difendono la scelta di prelevare dalla magistratura le figure apicali dei ministeri. E anche il governo ci ha fatto uno scherzetto...”. Che scherzetto? “Tutti ritenevamo troppi 10 anni di fuori ruolo e li abbiamo portati a 7. La ministra Cartabia aveva chiesto deroghe per casi particolari. Poi è arrivata la “manina”“. Che manina? “Qualcuno ha reso regola la deroga, riportando a 10 anni il fuori ruolo “anche per incarichi di governo”. Cioè quasi tutti. In aula si dovrà intervenire”. Gli emendamenti saranno molti. I malumori pure. Rischia la riforma? “Noi ci rimettiamo al governo. Ma soprattutto al Senato può essere che per evitare ulteriori tensioni si scelga la strada finora esclusa: la fiducia”. Ora ringrazio l’Arma di Ilaria Cucchi La Stampa, 15 aprile 2022 “Su Cucchi ha vinto lo Stato di diritto. Ora scatteranno le espulsioni dall’Arma”. Queste le parole del Comandante generale dei carabinieri che ho letto ieri. Mi sento piccola di fronte a lui e a quel che rappresenta. All’importanza per il mio Paese per ciò che è: l’Arma dei carabinieri. Quell’istituzione che da sempre i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare, riuscendo perfettamente nel loro intento. La vita di Stefano prima, la nostra poi, sono state distrutte e vilipese da uomini che non avrebbero mai dovuto indossare quella divisa. Non conta ciò che possono aver fatto prima. Non contano i loro meriti di carriera. Conta la violazione della dignità di una persona la cui vita era affidata alle loro mani. Entrambe sono state calpestate e distrutte allo stesso modo in cui, poi, a tavolino, lo sono state le nostre, insieme a quelle degli agenti di polizia di penitenziaria ingiustamente accusati del pestaggio omicida di Stefano Cucchi. Gli assassini di mio fratello ora sono in carcere. Coloro che li hanno aiutati, per anni e anni a sottrarsi alla legge, sono stati condannati. Uomini che hanno posto in essere davanti al Tribunale di Roma una drammatica esibizione di cinica e patologica, financo ossessiva, ambizione di carriera. L’arroganza gonfia dei gradi delle loro divise, è stata espressa in tutta la sua violenza, come a voler significare che, per loro, la legge non poteva essere uguale agli altri cittadini comuni. Per loro no. Si consideravano al di sopra di tutto e tutti. Mai una nota di empatia per me, la sorella del morto perché il morto era un rifiuto. Un tossicodipendente in stato avanzato, anoressico e sieropositivo. Tutto inventato e scritto a tavolino senza il supporto di alcun documento medico. Falso. Ma sapevano che vi sarebbero stati medici legali che, supini al loro potere, avrebbero prontamente supportato le loro infamanti teorie, destinate a una propaganda mediatica che ci ha sempre accompagnati nella nostra ricerca di verità e di giustizia. Politici con incarichi istituzionali le hanno dato forza e voce e continuano a dargliela “ignari” del fatto che quegli atti sono stati tutti dichiarati falsi. Mi sento piccola di fronte a tutto questo. Devo essere forte di fronte a tutto il dolore inflitto alla mia famiglia e che continuerà a esserle inflitto. Mentre lavoro sto studiando per prendere il secondo diploma, quello di geometra. Mi piace studiare. Voglio proseguire la strada di mio padre. Ciò che apprezzo di più nel pubblico intervento del generale Luzi è il lodevole progetto di introdurre “rinnovate e più efficaci procedure di controllo interno all’Arma” affinché, dico io, non ci sia più un’altra Ilaria Cucchi. Ilaria Cucchi ha già dato. Basta. Generale, ho fiducia in lei. Non mi tradisca. Non tradisca l’Istituzione che ho sempre amato nonostante tutto. Treviso. Ispezione ministeriale dopo le rivolte: il carcere minorile è inagibile e chiude di Maria Elena Pattaro Il Gazzettino, 15 aprile 2022 Scatta l’ispezione ministeriale nel carcere minorile dopo le rivolte scoppiate martedì sera e proseguite mercoledì mattina. Una delegazione del Dipartimento Giustizia minorile ieri ha fatto visita al penitenziario di Santa Bona in gran parte distrutto dall’incendio innescato dal gruppo di rivoltosi. L’obiettivo è fare chiarezza sulle sommosse e ragionare sul futuro del carcere, di cui è previsto il trasferimento a Rovigo entro un anno anche se sui tempi effettivi manca ancora la certezza. Visti i danni ingenti (la cui cifra esatta è ancora in corso di quantificazione), il penitenziario trevigiano rischia di non riaprire. I danni infatti sono estesi: gli impianti elettrico e idraulico sono stati compromessi, come pure i cancelli di sbarramento. Gran parte della struttura è stata dichiarata inagibile. Il penitenziario è stato sfollato: tutti e 13 i detenuti sono stati trasferiti in altre carceri di Puglia e Calabria. Sono 11 i ribelli, tra cui alcuni maggiorenni, che hanno aizzato la rivolta barricandosi nello spazio comune e dando fuoco ai materassi. Il motivo? Una pizza “negata” dopo una giornata di digiuno in periodo di Ramadan. I malumori covavano già da giorni: i reclusi, soprattutto nordafricani di fede islamica, si erano lamentati più volte dei menù e del fatto che la mensa non avrebbe rispettato il Ramadan. Questo il pretesto con cui dal braccio di ferro si è passati alla rivolta violenta da cui soltanto due dei ragazzi reclusi si sono invece dissociati dai tumulti, su cui ora saranno le due Procure, quella dei Minori e quella ordinaria a indagare evidenziando le responsabilità. Intanto i sindacati tengono alta l’attenzione sulle criticità del carcere minorile: organico insufficiente, in ambito pedagogico e tra gli agenti della polizia penitenziaria, struttura inadeguata e a livello nazionale mancanza di protocolli per far fronte all’aggressività dilagante dei giovani reclusi. Dopo la Sappe e la Fp Cgil di Treviso interviene ora anche la Fn Cisl Belluno Treviso: “Periodo difficile per gli istituti di pena del territorio -commenta Robert Da Re facendo riferimento alla rivolta trevigiana ma anche all’agente aggredito nel carcere di Belluno- Purtroppo l’eccessivo garantismo di questo periodo si sta tramutando in senso di impunità, generando continuamente eventi spiacevoli all’interno degli istituti di pena”. La Cisl Fns, rappresentante dei vigili del fuoco e della polizia penitenziaria, ha colto l’occasione per applaudire il delicato intervento che li ha visti fianco a fianco al carcere minorile di Treviso. Sulla situazione nelle carceri è intervenuto anche il senatore Luca De Carlo (Fdi): “La misura è colma, subito assunzioni e nuove norme. Solamente due giorni fa eravamo in piazza a Padova con la polizia penitenziaria per denunciare i gravi problemi di organico e di sicurezza, e oggi arrivano nuove notizie di gravi problemi per la sicurezza degli agenti e dei detenuti”. Genova. Carcere di Marassi, la nuova direttrice: “Più lavoro per detenuti e più personale” primocanale.it, 15 aprile 2022 Ad un mese dal suo arrivo, prima uscita istituzionale per Tullia Ardito. È arrivata da un mese Tullia Ardito, originaria di Polignano a Mare ma dopo 25 anni di lavoro in Piemonte, alla direzione della Casa Circondariale di Genova Marassi e già si è trovata immersa tra tutte le incombenze che richiedono il suo ruolo. La sua prima uscita istituzionale è stata per la presentazione dell’allestimento dello spettacolo dei detenuti al Teatro della Corte, un momento che rappresenta la volontà di tornare alla normalità anche in carcere, seppur senza abbassare la guardia sul tema pandemia. I contagi, infatti, ci sono ancora e serve continuare a utilizzare mascherine e distanziamento. La pandemia ha inasprito le tensioni e c’è bisogno di intervenire per riportare serenità per polizia penitenziaria e carcerati. “Bisogna allentare le tensioni all’interno, facendo tanto per implementare il tema del lavoro”, commenta a Primocanale il nuovo direttore. “Attività come il teatro funzionano, ma non possono essere per tutti i detenuti che sono tantissimi”. “Consentendo loro di lavorare, si stemperano le tensioni all’interno: dobbiamo creare più attività e più lavoro all’interno e all’esterno del carcere. Soltanto così creiamo un ambiente lavorativo ottimale migliore per tutti, sia per chi ci lavora sia per chi è costretto ad essere qui per scontare una pena”. Al tempo stesso, però, visti anche i tassi di sovraffollamento, la richiesta è di maggiore personale, che porterebbe una boccata d’ossigeno per chi opera all’interno delle strutture. “Serve più personale: ci sono state delle immissioni in ruolo, ma sempre a compensazione per trasferimenti o pensionamenti: bisogna pensare a un incremento di personale polizia penitenziaria, perché ce n’è molto bisogno, ma anche delle figure con funzioni centrali come educatori, ragionieri e personale amministrativo perché il carcere è fatto di tante anime e dobbiamo andare avanti con tutte le forze possibili. Le chiederemo al Governo”. Era atteso l’arrivo di un nuovo direttore, dopo un anno di reggenza della direttrice De Gennaro, ora trasferita a Prato (Toscana). Ma su Ardito sono in corso le indagini per il caso del carcere di Biella dei furbetti del tampone: il personale dell’istituto avrebbe effettuato i tamponi rapidi, riservati solo ai detenuti, ad amici e parenti. Alessandria. Malato di Sla al Don Soria, va in scena la protesta dei detenuti di Massimo Coppero La Stampa, 15 aprile 2022 Fino a domenica la “battitura” della gavetta contro le grate delle celle: si chiede la scarcerazione di Cinieri. “Mio padre è peggiorato, ora può muoversi solo su una carrozzina. Non cammina e ha le mani atrofizzate, quindi non potrebbe più portare la stampella. Resta solo da sperare nell’umanità dei giudici”. Valeria Cinieri prosegue la lotta per ottenere la scarcerazione del padre Maximiliano, 45 anni, in carcere al Don Soria e afflitto da Sla. Una condizione che non è bastata a convincere il giudice a concedere i domiciliari, nonostante il medico della casa circondariale di Alessandria il 28 marzo avesse scritto che “Cinieri si trova nelle condizioni previste per il rinvio obbligatorio della pena per motivi di salute. Il carcere non è la collocazione idonea per un detenuto con le sue caratteristiche cliniche”. Il rigetto dell’istanza di scarcerazione e le polemiche scatenatesi sulla vicenda (adesso è stata pure promossa una petizione sui social a sostegno del detenuto) sono filtrate anche nelle celle del Don Soria e la solidarietà per Maximiliano corre veloce fra i reclusi. Fino a domenica, gli altri detenuti del carcere alessandrino proseguiranno la protesta pacifica di “battitura” delle grate delle celle con le gavette usate per il pranzo e la cena e trapela che anche il personale di polizia penitenziaria sarebbe totalmente solidale con il detenuto malato di Sla. Entro la fine della settimana il fascicolo di Cinieri sarà trasferito per competenza alla Corte d’Appello, che dovrà fissare una data per il processo di secondo grado. I tempi saranno di 6-12 mesi: per gli imputati in custodia cautelare è prevista una corsia preferenziale. Nelle more, i magistrati di Torino potranno rivalutare la decisione del giudice di Asti e concedere la scarcerazione. “Mio marito è già stato punito da Dio, non vi sembra sia abbastanza?” grida Livia Rapè, la moglie di Cinieri. “Sono sposati da 26 anni, mia madre non può assisterlo e per lei è anche doloroso umanamente non poter essere accanto all’uomo della sua vita - aggiunge la figlia Valeria -. Non capiamo perché si voglia dar credito solo alla perizia e non ai medici del carcere. Pensano che li abbiamo corrotti?”. “È una situazione difficile, ma posso ribadire che stiamo assistendo Cinieri nel miglior modo possibile” afferma la direttrice degli istituti penitenziari di Alessandria, Elena Lombardi Vallauri. Poi illustra l’attuale condizione di Maximiliano Cinieri. “Fino ad ora non ci sono stati ritardi nell’organizzazione e nell’assistenza, così come lo stesso detenuto ha affermato. Questo sta avvenendo nonostante all’interno della struttura ci sia oggettiva carenza del personale di polizia penitenziaria e facciamo i conti ogni giorno con la problematica copertura dei medici dell’Asl”. Lombardi non entra però nel merito della vicenda. “Non posso commentare o giudicare decisioni che vengono prese al di fuori di questo istituto - aggiunge -. Personalmente ne prendo atto, tutti insieme cerchiamo di fare qui ciò che possiamo e nel miglior modo, cercando di alleviargli le difficoltà. Le sue condizioni di salute? È sicuramente una situazione di enorme sofferenza, tutti lo possono vedere in modo tangibile: ma intorno a lui c’è molta solidarietà da parte del personale e degli altri detenuti”. Milano. Dal carcere di Opera i violini costruiti con i legni dei barconi di Rossana Linguini Gente, 15 aprile 2022 Nel carcere di Opera le “carrette del mare” che hanno attraversato il Mediterraneo vengono smantellate per realizzare strumenti musicali. Così i detenuti imparano un mestiere rendendo omaggio a chi ha perso la vita. “L’obiettivo è creare l’orchestra del mare”, dice Mosca Mondadori - Dentro il carcere di Opera, il più grande d’Italia e quello con il maggior numero di detenuti al 41-bis, ci sono dieci “carrette del mare”, scelte tra le tante con cui i migranti hanno sfidato la sorte e i flutti del Mediterraneo per approdare all’isola di Lampedusa. A farle arrivare qui è stato Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello spirito e delle arti, che le ha ottenute in affido dalla ministra degli Interni Luciana Lamorgese. E a quei barconi che hanno ancora memoria delle grida disperate di chi ha attraversato l’inferno, vuole ora dare una nuova vita, di riscatto e speranza. “Tutto è cominciato dieci anni fa”, ci spiega lo scrittore e filantropo, “quando abbiamo iniziato la collaborazione con il carcere di Opera creando un laboratorio di liuteria in cui i maestri dell’istituto Stradivari di Cremona insegnavano a un gruppo di persone detenute a costruire violini”. Quando è arrivata la pandemia, Mosca Mondadori - che era stato promotore della Porta di Lampedusa, la gigantesca opera di Mimmo Paladino che domina l’ultimo promontorio a sud dell’isola, la prima cosa che vede chi arriva dal mare, dedicata a chi ad arrivare non è riuscito - vuole dare un segno di speranza. Così porta alla casa di reclusione di Opera Francesco Tuccio, falegname dell’isola siciliana e artigiano delle croci realizzate con i legni dei barconi. “Al laboratorio di liuteria e falegnameria abbiamo cominciato a realizzare croci e presepi della natività”, ricorda Mosca Mondadori, “poi ci è venuta l’idea: e se provassimo con un violino? Lo abbiamo fatto, e ha funzionato. A febbraio il primo Violino del Mare è stato benedetto da Papa Francesco e i quattro musicisti che lo hanno suonato, tra cui Carlo Parazzoli, primo violino dell’Accademia di Santa Cecilia, sono rimasti colpiti da questo suono profondo e allo stesso tempo dolce, con un’identità e un timbro inconfondibili”. Ora l’obiettivo è creare un’Orchestra del Mare, un quartetto d’archi entro la fine dell’anno, cioè una viola, un violoncello e un altro violino da aggiungere a quel che c’è già, e che si trova ora al Museo di Cremona, e altri strumenti ancora nel 2023. “Potranno essere prestati a organici in Italia o all’estero”, continua Mosca Mondadori, “e chi suonerà questi strumenti darà voce a chi la voce l’ha persa cercando di coronare il sogno di arrivare in Europa”. È una delle due anime del progetto, che si chiama Metamorfosi: l’altra riguarda il riscatto di chi concretamente lo realizzerà. Andrea, Claudio, Nicolae e Vincenzo, persone detenute che per tre giorni a settimana lavorano al laboratorio, a fianco al maestro liutaio Enrico Allorto. “Qui bisogna saper fare un po’ di tutto, ma poi ognuno ha una sua specialità”, spiega Andrea, il più esperto. Per il primo Violino del Mare si è occupato del manico e della cassa piroli, cioè dello spesso in cui poi verranno inseriti i piroli per tendere le corde. Claudio, invece, ha fatto i piroli, mentre Nicolae si è occupato delle “effe” e della catena interna che dà il suono al violino. “Quando sono arrivato qui per passare il tempo facevo oggetti con il cartone e gli stuzzicadenti, macchinine o camion”, racconta Nicolae. “Un po’ di manualità la devo avere nel sangue, solo che fuori non lo sapevo, l’ho scoperto qui”. Il laboratorio è un gioiello, impeccabile e ordinatissimo. In una scatola ci sono i chiodi recuperati dai barconi smontati, in un’altra gli oggetti più piccoli trovati sottocoperta: una sneaker da neonato, un fischietto giallo con uno smile disegnato, un cappellino. “La difficoltà di fare un violino con il materiale di recupero dei barconi non sta solo nelle caratteristiche del legno”, spiega il maestro liutaio, “ma anche nell’esigenza di mantenere la vernice originale, che ci impedisce di scolpire i pezzi, come si fa di solito, e ci obbliga a inventarci un modo nuovo”. Bagnare quei legni che sanno ancora di acqua salmastra e nafta, piegarli con il calore, giuntarli tra di loro. Prima però bisogna finire di smontare i legni dal grande barcone con la chiglia poggiata sui bancali, che di ora in ora somiglia sempre più a uno scheletro blu. Il barcone è uno dei sette custoditi davanti al laboratorio: gli altri tre sono stati sistemati in un’ampia area verde su cui affacciano le palazzine dei colloqui per volere del direttore del carcere di Opera Silvio Di Gregorio. “Mentre lavoriamo a questa Orchestra del mare, a cui affideremo il compito di richiamare l’attenzione su tutti gli uomini, che sono uguali anche quando prendono strade diverse”, ci spiega, “abbiamo voluto realizzare questa Piazza del Silenzio, con gli scafi di tre barconi. È l’occasione per richiamare l’attenzione di chi entra in carcere in visita dall’esterno, penso per esempio alle scolaresche, sul fatto che qui dentro ci sono degli uomini, e non è detto che chi è finito in carcere non possa essere una ricchezza per gli altri, dentro o fuori. E per ricordare che ognuno ha diritto a ricostruirsi il proprio futuro, non facendo finta che il reato che ha commesso non ci sia, ma partendo proprio da quello per non ricadere negli errori del passato”. Un luogo potente e simbolico, che sarà completato tra qualche giorno. “Quando la barca che stiamo smontando sarà solo uno scheletro”, conclude il direttore Di Gregorio, “porteremo qui anche quella. Sarà il simbolo del progetto, della metamorfosi: tu come uomo ti devi mettere a nudo, e una volta che avrai ritrovato te stesso, potrai ricominciare”. Monza. “Oltre i confini - Beyond Borders”: aprire lo sguardo alla vita dei detenuti odg.mi.it, 15 aprile 2022 Raccontare, raccontarsi, scrivere. Dire la verità e rispettare la dignità propria e quella degli altri. Legare faticosamente una parola dopo l’altra, un’immagine dopo l’altra per creare qualcosa di nuovo, assaporare la libertà della mente, che non è la libertà dei corpi, naturalmente, ma che è comunque una componente fondamentale dell’esperienza umana. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, scriveva il filosofo Ludwig Wittgenstein. Il giornalismo è diventato una professione, e spesso aspira ad alte vette: vuole essere, e a volte è davvero, la storiografia del presente. Altre volte, però, la sua concretezza, la sua aderenza al presente, al qui e ora, diventa qualcosa d’altro. Diventa il segno tangibile lasciato da un’esistenza, sia che si parli di sé sia che si parli di altri. Quando poi riesce addirittura ad aprire le porte, ad aprire per esempio le porte di un carcere, che nel mondo materiale dei corpi restano drammaticamente e tristemente chiuse, e a lungo, diventa davvero un’esperienza che dona al mondo una grande ricchezza. È questo che, con Oltre i confini-Beyond borders, fanno alcuni ospiti della Casa circondariale di Monza: aprire lo sguardo, aprire allo sguardo. L’Ordine della Lombardia ha incontrato, a marzo, i giornalisti di questa rivista - realizzata grazie al coordinamento di Antonetta Carrabs e la cura grafica di Roberto Magnani - che ha una particolarità importante: viene ospitata da Il Cittadino, ed entra così nelle case dei lettori del quotidiano di Monza, diretto da Cristiano Puglisi. In quell’occasione, i giornalisti hanno intervistato il presidente dell’Ordine della Lombardia Riccardo Sorrentino, e il 2 aprile hanno pubblicato il racconto dell’incontro, avvenuto alla presenza della direttrice della Casa, Maria Pitaniello. Guardare il mondo, far guardare il mondo prepara la nostra libertà. È quello che fanno i giornalisti di Oltre i confini: aprono simbolicamente le porte del carcere, permettono alle persone di entrare, di guardare, di guardare quelle persone, la loro vita, le loro storie, la loro dignità. Preparano la loro libertà, e arricchiscono la libertà degli altri. Genova. “Delirio di una notte d’estate”, il ritorno in scena della compagnia dei detenuti di Ginevra Ferro liguria.today , 15 aprile 2022 Tornano sul palcoscenico gli Scatenati del Teatro Necessario con lo spettacolo ispirato a Shakespeare dal dolce lieto fine. Dopo due anni di stop dovuti al Covid, la Compagnia teatrale Scatenati, composta dai detenuti della Casa Circondariale di Marassi, torna a calcare il palcoscenico in “Delirio di una notte d’estate” di Fabrizio Gambineri e Sandro Baldacci, in scena dal 19 al 24 aprile al Teatro Ivo Chiesa e dal 26 al 28 aprile al Teatro dell’Arca all’interno del carcere. Un buon escamotage per festeggiare i quindici anni d’attività dell’Associazione Culturale Teatro Necessario Onlus. Da circa otto mesi una ventina di detenuti partecipano attivamente alla realizzazione dello spettacolo, in qualità di attori e di tecnici audio e luci. Nella rivisitazione in chiave moderna di Sogno di una notte di mezza estate di W. Shakespeare scelta dal regista Sandro Baldacci, il bosco incantato diventa la periferia di una metropoli, gli spiriti e i folletti mutano in altre creature della notte che non dispensano filtri d’amore ma sostanze molto pericolose. Dell’originale resta la magica giocosità che permetterà ad un manipolo di attori professionisti e dilettanti di dar vita ad uno spettacolo. Nonostante tutto, il lieto fine si realizza, quasi a significare che, in qualunque contesto e a dispetto di qualunque infausto pronostico, l’amore, la fantasia e il teatro sono sempre in grado di trasformare il peggiore dei “deliri” nel più bello dei “sogni”. Delirio di una notte d’estate è il quattordicesimo spettacolo del Teatro Necessario, che negli anni ha ottenuto grande successo di pubblico e oltre settantamila studenti come spettatori e ha coinvolto più di quattrocento detenuti. Il progetto si rivela così uno strumento efficace di rieducazione e reinserimento dei detenuti che partecipano attivamente alla realizzazione degli spettacoli, ma anche un mezzo straordinario in grado di produrre manifestazioni di notevole valore culturale, artistico e sociale coinvolgendo decine e decine di studenti, di ogni ordine e grado. Offre ai detenuti la possibilità di acquisire nuove competenze linguistiche, sviluppare nuove potenzialità espressive, accrescere la propria autostima e soprattutto sviluppare una nuova percezione di sé. Alla conferenza stampa, tenutasi oggi presso il foyer del Teatro Ivo Chiesa, hanno partecipato gli organizzatori dell’Associazione e alcune figure istituzionali, quali l’assessore Ilaria Cavo che si è rivelata subito entusiasta: “Sono anni che seguiamo questo percorso insieme al Teatro Necessario e ci tenevo a essere qui in questo momento importante. Anche la scelta del titolo è azzeccata: si parte dal Delirio per arrivare al Sogno, un bell’esempio di come il teatro possa far riscattare e dare un valore aggiunto”. Fondamentale è stato poi l’intervento del regista Sandro Baldacci che ha esordito con: “Ce l’abbiamo fatta!”. E ha poi spiegato la scelta del titolo: “Delirio è proprio il termine adatto: abbiamo scelto di immaginare come Shakespeare avrebbe scritto il suo Sogno di una notte di mezza estate se avesse vissuto ai giorni nostri, e da lì creato questo bosco incantato in cui si muovono i personaggi. È bello sapere che tutte le repliche dedicate alle scuole siano già esaurite, sia al Teatro Ivo Chiesa sia al Teatro dell’Arca, soprattutto in un momento in cui il teatro macina difficilmente perché la gente si è abituata a guardare le cose in televisione”. Infine, emozionante è stato l’intervento di Said, il detenuto che si occupa delle luci nello spettacolo: “Questa esperienza ci aiuta a inserirci in un nuovo mondo e a uscire dalla routine del carcere. Porterò la mia famiglia a teatro quando uscirò di qui”. Lo spettacolo è stato realizzato in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Genova Marassi, grazie al contributo di Regione Liguria, Comune di Genova, Compagnia di San Paolo (nell’ambito del progetto Per Aspera ad Astra), Otto per mille della Tavola Valdese e con il supporto del Teatro Nazionale di Genova e del I.I.S. Vittorio Emanuele II-Ruffini. Torino. Nosiglia in carcere. Eucaristia coi reclusi di Marina Lomunno Avvenire, 15 aprile 2022 Tra le persone più care a monsignor Cesare Nosiglia negli 11 anni di episcopato nell’arcidiocesi di Torino ci sono sempre stati i detenuti, gli adulti della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” e i ragazzi del carcere minorile “Ferrante Aporti”. L’arcivescovo non è mai mancato nei due istituti penali in occasione delle festività natalizie e pasquali o per amministrare i Sacramenti a quanti hanno fatto un percorso di fede dietro le sbarre. E così la Messa di ieri mattina, nel cuore della Settimana Santa, l’ultima celebrata da Nosiglia come amministratore apostolico dell’arcidiocesi nel teatro del carcere, è stata carica di commozione e di riconoscenza per i numerosi detenuti e detenute che hanno chiesto di partecipare alla liturgia con i cappellani e i diaconi che prestano servizio al “Lorusso e Cutugno”. Ma anche per gli agenti penitenziari, gli operatori carcerari e i volontari a cui l’arcivescovo ha riservato parole di gratitudine per l’impegno svolto con “spirito di sacrificio in un ambiente difficile sia per la carenza di strutture che per l’umanità sofferente che vi abita”. A loro Nosiglia ha rivolto un invito: “Cercate di scorgere nel volto dei detenuti quello di Gesù, Signore e nostro fratello”. E ai reclusi: “Coraggio, tutti sbagliamo, è nella natura umana: perseverare nell’errore è diabolico: vivete questo tempo della pena come occasione di riscatto e di cambiamento: Dio è misericordioso, ci perdona tutti, ascolta la voce del nostro cuore più che quella delle nostre labbra”. Nosiglia, che ha assicurato il ricordo nella preghiera per tutti i detenuti e per i familiari che soffrono per i loro errori, ha promesso che anche da arcivescovo emerito tornerà in carcere perché “ho sempre considerato i penitenziari della nostra città come parrocchie della nostra Chiesa”. Al termine il saluto alla nuova direttrice della casa circondariale, Cosima Buccoliero, che ha alle spalle la direzione del carcere modello di Bollate e del Beccaria di Milano, e che ha preso servizio da tre mesi a Torino, in uno dei penitenziari con 1.400 reclusi più affollati della Penisola. Legge sul “fine vita”: le responsabilità politiche di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 15 aprile 2022 Il 10 marzo scorso la Camera dei Deputati, con 253 voti favorevoli 117 contrari e un solo astenuto, ha approvato la proposta di legge. Ora passa all’esame del Senato e sono annunciati molti emendamenti. È certamente difficile volgere lo sguardo oltre la coltre di disumanità assoluta dalla quale siamo stati coperti con la folle guerra innescata del Presidente della Federazione russa contro la popolazione ucraina. Tuttavia uno dei rischi da scongiurare è quello di rinunciare ad occuparci della tutela anche degli altri diritti fondamentali delle persone tra i quali quello alla vita, comprensivo anche del segmento non meno importante della sua conclusione e le modalità attraverso le quali può avvenire. Il 10 marzo scorso la Camera dei Deputati, con 253 voti favorevoli 117 contrari e un solo astenuto, ha approvato la proposta di legge sul fine vita. Un risultato importante anche se, è bene mettere in guardia gli inguaribili ottimisti, il percorso è ancora lungo e verosimilmente la seconda parte dello stesso, quella dell’esame del Senato, sarà più impervio. Il fine vita, d’altra parte, è notoriamente un argomento oggetto di serrato dibattito nel variegato panorama internazionale, dove comunque delle regole sono state stabilite. In molti paesi europei ed americani, seppure con modulazioni differenziate, è ammesso il suicidio assistito. In Svizzera, ad esempio, si tratta di una pratica possibile a condizione che la persona che lo richieda oltre ad essere informata su possibili alternative, si trovi in stato di “sofferenza inguaribile” e nella piena capacità di intendere e volere. Non devono sorprendere quindi i contrasti di opinione sorti in Italia, tanto più se si considera che la problematica è di forte impatto religioso ed etico. Ciò che non è accettabile è la poco invidiabile unicità del nostro Paese che nonostante gli interventi giurisdizionali anche ai massimi livelli, tra i quali in ultimo la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 (la n. 242), non ha ancora risolto la questione a riprova delle problematiche istituzionali e della crisi della funzione di rappresentanza che ormai da troppo tempo ci affliggono. La sfiducia verso la possibilità che si possa giungere ad una legge dello Stato che regolamenti il suicidio assistito, fonda sulle contraddizioni del sistema e la evidente indisponibilità di attuare interventi riformatori in linea con le nuove esigenze culturali prima ancora che giuridiche, economiche e sociali. È un fatto incontrovertibile che anche dopo la bocciatura del referendum non si intraveda la conclusione dell’iter della legge sul fine vita, avviato con una proposta popolare depositata nell’ormai lontano 2013 con le firme di 67mila cittadini. Nella prossima tappa in Senato, dopo il via libera della Camera dove molto faticosamente è stato possibile incardinare il dibattito su un testo base che ha unificato varie proposte, si dovranno affrontare numerosi emendamenti tenendo conto che la legge scontenta tutti. Persino i promotori dei referendum che nel giudicarla insufficiente e discriminatoria ne invocano la modifica. D’altra parte una alternativa non c’è poiché anche al tempo della invocata democrazia diretta, pur essendo già evidente che il referendum popolare, vale a dire l’unico strumento disponibile per attuarla, fosse un’arma spuntata in quanto palesemente anacronistica, nessuno si è preoccupato seriamente di riformarlo quantomeno per scongiurare che dopo la faticosa raccolta di migliaia di firme si potesse giungere come è avvenuto, ad una seppure legittima dichiarazione di inammissibilità. Un accertamento che, con le dovute garanzie di costituzionalità e di non congestionamento della Suprema Corte, ben potrebbe essere effettuato preventivamente. Purtroppo non è l’unica aporia. La lamentata irrilevanza del Parlamento certo non si concilia con la mancata assunzione di decisioni da parte dello stesso, soprattutto in ordine a problematiche di alta conflittualità come, per l’appunto, quelle del fine vita. Sempre, e non soltanto quando può far comodo, deve essere ricordato che il Parlamento è collocato dalla Costituzione al centro della vita politica del Paese e che rappresenta il luogo istituzionale nel quale si determinano gli indirizzi politici, sulla base di un confronto che deve consentire il raggiungimento di un accordo o quantomeno di una decisione. Per quanto riguarda il “fine vita” i giudici costituzionali sin dal 2018 (ordinanza n. 207) hanno ribadito che l’articolo 2 della Costituzione, esattamente come prevede l’articolo 2 del CEDU, obbliga lo Stato a tutelare la vita di ogni individuo ma non di riconoscere a quest’ultimo la possibilità di ottenere un aiuto a morire. Una precisazione ribadita anche nella successiva sentenza del 2019 (n. 242) con la quale è stato anche deliberata l’esclusione della punibilità “dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”. Decisioni che possono essere più o meno condivise ma indubbiamente utili a chiarire che la questione non può essere risolta dai giudici e che il Parlamento Italiano deve assumere, qualunque esso sia, un provvedimento chiaro, organico e risolutivo. Anche il pensiero si militarizza ma io resto un pacifista armato di Maurizio Maggiani La Stampa, 15 aprile 2022 Diamo tutto alla guerra, dai soldi alle armi e al tempo, tranne i nostri corpi. In questo momento gli intellettuali si sono trasformati in grandi semplificatori. Siamo in guerra, dico noi, dico questo Paese. È un fatto; ed è proprio guerra, visto che dai nostri più alti rappresentanti ci è stato detto, e più correttamente intimato, di non poterci ritirare nella neutralità e consentirci la viltà del né né, visto che abbiamo chiaro e tondo un nemico, visto che alimentiamo di flusso continuo di risorse la resistenza del paese amico. Il nemico è alle porte, alle porte d’Europa, alle porte di casa, nutrito di insensata ferocia non chiede e non dà pace, e così guerra è la parola nelle nostre menti e sulle nostre labbra, e non ci sono altre parole se non vittoria o sconfitta, la parola pace si è fatta lenitiva bugia. Al momento solo una cosa rifiutiamo alla guerra, ciò a cui la guerra più anela, i nostri corpi, poi si vedrà; ma per il resto le diamo con generosità ciò che chiede, i nostri soldi, le nostre armi, le nostre leggi, i nostri discorsi, il nostro tempo. Già, la guerra, e la vittoria, impongono la militarizzazione di tutte le risorse del Paese, l’economia, la finanza, la politica, e naturalmente la cultura. La militarizzazione del pensiero, la brigata degli intellettuali combattenti. Così poco avvezzi alla nuova condizione di risorse essenziali, sono presi da un ardore, persino un furore, ignoto non di rado agli stessi militari di consolidata professione. Certo, è loro facoltà di guerreggiare con la pelle degli altri, ma non per questo è un disonore. Quando il più limpido e generoso tra gli intellettuali della Rivoluzione Italiana, Giuseppe Mazzini, pretese di impugnare il fucile per la difesa della sua Repubblica Romana, il generale Garibaldi ordinò che gli fosse tolto di mano prima che potesse fare danni a sé e ai pochi difensori ancora in armi; diversamente Carlo Pisacane, altrettanto intellettuale, fu un valoroso combattente in corpore vili, ma data la disgraziatissima conclusione del suo fisico impegno, non è onesto pretendere che abbia degli emuli, oggi la vita ha un prezzo diverso. La vocazione degli intellettuali della contemporaneità è piuttosto un posto di rilievo nello stato maggiore. Siccome sono quelli che la sanno più lunga di tutti, la loro attitudine elettiva è il delicatissimo lavoro di intelligence, dove svolgono un servizio prezioso di cui si caricano volentieri. In particolare nell’immediato, lo smascheramento dei nemici interni, i traditori dei valori, i trasgressori della consegna morale del patriottismo, gli utili idioti del nemico, consapevoli o meno che siano. Ma il grosso del lavoro è un altro, agli intellettuali è affidato il ruolo strategico di semplificatori del pensiero. La guerra è la semplificazione assoluta, per militarizzare il pensiero occorre semplificarlo; in tempo di guerra non si può stare lì a discutere, a spaccare il capello in quattro, non c’è tempo per troppe domande perché non c’è tempo per le risposte, il tempo di guerra è prezioso. No, non è tempo per esercizi spirituali, per esami di coscienza, per interiori interrogativi, non è il tempo di sant’Agostino e nemmeno di Edgard Morin, la complessità infiacchisce, demoralizza, distoglie, offusca. E men che meno è tempo di oziare sul pregresso, sulle cause, c’era tempo prima per questo, ce ne sarà dopo, questi ora sono materiali per i volantini di propaganda del nemico. Ora è il momento della semplicità perché semplice è la questione, o con noi o contro di noi, o per la vittoria o avverso alla vittoria. E la semplicità si nutre di ciò che ha più potere sugli uomini, che non è né la ragione né la coscienza, ma i sentimenti crudi e definitivi, le emozioni intestine, la paura, l’orrore, la vendetta. Dico questo e sono, seppur per ben modesta parte, un intellettuale, un cosiddetto lavoratore della mente; e vabbè, come se mio padre non lavorasse con la mente mentre con le mani scalpellava. Sono questo e rifiuto il mio posto nello stato maggiore, ma pretendo il diritto di continuare ad essere anche in tempo di guerra quello che ero ieri; al pari del mio pensiero, il mio lavoro non è ora diverso. Posso? Posso pensare di vivere in un momento della storia di enorme complessità, e nel dirlo posso pensare di essere di una qualche utilità? Non per la vittoria, nell’umanità in cui credo e spero la guerra non ha vincitori; ma perché ora, in questo momento, mentre si decide per l’oggi lo si fa anche per il domani, per tutto quello che sarà a venire per l’Ucraina, per il mondo, per qui, per quello che chiameremo pace. Eh, sì, sono un pacifista, lo sono al modo meno simpatico, perché sono un pacifista armato, e fermamente credo alla pace tra gli oppressi e la guerra agli oppressori. Che vedo bene quali sono e dove sono, con la complicazione che non so distinguere tra umano e umano, e dunque il mio orizzonte è tragicamente più vasto persino degli sconfinati orizzonti della steppa. Posso pensare e dire che insorgo con il popolo ucraino, ma non intendo farlo a nome e per conto del suo e nemmeno del mio governo? Posso pensare che anche il popolo delle Russie è oppresso dal suo stesso governo, e se insorgerà sarà per me la stessa urgenza e lo stesso impegno? E altrettanto per ogni altro popolo, per ogni altro umano? Posso, intanto che un popolo ne subisce le mortali conseguenze, interrogare chi di dovere sulle cause e sulle responsabilità intorno alle cause? Ora, perché ogni volta che si è detto non è questo il momento, quel momento non è arrivato mai? Eccetera, eccetera, eccetera. Pacifista armato ho per armi il mio pensiero e il mio corpo, solo queste. Del mio corpo mi è stato detto che ora ridotto com’è non saprebbero di che farsene, ma il mio pensiero così complicato, e i complicati pensieri di altre coscienze non conformi allo stato di guerra, possono essere di una qualche utilità per la libertà nella pace e nella giustizia del popolo ucraino, e anche del mio? È morto pochi giorni fa un vecchissimo contadino che incontrandomi per i campi mi salutava così, pace e libertà. È bene per la vittoria che con lui sparisca dal teatro bellico anch’io? Così la guerra ha cancellato le ambizioni italiane di sedere tra i paesi guida dell’Ue di Paolo Delgado Il Dubbio, 15 aprile 2022 La crisi ucraina ha messo in luce le fragilità dell’Italia, costretta a seguire la linea Biden e lasciare a Francia e Germania il compito di mitigare la strategia degli Stati Uniti. Se l’Europa è il vaso di coccio nello scontro tra Russia e Usa che si gioca parte sul terreno ucraino e parte sul fronte della guerra economica l’Italia è il lato più fragile di quel vaso. Comunque la si giri è un guaio. Lo spazio anche solo per un sussurro autonomo sembra essere stato sbarrato già nei primi giorni del conflitto e gli sforzi di Draghi per recuperare un ruolo non approdano a niente. L’insofferenza della cabina di regia europea nei confronti dei dikat della coppia Biden- Zelensky sono sempre meno facilmente occultabili. La reazione della Germania allo sgarbo del rifiuto di ricevere il presidente Steimeier è eloquente. Quello sgarbo però non era una gaffe. Proprio come la reazione durissima e sprezzante, nonché del tutto immotivata, alle parole di Draghi sulla telefonata mancata con Zelensky nelle sue prime comunicazioni al Parlamento l’incidente diplomatico mirava a colpire e mettere in difficoltà, con tutto il peso morale di chi vive sulla propria pelle la violenza dell’invasione, il Paese europeo che impedisce l’embargo sul gas russo, decisione che gli ucraini ritengono vitale per loro. In realtà l’Italia è quasi altrettanto interessata a che quell’embargo non scatti. Però non lo può dire. Deve fingere di essere pronta a pagare il pesantissimo prezzo e restare acquattata dietro la fermezza del cancelliere Scholz. La reazione della Germania era ovvia e inevitabile ma molto più della “irritazione” fatta trapelare da Scholz pesano altre e meno vistose: quelle nelle quali il governo tedesco si dichiara deciso a fornire ulteriori armi all’Ucraina non però di tipo “offensivo”. La distinzione può apparire risibile, essendo tutte le armi potenzialmente offensive. Qui però si intendono quei mezzi “pesanti” come i carri armati che gli Usa chiedono agli europei, evidentemente senza averli ancora convinti, o almeno non tutti. La nota dolente, per l’Italia arriverà se e quando la richesta ucraina, martellante, e le insistenze di Washington diventeranno una disposizione precisa. In quel caso l’Italia, convinta o meno che sia, si allineerà ma è probabile che le cose in Parlamento filino meno lisce del solito perché il vero dissenso di una parte cospicua dell’elettorato italiano si appunta anche e forse soprattutto, ancor più che sulle sanzioni, proprio sulla scelta di prendere partito non solo ideale nella guerra, partecipando direttamente, sia pur in modo passivo, con le armi. Scholz non è solo. Il presidente francese Macron avrebbe potuto prendere le distanze da Biden e dalla sua impropria accusa di genocidio rivolta contro i russi con maggiore discrezione. Ha scelto invece di criticare apertamente il presidente americano rimproverando l’uso di quel termine. Nella giostra intrecciata di segnali che della diplomazia è l’anima è un avvertimento chiaro: la Francia continuerà a fare la sua parte ma senza oltrepassare alcuni confini. Draghi è certamente d’accordo con Macron come lo è con Scholz anche in questo caso l’Italia preferisce rimanere al coperto, lasciando che a far da diga alle pressioni dell’Ucraina, degli Usa e dei paesi Ue dell’est siano Germania e Francia. Massima prudenza, certamente conseguente ai sospetti che ancora gravano sull’Italia per i rapporti considerati “troppo stretti” con la Russia fino alla guerra, è però un vero passo indietro sulla strada che l’Italia di Draghi stava percorrendo. L’obiettivo, che sembrava fino alla guerra quasi a un passo, era fare dell’Italia uno dei Paesi guida dell’Unione, magari non in condizione di piena parità con l’asse franco- tedesco ma neppure troppo lontano dai due Paesi guida. L’afasia della crisi più drammatica nella storia dell’Unione, anche più dello stesso Covid, sbalza l’Italia a distanza molto maggiore da quel traguardo. La battaglia per l’energia è un ulteriore scoglio. Rimpiazzare i rifornimenti russi è lungo e difficile ma sostituirli, anche subito e parzialmente, affidandosi a Paesi “liberi e democratici”, come la campagna anti Russia imporrebbe, è impossibile. L’accordo sul gas egiziano, cioè con il Paese in cui la caccia agli assassini di Stato di Giulio Regeni è una missione impossibile, è tanto imbarazzante da spingere persino il fedelissimo Letta ad avanzare distinguo e la situazione con l’aumento dei rifornimenti dall’Algeria non è molto più rosea. Per l’Italia, insomma, uscire bene dal ginepraio di questa guerra sarà difficile non solo sul piano economico e sociale ma anche su quello del ruolo internazionale ed europeo del Paese. Arabia Saudita, Egitto e Qatar: l’Italia vende ancora armi ai Paesi che violano i diritti umani di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2022 La relazione annuale. Bilancio industria bellica nazionale: restano scambi di forniture con i Paesi che violano i diritti umani. L’Italia nel 2021 ha continuato a vendere armi al regime dell’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, entrambi autori di stragi in Yemen, per un totale di 103 milioni di euro. Il dato è contenuto nella relazione annuale sulla “esportazione, importazione e transito di armi” inviata dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, al Parlamento lo scorso 5 aprile. Un documento di oltre 1.600 pagine, previsto dalla legge 185 del 1990, in cui è contenuto il volume di affari relativi all’export e all’import di armi in Italia relativo all’anno 2021, prima quindi dello scoppio della guerra in Ucraina. Il 29 gennaio 2021 il governo Conte aveva deciso di revocare le licenze in essere e quelle future con Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, in seguito alla risoluzione approvata dal Parlamento il 22 dicembre 2020: con quell’atto le Camere bloccavano l’export di “bombe aeree e missili” verso Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (in gran parte autorizzati dal governo Renzi) che utilizzavano quelle armi per colpire i ribelli Houthi in Yemen causando la morte di migliaia di civili. Dopo la revoca, costata all’Italia 328 milioni, il governo Draghi ha autorizzato nuovi contratti nel 2021 con Arabia Saudita (47,2 milioni) e Emirati Arabi Uniti (56,1). Senza formalmente violare la revoca, esportando armi consentite: se abbiamo esportato pistole, componenti e apparecchi elettronici negli Emirati, al regime di Mohammed bin Salman l’Italia ha venduto armi che rientrano nell’ampia categoria “004” che comprende “bombe, siluri, razzi, missili”. Contattato dal Fatto, il ministero degli Esteri non ha fornito dettagli specifici sulla fornitura. “E chi ci dice che queste bombe e missili italiani non vengano utilizzato dai sauditi nel conflitto in Yemen?” chiede Giorgio Beretta, della Rete Pace e Disarmo. Nel 2021 il valore dei movimenti di armi è cresciuto fino a 5,3 miliardi (nel 2020 era stato di 4,8): 4,66 di esportazioni (4,65 un anno fa) e 679 milioni di importazioni rispetto ai 179 del 2020. Diminuisce invece il valore delle autorizzazioni individuali relative all’export: lo scorso anno era di 3,65 miliardi, il dato più basso degli ultimi sette anni. Ma il calo è relativo perché è paragonato al triennio 2015-2017 quando i governi Renzi e Gentiloni hanno autorizzato maxi-commesse che hanno fatto lievitare il valore delle esportazioni di armi per 7,9 miliardi nel 2015, 14,6 nel 2016 e 9,5 nel 2017. Il record era stato raggiunto sei anni fa quando la metà del valore di esportazioni riguardava una commessa di 28 Eurofighter della Leonardo al Kuwait. “Il calo di oggi è fisiologico perché la nostra industria degli armamenti è limitata - spiega Beretta - a fronte di alte commesse tra il 2015 e il 2018 oggi ci sono meno ordinativi”. A pesare è stato anche il biennio della pandemia. Per la prima volta nel 2021 l’esportazione di armi finisce per la maggior parte nei Paesi Ue-Nato (52,1%) contro un restante 47,9% a tutti gli altri. Un terzo delle esportazioni è concentrato nei Paesi Nato e il 26% tra Africa Settentrionale e Medio Oriente. Tra i principali clienti dell’Italia ci sono Paesi governati da dittatori sanguinari e guerrafondai: il primo è il regime del Qatar, accusato di legami con l’estremismo islamico, a cui abbiamo venduto bombe, missili, munizioni, software per 813,5 milioni. Tra i primi 15 Paesi a cui vendiamo armi ci sono Pakistan, Filippine e Malaysia, mentre l’Egitto di Al Sisi passa dal primo al diciottesimo posto in graduatoria, da 991 milioni nel 2020 ai 35 del 2021. Sono quattro i player italiani che rappresentano il 76% del mercato: Leonardo con il 43,5%, Iveco Defence Vehicles (23,5%) che fa riferimento al gruppo Exor della famiglia Agnelli-Elkann, Mbda Italia (5,2%) e Ge.Avio (3,9%). “La Russia? Una prigione confortevole. Ma si comincia a capire chi è Putin” di Marta Ottaviani Avvenire, 15 aprile 2022 L’attivista Maria Baronova: “Riusciamo ad aggirare la censura, però la tv esercita una forte influenza”. Le sanzioni? “Per ora non manca nulla”. Un Paese isolato, che sente su di sé l’odio dell’Occidente, ma che non potrà cambiare finché decideranno le élite, con una guerra che è destinata a sconvolgere l’ordine mondiale. Maria Baronova, attivista russa, e per un periodo limitato, collaboratrice dell’emittente Rt (Russia Today) in progetti di charity, da cui si è dimessa allo scoppio della guerra, racconta come il suo Paese stia vivendo questa “Operazione militare speciale”. Maria Baronova, lei sul suo canale Telegram sta seguendo con attenzione questa guerra. Ma in Russia, a livello teorico, molti organi di informazione e social sono bloccati. Come fa a informarsi? Chi vuole ottenere informazioni indipendenti in realtà può farlo. Molti di noi hanno un VPN (Virtual personal network) installato sul telefonino. Questo significa avere accesso alle informazioni senza filtri. Grazie a questo accorgimento riusciamo anche a contattare i nostri amici in Ucraina. Certo, va detto che una larga fetta di opinione pubblica è influenzata dall’informazione televisiva. Ci sarà accesso, seppure tramite VPN, all’informazione indipendente, però poi il consenso attorno a questa “operazione militare speciale” secondo i sondaggi è all’83%... Mi permetta di dire che è abbastanza ridicolo acquisire i risultati dei sondaggi condotti in un regime autoritario. Il 97% delle persone intervistate si rifiuta di rispondere, perché hanno paura che poi le loro dichiarazioni arriveranno al governo. L’83% è calcolato sul 3% del campione che se la sente di rispondere. Dal punto di vista statistico, vale molto poco. Il 18 marzo scorso, però, abbiamo visto decine di migliaia di persone al Luzhniki Stadium di Mosca a celebrare l’ottavo anniversario di annessione della Crimea e dare supporto all’operazione militare speciale. Non è tutto supporto per Putin, quello? Non si tratta di supporto al presidente. Vede, la stragrande maggioranza di quelle persone sono impiegate nel servizio pubblico, dall’insegnamento, alla sanità. Devono il loro posto di lavoro al governo e non possono permettersi di non partecipare, potrebbero venire licenziati. Che cosa pensa, secondo lei, il popolo russo del presidente Putin? Non penso che in questo momento l’opinione su Putin sia positiva. I russi stanno iniziando a capire che l’Occidente li sta isolando e non hanno nessun luogo dove andare. Si sentono come ostaggi nel loro Paese. Come si vive a Mosca in questi giorni? Alcuni brand stranieri hanno chiuso, ma continuiamo a vivere normalmente. Non ci manca nulla. Somiglia a una prigione molto confortevole, quasi una gabbia dorata. Lei ha detto che il consenso di cui gode Putin non è genuino. Pensa quindi che in Russia potrà cambiare dopo questa guerra? No, perché non abbiamo mai realmente votato per il presidente in questo Paese. Si vota per un presidente quando ci sono due candidati e quello con più voti vince. Da noi è sempre stata una decisione delle élite. Quando finirà questa guerra secondo lei? E che cosa rimarrà delle relazioni fra Russia e Unione Europea, a quel punto? Io credo ci sia un evidente sentimento di odio nei confronti del mio Paese da parte dell’Ue. Per quanto riguarda la guerra credo che non si possano fare previsioni. Quello che posso dire è che l’obiettivo di Putin è quello di cambiare il vecchio ordine mondiale. E cosa ne pensa di un possibile ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea? Penso che la Ue e la Russia in questo momento si stiano minacciando reciprocamente. E che il primo obiettivo di Putin sia proprio il caos. Che i popoli si odino e che i Paesi si minaccino vicendevolmente. Regno Unito. “I richiedenti asilo arrivati illegalmente saranno trasferiti in Ruanda” di Antonello Guerrera La Repubblica, 15 aprile 2022 Clamorosa decisione del primo ministro Johnson: “Basta saltare la fila, bisogna fermare i trafficanti di uomini: così salveremo migliaia di vite”. Proteste da associazioni umanitarie e laburisti: “Disumano”. La Marina militare a capo delle operazioni antiscafisti nella Manica. I richiedenti asilo arrivati irregolarmente nel Regno Unito saranno spediti in Ruanda, dove rimarranno mentre le loro richieste saranno processate. È la clamorosa, seppur non inaspettata, decisione di Boris Johnson, annunciata oggi sulla Manica, nel Kent, nel simbolico aeroporto costiero di Lydd. Dunque, secondo i nuovi piani dell’esecutivo, tutti i migranti irregolari (esclusi i cittadini ucraini) che attraverseranno la Manica nel prossimo futuro saranno trasferiti in centri di accoglienza in Africa a circa 7mila chilometri di distanza se arrivano da un “Paese sicuro”, come per esempio la Francia. Un piano che sta scatenando già molte critiche, dalle associazioni umanitarie al Labour. Non solo: la Marina militare britannica prenderà il posto della polizia di frontiera nelle operazioni antiscafisti nella Manica. Questo perché, secondo le autorità britanniche, aiuterà maggiormente nella sorveglianza delle acque tra Regno Unito e Francia e nel coordinamento tra autorità. Questo oltre, ovviamente, alla deterrenza che l’idea di un possibile trasferimento dal Regno Unito al Ruanda potrà comportare in molti migranti che vogliono attraversare illegalmente la Manica, come ci spiega il deputato locale conservatore Damian Collins, anche lui oggi presente al discorso. Johnson: “Compassione infinita, accoglienza no” - “Soltanto ieri sono sbarcati 600 migranti dalla Manica, tra qualche settimana potrebbero essere migliaia al giorno e prima di Natale 27 persone sono morte in mare, per quella che è la nostra più grande tragedia migratoria. Questo status quo è insostenibile”, ha detto il primo ministro britannico in mattinata, “la nostra compassione può essere infinita, ma la capacità di accogliere persone non lo è. Spendiamo 5 milioni di sterline al giorno per i richiedenti asilo che soggiornano negli alberghi. Il popolo britannico ha votato più volte per riprendere il controllo dei nostri confini. Non di chiuderli: ma di riprendere il loro controllo. Non si può continuare a “saltare la fila”. E così daremo anche il colpo di grazia a scafisti e trafficanti di uomini, che hanno reso la Manica un cimitero. Rimandare semplicemente indietro le navi verso la Francia non è pratico e nemmeno utile”. Il ruolo della Brexit - “La Brexit”, continua Johnson, “ha permesso di riprendere in mano questi poteri, mettendo fine alla libera circolazione delle persone. Abbiamo iniziato a farlo con le nuove politiche migratorie a punti”, sul modello australiano. “Questo di oggi è un piano che porrà il Regno Unito all’avanguardia e allo stesso tempo salverà migliaia di persone all’anno in fuga dalla guerra”. “Così sconfiggeremo i trafficanti e metteremo in ordine le nostre politiche migratorie”, ha aggiunto la ministra dell’Interno, la falca Priti Patel, atterrata in Ruanda qualche ora fa. Nel Paese africano, secondo le prime stime governative, potrebbero essere trasferiti decine di migliaia di migranti irregolari nei prossimi mesi, anche retroattivamente. Perché Johnson ha sottolineato come le nuove norme si applichino a tutti coloro sbarcati illegalmente dal 1 gennaio 2022. Non solo distrazione - Qualche parlamentare a Westminster pensa che si tratti di una mossa per distogliere l’attenzione dallo scandalo Partygate e dalle multe comminate da Scotland Yard a Johnson, a sua moglie Carrie Symonds e pure al Cancelliere dello Scacchiere, ossia il ministro delle Finanze Rishi Sunak. In realtà, questo è un piano che il governo britannico ha in serbo da molto tempo. E che ora si è sbloccato perché finalmente Londra ha trovato un Paese disponibile ad accogliere migliaia di richiedenti asilo nel Regno Unito, in attesa che le loro domande vengano valutate e processate. Sinora diversi Paesi, come Ghana e Albania, avevano rifiutato l’offerta britannica. Le polemiche - Ora, però, il Ruanda ha accettato, per iniziali 140 milioni di euro circa promessi da Downing Street. Dunque, la situazione si è sbloccata. L’anno scorso sono sbarcate circa 28mila persone irregolarmente dalla Manica per mezzo degli scafisti sulla costa francese. Seppur siano numeri infinitesimali rispetto alle ondate migratorie del Mediteranneo e in Italia, è comuque un record per il Regno Unito. Conseguenzialmente, è un tema molto sentito nel Paese, soprattutto nel sud dell’Inghilterra, dove Johnson stamani si è appunto recato. Il governo britannico, nelle ultime settimane, è stato criticato anche per l’accoglienza dei rifugiati ucraini. Che non rientrano nello schema annunciato oggi, ma che hanno riscontrato numerose lungaggini e lentezze burocratiche che sinora hanno limitato gli ingressi a meno di 50mila persone, nonostante quasi 200mila britannici abbiano chiesto di accogliere un rifugiato ucraino in casa propria. La scelta in Africa - Il Ruanda, secondo il governo britannico, “è una delle economie che crescono di più in Africa ed è rinomato a livello globale per la sua storia di accoglienza e integrazione dei migranti”. “È uno dei posti più sicuri al mondo”, assicura Johnson dalla Manica. Non sono affatto d’accordo molte associazioni umanitarie, che parlano di abusi e pessime condizioni per i richiedenti asilo, per i quali il governo britannico non ha fornito dettagli sulla loro accoglienza in Africa. Per il Refugee Council si tratta di una “decisione crudele e malvagia” da parte di Johnson, mentre la Croce Rossa parla di “un costo finanziario e umano considerevole”. Polemiche anche dal Labour, che definisce il piano “orrendo e disumano” e chiede a Johnson di fare un passo indietro, oltre a dimettersi per il Partygate. Ma il primo ministro, che ha basato le sue fortune politiche su Brexit, stop alla immigrazione incontrollata e controllo dei confini, non ci pensa proprio. Territori palestinesi. La Relatrice ONU: “55 anni di occupazione militare di Israele” di Michele Giorgio Il Manifesto, 15 aprile 2022 Intervista a Francesca Albanese, nuova Relatrice per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati. “L’occupazione militare è diventata un veicolo per la colonizzazione israeliana”. È italiana la nuova Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione diritti umani dal territorio palestinese occupato da Israele dal 1967. Si chiama Francesca Albanese ed è la prima donna a ricevere questo incarico dall’Onu. Giurista specializzata in diritti umani e questioni dei rifugiati, Albanese ha lavorato come legale con varie agenzie delle Nazioni Unite come l’Unrwa e Ohchr. È del 2020 il suo libro Palestinian Refugees in International Law. L’abbiamo intervistata sul mandato di Relatrice che svolgerà a partire dal mese prossimo e le sfide che la attendono. Il suo è un incarico prestigioso, tra i suoi predecessori ci personalità come Richard Falk e Michael Lynk. Ma è anche è delicato dal punto di vista politico... Senza dubbio. Il Relatore speciale delle Nazioni unite è un esperto indipendente a cui è dato mandato dal Consiglio per i Diritti Umani, con sede a Ginevra, di investigare e informare l’Onu e il pubblico di questioni specifiche sui diritti umani. Alcuni mandati sono tematici, altri geografici. Il mio è geografico. La delicatezza di questo incarico sta nella specificità del territorio che è in considerazione, quello che Israele ha occupato nel 1967. Il mio lavoro consisterà nel condurre inchieste e monitorare il rispetto dei diritti umani nei territori palestinesi e poi fare rapporto alle Nazioni unite. Oltre a ciò, c’è una gamma di azioni che si collegano a questo compito fondamentale, che riguardano l’informazione e l’analisi critica di ciò che avviene. Come è noto, è un mandato che ha ricevuto spesso attacchi e critiche violente. Quali sono le maggiori criticità quando ci riferiamo ai diritti dei palestinesi sotto occupazione israeliana? C’è la questione della violazione dei diritti umani per mano dell’esercito israeliano e anche dei coloni israeliani che risiedono illegalmente nel territorio e che commettono violenze che sono state ampiamente documentate da Ong israeliane, palestinesi, da chi mi ha preceduto nel ruolo di Relatore speciale e altri organi delle Nazioni unite. Ci sono poi violazioni come trasferimenti forzati di popolazione, arresti e uccisioni arbitrarie, torture, l’accesso (negato, ndr) all’istruzione e alla giustizia. La lista è lunga. È importante soffermarsi sul contesto nel quale avviene ciò che ho appena menzionato: una occupazione militare che dura da 55 anni. Il suo incarico sarà parallelo al lavoro di indagine che svolgono nei Territori occupati organizzazioni come Amnesty e Human Rights Watch e anche l’ong israeliana per i diritti umani B’Tselem... Sì, un numero crescente di Ong ed organismi internazionali mettono in luce che Israele sta attuando nei confronti dei palestinesi un sistema di Apartheid. Si tratta di un’accusa molto pesante. L’Apartheid costituisce un crimine che è di competenza anche della Corte penale internazionale. Occorre comprendere che 55 anni di occupazione militare sono un tempo molto lungo che, come ha sottolineato il mio predecessore Michael Link, ha sforato il limite della legalità. Un’occupazione deve essere temporanea, solo per ragioni di sicurezza militari e va smantellata. E comunque va condotta tenendo conto dei bisogni dei civili sotto occupazione. Tutto questo non è avvenuto negli ultimi 55 anni nei Territori palestinesi. L’occupazione militare israeliana è diventata un veicolo per la colonizzazione, ossia è volta a prendere quanto più territorio è possibile con la costruzione degli insediamenti, attraverso l’espropriazione di terre dichiarandole aree militari, il rendere impossibile la vita civile palestinese in questi territori e anche lo sfollamento di popolazione. Israele respinge le accuse e afferma di dover lottare costantemente contro il terrorismo. Il problema, sostiene, non è l’occupazione militare ma la minaccia terroristica portata dai palestinesi... Il diritto alla sicurezza di ogni Stato è sacrosanto ed è riconosciuto come un corollario della sovranità. In astratto comprendo le ragioni di Israele ma nella pratica l’argomento è stato usato ed abusato. Perché stiamo parlando di un paese che ha uno dei sistemi di sicurezza più sofisticati al mondo, che ha gli strumenti per difendere il proprio territorio senza dover occuparne un altro. L’ordine internazionale si basa sul rispetto di regole chiare, ben definite. Occupare un altro paese, un altro popolo reclamando un diritto all’autodifesa mi sembra una strumentalizzazione. Peraltro, dagli Accordi di Oslo (1993) a oggi, negli ultimi trent’anni, avrebbe dovuto esserci un dialogo per la pace basato sul riconoscimento (da parte di Israele, ndr) del principio Due Popoli, Due Stati. Questo non è successo. Dal mio punto di vista la motivazione di Israele per il perdurare dell’occupazione militare non ha fondamento fattuale e legale. Andrà nei Territori palestinesi occupati, l’area del suo mandato? Le autorità israeliane la lasceranno passare? Spero di sì, perché è mia intenzione andarci. Conto perciò sulla cooperazione e il buon senso di tutte le parti in questione, governative e non, e di chi ha il controllo del territorio.