Costruire una nuova cultura della pena di Luigi Ciotti lavialibera.it, 14 aprile 2022 Il carcere serve alla comunità per proteggersi da disonesti e violenti, ma oggi legge e tecnica mettono a disposizione altri strumenti per tutelarci. Il sistema va riformato, ricordando qual è lo scopo che la Costituzione attribuisce alla condanna: educare e reinserire. La libertà rappresenta l’essenza, il cardine della nostra vita di esseri umani. È nella cornice di libertà collettiva garantita dalla democrazia, e grazie alla libertà individuale di cui ciascuno di noi gode, che possiamo mettere pienamente a frutto i nostri talenti, dare corpo ai nostri progetti e alle nostre speranze, sperimentare la bellezza degli affetti e assumerci responsabilità nei confronti degli altri. Ecco perché il carcere, che comporta una limitazione enorme della libertà fisica delle persone, dovrebbe in una società come la nostra rappresentare l’extrema ratio, la scelta residuale in materia penale. Purtroppo sappiamo bene che non è così. Storicamente, al netto degli abusi punitivi dei quali ogni epoca si è macchiata, il carcere è stato pensato per allontanare dal consesso sociale chi ha commesso un crimine e potrebbe commetterne altri. Ma se la comunità ha tuttora il diritto di proteggersi dai disonesti e dai violenti, non possiamo ignorare che al giorno d’oggi la legge e la tecnica ci mettono a disposizione tanti altri strumenti per tutelarci. Soprattutto, non possiamo dimenticare lo scopo che la Costituzione attribuisce alla pena detentiva: educare e reinserire. Cioè favorire una rielaborazione del proprio vissuto, per essere pronti a tornare in società su basi nuove, con strumenti culturali e opportunità reali. In carcere dovrebbe finirci soltanto chi ha commesso colpe molto gravi, mentre le nostre prigioni scoppiano di detenuti accusati di reati anche lievi, primi fra tutti quelli legati alla legge sulle droghe. Come mai accade? Perché, se è vero che tenere le persone in prigione è oneroso sul piano economico, inserirle in percorsi esterni, più efficaci sul piano educativo, rischia di rivelarsi oneroso in termini di consenso politico e sociale. E così si tollerano tante storture, tante inadeguatezze normative e organizzative, che rischiano di anno in anno di portare il nostro sistema penitenziario al collasso. Molte prigioni moderne si trovano nelle periferie più estreme. Talvolta vicine a discariche di rifiuti, quasi a suggerire la metafora del carcere come “discarica umana”, “deposito dello scarto sociale”. Sono luoghi lontani dalla vista, ma anche dalla coscienza pubblica. La società è ben felice di saperli isolati, di non doversene occupare. Per fortuna c’è chi sa bene che quelle “isole” non sono delle “terre di nessuno”, perché chi finisce in carcere rimane un cittadino a tutti gli effetti, i cui diritti valgono come quelli degli altri. Nessuna ingiustizia commessa verrà sanata attraverso un’altra ingiustizia! Penso allora con gratitudine alle tante associazioni che operano nei penitenziari di tutta Italia, alla rete dei garanti delle persone private della libertà, ai volontari, agli insegnanti, agli educatori, agli avvocati, ai cappellani, agli operatori sanitari che ogni giorno entrano a portare nelle celle diritti e speranze, e ci riportano fuori il triste spaccato di quella realtà, su cui questo numero de lavialibera prova a riflettere. Ci parlano del sovraffollamento, cronico e principale problema, solo in parte e solo temporaneamente attenuato grazie alle misure straordinarie legate alla pandemia. Alcuni penitenziari arrivano ad avere un tasso di sovraffollamento vicino al 200 per cento! Ci parlano delle condizioni poco dignitose: spazi angusti e male attrezzati, cibo di scarsa qualità, cure mediche non sempre adeguate e tempestive. Ci parlano delle quasi duemila persone condannate all’ergastolo. Su che cosa fare leva, a livello educativo, con chi comunque non ha lo stimolo di ritrovare la libertà? Ci parlano della difficoltà nell’accedere ai percorsi di studio e di lavoro, sia interni che soprattutto esterni al carcere. Ci parlano delle persone detenute tossicodipendenti: una su quattro, che raramente trovano nel passaggio in cella lo stimolo per avviare un percorso di accompagnamento e cura. Ci parlano dei detenuti stranieri, oltre un terzo del totale, per i quali è ancora più difficile usufruire delle misure alternative, perché non hanno riferimenti abitativi e legami. Ci parlano delle fatiche, fisiche e psichiche, della polizia penitenziaria. Gli agenti sono a loro volta prigionieri! Svolgono un lavoro duro, poco riconosciuto, poco tutelato. Non sono spesso messi in condizione di rispettare gli standard di umanità e decoro che qualsiasi luogo di detenzione dovrebbe garantire. Questo ovviamente non giustifica gli abusi e gli episodi di violenza che periodicamente vengono accertati! Nessuno, neppure nel mondo chiuso del carcere, è al di sopra della legge. Indignarsi come sempre non basta, bisogna intervenire, a livello normativo e organizzativo, per sanare le storture che esistono e costruire una nuova cultura della pena. Per farlo tutti dovremmo partire dal metterci nei panni dell’altro: il detenuto, il secondino, i loro famigliari. Difficile ma non impossibile, perché il carcere è un’esperienza che tutti in astratto possiamo vivere, quando più o meno volontariamente tagliamo i “ponti” che ci mantengono in comunicazione reale con gli altri. Il primo carcere siamo noi stessi, quando cediamo all’egoismo e alla competizione. Quando ci arrocchiamo dentro identità fasulle, o ci trinceriamo dietro ai dogmi di saperi puramente tecnici. Quando ci rendiamo irraggiungibili dai dubbi, dalle emozioni e dallo stupore. L’io è una prigione dalla quale è fondamentale evadere, per tornare alla meraviglia dell’incontro con gli altri, che è poi la meraviglia della vita. Una persona che vive la propria libertà in pienezza, non potrà che impegnarsi affinché la stessa libertà sia garantita a chiunque altro, inclusi coloro che ne subiscono una temporanea limitazione. Il carcere è nudo di Elena Ciccarello lavialibera.it, 14 aprile 2022 La chiamano “sezione filtro”. Si trova al piano terra del padiglione A del carcere di Torino, ed è lì che vengono rinchiusi i cosiddetti “detenuti ovulatori”. Si tratta soprattutto di ragazzi africani costretti a defecare “a vista” perché sospettati di avere ingoiato ovuli di droga. Si vuole evitare che nascondano il bottino, magari per venderlo ad altri all’interno del carcere, perciò passano giorni in stanze fetide e senza arredamenti, senza servizi igienici e docce, in compagnia solo di un “wc nautico” da cui la polizia penitenziaria deve poi recuperare gli stupefacenti. Quando poche settimane fa la ministra della Giustizia Marta Cartabia è venuta in visita a Torino è stata accompagnata anche in quelle stanze. Ne è rimasta talmente inorridita da averlo definito “un reparto inguardabile per la sua disumanità, sia per le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, sia per i detenuti”. Ha assunto l’impegno di occuparsene. Il carcere in Italia è anche questo. Nel 1996 la casa editrice del Gruppo Abele ha presentato al pubblico italiano una delle opere più importanti del sociologo norvegese Thomas Mathiesen, con il titolo “Perché il carcere?”. Mathiesen è tra i rappresentanti più autorevoli della cosiddetta scuola abolizionista. Gli abolizionisti ritengono il carcere, invenzione settecentesca, una delle istituzioni più distruttive della società moderna e un grande fallimento: non rende più sicura la società, e non rende i detenuti delle persone migliori. Dal loro punto di vista i penitenziari servono soprattutto a chi detiene il potere per distrarre gli altri dai propri abusi e mostrarsi impegnati sul crimine. I primi a pagarne le spese sono le vittime di reato, che hanno poco vantaggio dell’arresto del criminale se non vengono anche risarcite dal punto di vista simbolico, materiale e sociale. La soluzione proposta è una drastica riduzione del ricorso alle celle e il potenziamento di forme di giustizia riparativa. “Anche se bisogna tenere conto delle reali funzioni del carcere - scrive Mathiesen - dobbiamo concederci il lusso di pensare ad alta voce, utopisticamente”. È una questione difficile, ma importante. In occasione dello scorso 21 marzo, giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, Daniela Marcone, responsabile del settore Memoria di Libera, ha parlato di una proposta di “ricucitura” da consegnare alla scelta dei familiari delle vittime. La maggioranza di loro non conosce la verità giudiziaria sull’uccisione dei propri cari, che resta la prima e più importante forma di risarcimento. Ciò nonostante, Libera è al lavoro anche sull’idea di “una possibile riconciliazione individuale e collettiva che farebbe fare un importante passo avanti nel nostro Paese nella direzione dell’affermazione di valori fondanti di democrazia, solidarietà e giustizia”. Chiudere le celle e gettare la chiave non serve, non fa bene a nessuno e troppo spesso è disumano. Il carcere è nudo, non voltiamoci dall’altra parte. Petralia: “Da giudice ho conosciuto l’imputato. In carcere ho incontrato l’uomo” di Elena Ciccarello lavialibera.it, 14 aprile 2022 Bilancio amaro di due anni di attività. L’ex capo del Dap Bernardo Petralia rivendica il lavoro fatto, ma ammette “mi addolora non aver potuto fare abbastanza”. “Ogni toga dovrebbe fare esperienza di qualche settimana di vita in carcere, per essere più attenta nei giudizi”. Con questa convinzione Bernardo Petralia lascia la guida del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) dopo due anni di intenso lavoro. Magistrato dalla solida carriera, prima come inquirente poi come membro del Csm, Petralia è stato nominato a capo del Dipartimento a maggio del 2020 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il suo arrivo seguì le improvvise dimissioni del predecessore Francesco Basentini, travolto dalle polemiche per la scarcerazione di alcuni detenuti per mafia nel corso della pandemia Covid. Petralia lascia l’incarico con un anno di anticipo rispetto alla data naturale del suo pensionamento, per rientrare in famiglia. Persona schiva e restia alle interviste, acconsente di fare con noi un bilancio di questi due anni a capo dell’universo penitenziario. Petralia, lei è stato nominato alla direzione del Dap in risposta alle dimissioni di Basentini, nel pieno delle polemiche sulle presunte scarcerazioni di massa dei boss mafiosi. Che situazione ha trovato? A metà maggio del 2020, quando sono stato chiamato alla guida del Dap, la situazione era incandescente: eravamo nel dopo rivolte del marzo scorso e la pandemia stava progredendo a grandi e pesantissimi passi; inoltre infuriavano le polemiche per alcune scarcerazioni e tutto ciò con grande disorientamento nell’amministrazione penitenziaria. Posso dire che è stato l’impegno più arduo e complesso della mia vita professionale, ma ho trovato uomini, donne e strutture in grado di reggere l’impatto con equilibrio e lucida pianificazione degli interventi. Sono stati comunque mesi di notti insonni e continue ansie, ma forse occorrevano proprio quelle. Al suo arrivo ha voluto subito incontrare il Garante dei detenuti e le associazioni che da anni monitorano il mondo del carcere, facendo anche arrabbiare alcuni rappresentanti della polizia penitenziaria. Ha poi fatto pace con loro? Dopo pochi giorni dal mio insediamento è capitato che partecipassi a un convegno di Antigone, associazione impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti, che conoscevo da tempo e che ho sempre stimato per preparazione e competenza. Ne sono seguite polemiche intrise di presunta partigianeria, quasi che io intendessi contrappormi al ruolo della polizia penitenziaria; cosa talmente non vera che poi è bastato poco per entrare in sinergia con i sindacati del Corpo, ai quali devo peraltro gran parte delle mie attuali conoscenze dell’amministrazione. Non c’è stato un solo evento, positivo o negativo nella vita degli Istituti, in cui io non abbia chiamato e ascoltato personalmente poliziotti e direttori per rincuorare o per concordare rimedi, e comunque per esserci. La pena dell’anima prima che del corpo di Francesco Remotti* lavialibera.it, 14 aprile 2022 In carcere il detenuto è privato del divenire. Ridurlo a “essere” significa fargli molto male. Una punizione che provoca una mutilazione spirituale prima che corporea. Qualcuno, tanto tempo fa, diceva che l’essere è immobile, uno, continuo e che la giustizia fa sì che esso “non nasca né muoia”, “né lo scioglie dai ceppi”. E ancora: “immobile nei ceppi delle sue grandi catene […] resta identico sempre in un luogo, giace in sé stesso, dunque rimane lì fermo”. Quel qualcuno (un poeta e filosofo) insisteva ancora con questa immagine carceraria: “potente necessità lo tiene nelle catene del ceppo, che tutto lo chiude all’intorno”. È il destino che “l’ha legato ad essere un tutto immobile”. L’essere - per quel qualcuno (un qualcuno di molto importante nel pensiero filosofico, e non solo, che giunge fino a noi) - risulta dunque incatenato e per giunta tenuto immobile e inchiavardato in sé stesso dal destino, dalla necessità, dalla giustizia. Un carcerato somiglia un po’ all’Essere descritto da Parmenide, un poeta-filosofo del VI-V secolo a.C., di Elea, Magna Grecia, oggi Ascea, in provincia di Salerno. Ovviamente, un carcerato non è del tutto immobile, non è del tutto uno, del tutto solo con sé stesso, con nient’altro che il vuoto (il non-essere) attorno a lui. Ma la sua condizione riproduce in una certa misura o richiama per certi versi l’immagine dell’essere, tanto più che è lo stesso Parmenide a insistere così tanto sulla dea Giustizia (Dike) e sui ceppi e catene con cui tiene l’essere immobile. Ci vuole coraggio e temerarietà nel proporre un avvicinamento tra il concetto più nobile e sublime che la filosofia occidentale abbia inventato, un concetto che questa filosofia ha posto per secoli e secoli come suo principio, e la condizione dei carcerati, lo strato dei colpevoli, o comunque dei condannati, della nostra società. Ma è proprio lui, il grande Parmenide, a suggerire questo paragone, a metterci su questa strada. Lui immaginava l’essere come un carcerato, noi immaginiamo i carcerati come l’essere. Il prigioniero evoca l’essere, perché a lui - incarcerato - è in gran parte sottratto il divenire (quel “nascere e morire”, di cui parlava Parmenide): non del tutto, soltanto in parte o in buona parte, a seconda dei casi e dei giudizi. Questa - per dirla con Michel Foucault - è la pena più grande: la pena dell’anima, prima ancora che del corpo. La punizione consiste infatti nell’essere costretti all’essere, privati in buona parte del divenire. Togliere il divenire a una persona, ridurlo a essere soltanto (in misura almeno tendenziale), significa fare molto male a quella persona. In effetti, si tratta di una punizione che provoca una forte riduzione: una mutilazione non corporea, ma spirituale. In Sorvegliare e punire (1975) Foucault si era posto il problema del perché nell’ordinamento penale europeo si fosse passati dalle pene spettacolari (i supplizi dei corpi dei colpevoli) a pene apparentemente più dolci, meno crudeli e disumane, e ha dimostrato come negli Stati europei, nei secoli della modernità, la prigione venisse concepita come una pena adeguata al grado di civiltà e di progresso, di cui gli Stati andavano fieri. Ma ha pure dimostrato come si trattasse di un’illusione, tant’è vero che “la riforma della prigione è quasi contemporanea alla prigione stessa”. È interessante seguire ancora l’argomentazione di Foucault, soprattutto quando fa notare che la pena detentiva si cala sulla persona come una “disciplina incessante”, ininterrotta e, provocandone l’isolamento e la solitudine, dimostra di avere una funzione individualizzante: all’individuo carcerato viene imposta una forma più fortemente individualizzata rispetto all’individuo libero. La prigione si configura perciò come il microcosmo di una perfetta società di individui. Si tratta - prosegue Foucault - di una “individualizzazione coercitiva”, volta a produrre individui meccanizzati. C’è stato chi, a questo proposito, invocando una riforma delle prigioni negli anni Trenta dell’Ottocento, aveva asserito che istituire il sistema carcerario “significa creare un’esistenza contro natura, inutile e pericolosa”. La frase (di Charles Lucas, ispettore generale delle prigioni di Francia) è molto preziosa. Perché esistenza “contro natura”? Se si trattasse di individui, l’incremento di individualizzazione di cui parla Foucault non dovrebbe assumere un carattere contro-naturale. Ma forse le persone - gli umani in generale, come del resto tutti i viventi - non sono individui (entità non divisibili): sono invece condividui, componibili e divisibili nello stesso tempo. A questo punto, si capisce assai meglio l’individualizzazione coercitiva di Foucault: essa si esercita non su individui, ma su condividui a cui si toglie in misura rilevante il divenire. Il fatto è che l’idea di individuo (un’idea illusoria) è figlia dell’idea (altrettanto mitica e illusoria) dell’essere, mentre il condividuo ha a che fare con il divenire. Il condividuo per natura diviene. La detenzione tende invece a creare degli individui, cioè appunto - come diceva l’ispettore generale delle prigioni francesi - delle esistenze contro natura. In ciò consiste la ragione più profonda di una pena che, se rispetto ai supplizi tocca meno i corpi, colpisce però la natura più intima del condividuo. Privato in buona parte del suo divenire, il condividuo è costretto ad essere, a restare uno, immobile, incatenato - per un certo numero di anni o per tutta la vita - al suo destino. Tutto ciò in linea con l’immagine carceraria dell’essere elaborata dall’antico filosofo della Magna Grecia, a cui buona parte del nostro pensiero continua tuttora a ispirarsi. *Professore emerito di Antropologia culturale dell’Università di Torino Carceri, Italia tra i primi Paesi Ue per sovraffollamento di Chiara Ciucci Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2022 Decima per tasso di suicidi: nel 2020 si è ucciso 1 detenuto ogni 7 giorni. L’Italia ha uno dei tassi di suicidi nelle carceri più alti nel continente europeo, un problema urgente di sovraffollamento e la maggior percentuale di carcerati sopra i 50 anni (“record assoluto”, gli over 50 sono infatti il 26,7% dell’intera popolazione carceraria). È quanto emerge dal rapporto 2020 “Space” del Consiglio d’Europa, che fotografa, di anno in anno, le condizioni delle carceri che si trovano sul continente. L’Istituto di criminologia di diritto penale dell’università di Losanna ogni anno, su incarico del Consiglio d’Europa, fa una valutazione comparativa sulla composizione della popolazione carceraria in Italia e in tutti i paesi europei. Sovraffollamento - Nessuno degli stati europei, fatta eccezione per il Belgio, ha un problema di sovraffollamento carcerario come quello dell’Italia: “Il tasso ufficiale del sovraffollamento delle carceri è del 107,4%, ma in ben sedici istituti supera il 150%. In questo quadro, desta preoccupazione soprattutto la questione delle madri detenute: a oggi risultano in carcere 19 donne con 21 figli, tutti inferiori ai 3 anni di età e c’è chi denuncia di aver partorito in cella, senza supporto medico, con il solo aiuto di altre detenute”: è quanto ha dichiarato il portavoce dell’associazione Meritocrazia Italia a commento della diffusione del report. Tassi di suicidi - L’Italia si inserisce tra i primi dieci Paesi UE con il più alto tasso di suicidi nel corso del 2020, 11,1 ogni 10mila detenuti: in tutto, 61 suicidi - più di un suicidio a settimana. Di questi, quasi la metà (32) si sono uccisi ancora in attesa di una sentenza definitiva. Il primato europeo lo detiene la Francia, con un tasso di suicidi pari a 27,9 ogni 10mila detenuti. A seguire la Lettonia (19,7), il Portogallo (18,4), il Lussemburgo (18), il Belgio (15,4), l’amministrazione penitenziaria catalana (14), la Lituania (13,2), Estonia (12,8) e Olanda (12,7). Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone - che si batte per i diritti nelle carceri - ha commentato i dati sui suicidi ricordando che “ogni suicidio è anche una sconfitta istituzionale”. Secondo il presidente di Antigone, “i numeri della popolazione detenuta sono tali che il personale non sempre riesce a intercettare quel bisogno di aiuto”. “Qualora dovessimo indicare un’azione immediata per la prevenzione dei suicidi, suggeriremmo una estensione della possibilità di telefonare ai propri cari. Qualora a un detenuto vengano in mente pensieri suicidari forse potrebbe scacciarli con una telefonata a una persona cara”. Carcere, una misura per i poveri - La maggioranza delle persone che si trovano in carcere sono povere: non hanno studiato - o hanno studiato poco e si sono fermate alle licenze elementari e medie - e le minoranze etniche sono sovra-rappresentate. È quanto sostiene il magistrato Elisa Pazé, nel suo libro Giustizia, roba da ricchi: “Periodicamente qualche arresto eccellente, un politico o un imprenditore, alimenta l’illusione che la legge sia uguale per tutti, che non distingua fra ricchi e poveri, potenti ed emarginati. Purtroppo non è così. Le carceri straboccano di ladruncoli, piccoli spacciatori, immigrati irregolari, oltre che - s’intende - di qualche omicida, stupratore, mafioso o camorrista. Bancarottieri, evasori fiscali, corrotti e corruttori con le patrie galere hanno poco a che fare. Ciò che per gli emarginati è la regola, per i benestanti è l’eccezione”. Stando ai dati del Ministero della Giustizia 2021, i laureati dietro le sbarre sono 417, mentre sono 18.266 i detenuti con licenza elementare o media. Come dichiarato anche dal magistrato Alfonso Sabella in una intervista a FQ Millennium nonostante i colletti bianchi commettano crimini che destano meno allarme, si tratta spesso di reati più costosi per la collettività: corruzione, evasione fiscale, crimini finanziari o ambientali (per le grandi aziende). Ma le percentuali di “criminali ricchi” in carcere sono bassissime: 1 detenuto su 100 è dentro per reati economici. L’1% del totale, che nel 2020 equivaleva a 418 persone: in Germania i “colletti bianchi” in carcere sono invece l’11,5%, circa 5.829 persone. Per il magistrato Pazé, l’errore a monte è sia giuridico che filosofico: il nostro codice penale è ancora basato sull’impostazione di iper difesa del patrimonio del Codice Rocco del 1930. “A godere di tutela rafforzata sono i patrimoni individuali e ad essere conseguentemente perseguiti con particolare rigore sono i reati di strada, abitualmente commessi da chi vive ai margini e non ha nulla da perdere: furti, scippi e rapine. Debole e non adeguato è invece il presidio di quei beni - aria, acqua, suolo - che sono patrimonio comune, come se ciò che è di tutti non fosse in realtà di nessuno”. “Abbiamo visitato le prigioni e scoperto un’umanità che vive in un inferno” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 aprile 2022 Un momento toccante che ha permesso di vedere meglio e senza filtri quanto accade nelle carceri. Sono state queste le prime sensazioni del presidente dell’Aiga, Francesco Paolo Perchinunno, al termine della giornata che ha coinvolto diciannove istituti penitenziari, da Nord a Sud, visitati dagli esponenti della giovane avvocatura. Le carceri interessate sono state quelle di Pescara, Melfi, Reggio Calabria Arghillà, Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Udine, Regina Coeli - Roma, Cassino, Casa Circondariale femminile Pontedecimo Genova, Milano Bollate, Ancona, Campobasso, Torino, Bolzano, Spoleto, Venezia, Barcellona Pozzo di Gotto, Palermo e Foggia. Quella di ieri è stata la prima iniziativa, dopo la creazione nello scorso mese di febbraio, dell’Onac (Osservatorio nazionale Aiga sulle carceri). Il numero uno dell’Associazione italiana giovani avvocati è stato a Regina Coeli, accompagnato da due parlamentari che conoscono bene il pianeta carcere: la senatrice Angela Anna Piarulli (M5S), che ha diretto prima dell’approdo a Palazzo Madama il carcere di Trani, e l’onorevole Jacopo Morrone (Lega), già sottosegretario alla Giustizia. Presidente Perchinunno, cosa porta con sé dopo la visita a Regina Coeli? “È stata un’esperienza molto toccante. Io e i miei colleghi abbiamo avuto modo di ascoltare le problematiche affrontate tanto dai detenuti quanto dagli agenti della polizia penitenziaria. Quello che emerge in maniera chiara, e lo metteremo nero su bianco in una relazione dettagliata delle visite di ieri, riguarda la richiesta importante dei detenuti di risolvere una volta per tutte il problema del sovraffollamento con la possibilità di un reinserimento sociale. Tutti i detenuti cercano lavoro. La parola lavoro, probabilmente, è stata quella più pronunciata ed ascoltata incontrandoli. Me lo hanno riferito anche i colleghi che sono stati in altre carceri coinvolte nella nostra iniziativa”. Il lavoro che chiedono i detenuti corrisponde ad un loro definitivo reinserimento sociale… “Proprio così. Tutti i detenuti sono consapevoli degli sbagli compiuti e di dover pagare il loro conto con la giustizia. Chiedono di riprendere in mano la loro vita attraverso un idoneo percorso di reinserimento. Per quanto riguarda le condizioni in cui si svolge la detenzione, ci sono delle eccellenze. Pensiamo al carcere di Bollate, dove abbiamo constatato l’esistenza di un modello al quale dovremmo ispirarci. Ma non tutte le strutture sono come quella lombarda”. Quali emergenze avete riscontrato? “Tanti altri penitenziari, per ragioni storiche, pensiamo a Regina Coeli, a Roma, scontano problemi strutturali endemici per i quali si richiedono urgenti ristrutturazioni. Ma emerge con chiarezza pure un altro elemento”. A cosa si riferisce? “In alcune case circondariali, che dovrebbero essere strutture solo per i detenuti in attesa di giudizio, ci sono tantissime persone che scontano pene definitive. Una casa circondariale che viene concepita come luogo di presenza temporanea, di passaggio, non è organizzata per accogliere detenuti che scontano pene di quattro, cinque o sei anni. Parliamo di luoghi pensati per un altro tipo di detenzione”. Avete avuto modo di conoscere le condizioni in cui lavora la polizia penitenziaria? “Esiste una collaborazione da parte della polizia penitenziaria, che sconta anche nelle carceri delle difficoltà. Mi riferisco, prima di tutto, all’organico che andrebbe implementato. Abbiamo inoltre riscontrato a Roma, alla presenza dei parlamentari Piarulli e Morrone, una grande disponibilità e richiesta di collaborazione per aumentare le attività che possano contribuire ad un corretto inserimento sociale e a gestire in maniera più umana la condizione dei detenuti”. Il carcere di Regina Coeli, che lei ha visitato, quali criticità presenta? “A Regina Coeli la polizia penitenziaria e i detenuti fanno i conti con una struttura antica, risalente al 1600. Le disfunzioni legate all’età dell’immobile sono evidenti. Qui il numero di detenuti che scontano una pena definitiva è pari a più della metà degli ospiti totali, vale a dire 870. Parliamo di una casa circondariale senza palestra, senza campo sportivo e ogni altra struttura in cui il detenuto possa cercare di mettere da parte la solita routine. Inoltre, a Regina Coeli ci sono oltre 300 detenuti tossicodipendenti. È presente il Sert, che fa un lavoro molto impegnativo. Quasi il 40% dei detenuti è tossicodipendente. Dovremmo pensare ad una detenzione diversa per questi soggetti, spingendo, per esempio, sulle comunità di recupero, piuttosto che una presenza passiva, seppur seguita dal Sert, nel carcere”. L’Onac farà delle proposte dopo aver avviato la visita nelle carceri? “Entro la fine del mese di aprile le delegazioni territoriali scriveranno una relazione sulla giornata che abbiamo organizzato. Presenteremo in una conferenza stampa i risultati della prima edizione della nostra iniziativa. Voglio sottolineare la piena collaborazione del Dap e della polizia penitenziaria. Gli agenti della polizia penitenziaria svolgono un lavoro encomiabile, che abbiamo potuto constatare ed apprezzare. Ci hanno consentito di poter conoscere meglio la situazione delle carceri italiane. Siamo pronti a visitare quante più carceri per arrivare entro la fine dell’anno a fotografare una situazione la più completa possibile di un mondo che richiede di essere sempre monitorato e conosciuto. In questo modo saremo pronti a presentare proposte concrete che possano migliorare una situazione, che, come ha rilevato di recente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non è degna di un Paese civile. Per noi non è un momento di critica sterile. La condizione in cui versano le carceri ha un’origine remota, non degli ultimi anni. È arrivato il momento che il legislatore e l’opinione pubblica prendano piena consapevolezza di dover affrontare un’emergenza importante del nostro Paese”. Rems, la regressione del Governo contro i diritti di Daniele Piccione Il Manifesto, 14 aprile 2022 Una sventurata iniziativa del Governo rischia di riportare indietro le lancette dell’orologio su un tema delicato: quello del trattamento dell’autore di reato dichiarato non imputabile. Si tratta di colui il quale ha commesso un crimine senza la pienezza della capacità di intendere e di volere e che, pertanto, secondo il nostro codice penale, merita di essere curato prima di essere punito. Ora, la legge 81 del 2014, che finalmente abolì la micidiale istituzione totale dell’ospedale psichiatrico giudiziario, ebbe anche il merito di stabilire numerosi e validi principi per far fronte alle esigenze di ciascuna di queste persone. I principi cardine di quell’intervento legislativo si riassumono in quanto segue: la cura e la riabilitazione vanno effettuate mantenendo il più possibile il contatto con il territorio di appartenenza e i legami sociali di provenienza; il trattamento è garantito dai servizi di salute mentale sul territorio; solo in estremi casi la persona autrice del crimine è ricoverata in una Residenza per le misure di sicurezza (Rems), così da poterne contenere anche la carica di pericolosità sociale residua, connessa con il disturbo che vive; infine, vi è un massimo di durata dell’esecuzione della misura detentiva, dato il presupposto che il prolungare le esperienze di costrizione non giova mai alla riabilitazione. Ispirata a queste linee di sviluppo e costantemente accompagnata dalla giurisprudenza costituzionale che l’ha via via difesa da ordinanze che ne hanno posto in dubbio funzionamento e legittimità, ora la legge rischia di subire un attacco mortale, paradossalmente per mano del Governo. Nell’art. 32 di un decreto-legge dedicato a ben altri temi, come un cavallo di Troia disomogeneo rispetto al resto del provvedimento, si staglia l’intento di istituire una nuova Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza in Liguria, di natura sperimentale, che possa ospitare i pazienti in attesa di trovare posto in esecuzione delle misure di sicurezza. Ma in cosa consisterebbe questa natura sperimentale? Nell’aprire una breccia, anzi una voragine, nei principi della legge entrata in vigore otto anni fa. I ricoverati potranno essere accolti al di fuori del bacino territoriale di origine, decontestualizzandoli dunque dalle proprie radici, dai rapporti con persone e luoghi. Si tratta di una scelta regressiva e non sufficientemente meditata. Giunge in un momento, peraltro, in cui la Corte costituzionale ha rischiarato l’orizzonte, con una sentenza esemplare (Corte costituzionale, sent. n. 22 del 2022). I giudici costituzionali hanno (di)mostrato quanto duraturo sia il mito ottundente secondo il quale servono più posti letto, e più luoghi di residenza coattiva. La richiesta di più spazio di contenimento per le persone che soffrono non è la via corretta, anche perché le Rems devono fronteggiare la parte dura e acuta del disturbo, ma soltanto a condizione di non ridursi a monadi nè di farsi contenitori generalizzati di grande capienza come erano gli Opg. La via dello sviluppo invece è l’altra: potenziare i dipartimenti di salute mentale, aumentarne la capacità d’integrazione e l’efficacia di prestazione sui territori, l’effettività della cura e la forza della riabilitazione diversificata, basata sulle esigenze delle persone e delle loro storie. Porsi la domanda giusta è, come di frequente, la chiave per far avanzare il progresso e non tornare verso il buio. Quindi non dove li mettiamo? ma di cosa ha bisogno ciascuno, per stare meglio? Se il Governo trovasse la forza di invertire i termini dei due quesiti, vedrebbe, quasi cogliendo la panoramica di quel che accade grazie all’operato di tanti magistrati, che non è con l’aumento dell’offerta di restrizione che si orienta il sistema lungo il sentiero tracciato dalla Costituzione. Il tempo è poco, ma si deve lottare. Cts della giustizia penale, l’organismo voluto da Cartabia vede la luce col nuovo decreto Pnrr di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2022 Si finanzia il Comitato tecnico-scientifico sul processo penale, la cui istituzione (rimasta lettera morta) era prevista dalla riforma Cartabia approvata a settembre 2021. E accanto si prevede la creazione di un Cts “gemello” sul processo civile finanziato allo stesso modo, che invece non compariva nella riforma del settore approvata a novembre. Sono le due novità in tema di giustizia contenute nella bozza dell’ultimo decreto legge sull’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), arrivata sul tavolo del Consiglio dei ministri di mercoledì. Ora che le due riforme processuali previste dal Piano hanno visto la luce (mancano ancora quella dell’ordinamento giudiziario, arrivata all’ultimo miglio, e quella della giustizia tributaria) il governo vuole assicurarsi che raggiungano lo scopo per cui erano state pensate, quello di abbattere i tempi di definizione delle cause. E così il primo comma dell’articolo 36 inserisce nella riforma del processo civile una norma-fotocopia a quella che disciplina il Cts della giustizia penale: “Con decreto del ministro della Giustizia è costituito il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia civile, sulla ragionevole durata del processo e sulla statistica giudiziaria, quale organismo di consulenza e di supporto nella valutazione periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione dei procedimenti civili”, recita il testo. L’organismo, si prevede, “promuove la riorganizzazione e l’aggiornamento del sistema di rilevazione dei dati concernenti la giustizia civile e assicura la trasparenza delle statistiche attraverso pubblicazioni periodiche e i siti Internet istituzionali”. Entrambi i consessi saranno presieduti dal ministro o da un suo delegato e formati “da un numero di componenti non superiore a quindici che durano in carica tre anni (finora per il Cts penale non si specificava il numero di componenti, ndr)”. Che però non percepiranno nulla per la propria attività: “Ai componenti del Comitato non spettano compensi, gettoni di presenza o altri emolumenti comunque denominati”, specificano la vecchia e la nuova legge. Il tutto quindi sarà all’insegna del low cost, anche perché per il funzionamento di ciascuno dei due Cts si prevede nient’altro che “la spesa di euro 11.433,00 a decorrere dall’anno 2022” e a valere sul bilancio triennale 2022-2024 (anche qui, finora il Cts penale non aveva avuto fondi in dotazione). Sia il Cts civile che quello penale dovranno riferire “al ministro della Giustizia con cadenza annuale (…) in ordine all’evoluzione dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi di definizione dei processi. Il ministro della Giustizia assume le conseguenti iniziative riguardanti l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia necessarie ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi di ragionevole durata del processo. I risultati del monitoraggio sono trasmessi al Consiglio superiore della magistratura, per le determinazioni di competenza in materia di amministrazione della giustizia e di organizzazione del lavoro giudiziario”. Riforma del Csm, maggioranza divisa. Le toghe hanno già deciso: sarà sciopero di Liana Milella La Repubblica, 14 aprile 2022 Il presidente Anm Santalucia: “Ce lo chiede la base”. Alla Camera nuovo scontro su carriere separate e legge elettorale. Dopo ore di affanno, e mentre la maggioranza si spacca, la riforma del Csm va verso il voto finale in commissione Giustizia. Ma ormai lo sciopero della magistratura è cosa fatta. Ed è lo stesso presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia a ufficializzare la prossima astensione come “ormai inevitabile”. Alle otto di sera, mentre il governo si divide sulla separazione delle carriere e la Lega vota sì alla proposta di FdI, Santalucia dice a Repubblica: “È la base a chiederci lo sciopero. ta montando una forte protesta di tutta la magistratura contro questa riforma che arriva dai territori. E in queste ore, uno dopo l’altro, si accumulano sulla mia scrivania anche i documenti degli stessi gruppi organizzati. La richiesta è sempre la stessa, una protesta ferma contro una riforma che non tiene conto delle nostre critiche. Gli aspetti che via via, più volte, abbiamo segnalato come inaccettabili non sono stati né eliminati, né attenuati. Anzi, sono stati aggravati”. La decisione ufficiale sullo sciopero ci sarà martedì 19, quando la riforma approderà in aula alla Camera. E tra i documenti che girano, come quello durissimo della sinistra di Area che parla di una riforma “devastante”, ecco l’appello intitolato “Facciamo presto”, che in poche ore raccoglie centinaia di adesioni e parte dai giudici di Busto Arsizio, Nola e Torre Annunziata in agitazione da giorni. Una “periferia” della magistratura che rifiuta una riforma “dai contenuti tragici e che stravolgerà completamente e definitivamente l’assetto costituzionale”. E nel frattempo che succede alla Camera? La maggioranza va in pezzi. E cade nel vuoto l’appello che a metà pomeriggio, quando mancano ancora oltre 150 emendamenti da votare, invia il presidente 5S Giuseppe Conte. “È un atto di responsabilità - dice l’ex premier che con l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede ha proposto il primo testo - lavorare tutti per raggiungere un compromesso, ma vedo che Iv si oppone, e non vorrei che qualcuno volesse andare a votare il rinnovo del Csm con le vecchie norme”. Renzi ha già annunciato su Repubblica l’astensione, e il suo Cosimo Maria Ferri, deputato e tuttora magistrato, si dà da fare a ogni riformulazione per mettere in difficoltà il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto di Forza Italia e i relatori, il Dem Walter Verini e il grillino Eugenio Saitta. Si litiga su tutto, anche sul fascicolo “per la valutazione del magistrato”. Lo propone Enrico Costa di Azione e lo sottoscrive via Arenula che però dice che “esisteva già”, mentre i giudici parlano di “schedatura”. È la Lega a mettere in pratica gli annunci della responsabile Giustizia Giulia Bongiorno. Quando, su un emendamento di FdI sulla separazione delle carriere di giudice e pm, vota a favore, mentre Fi lo boccia. “Sui temi dei referendum dobbiamo essere coerenti con le firme raccolte” aveva detto Bongiorno. E i suoi mantengono la parola. Salvo votare anche la proposta del governo che consente un solo passaggio da una funzione all’altra entro dieci anni dall’ingresso in carriera. Ma lo show down arriva con quello che la stessa Bongiorno battezza ironicamente “l’emendamento ex Bongiorno, così come si parlò di ex Cirielli”, cioè quello sulla legge elettorale. “Lo votiamo, certo, ma solo per spirito di collaborazione perché la riforma deve andare avanti, ma è stato annacquato e non rispecchia il cambiamento che aveva chiesto la Lega”. Csm, Cartabia tira dritto e sfida il no di Renzi e toghe di Simona Musco Il Dubbio, 14 aprile 2022 Nonostante l’ostruzionismo di Italia viva e le minacce di sciopero da parte dell’Anm la riforma va avanti. L’obiettivo è portare il testo in Aula il 19 aprile. Una corsa ad ostacoli, ma alla fine, sulla riforma del Csm la ministra Marta Cartabia tira dritto, dribblando senza grosse difficoltà l’ostruzionismo di Italia Viva e la protesta della magistratura. Il voto in Commissione Giustizia alla Camera, ieri, ha registrato la netta opposizione dei deputati di Italia Viva Catello Vitiello e Cosimo Ferri, convinti, così come il leader del loro partito, che la riforma non sia risolutiva. “Non cancella il potere delle correnti, noi ci asterremo”, aveva annunciato nel pomeriggio Renzi, mettendo però le mani avanti sulla tenuta della maggioranza. “Il governo va avanti, va avanti bene. C’è una guerra, ci sono i soldi del Pnrr, c’è da chiudere l’emergenza Covid. Poi su alcune cose non tutti sono d’accordo ma noi siamo assolutamente dalla parte di Mario Draghi - ha sottolineato -. Sulla Giustizia avevamo un governo con Conte, Casalino e Bonafede che era un governo dannoso. La riforma Bonafede faceva danni, la riforma Cartabia non è dannosa, produce grandi passi avanti, è una riforma inutile ma passerà perché sono tutti d’accordo. Noi vorremmo di più nel restituire ai cittadini la possibilità di credere nella magistratura però sempre meglio la Cartabia di Bonafede”. E a garantire la stabilità erano stati anche Forza Italia e Lega, dopo il vertice di ieri mattina con Mario Draghi, che non ha affrontato il tema giustizia ma si è dimostrato disponibile ad apportare dei correttivi alla riforma del fisco, convincendo così i partiti di destra a ritirare le pregiudiziali sulla riforma. Proprio per tale motivo è stato solo un “brivido” la scelta della Lega, annunciata da Ingrid Bisa, di votare contro le indicazioni della maggioranza e del governo a favore di un emendamento di FdI, che introduceva una versione diversa, rispetto a quella concordata in maggioranza, della separazione delle funzioni. Una versione più affine al modello disegnato dai referendum promossi dal Carroccio e per tale motivo impossibile da bocciare per il gruppo di Salvini. Contrari, invece, tutti gli altri gruppi, compresa Forza Italia, che ha invece deciso di votare l’emendamento concordato, come spiegato da Pierantonio Zanettin. “Non lo abbiamo votato - ha spiegato - perché si tratta di una norma di principi e di delega e non immediatamente efficace, tanto è vero che era inserito nel primo articolo della pdl che indica le deleghe normative al governo. Noi invece abbiamo presentato una norma immediatamente efficace, come da emendamento all’articolo 10 da noi depositato, che se approvato entrerà in vigore al momento della promulgazione della legge”. Dopo la bocciatura, il capogruppo della Lega Roberto Turri ha quindi annunciato il voto favorevole del suo gruppo all’emendamento di maggioranza. Per la deputata di FdI, Carolina Varchi, si è trattato di “un’occasione persa”. Dopo la seduta notturna di martedì, il voto è ripreso ieri alle 16.30, con l’intento di andare avanti fino a chiudere la pratica e inviare così il testo questa mattina alle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali per i pareri. Lo scopo è garantire l’approdo in Aula il 19 aprile, stesso giorno scelto dall’Anm per la convocazione del comitato direttivo centrale, dopo l’appello di tutte le correnti di indire uno sciopero contro la riforma. Richiesta che, ieri, è arrivata anche dal gruppo di Area, che ha parlato di “profili devastanti per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura e provocherà danni ai cittadini che chiedono giustizia”. La seduta ha registrato i ripetuti interventi di Ferri e Varchi, ma anche di Andrea Colletti, di Alternativa, e della magistrata Giusi Bartolozzi (Misto), che hanno di fatto rallentato i lavori, così come la scelta della Lega di proseguire con il ritiro delle proprie proposte articolo per articolo, in modo da poter decidere volta per volta se votare gli emendamenti delle opposizioni. A rendere farraginoso il percorso è stata anche la ripetuta riformulazione di diversi emendamenti della maggioranza alla ricerca di accordo. Ma le polemiche tra i vari pezzi di governo sono andate avanti anche a distanza. “Il M5S responsabilmente sta dando il proprio contributo per portare in porto questa riforma. È un atto di responsabilità lavorare tutti per raggiungere un compromesso, vedo che Iv si oppone, non vorrei che qualcuno volesse andare a votare al rinnovo del Csm con le vecchie norme - ha affermato il presidente del M5s Giuseppe Conte -. Siamo disponibili a un giusto compromesso anche sulle regole elettorali. Vogliamo una distinzione chiara e netta fra politica e magistratura, questo è un primo pilastro, come quello sul passaggio delle funzioni. L’importante è che il sistema sia equilibrato”. Ma a replicare è stato Ferri, secondo cui “il sistema elettorale con la riforma Cartabia rafforza il peso correnti, ne sono tutti consapevoli; l’unica soluzione per discontinuità proposta è il sorteggio temperato, votata da 2000 magistrati al referendum indetto dall’Anm. Italia Viva è l’unica forza che ha proposto di cambiare le cose con la proposta del sorteggio temperato e ha aperto anche all’ipotesi di un sistema proporzionale puro su cui anche Pd e Cinque stelle avevano in parte dato qualche segnale. Si faccia raccontare bene le cose, e vedrà chi vuole veramente il cambiamento” . Tra gli emendamenti approvati nel pomeriggio di ieri quello che definisce le nuove norme per l’attribuzione degli incarichi direttivi e semidirettivi, che prevede, tra le novità, la pubblicità delle procedure di assegnazione degli incarichi, lo stop alle nomine a pacchetto e la procedura comparativa con l’audizione di tutti i candidati da parte della Commissione del Csm. Inoltre il governo ha fatto retromarcia sul requisito dei sei anni di permanenza prima di partecipare ad altro incarico direttivo o semidirettivo, tornando ai cinque anni chiesti da Italia Viva. Previste nuove norme per la valutazione delle attitudini e del merito e la previsione che in caso di parità di valutazione debba prevalere il genere meno rappresentato su base nazionale e distrettuale. Approvato, inoltre, l’emendamento del governo sul regime delle incompatibilità di sede, che è stato però attenuato. Allo stato attuale un magistrato è incompatibile con una sede se in essa il coniuge o un parente fino al secondo grado esercita la professione di avvocato, incompatibilità verificata “in concreto” sulla base di alcuni criteri. L’emendamento Cartabia prevede che tali criteri debbano essere tutti presenti per decretare l’incompatibilità. Ed è stato questo, nel momento in cui scriviamo, l’unico emendamento su cui Italia Viva si è astenuta, votando contro le altre proposte di modifica. L’intento della ministra di chiudere la faccenda è anche emerso dalla decisione di dare parere favorevole ad un subemendamento dei relatori Eugenio Saitta e Walter Verini che ha soppresso un emendamento dello stesso esecutivo, che modificava l’attuale legge sull’inamovibilità di sede del magistrato. “Riforma del Csm inutile, persa occasione”. Parla Ferri (Iv) di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 aprile 2022 Il deputato di Italia viva (ed ex magistrato) spiega le ragioni che hanno indotto il partito guidato da Matteo Renzi ad annunciare il voto non favorevole alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: “Persa un’occasione storica, non risolve il problema correnti”. E nega conflitti di interessi. La riforma del Csm? “Un intervento inutile, che rafforza il peso delle correnti”. La ministra Cartabia? “Ha proposto dei principi giusti, ma non ha avuto il coraggio di sposarli fino in fondo”. Il conflitto di interessi tra il mio passato da magistrato (leader di corrente) e la mia presenza al tavolo delle trattative col governo? “Non esiste, altrimenti si dovrebbero ipotizzare conflitti di interessi anche per i magistrati che accompagnano la ministra Cartabia alle riunioni di maggioranza per parlare delle norme sulle toghe fuori ruolo e le porte girevoli”. Intervistato dal Foglio, Cosimo Ferri, deputato e capo delegazione di Italia viva alle riunioni con la Guardasigilli Marta Cartabia sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, conferma il suo spirito battagliero e spiega le ragioni che hanno indotto il partito guidato da Matteo Renzi ad annunciare il voto non favorevole alla riforma su cui, dopo lunghi negoziati, le altre forze di maggioranza sembrano aver raggiunto un compromesso. “Siamo una delle forze di maggioranza che più hanno creduto, e ancora credono, nel governo Draghi, ma riteniamo che si sia persa l’occasione di dar vita a una grande riforma della giustizia”, dichiara Ferri. “Era il momento per la politica di riappropriarsi della propria identità e di ridefinire una volta per tutte gli equilibri con la magistratura. A noi dispiace che le forze di maggioranza non abbiano capito il momento storico e l’occasione che avevano a disposizione”. Per Ferri, i negoziati tra i partiti e la ministra Cartabia hanno infatti partorito una “mini-riforma”. Il principale tasto dolente è costituito dal meccanismo proposto per l’elezione dei componenti togati del Csm. Per ridurre l’influenza delle correnti, si è arrivati a definire un sistema proporzionale con correttivo maggioritario basato sul sorteggio dei collegi, e non dei candidati, come invece proposto da Iv: “Se si voleva dare un segnale di discontinuità con il passato bisognava investire sul sorteggio temperato - ribadisce Ferri - La ministra Cartabia ha sempre considerato la proposta incostituzionale. Eppure, la stessa Anm ha indetto un referendum inserendo tra i quesiti il sorteggio temperato, che è stato votato da quasi duemila magistrati”. Insomma, la riforma Cartabia non risolve il problema correnti. Non solo, accusa Ferri, “il nuovo sistema delle pagelle di professionalità sarà il più grande strumento di potere in mano alle correnti, perché non premierà i magistrati silenziosi, quelli che pensano alla quotidianità del lavoro e all’attività giudiziaria, ma quelli che partecipano alla vita associativa e sono più conosciuti”. Anche su altri aspetti la riforma appare “poco coraggiosa”, come nelle parti in cui inserisce deroghe all’eliminazione della pratica delle nomine a pacchetto e sui limiti alle cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura: “Si è giustamente stabilito che i magistrati eletti parlamentari non potranno più tornare a svolgere le funzioni, ma i magistrati scelti dalla politica per ricoprire gli incarichi di capo di gabinetto, capo dipartimento o capo ufficio legislativo potranno invece ritornare a svolgere l’attività giudiziaria, seppur con alcune limitazioni, nonostante abbiano un potere molto più incisivo rispetto ai parlamentari”. Sulle norme che limitano a una sola volta il passaggio di funzione tra giudice e pm (e viceversa), Ferri si limita a evidenziare che “già oggi, se si vanno a vedere le statistiche, pochissimi magistrati hanno cambiato funzione più di una volta, quindi è una norma che non serve a niente”. Tutto chiaro, onorevole Ferri, ma non vede conflitti di interessi tra il suo passato da magistrato (e leader della corrente di Magistratura indipendente) e la sua partecipazione ai negoziati per la riforma del Csm? Lei è anche sotto procedimento disciplinare per la vicenda della riunione notturna con Palamara all’Hotel Champagne. “No. Penso che il ruolo di un parlamentare sia quello di seguire con competenza le materie che conosce, lascio agli altri polemiche strumentali. Vorrei solo contribuire a migliorare la riforma”. Ma non rintraccia neanche ragioni di opportunità? “No, altrimenti si dovrebbero ipotizzare conflitti di interessi anche per i magistrati che accompagnano la ministra Cartabia alle riunioni di maggioranza per parlare delle norme che li riguardano direttamente. E poi il prossimo vicepresidente del Csm potrebbe essere scelto proprio tra i parlamentari che hanno scritto la riforma: teoricamente si porrebbe un conflitto di interessi anche lì”. Di fronte al potere assoluto delle toghe, ai calabresi non rimane che rivolgersi a Dio di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 14 aprile 2022 Nei giorni scorsi è stato assolto dal reato di concorso in associazione mafiosa l’ex consigliere Cosimo Cherubino già capogruppo socialista nel consiglio regionale della Calabria. In verità gli assolti sono stati cinque su sei imputati. L’assoluzione avviene dopo dodici anni e di questi Cherubino ne avrà trascorsi almeno quattro in carcere. Solo qualche giornale ha dedicato un trafiletto asettico alla vicenda. Per il resto nessuna riflessione e nessuna domanda. La notizia è stata trattata come una piccola bagattella simile ad un’infrazione stradale o a fastidiosi schiamazzi d’un ubriaco in luogo pubblico. In fondo, a tutto si fa l’abitudine: i giapponesi hanno imparato a convivere con il terremoto, gli afgani con la guerra, i calabresi con la mafia e la cosiddetta antimafia. Tuttavia ci sono due passaggi del comunicato diffuso all’ex consigliere regionale che colpiscono particolarmente ed infatti inizia con un “ringraziamento a Dio” e poi, come dovesse obbedire ad ex voto maturato in dodici anni di tormenti, promette solennemente che non sarà mai più candidato alle elezioni e di aver chiuso con la politica. Il resto della sua vita lo dedicherà alla famiglia. La Fede è sempre una bella cosa e dedicarsi alla famiglia una gran virtù. Non possiamo che rispettare la sua decisione e senza alcuna nostalgia per quel ‘mondo politico’. Il problema è un altro: il disimpegno, la promessa di silenzio e la riscoperta della ‘Fede’ rappresentano un tratto comune dei “sopravvissuti” alle ricorrenti bufere giudiziarie che si abbattono sulla Calabria quasi che quando non si crede più alla giustizia degli uomini e ci si affidi a quella Celeste. Narrano le cronache che quando nel Sud vigeva la “legge Pica” che dava agli inquisitori diritto di vita e di morte su coloro che cadevano nelle maglie della “giustizia” sommaria, i malcapitati si aggrappassero al Crocefisso percepito come ultimo argine ad un potere sadico ed impazzito. Non siamo nella stessa fase storica ma c’è chi vorrebbe riportare indietro le lancette della Storia. Facciamo qualche esempio prendendo in esame le ultime vicende che hanno colpito esponenti della politica: Mario Oliverio, da presidente della Regione, è stato esiliato e poi assolto. Il senatore Caridi è stato tenuto in carcere qualche anno. Assolto. Mimmo Tallini è stato arrestato mentre era presidente del Consiglio regionale della Calabria e costretto alle dimissioni. Arresto annullato. La sindaca antimafia di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole è stata arrestata e poi assolta. Qualche mese fa, lo stesso Lorenzo Cesa ha avuto la casa e lo studio perquisiti ed un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Era andato a pranzo con un gruppo di calabresi, quindi in fondo se l’era cercata. Ma il caso è stato archiviato. Oggi abbiamo il caso Cherubino. Ci siamo fermati - e non a caso - a nomi noti e che in quanto tali hanno suscitato un minimo di dibattito sui giornali e nell’opinione pubblica. Le “vittime” tra la gente comune sono molti di più. Nessuno, e certo non io, invoca processi sommari o rappresaglie di alcun tipo per i magistrati che si sono resi responsabili, in così poco tempo, di tanti e gravi errori. Ma il minimo che si può chiedere è una pausa di riflessione, un momento di autonoma autocritica, una virtuosa prudenza quando si maneggia la vita degli altri. Un sostanziale rispetto delle garanze costituzionali da parte di pubblici impiegati che hanno giurato fedeltà alla Costituzione. Un minimo di cautela che dovrebbe portare a ricorre alla carcerazione preventiva (ancora peggio nelle misure di prevenzione) che devasta la vita di una persona innocente, solo in casi estremi e rispettando non dico lo Stato di diritto ma quantomeno “l’Habeas Corpus”. Invece il “caso Pittelli” dimostra che alcune procure, come nulla fosse finora successo, utilizzano la carcerazione preventiva come una clava. Ho già scritto di non aver mai conosciuto l’ex senatore della “destra” italiana e di considerarmi distante mille miglia dalle sue scelte politiche. Ma oggi il “corpo” di questo settantenne sballottato tra carcere ed arresti domiciliari rappresenta il guanto di sfida che un potere che si ritiene assoluto ed onnipotente lancia non solo allo Stato di diritto ma ai ‘lumi’ della Ragione. Ma cosa potrebbe fare fuori dal carcere un vecchio malandato: darsi alla fuga tra le montagne? Inquinare le prove che sono in mano ai giudici? Ripetere il reato pur non potendo esercitare la professione? È difficile sfuggire alla sensazione che Pittelli, già uomo di “casta” e di “privilegi”, rappresenti uno specchio per le allodole per sviare l’attenzione dal maxiprocesso ‘Rinascita Scott’ che si trascina stancamente in un’aula bunker semivuota e sonnolenta. Il problema non è affatto Pittelli, il dramma vero è quello di un potere assoluto che prima ancora della vittima divora il “carnefice” risucchiandolo in un delirio di onnipotenza. Dinanzi ad un tale potere perché sorprendersi se i malcapitati, oggi come due secoli fa, si rivolgono a Dio o che si ritorni alla promessa (ex voto) solenne di disimpegno, e di genuflessa obbedienza pur di salvarsi? Che aggiungere? “Dio Salvi la Calabria”. Teo Luzi: “Su Cucchi ha vinto lo Stato di diritto, ora scatteranno le espulsioni dall’Arma” di Massimo Righi La Stampa, 14 aprile 2022 Il comandante generale dei carabinieri: “Un epilogo che però non risarcisce nessuno, resta il dolore di tutti. Fuori subito chi è stato interdetto, provvedimenti anche tra i condannati in primo grado per il depistaggio”. La sentenza della Cassazione che ha scritto la parola fine sui responsabili della morte di Stefano Cucchi “non può essere che una vittoria”. E per loro scatterà l’espulsione dall’Arma. Ma anche per quella di primo grado sui depistaggi c’è la decisione di assumere alcuni provvedimenti con effetto immediato. Il generale Teo Luzi, comandante dei carabinieri, aveva annunciato qualche mese fa che non ci sarebbero stati sconti a livello interno in una delle storie più sofferte dei 207 anni di vita dell’Arma. E ora spiega le conseguenze sul piano istituzionale di un caso che ha richiesto 13 anni per accertare cos’era realmente accaduto, fino ad arrivare alla verità che senza la tenacia dei familiari della vittima si sarebbe sciolta dietro ricostruzioni di comodo e versioni di facciata. No, invece, a una lettura politica, per di più dopo le polemiche riaccese da Matteo Salvini. Comandante, Ilaria Cucchi ha detto “Abbiamo vinto noi e ha vinto lo Stato”. La sente anche lei come una vittoria dello Stato e, quindi, dell’Arma? “La sentenza della Corte di Cassazione del 4 aprile ha accertato in modo definitivo la responsabilità preterintenzionale di due militari dell’Arma per la morte di Stefano Cucchi. L’accertamento della verità sancito da una sentenza definitiva non può essere che una vittoria ed è un’affermazione dello Stato di diritto di cui l’Arma è sempre stata garante. Un epilogo che tuttavia non risarcisce nessuno. Rimane il dolore di tutti. Per primo, quello della famiglia Cucchi, alla quale esprimo ancora una volta la mia sentita vicinanza. Per tutti gli altri militari tuttora imputati a diverso titolo nei due distinti processi, auspichiamo una rapida definizione delle loro posizioni. Indipendentemente dalla presunzione di innocenza e dall’esito di entrambi i processi, sento il dovere di dire che l’Arma ha vissuto con profonda sofferenza l’intera vicenda per la gravità delle condotte contestate, radicalmente lontane dai principi e dai valori che da sempre contraddistinguono l’impegno dei carabinieri al servizio del Paese e dei suoi cittadini”. Lei ha detto che con le sentenze definitive non ci sarebbero stati sconti. Vuol dire che gli otto condannati in primo grado resteranno al loro posto dopo i trasferimenti già avvenuti? “Gli otto militari condannati in primo grado, a seguito del loro rinvio a giudizio, sono stati trasferiti da incarichi di prestigio e funzioni di particolare responsabilità a incarichi d’ufficio. Ribadisco che, nel rispetto del principio di legalità, al passaggio in giudicato delle sentenze, saranno tempestivamente definiti i procedimenti disciplinari nei loro confronti, così come previsto dalle norme in materia. Nel frattempo, tenuto conto delle condanne di primo grado, con la previsione per alcuni di pene accessorie suscettibili di incidere nel rapporto d’impiego, già dai prossimi giorni saranno posti a disposizione per svolgere compiti esclusivamente interni, senza personale alle dipendenze. Si tratta dello stesso tipo di provvedimento adottato in casi analoghi da altre Amministrazioni dello Stato e che garantisce - fino al giudicato - l’assenza di qualsiasi vulnus nell’esercizio delle funzioni svolte”. I condannati in via definitiva, invece, saranno espulsi dall’Arma? “Certo, perderanno lo status militare, già in applicazione delle pene accessorie di interdizione perpetua dai pubblici uffici”. La sentenza per i depistaggi è arrivata a 15 giorni dalla prescrizione. Prescrizione che si rischia più concretamente nel processo di appello-bis per due degli imputati accusati di falso. Dopo 13 anni, fermo restando il rispetto delle garanzie di difesa, non sentirebbe come un’ingiustizia non avere su tutti i fronti una verità processuale? “In democrazia il rispetto delle regole è d’obbligo. Come lei, sono dell’opinione che l’accertamento compiuto della verità processuale passa da una sentenza di merito. Si tratta, peraltro, di processi con capi di imputazione particolarmente gravi per cui l’esigenza di una sentenza definitiva che chiarisca nel merito i fatti è fortemente sentita anche dall’Arma, così come da tutte le parti del processo e dalla stessa opinione pubblica. D’altro canto, i meccanismi della prescrizione sono parte integrante del rito processuale, per cui ritengo che definirla un’ingiustizia sarebbe una contraddizione in termini. Tengo a ribadire che, anche laddove dovesse intervenire una sentenza di prescrizione a carico di alcuni degli attuali imputati, l’Arma darà comunque corso ai procedimenti finalizzati all’accertamento delle relative responsabilità disciplinari sulla base delle risultanze processuali disponibili”. Tra le parti civili che dovranno essere risarcite per i depistaggi c’è anche il Comando Generale dell’Arma. Come procederete su questo fronte? “Proseguiremo senza indugio per la strada intrapresa. La scelta di costituzione di parte civile del Ministero della Difesa ha una alta valenza etico-morale e ha inteso, innanzitutto, sottolineare il doveroso interesse dell’Arma all’affermazione della giustizia, così tutelando la propria immagine rispetto a condotte considerate lesive del proprio prestigio e della credibilità istituzionale. Questo è il significato autentico dell’essersi costituiti parte del processo: lo dobbiamo a tutti i carabinieri e ai cittadini, la cui fiducia alimenta il nostro impegno ed è motivo stesso del nostro essere. Eventuali somme risarcitorie saranno incamerate all’Erario”. Cosa è cambiato concretamente nell’Arma dopo l’uccisione di Stefano Cucchi? “L’omicidio Cucchi ha sollecitato un’ampia e profonda riflessione che ci ha portato a migliorare ulteriormente le procedure operative, specie in tema di tutela delle persone in custodia. Abbiamo attivato una serie di iniziative, anche in collaborazione con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, per accrescere la sensibilizzazione dei nostri militari sulla necessità di una tutela a tutto campo di chi si trova in stato di restrizione fisica. A questo si aggiungono rinnovate e più efficaci procedure di controllo interno all’Arma, con lo scopo principale di prevenire il rischio di condotte superficiali o comunque errate nei rapporti con il cittadino. A tal fine ci siamo dotati di una struttura di audit centrale con articolazioni periferiche per individuare qualsiasi eventuale incertezza comportamentale sotto il profilo deontologico”. La struttura è già operativa? “Sì, funziona dallo scorso settembre e ha sede al Comando generale, ma lavora su tutto il territorio nazionale”. E ha già preso in esame qualche situazione specifica, anche del passato? “In questa fase stiamo analizzando la piena aderenza delle procedure operative con le disposizioni in materia, evitando che si possano creare delle anomalie. E si concentra sull’attività dei reparti dalla sua nascita in avanti”. La guerra in Ucraina. Nella sua lunga carriera, lei ha svolto anche importanti incarichi su fronti delicati come Bosnia Erzegovina e Kosovo. Che impressione ha dell’attuale scenario e come potrebbe evolvere? “Le valutazioni circa l’evoluzione dello scenario sono particolarmente complesse e come potrebbe cambiare al momento non è neppure intuibile. Di una cosa sono certo: qualsiasi dovesse essere l’esito degli eventi, le circostanze che stiamo vivendo sono uno spartiacque negli assetti geopolitici. Sono giorni che muteranno gli equilibri politici ed economici globali. In questo clima di incertezza, noi carabinieri continuiamo a essere vicini alla gente per una sempre più necessaria opera di rassicurazione sociale e per intercettarne le esigenze di sicurezza”. Quali sono i fronti interni più esposti, in un’emergenza che ha già portato in Italia quasi centomila profughi ucraini? “Siamo attenti a ogni emergenza generata dal conflitto, soprattutto per poter fornire il massimo concorso nelle attività legate al flusso dei profughi, la loro sicurezza e una dignitosa accoglienza. Ci stiamo ulteriormente organizzando per migliorare il contrasto alla criminalità organizzata, al terrorismo internazionale e alle nuove insidie cyber”. A questo proposito, l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale ha lanciato un allarme anche per gli attacchi al nostro Paese e il governo ha annunciato specifiche contromisure: avete rilevato un incremento dei pericoli? “L’utilizzo sempre più ampio delle piattaforme di rete da parte di cittadini e imprese e l’instabilità del contesto geopolitico rappresentano profili di rischio cui dedichiamo particolare attenzione. Il nostro Centro di Sicurezza Telematica respinge una media di venti tentativi di intrusione al giorno, garantendo la continuità operativa dei sistemi secondo gli standard aggiornati del perimetro di sicurezza nazionale cibernetica”. Avete altri militari impegnati per le conseguenze della guerra? “Sì, il ministro della Cultura ha già annunciato la disponibilità della task force dei “Caschi Blu della Cultura” che opera nell’ambito del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale per iniziative di sostegno e protezione del patrimonio culturale dell’Ucraina attraverso il censimento di tutti i siti più esposti e l’invio di materiali idonei a metterli in sicurezza”. L’automatismo sanzionatorio davanti alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2022 La Consulta dovrà esaminare la legittimità costituzionale dell’automatismo sanzionatorio nei confronti di un ergastolano ostativo che è in libertà condizionale, ma obbligato a cinque anni di libertà vigilata e senza la possibilità di revisione da parte del magistrato di sorveglianza, a causa della presunzione assoluta di pericolosità. Parliamo di un ergastolano ostativo in liberazione condizionale, condannato per fatti avvenuti prima che entrasse in vigore il 4 bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario nato a seguito delle stragi di mafia e quindi per una questione “emergenziale”. Tale beneficio è stato ottenuto grazie all’avvocato Michele Passione del foro di Firenze, il quale era riuscito ad ottenere la sentenza che ha stabilito la non retroattività dell’ostatività. Nel caso di specie però, per legge, alla liberazione condizionale consegue la libertà vigilata per 5 anni. L’avvocato Passione ha posto due questioni di illegittimità costituzionale, accolte dal tribunale di sorveglianza di Firenze trasmettendo gli atti alla Consulta. La prima: se abbia senso che una persona in libertà condizionale, ottenuta per sicuro ravvedimento, sia sottoposta a una misura di sicurezza il cui presupposto è la pericolosità sociale. La seconda: se sia ragionevole il fatto che tale misura di sicurezza - nei confronti della libertà vigilata - debba per forza essere fissata a cinque anni, e senza essere rivista dalla magistratura di sorveglianza. In sostanza parliamo della presunzione assoluta della pericolosità sociale. Andiamo con ordine. Con provvedimento del 29 ottobre 2020, il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha disposto l’applicazione della liberazione condizionale in relazione alla pena dell’ergastolo che gli era stata inflitta con la sentenza emessa dalla Corte d’Assise dell’ 8 giugno 1994 nella quale era stato riconosciuto colpevole di aver fatto parte della criminalità organizzata, in cui si inserisce anche l’omicidio eseguiti per motivi di mafia e consumato il 23 luglio del 1990. Il provvedimento di concessione veniva emesso dal Tribunale di sorveglianza sul presupposto che lo svolgimento della carcerazione fosse stato contrassegnato da effettiva partecipazione alle attività trattamentali, da particolare impegno negli studi universitari e dall’esistenza di un adeguato percorso di revisione critica - che lo aveva portato a riconoscere l’origine della propria condotta omicida nell’inesperienza, ignoranza ed impulsività della giovane età - oltre che dalla fruizione di diversi giorni di liberazione anticipata, dalla ammissione al beneficio dei permessi premio e della semilibertà. Secondo il Tribunale, il giudizio favorevole si fondava sul riconoscimento del sicuro ravvedimento del soggetto, considerata l’irreprensibile condotta, l’ampia revisione critica, l’assenza di altri precedenti o pendenze e di problemi di tossicodipendenza, il conseguimento della laurea in Architettura, come motivazione al proprio riscatto personale e sociale, riconoscendo l’importanza dello studio nel suo processo di riabilitazione, il buon esito dei permessi premio, usufruiti per lungo tempo anche nei luoghi di origine e di commissione dei reati, la disponibilità di una valida attività di lavoro, prorogabile nel tempo e svolta da sempre con notevole impegno, come anche l’attività di volontariato. Infine, la fruizione della semilibertà, eseguita senza rilievi di sorta. Nel provvedimento si faceva inoltre riferimento all’avvenuto adempimento delle obbligazioni civili ed alla indicazione delle circostanze dalle quali evincere l’impossibilità di risarcire integralmente il danno. Il Tribunale pertanto, accolta l’istanza di liberazione condizionale, disponeva la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza di Firenze per gli adempimenti, sicché a partire dal 5 novembre 2020 l’interessato è stato sottoposto alla misura della libertà vigilata che ha avuto inizio regolare con la prescrizione di una serie di obblighi che, a tutt’oggi, non risultano mai violati. La misura avrà termine il 5 novembre 2025, salva concessione della liberazione anticipata. L’avvocato Michele Passione ha presentato istanza di revoca della misura di sicurezza della libertà vigilata già deducendo una probabile incompatibilità costituzionale della norma che determina in misura fissa la durata della misura senza possibilità di una sua revoca anticipata. La richiesta è stata respinta ritenendo la piena legittimità costituzionale della norma. L’avvocato Passione ha quindi proposto appello ben argomentato. Come ha ben sottolineato l’avvocata Veronica Manca sulla rivista on line “Giurisprudenza penale”, il tribunale di sorveglianza ha recepito l’appello, evidenziando che il divieto assoluto, per il magistrato, di anticipare il termine della misura di sicurezza, anche a fronte del venir meno della pericolosità sociale del condannato, rappresenta un automatismo sanzionatorio e si pone, quindi, in contrasto con i principi costituzionali, che, impongono invece - scrivono i giudici nell’ordinanza - che “per ogni misura afflittiva che consegua alla commissione di un reato, la proporzionalità della sanzione e la sua concreta individualizzazione nonché l’adeguatezza della stessa alle esigenze di rieducazione ed alle concrete prospettive di reinserimento sociale”. Prendiamo sempre in prestito il contributo dell’avvocata Manca su Giurisprudenza penale. Secondo il Collegio, composto dal magistrato Valeria Marino e dal presidente Marcello Bortolato, quindi, la disciplina di cui agli artt. 230, co. 1 n. 2) c. p. e 177, co. 1 c. p. colliderebbe con i parametri costituzionali degli artt. 27, co. 3 e 3 Cost., perché, da un lato, impedirebbe al magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso del singolo, anche a fronte del venire meno della pericolosità sociale; dall’altra, finirebbe per attuare un trattamento sanzionatorio uniforme per situazioni assolutamente differenti, con percorsi rieducativi eterogenei e gradi di pericolosità diversi. Come si legge nell’ordinanza del tribunale di sorveglianza, il collegio dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui: 1) stabiliscono l’obbligatoria applicazione della misura della libertà vigilata al condannato alla pena dell’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale; 2) stabiliscono la durata della libertà vigilata in misura fissa e predeterminata; 3) non prevedono la possibilità per il magistrato di sorveglianza di verificare in concreto durante l’esecuzione della libertà vigilata l’adeguatezza della sua permanente esecuzione alle esigenze di reinserimento sociale del liberato condizionalmente e non ne consentono, per l’effetto, la revoca anticipata. L’ordinanza ha disposto l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ha sospeso, quindi, il procedimento in corso sino all’esito del giudizio e incidentale di legittimità costituzionale. Il letto a castello in cella viola i diritti dei detenuti allo spazio vitale di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 14 aprile 2022 La Cassazione annulla la decisione del Tribunale di sorveglianza relativa alla richiesta di un detenuto “in tema di risarcimento da detenzione inumana o degradante”. Il letto a castello è un ingombro che viola i diritti del detenuto allo spazio vitale, il letto singolo no in quanto si può spostare. Così una sentenza della Cassazione che impone un nuovo giudizio al Tribunale di Sorveglianza di Perugia sulla richiesta di un detenuto “in tema di risarcimento da detenzione inumana o degradante”. La Cassazione ha riconosciuto “la necessità di scomputare o meno dalla superficie lorda della camera detentiva - al fine di determinare la quantificazione dei tre metri quadrati utili - la superficie occupata da letti singoli”. Cosa che il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva negato, non ritenendolo funzionale al calcolo dello spazio destinato al movimento dei detenuti in cella, calcolato in almeno 3 metri quadrati. Secondo la sentenza la tipologia di letto “a castello” determina un ingombro che, per le sue particolari caratteristiche oggettive, deve essere sottratto dal calcolo della superficie utile al movimento. I letti singoli non costituiscono un ostacolo, potendosi spostare. Si afferma che, in ogni caso, anche la scelta di scomputare la superficie occupata da arredi “fissi” come il letto a castello e gli armadi non sarebbe conforme ai contenuti giurisprudenziali della Corte Europea dei diritti umani in tema di violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti. Da qui la decisione di annullare l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Sorveglianza di Perugia. Libertà di accesso alle ordinanze di custodia cautelare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2022 La Procura generale della Cassazione ha reso noti i suoi orientamenti sulla comunicazione istituzionale sui procedimenti penali, dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina sulla presunzione d’innocenza. Massima discrezionalità dei procuratori nella diffusione di informazioni sui processi penali, almeno nella determinazione dell’interesse pubblico, come pure nella scelta della modalità (conferenza stampa o comunicato). Drastica contrarietà a interviste su singoli procedimenti o specifiche posizioni processuali. Via libera all’accesso dei giornalisti alle ordinanze di custodia cautelare, non agli atti d’indagine, sia pure non più coperti da segreto. Possibilità di coinvolgimento, sia pure limitata del titolare delle indagini, nella comunicazione pubblica. La Procura generale della Cassazione ha reso noti i suoi orientamenti sulla comunicazione istituzionale sui procedimenti penali, dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina sulla presunzione d’innocenza. La Procura generale ricorda come la stessa direttiva non predetermina il contenuto dell’interesse pubblico da valutare elemento che rende possibile la comunicazione. Si tratta di una decisione del titolare delle prerogative in materia di comunicazione e cioè il capo procuratore, “di conseguenza, una volta operata la scelta, quando del caso anche in forma scritta, essa non può essere sindacata, se non nei casi di palese irragionevolezza”. Stessa impostazione per quanto riguarda la forma di comunicazione, conferenza stampa o comunicato. Quanto ad altre forme, il documento della Procura generale osserva che la comunicazione diretta con il giornalista è certamente lecita e anche doverosa se corrisponde all’interesse pubblico di conoscenza dell’attività dell’ufficio, del suo indirizzo generale, senza trattare della posizione di singoli indagati. Utile quindi la comunicazione sulle iniziative a tutela delle vittime sui particolari rischi legati a forme particolari di criminalità e nuove modalità di commissione di reati. Illecite invece le interviste “specialmente in esclusiva, volte alla trattazione di questioni inerenti singoli procedimenti o specifiche posizioni processuali”. Risposta negativa poi alla possibilità di dare copia ai giornalisti degli atti d’indagine, anche quando non sono più coperti da segreto, mentre potranno essere diffusi agli organi di informazione i testi delle ordinanze di custodia cautelare. Particolare attenzione però dovranno ricevere i dati sensibili e la necessità di tutela delle vittime e delle persone coinvolte nelle indagini. Soprattutto in conferenza stampa, poi, la Procura generale ammette la presenza, al fianco del Procuratore, anche del titolare delle indagini, almeno quando la complessità dell’inchiesta, la particolarità tecnica della materia possono rendere impervia la comunicazione delle persone non pienamente a conoscenza dei fatti. Sulle conseguenti figure di illecito disciplinare la Procura prende tempo però, in attesa della riforma dell’ordinamento giudiziario ancora in discussione alla Camera. Coltivazione della cannabis legale è reato se finalizzata alla vendita di derivati o prodotti vietati di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2022 La condotta finalizzata a ottenere e commercializzare inflorescenze, olio o resina resta penalmente rilevante. La finalità illecita della coltivazione di cannabis legale fa scattare il reato previsto dall’articolo 73 del Testo unico degli stupefacenti. Quindi, come afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 14513/2022, le coltivazioni di varietà ammesse dalla legge del 2016 possono di fatto rientrare nel perimetro della rilevanza penale, se sono destinate a realizzare prodotti e derivati diversi da quelli tassativamente ammessi dalla stessa legge. Il ricorrente che deteneva inflorescenze e altri derivati della cannabis sativa L. alla cui coltivazione era regolarmente autorizzato si era visto riconoscere la causa di non punibilità per la tenuità della detenzione, ma contestava che la Corte di appello avesse però confermato la condanna per aver coltivato la varietà legalmente ammessa. Infatti, la Cassazione chiarisce che si tratta di condotte diverse e che il reato per l’attività di coltivazione sussiste se le piante non sono destinate esclusivamente alla realizzazione di prodotti legali. È quindi il fine per cui si coltiva la cannabis lo spartiacque tra condotta lecita e reato e anche se la varietà della pianta è legale. Soprattutto a nulla rileva che i derivati e i prodotti vietati dalla legge contengano quantitativi di Thc (teratcannabinolo) entro la soglia dello 0,2 per cento. L’unico limite che è invocabile dall’imputato è quello che deriva dal principio di offensività: non rileva penalmente solo la detenzione di derivati della pianta legale che siano totalmente privi di effetto drogante. Pietra angolare dell’attuale decisione è la nota sentenza delle sezioni Unite penali del 2019. In conclusione, se era pacifico che la detenzione a fine di vendita di inflorescenze, olio o resina derivati dalla coltivazione di cannabis legale integrasse il reato dell’articolo 73 dello Stup meno pacifico era stabilire se anche la coltivazione in sé della cannabis legale (con thc al di sotto della soglia) possa essere parimenti sanzionata penalmente. La Cassazione detta quindi la bussola per affermare che rientra nella fattispecie penale la coltivazione “legale” destinata a finalità vietate. La Spezia. Detenuto di 24 anni muore in carcere: ha inalato gas da una bomboletta La Nazione, 14 aprile 2022 I poliziotti hanno dato l’allarme ma per il giovane (che avrebbe finito di scontare la pena nel 2024), soccorso dal servizio sanitario del carcere, non c’è stato nulla da fare. Un detenuto di 24 anni di origini sudamericane, C.A. le sue iniziali, è morto ieri nel carcere di La Spezia. Il decesso “sarebbe riconducibile all’inalazione del gas” tramite una bomboletta. La notizia è stata diffusa dal segretario regionale della Uil-pa Penitenziari Fabio Pagani. “I poliziotti in servizio hanno dato l’allarme ma per il giovane (che avrebbe finito di scontare la pena nel 2024), soccorso dal servizio sanitario del carcere, non c’è stato nulla da fare”, ha spiegato Pagani. Per il sindacalista la tragedia riaccende i riflettori sulla situazione dell’istituto penitenziario di La Spezia: oltre alle “croniche carenze” organiche, “da tempo è privo del direttore titolare e vi sono presenti 180 detenuti”. Non è una novità che la Uil, ricorda Pagani, chieda al Dap di impedire l’utilizzo delle bombolette nelle carceri: “i detenuti molto spesso le utilizzano per ‘sniffare’ gas, ma anche per lanciarle contro i poliziotti e incendiare celle”. Alessandria. Ricorso respinto: incubo per il malato grave di Sla tenuto in carcere di Carlotta Rocci La Repubblica, 14 aprile 2022 Maximiliano Cinieri resta in carcere. Il gip del tribunale di Asti ha respinto anche l’ultima richiesta di scarcerazione per il detenuto, in cella da agosto, affetto da una grave forma di Sla che in pochi mesi lo ha reso gravemente invalido. Sulla richiesta anche il pm si era espresso negativamente. “Non vengono rappresentati fatti o elementi nuovi rispetto alla situazione di Cinieri, verso il quale convergono ormai molteplici pareri, relazioni e commenti, evidentemente inidonei a mutare il quadro cristallizzato dalla perizia medico-legale disposta per valutare la compatibilità delle sue condizioni con il carcere”, si legge nel provvedimento di rigetto firmato dal giudice. Cinieri ha ricevuto la diagnosi definitiva della sua malattia a dicembre, quando si trovava già in carcere, accusato di estorsione e usura: il detenuto è affetto da una malattia neurodegenerativa del I e II motoneurone di tipo midollare e bulbare, una forma di Sla particolarmente grave e fulminante, capace di portare alla morte nel giro di tre, massimo cinque anni. In pochi mesi le sue condizioni sono peggiorate. “Le condizioni di mio padre continuano a peggiorare. Ora non riesce più a spostarsi nemmeno con le stampelle ed è costretto su una sedia a rotelle perché i suoi problemi alle mani si sono aggravate e non riesce più a reggere le stampelle”, racconta la figlia Valeria che insieme alla madre aveva lanciato un appello perché il padre potesse ottenere i domiciliari. Questa era la richiesta dell’avvocato Andrea Furlanetto che assiste Cinieri ma che il giudice, qualche giorno fa, l’ha rigettata per l’ennesima volta. L’avvocato ha presentato una relazione redatta dal medico del carcere in cui si dice, a chiare lettere, che il regime carcerario non è compatibile con le condizioni di salute dell’uomo, posizione diversa da quella presentata dal medico legale incaricato dal gip secondo cui “il detenuto può ricevere in carcere tutta l’assistenza necessaria in relazione alla seppur grave patologia”. Chi ha visto recentemente Cinieri lo descrive come un uomo in grave difficoltà. L’ha incontrato la garante cittadina dei detenuti Alice Bonivardo che ha interessato della vicenda anche il garante regionale. “Questa storia è assurda - dice - Nell’ultima visita ho visto la cella di Cinieri, vive con altre tre persone che lo aiutano e a tutti è evidente la situazione. Oltre al discorso fisico bisogna tenere conto dell’aspetto psicologico: ha ricevuto la diagnosi che è una sentenza mentre si trovava già in carcere ed è assistito dalla psicologa del penitenziario ma non è sufficiente per supportare una persona con una malattia degenerativa di quel tipo”. La garante ha interpellato tutte le figure istituzionali di garanzia. “Anche il giudice cautelare ha potuto vedere le condizioni di Cinieri che si è collegato da remoto alle udienze”, dice. Il gip si dice pronto considerare “eventuali mutamenti peggiorativi delle condizioni di salute del detenuto, al fine di valutare modifiche del regime cautelare”. Per i famigliari del detenuto, però, quei peggioramenti si sono già verificati. “Il giudice non ha tenuto conto dell’ultima relazione che abbiamo presentato perché ha detto che è arrivata dopo l’udienza, ma quella relazione descrive perfettamente tutti i peggioramenti”, spiega ancora la figlia. Per il giudice, che ha ottenuto anche l’avallo del tribunale del riesame di Torino, invece, sussistono tutte le esigenze cautelari per la gravità dei fatti commessi, perché Cinieri è un pluri-recidivo che ha già violato una volta “la misura degli arresti domiciliari nella prima fase del procedimento”. Da allora, però, le sue condizioni sono radicalmente cambiate. Alessandria. Caso Cinieri, dal carcere la protesta di solidarietà di Massimo Coppero La Stampa, 14 aprile 2022 Ora è su una sedia a rotelle, la famiglia lancia una petizione on line. “Mio padre è peggiorato. Ora può muoversi solo su una carrozzina. Non cammina e ha le mani atrofizzate, quindi non potrebbe più portare la stampella. Resta solo da sperare nell’umanità dei giudici”. Valeria Cinieri prosegue la lotta per ottenere la scarcerazione del padre Maximiliano, 45 anni, ex calciatore, condannato in primo grado per usura e estorsione a 8 anni e in attesa dell’appello. Nel dicembre scorso è stata confermata la diagnosi di Sla che lo affliggeva dal 2020. Nelle ultime settimane è stato verificato un rapido decadimento delle sue condizioni cliniche: oltre alle difficoltà di salivazione, e a rischi polmonari, negli ultimi giorni i problemi di deambulazione si sono acuiti. Roberto Carbone, responsabile medico del carcere Don Soria di Alessandria dove è recluso, il 28 marzo scorso ha scritto che Cinieri “Si trova nelle condizioni previste per il rinvio obbligatorio della pena per motivi di salute. Il carcere - ha sottolineato il dirigente sanitario - non è la collocazione idonea per un detenuto con le sue caratteristiche cliniche”. Il giudice Giorgio Morando, autore della sentenza di condanna di primo grado, prima di decidere sulla concessione degli arresti domiciliari ha voluto affidare una perizia al medico legale di Alba Franco Romanazzi, che ha invece ritenuto Cinieri compatibile con la detenzione in cella: il magistrato, sulla base della consulenza ha ripetutamente rigettato le istanze di scarcerazione. Uno dei provvedimenti, non l’ultimo, è stato confermato dal tribunale del Riesame al quale aveva fatto ricorso l’avvocato Andrea Furlanetto. “Mio marito è già stato punito da Dio. Non vi sembra sia abbastanza?” ha scritto in un post su facebook la moglie, Livia Rapè. “Sono sposati da 26 anni, mia madre non può assisterlo e per lei è anche doloroso umanamente non poter essere accanto all’uomo della sua vita” ha aggiunto la figlia. “Non capiamo - dice Valeria - perché si voglia credere solo al dottor Romanazzi e non ai medici del carcere. Pensano che li abbiamo corrotti?”. La solidarietà per Maximiliano corre veloce. È stata lanciata una petizione su Facebook intitolata: “Rimandate Max a casa”. È stata promossa dalla famiglia e ha già raggiunto un centinaio di adesioni. Fino a domenica i reclusi del Don Soria di Alessandria proseguiranno la protesta pacifica di battitura delle grate delle celle con le pentole. La direttrice del carcere, Elena Lombardi Vallauri, ha fatto sapere che “Anche il personale di polizia penitenziaria è solidale con il detenuto malato di Sla”. Entro la fine della settimana il fascicolo di Cinieri sarà trasferito per competenza alla Corte d’Appello, che dovrà fissare una data per il processo di secondo grado. In attesa i magistrati di Torino potranno rivalutare la decisione del giudice di Asti e concedere la scarcerazione. Treviso. “Carne di maiale ai musulmani”, ecco com’è scoppiata la rivolta al carcere minorile di Federico Cipolla La Tribuna, 14 aprile 2022 Le proteste sono riprese in mattinata, e sono state fermate dai poliziotti in tenuta anti sommossa. “I detenuti hanno usato un pretesto per aizzare la protesta”, sostiene il sindacato di categoria. Carne di maiale servita anche ai detenuti musulmani. È questo “il pretesto” per l’innesco della rivolta in atto da mercoledì sera al carcere minorile di Santa Bona, secondo Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. “11 detenuti su 13 hanno utilizzato un pretesto in tempo di ramadan, perché in carcere vengono serviti menù distinti in base alla religione”, riferisce. La protesta è scattata martedì sera, quando 11 detenuti hanno date alle fiamme i materassi, e hanno messo a soqquadro tutto il carcere minorile. Si è alzata una nuvola di fumo nera, visibile a molti metri distanza. L’intervento della Polizia penitenziaria e dei vigili del fuoco ha riportato l’ordine dopo alcune ore. Ma mercoledì mattina la protesta è ripresa, e sono dovuto intervenire gli agenti in tenuta antisommossa. Per Capece bisogna “modificare la legge che oggi prevede che detenuti fino a 25 anni possano continuare a stare ristretti in carceri minorili: una scelta politica sbagliata, che favorisce l’Università del crimine nei minorili, altro che la rieducazione”. Il Sappe denuncia proprio “lo stato di abbandono del personale di Polizia Penitenziaria dell’Istituto penale per minorenni di Treviso”. “Da questi gravissimi fatti, da condannare e che non devono ripetersi, emerge un quadro, per nulla nuovo, ingestibile, fatto di carenze di personale, in particolare nell’area pedagogica, che aprono falle anche sul versante della sicurezza”, sono le parole di Marta Casarin, segretaria generale della Fp Cgil di Treviso, che non appare stupita dall’accaduto e denuncia che “come sindacato, registrate le forti preoccupazioni del personale, abbiamo più e più volte richiamato l’amministrazione della struttura e anche i livelli nazionali ma amaramente senza alcun riscontro”. Napoli. Presentato “Codice Ristretto”, promosso dal Garante dei detenuti della Campania di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 14 aprile 2022 Il Garante Ciambriello: “Un’opera importantissima destinata ai detenuti campani, che può snellire il lavoro di molti: delle carceri, della magistratura di sorveglianza, degli avvocati” Napoli. È stato presentato stamattina, presso la sala Nassirya del Consiglio Regionale della Campania, il “Codice Ristretto”, un opuscolo di informazioni utili sui diritti dei detenuti e sulle modalità con cui tali diritti possono essere esercitati, fornendo consigli pratici sulla vita in detenzione, promosso dal Garante dei detenuti campano, in collaborazione con il Provveditorato campano dell’Amministrazione penitenziaria, l’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane e la Camera Penale di Bologna. Ad aprire la presentazione è stato il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello che ritiene “questa piccola opera importantissima, in quanto snellisce il lavoro di molti: delle carceri, della magistratura di sorveglianza, degli avvocati. Il detenuto leggendo queste poche tabelle è già in grado di comprendere se possiede i requisiti necessari per avanzare richieste di misura alternativa. Non è cosa da poco, specie se si considerano i numeri, in Italia e in Campania, di tutti i soggetti condannati in maniera definitiva”. A prendere la parola, subito dopo, è stato l’onorevole Gennaro Oliviero, Presidente del Consiglio Regionale della Campania, che ha espresso il suo apprezzamento per l’operato del Garante e sull’iniziativa di diffondere nelle carceri l’opuscolo “Codice Ristretto” ha così commentato: “è un opuscolo curato in ogni dettaglio e rappresenta realmente un aiuto, un lavoro di sostegno per la vita in detenzione”. A spiegare, invece, più approfonditamente il contenuto dell’opuscolo è stato l’avvocato Riccardo Polidoro, Responsabile Osservatorio carcere Unione Camere Penali italiane, che ha precisato come “l’opuscolo è composto da tabelle, grazie alle quali il detenuto comprende le informazioni essenziali per l’espiazione della sua pena, agevolando così non solo il detenuto, ma allo stesso tempo anche il Tribunale di Sorveglianza. La Campania è stata la prima regione, ma sono state già sollecitate altre Camere penali, affinché si possa ultimare presto questo lavoro eccellente anche altrove”. Entusiasmo e compiacimento è stato espresso dalla dottoressa Assunta Borzacchiello, Direttore ufficio Detenuti e Trattamento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Campania, che ha spiegato come “non appena è stata ricevuta la bozza del “Codice Ristretto”, il Provveditorato ha immediatamente dato una risposta positiva, acconsentendo anche alla concessione del patrocinio. L’opuscolo è intuitivo, valido e un ottimo strumento per agevolare non solo i detenuti ma anche gli operatori, per questo verrà sempre assicurata la massima collaborazione del Provveditorato campano”. Nel chiudere la conferenza il Garante campano Ciambriello, ha ringraziato, tra i presenti, l’avvocato Angelo Mastrocola, in rappresentanza della Camera Penale di Napoli e dell’associazione “Il carcere possibile Onlus”, il Garante metropolitano di Napoli, Pietro Ioia, il referente dell’associazione “Antigone Campania”, Luigi Romano e i rappresentanti delle Camere penali campane. Reggio Emilia. Carcere, al via il corso su detenzione e persone trans reggiosera.it, 14 aprile 2022 Dal 27 aprile un progetto di formazione per operatori penitenziari. Un percorso di formazione per “predisporre e offrire strumenti conoscitivi e metodologici di sostegno nella gestione delle persone trans che si trovano nella Sezione Orione degli istituti penitenziari di Reggio Emilia”. Consiste in questo ‘Detenzione e persone trans’, che inizierà il 27 aprile ed è promosso dal Comune di Reggio Emilia in collaborazione con gli Istituti penitenziari reggiani e l’associazione Mit-Movimento identità trans e la supervisione della psicologa e psicoterapeuta Margherita Graglia. In programma, fa sapere l’amministrazione, ci sono “tre incontri di formazione dedicati agli operatori penitenziari, a cui si aggiunge, mercoledì 20 aprile, un’anteprima pubblica aperta a tutta la cittadinanza con la proiezione di alcuni cortometraggi del Festival Divergenti, rassegna internazionale di cinema trans”. Presentando il progetto in conferenza stampa, l’assessora alle Pari opportunità, Annalisa Rabitti, spiega che questo percorso di formazione “rappresenta un’azione innovativa pensata per l’accoglienza delle persone trans in carcere, per riuscire a comprendere al meglio i loro bisogni e necessità ed essere in grado di promuovere una maggiore inclusione sociale”. Nel dettaglio, sono previsti “tre moduli formativi da quattro ore ciascuno a cadenza settimanale”, a cui seguiranno “due incontri di follow-up da due ore a cadenza mensile per raccogliere i bisogni emersi, suggestioni e rilanci del percorso”. I primi tre moduli sono in programma per il 27 aprile, il 4 e l’11 maggio, dalle 9 alle 13, al Caffè letterario Binario49 di via Turri 49, in collaborazione con l’associazione Casa d’altri. Civitavecchia (Rm). “La visita di Papa Francesco al carcere è un balsamo di consolazione” laprovinciadicivitavecchia.it, 14 aprile 2022 Le parole del capo dei cappellani delle carceri d’Italia don Raffaele Grimaldi in vista della celebrazione di oggi a Borgata Aurelia. “La visita del Papa al carcere di Civitavecchia, è un balsamo di consolazione della Chiesa, è un asciugare le tante lacrime delle solitudini umane, è uno spalancare il cuore sofferente ai ristretti, alla fiducia e alla speranza; il gesto ricorda che nessuno può essere lasciato da solo in un mare in tempesta”. Lo ha detto all’Ansa il capo dei cappellani delle carceri d’Italia don Raffaele Grimaldi in merito alla visita di Papa Francesco al carcere di Borgata Aurelia, per celebrare la Missa in Coena Domini del giovedì santo. “Siamo grati al Santo Padre per aver scelto, ancora una volta, una periferia esistenziale - ha aggiunto don Grimaldi - un luogo di prossimità per rilanciare al mondo un messaggio di vicinanza e di speranza. Lavare i piedi a dodici prigionieri, chinarsi davanti alle loro povertà e alle loro debolezze, lavare i piedi di coloro che hanno percorso strade di violenza, calpestando i diritti degli innocenti vuole significare per noi operatori un gesto umile, incomprensibile e scandaloso che Gesù buon Pastore, ha consegnato all’umanità. La lavanda dei piedi non è un rito ciclico che si ripete, ma è un atto di grande umiltà per chi lo compie e per chi lo riceve. L’acqua nel catino usato da Gesù, è un vivo richiamo all’acqua battesimale segno di unità e di fratellanza che accomuna anche chi ha commesso reati, perché nessuno può essere escluso dalla famiglia di Dio. Nonostante la stanchezza fisica e le sofferenze nascoste, Papa Francesco non si stanca mai di percorrere strade polverose, fangose, e accidentate per andare a cercare ciò che è perduto e non si vergogna di sporcarsi le mani per lavare i piedi ai tanti Giuda condannati dalla giustizia umana, ma salvati dalla Misericordia di Dio. Il Cristo sofferente non è venuto per i giusti ma per i peccatori”. Giovanni Bianconi e la stagione del terrorismo: viaggio nelle ferite d’Italia di Gianni Santucci Corriere della Sera, 14 aprile 2022 Esce oggi in libreria il saggio di Giovanni Bianconi “Terrorismo italiano” (Treccani Libri, pagine 120, euro 10). Le stragi, le vittime. Da Piazza Fontana all’omicidio di Marco Biagi: esce giovedì 14 aprile da Treccani il saggio del giornalista. Con un testo dello scrittore Edoardo Albinati. Forse oggi, aprile 2022, con i missili e i bombardamenti, i carri armati e le fosse comuni che tornano a incombere ai confini dell’Europa, qualcuno avrebbe una qualche reticenza, una perplessità, o solo una maggiore attenzione nell’usare la parola guerra. Ma nelle traslazioni del lessico, tra mutazione del contesto storico e cambiamenti delle motivazioni politiche ed esistenziali degli individui, si rintraccia a volte un senso profondo, e inquietante. Avviene ora, se si rilegge il verbale sottoscritto da Cesare Battisti appena tre anni fa, marzo 2019, nel carcere di Oristano, subito dopo l’estradizione dalla Bolivia: “Chiedo scusa pur non potendo rinnegare che in quell’epoca per me e per tutti gli altri che aderirono alla lotta armata si trattava di “una guerra giusta”“. E da qui la parola slitta, passando dall’universo ideologico dei carnefici a quello dell’innocenza delle vittime. Tra loro c’è Alberto Torregiani, in sedia a rotelle dal 16 febbraio 1979, ferito da una pallottola sparata da suo padre, il gioielliere Pierluigi, che quel giorno cercò di difendersi dall’agguato in cui proprio i Pac di Battisti lo trucidarono in mezzo alla strada, a Milano. Il libro che Alberto ha scritto qualche anno fa si intitola Ero in guerra ma non lo sapevo. E così si completa il corto circuito che apre un abisso di senso tra la guerra di oggi, la “guerra giusta” di chi sparava e la guerra di chi cadeva o moriva senza sapere. Conta 350 morti e oltre mille feriti la storia delle stragi e della lotta armata tra il 1969 e i primi anni Duemila, da piazza Fontana all’omicidio di Marco Biagi. “Una storia conclusa ma sulla quale, per gli effetti e le tragedie che ha provocato, l’Italia fatica a scrivere la parola “fine”“, riflette Giovanni Bianconi nelle ultime righe del libro Terrorismo italiano (Treccani Libri, in uscita oggi). E l’aspetto chiave sta nel numero di pagine, appena 120, poche ore di lettura, per un racconto che dal 2021, con la richiesta di estradizione alla Francia per dieci terroristi ancora latitanti (operazione “Ombre rosse”), riprende da piazza Fontana, e poi risale negli anni e nelle stagioni per ricongiungersi all’oggi. Cronaca e storia, una “guida” nel senso più alto del termine, in cui la sintesi narrativa non produce semplificazione, ma densità, e ogni fatto o grumo di fatti sta dentro una chiave di lettura e interpretazione. Come gli intrecci tra l’eversione nera e gli apparati istituzionali, che sono poi emersi a livello giudiziario in tutti gli attentati neofascisti tra 1969 e 1974, ma “la sensazione che uomini in divisa o esponenti degli apparati avessero contribuito a organizzare la “strage di Stato”... fu pressoché immediata negli ambienti dell’estrema sinistra. E le susseguenti (quanto meno parziali) conferme contribuirono a rafforzare l’idea che solo attraverso la creazione di forze combattenti clandestine si potesse rispondere a quel tipo di provocazioni”. Allo stesso modo l’omicidio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972), “segna una tappa importante nella storia del terrorismo perché dimostrò la disponibilità all’omicidio politico negli ambienti della sinistra rivoluzionaria, sulla quale i gruppi clandestini già all’epoca esistenti e operanti, come le Brigate Rosse, poterono contare per il reclutamento”. Sono frammenti di risposta, solidi, fondati, a chi oggi si chiede: “Come è stato possibile?”. Quindici capitoli (più un prologo e un epilogo) che sono come quadri. I fatti, gli strumenti per la lettura dei fatti. Anche i più stratificati: il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, dopo il quale lo Stato troverà la linea della repressione che porterà alla sconfitta del “partito armato”, ma che nel breve periodo innesca una sorta di rilancio della violenza. “Il mare agitato dei movimenti del 1977, in cui gli scontri di piazza sono diventati armati su entrambi i fronti, dei manifestanti e delle forze dell’ordine, ha consegnato nuove reclute delle organizzazioni terroristiche”, alimentando “un’impennata di azioni di sangue”. Eccole, le chiavi interpretative che offrono a chi leggerà questo libro (che dovrebbe entrare tra i libri di testo delle ultime classi delle scuole superiori) i punti di riferimento per la comprensione, mentre il racconto mostra il film accelerato di un Paese che nel passare degli anni sbanda, dall’omicidio dell’operaio Guido Rossa a quello del vertice della magistratura, il vice presidente del Csm Vittorio Bachelet (12 febbraio 1980). Nella maggioranza di queste sequenze storiche, Bianconi (inviato del “Corriere della Sera” e tra i massimi esperti in Italia di terrorismo rosso e nero) indica il filo che risale al presente, a quei militanti ancora latitanti in Francia, persone in “fuga non solo dalla pena, ma anche dalle proprie colpe”, e soprattutto gravate “da un passato più grande delle loro esistenze, che ha pesato e continua a pesare sulla storia d’Italia”. L’ingresso in questo racconto avviene attraverso a, nel quale le chiavi di lettura sono invece più nette e spietate, e ruotano ancora intorno ad alcune parole (il titolo appunto è: Lessico degli anni Settanta). Ad esempio, gli “obiettivi”: “Rispetto alla dottrina classica che giustificava o addirittura esaltava il regicida... il terrorismo di quel periodo sceglie perlopiù obiettivi maneggevoli, intercambiabili, spesso inermi e di non particolare rilievo o perfettamente sconosciuti”. E dunque le parole di chi uccideva sono state uno strumento, una sorta di altra faccia delle pallottole, per costruire un senso aberrante delle azioni: di quegli obiettivi occorreva “esaltare con le contorte rivendicazioni dei volantini il rango e il valore simbolico”. Ancora il lessico, a saperlo leggere e ascoltare, rivela contorsioni e contraddizioni: “La parola più vituperata, da destra come da sinistra, è “borghese”. Per indicare infine il termine che a decenni di distanza provoca ancora sgomento, Albinati sceglie una giornata, il 28 maggio 1980, quando a Milano la Brigata XXVIII Marzo uccide il giornalista del “Corriere” Walter Tobagi e a Roma i Nar assassinano il poliziotto Franco Evangelista. Un omicidio “rosso” e uno “nero”, accomunati da una “totale gratuità: attenzione, non qui nel senso di inutilità (tutte le azioni dei gruppi armati senza eccezione furono inutili), ma proprio gratuità, cioè, arbitrarietà assoluta, quasi capriccio, accompagnato da un maniacale puntiglio dimostrativo”. Migranti. Nel mare che culla la vita ma uccide chi cerca fortuna: un dramma che non fa più notizia di Maurizio Di Fazio Il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2022 Una tragedia inesauribile. Mentre i riflettori del mondo sono puntati sulla terribile guerra in Ucraina, migliaia di migranti continuano a trovare la morte mentre cercano di approdare sulle nostre coste. In fuga da altri conflitti, persecuzioni, barbarie. Il mare che uccide, per il cinismo e l’indifferenza spirituale di certi uomini. Il funesto elenco viene aggiornato senza soluzione di continuità. Mentre scriviamo è partito l’ultimo allarme dell’Ong Sea Watch3 che ha tratto in salvo numerose persone alla deriva su un gommone imbarcante acqua. E come sempre in questi casi si allunga la lista dei dispersi, delle vittime dell’ennesima cronaca di un naufragio annunciato. Donne, bambini, giovani uomini. Le ustioni, le ipotermie, i morsi atroci della fame e della sete. Quelle ferite fisiche e psicologiche che chissà se si riuscirà mai a sanare. Il diritto a un’esistenza decorosa calpestato. Lampedusa resta un fronte caldissimo: d’estate come d’inverno, in primavera o in autunno. Le strutture di primissima accoglienza rigurgitano di disperati scappati dall’inferno o dal purgatorio. Il loro sbarco è sovente osteggiato, differito, dimenticato per propaganda, “sicurezza interna” o freddi calcoli demografici e geo-politici. Arrivano in scala massiccia dalla Libia, dalla Tunisia, dal resto dell’Africa, dall’Afghanistan riconquistato dai talebani, quelli non intercettati prima dalle guardie costiere. Sognano di raggiungere l’Europa passando per la nostra penisola. L’anno scorso sono deceduti in 1.581 in questo modo, su questa rotta, più di 600 rispetto all’anno precedente. Questo per attenerci ai numeri ufficiali, che non tengono conto delle sciagure fantasma: il Mediterraneo centrale come una grande tomba a mare aperto e il 2022 lo sta confermando pesantemente. Il problema è che non fa più notizia: un dramma schiacciato dal dramma “maggiore”, il cataclisma bellico nel cuore del Vecchio continente, ma non esistono profughi minori. Cecilia Strada di Emergency ha suonato la sveglia. Le ha fatto eco Papa Bergoglio, indirizzandosi direttamente a Dio: “Aiutaci a riconoscere da lontano i bisogni di quanti lottano tra le onde del mare, sbattuti sulle rocce di una riva sconosciuta”. Il pontefice ha pregato per loro: “Fa’ che la nostra compassione non si esaurisca in parole vane, ma accenda il falò dell’accoglienza, che fa dimenticare il maltempo, riscalda i cuori e li unisce” e ha paragonato le vicissitudini di San Paolo, accolto a Malta dopo un naufragio come sostengono gli apostoli, alle traversie dei migranti contemporanei. Per questi ultimi il trattamento può essere molto differente: “San Paolo e i suoi compagni di viaggio trovarono ad accoglierli gente pagana di buon cuore, che li trattò con rara umanità, rendendosi conto che avevano bisogno di rifugio e assistenza. Nessuno conosceva i loro nomi, la provenienza o la condizione sociale. Sapevano soltanto una cosa: che avevano bisogno di aiuto. Non c’era tempo per le discussioni, i giudizi e le analisi. Era il momento di prestare soccorso”. Ma il mare è soprattutto la culla di ogni forma di vita, l’humus della civiltà umana. Qualche settimana fa sono stati svelati i vincitori della prima edizione di un premio organizzato, tra gli altri, dalla commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco. “Donna di mare 2022” è stata consacrata Marta Musso, una ragazza di 23 anni nata a Lerici e cresciuta a Genova, che ha proposto Possea. Tutto ha origine dalla sua passione per il plancton: andare in giro per le spiagge e non solo, a bordo di un vecchio furgone giallo tedesco riadattato in laboratorio, per descrivere ai bambini la vita segreta e minuscola del mare. “Il plancton è la mia passione e la mia specializzazione - ha spiegato Marta - L’idea è partire dal piccolo e dall’invisibile, qualcosa che conosciamo poco ma che in realtà è molto importante per noi e per il nostro pianeta, per raccontare il mare come grande sistema”. Apologia del plancton, “sia microalghe che zooplancton, ci sono microanimali che vivono sempre nel plancton e altri invece che sono i ‘cuccioli’ di altri animali come pesci, stelle marine e granchi. Un mondo molto vasto, che produce il 50% dell’ossigeno che respiriamo”. Al premio hanno partecipato molte giovani donne, forti di iniziative innovative per la tutela marina. Ora la vincitrice potrà concretizzare il suo progetto, grazie a un programma di mentorship guidato da Francesca Santoro, la promotrice italiana del cosiddetto “Decennio del Mare”, varato l’anno scorso proprio dall’Unesco. Il capolinea è fissato al 2030, entro quella data bisognerà mettere in campo azioni tangibili di protezione e rinascita dell’universo liquido blu con un unico grande network, un fronte comune che unisca scienziati, cittadini, imprese e istituzioni: connessioni di ricerca, educazione e informazione, lotta al cambiamento climatico e per il ripristino della biodiversità, degli ecosistemi di sotto. Cavalcare il vento, invertire la rotta per un futuro sostenibile. L’obiettivo è un mondo più sano e più pacifico, che ripudi anche le ecatombi di mare. Perché non si può morire per inseguire un avvenire migliore, la dignità e la libertà non andrebbero mai sommerse. Un’onda alla volta, per l’oceano di domani. La guerra in Bosnia non ci ha insegnato nulla: aggrediti e aggressori non sono uguali di Guido Rampoldi Il Domani, 14 aprile 2022 Trent’anni sono un periodo sufficiente perché un paese faccia i conti con la storia e con le proprie colpe. In questi giorni il trentesimo anniversario dell’inizio della guerra di Bosnia offriva appunto una di queste occasioni. Ma i media e la politica non l’hanno colta, forse distratti da questioni più urgenti, forse per evitarsi imbarazzi. Eppure non sarebbe stato un esercizio inutile, avrebbe chiarito questioni irrisolte che il conflitto in Ucraina ripropone. Allora come oggi, la tecnica per costruire una narrazione falsa ma conveniente rimane identica. Come in seguito confermarono inequivocabilmente le sentenze del Tribunale dell’Aja, la guerra di Bosnia fu una guerra d’aggressione, organizzata e diretta da Serbia e Croazia con l’obiettivo di spartirsi la repubblica aggredita. Se l’Italia e l’Europa avessero preso atto di questa verità sarebbero stati in obbligo di schierarsi con le vittime contro gli aggressori. Ma accadeva che le vittime, i bosniaci, fossero per gran parte musulmani; mentre gli aggressori erano tutti cristiani (più esattamente, nazionalisti che usavano la fede come fondamento della propria identità etnica). E l’idea di difendere i musulmani dai cristiani, adottando azioni forti e accettando i rischi conseguenti, era assai impopolare, nelle redazioni e nei partiti, e anche nel governo. Di conseguenza si virò su una narrazione che da una parte riconosceva le colpe della Serbia ma dall’altra attribuiva l’origine del conflitto a una storica disponibilità all’odio etnico che, si sosteneva, affliggeva tutti i belligeranti. Questa formidabile capacità di odiare il vicino era in genere desunta dalla letteratura del primo Novecento, ma non trovava alcuna conferma nelle dinamiche demografiche, da cui risultava, al contrario, che quasi un terzo dei matrimoni celebrati a Sarajevo e a Mostar alla vigilia della guerra erano misti. Nondimeno raccontare la Bosnia come terra di odiatori furibondi serviva a suggerire che anche le vittime fossero in qualche modo colpevoli. E se tutti erano in qualche modo colpevoli, l’Europa era assolta dal dovere di schierarsi. Equivalenza delle colpe - Ricorre a una tecnica simile chi di fronte alla guerra in Ucraina deplora l’invasione ma allo stesso tempo costruisce una narrazione nella quale anche gli aggrediti sono colpevoli: Volodymyr Zelensky un invasato irresponsabile, l’esercito ucraino uno strumento della Nato, la Nato il burattinaio che ha costruito le premesse del conflitto… non ci sono innocenti, solo colpevoli. Ma il fatto che comportamenti Nato e ucraini furono provocatorii, o che anche la Bosnia recluse nemici in un lager, non cambia la sproporzione tra le responsabilità dell’aggressore e le responsabilità dell’aggredito. Se però questa sproporzione viene omessa, insinuare l’equivalenza delle colpe permette una narrazione finto neutralista in cui le guerre sono tutte uguali, un unico mostruoso mostro mitologico, astratto, impersonale, precipitato del male che si annida in ogni società. Dunque se muoiono civili ucraini la colpa non è tanto di chi li ammazza, ma della guerra, lo schifosissimo Cerbero che i suoi servi, i guerrafondai, nutrono inviando armi ad una delle parti. Il dilemma delle armi - inviarle o no? - accomuna le due guerre. Quando in Bosnia si cominciarono i combattimenti le Nazioni Unite imposero un embargo sulle armi che colpiva solo gli aggrediti, l’unico belligerante che non era in grado di riceverle (solo sul finire del conflitto arrivarono a Sarajevo e Tuzla forniture clandestine turche). Bill Clinton lo fece presente a francesi e britannici, membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Ma quelli risposero che non erano disponibili a togliere l’embargo, o a correggerlo. Argomentarono “che più armi avrebbero alimentato il bagno di sangue; ma in privato (…) obiettavano che una Bosnia indipendente sarebbe stata una presenza “innaturale”, in quanto unica nazione musulmana in Europa (…). In particolare Mitterand era stato schietto nel dire che la Bosnia non apparteneva all’Europa, e anche alti dignitari britannici parlavano di una dolorosa ma realistica restaurazione dell’Europa cristiana” (Taylor Branch, The Clinton Tapes). In sostanza gli europei attesero che i mal armati bosniaci si arrendessero, di modo che il continente non fosse più sporcato da un paese a maggioranza musulmana. Questo calcolo fu portato avanti utilizzando lo stemma delle Nazioni unite, ovvero l’istituzione che impersona l’aspirazione alla pace della comunità internazionale, e si ammantò dei pretesti morali prestati dal pacifismo, che dunque fu usato e si lasciò usare. Ingenuità? Semmai pigrizia intellettuale ed etica. Non occorre uno sforzo particolare per intendere che quando un esercito forte attacca un esercito debole, come oggi in Ucraina, l’equidistanza, e la conseguente inazione, assecondano l’aggressore. Più che di equidistanti a rigore si dovrebbe parlare di poco distanti. La loro distanza dal forte e dal debole non è affatto eguale: sono vicini al primo e lontani dal secondo. È una scelta, ma andrebbe dichiarata nei suoi termini reali, e con pudore, cioè rinunciando a maschere morali. La guerra di Bosnia finì quando un riluttante Bill Clinton mise in campo l’aviazione americana, formalmente Nato. Alcuni governi europei bofonchiarono in segreto e applaudirono in pubblico. Esclusa la sinistra radicale, tutti i partiti apprezzarono. Ma che la loro scoperta dei diritti umani fosse un po’ posticcia lo confermò subito dopo l’indifferenza con la quale ignorarono la pulizia etnica lanciata dall’esercito croato nella Krajina serba e secessionista (un’eccezione: Lamberto Dini, all’epoca ministro degli Esteri). Cominciò ad essere chiaro che la fine del Blocco sovietico non aveva migliorato di molto il pianeta. Però aveva favorito un allineamento in politica estera tra culture politiche che è stata la costante di questo trentennio. Da qui le scelte simili operate dalla sinistra e dalla destra: entrambe assecondarono il disfacimento della federazione jugoslava; furono egualmente poco distanti nella guerra di Bosnia; fecero propri idee e pregiudizi propalati dalla “guerra al terrorismo” di Bush; seguirono con blande perplessità l’avventura americana in Iraq; condivisero con gli americani il terribile fiasco in Afghanistan si arruolarono nella guerra neo coloniale di Nicolas Sarkozy in Libia; vararono politiche simili sui migranti in arrivo dal mare. Ora la guerra dell’Ucraina pare aver avviato un disallineamento. In apparenza il sistema politico non è cambiato, tanto meno nei suoi vizi strutturali: l’assenza di sistemi concettuali che favoriscano letture originali e distinte; la diffidenza della politica professionale verso l’elaborazione intellettuale, inadatta alla comunicazione televisiva; la selezione dei mediocri praticata a scapito delle teste pensanti. Però adesso si assiste a una inedita scomposizione della sinistra e della destra, trasversalmente divisi in favorevoli e contrari all’invio di armi all’Ucraina. Insieme al trentennio della cosiddetta pax americana possiamo cominciare ad archiviare anche la geografia politica tradizionale? Nei duelli rusticani messi in scena dalla tv dell’Alterco al momento non affiorano i fondamenti di un nuovo pensiero politico. E finché non ascolteremo una parola onesta su quel che accadde in Bosnia, saremo portati a credere che qualcosa non torni in certi scontri tra chi da trent’anni fa si sottrae alla verità. Nicaragua. Un corso di nuoto per non morire nel fiume degli immigrati di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 14 aprile 2022 Nella città di Esteli un centro fornisce corsi gratuiti a chiunque vuole partire verso nord. Tra il gennaio 2021 e febbraio del 2022 sono stati intercettati 111.295 migranti alla frontiera degli Stati Uniti. Imparare a nuotare per non morire. Donne travolte da un fiume in piena, trascinate dalle correnti che possono essere impetuose. Magari al freddo, di notte, al buio, aggrappate a una fune che ci lega ad altre persone, impaurite e stanche, che non reggono lo sforzo di un viaggio che non è una gita di piacere ma una scelta obbligata carica di rischi. Ai tempi dell’immigrazione di massa, irregolare e clandestina, ci si adatta a tutto. C’è chi parte e c’è chi prepara gli altri a questo salto verso una nuova vita degna di essere tale. Non parliamo dei “coyotes”, i cinici sfruttatori di un dramma su cui lucrare. Ma gente esperta, che conosce cosa significhi camminare giorni e notti per decine di chilometri affrontando i pericoli di una giungla o solo attraversare un fiume. Così, a mani nude, senza giubbotti salvagente o qualcosa che ti regga a galla. Gente che ti aiuta e ti prepara. Accade in Nicaragua, nella città di Esteli, 150 chilometri a nord di Managua. Dal 2018, dopo l’ondata repressiva del regime di Daniel Ortega che ha spezzato nel sangue e con il carcere le proteste che chiedevano un cambio e libere elezioni, oltre 30 mila uomini e donne hanno deciso di fuggire. La maggioranza ha trovato rifugio nel vicino Costa Rica. Ma un’altra fetta di popolazione ha tentato il grande salto verso gli Usa. Tra il gennaio del 2021 e il febbraio del 2022, 111.295 migranti sono stati intercettati alla frontiera sud degli Stati Uniti, secondo il Bureau delle Dogane. Nel solo mese di febbraio scorso ben 13.295 nicaraguensi sono stati arrestati; l’anno prima erano stati solo 706. L’agenzia France Presse racconta della nascita a Esteli di un centro di preparazione al viaggio della speranza. Preparazione fisica, soprattutto. Con 30 anni di esperienza alle spalle, il professore Mario Venerio fornisce dei corsi gratuiti di nuoto a chiunque voglia partire verso nord. Oltre a imparare a destreggiarsi in acqua insegna a restare a galla, le principali tecniche di sopravvivenza e cosa fare se devi soccorrere qualcuno che ti è vicino. Hanno risposto in 50. Tutte donne. L’iniziativa non è rimasta segreta. Al contrario: è stata pubblicizzata sui social e sulla rete dopo che almeno quattro immigrate, racconta l’agenzia di stampa francese, sono morte affogate mentre tentavano di attraversare il Rio Grande, l’ultima frontiera naturale che divide lo stato messicano di Coahuila dal Texas. “Con questo corso”, spiega Venerio al suo piccolo gruppo di aspiranti nuotatrici che si preparano al viaggio, “di fronte a un incidente tragico vi potete salvare e aiutare anche chi si trova in difficoltà”. Le giovani donne, quasi tutte madri, abbandonate dai loro uomini, senza lavoro e senza sostegni, faticano a sfamare i figli. Non hanno molte scelte. In Nicaragua scarseggiano gli impieghi, pochi ti aiutano, te la devi cavare da sola. Partire è una necessità; un obbligo se non vuoi soccombere. Ma devi trovare fiducia in te stessa. “Questo corso”, ammette all’Afp Martha Martínez, 42 anni, decisa a raggiungere gli Usa, “mi ha insegnato a vincere la paura”. Per fortuna è gratis. Perché il viaggio costa. Solo il “coyote” ti chiede 5 mila dollari che salgono a 14 mila se ti propongono un passaggio in aereo. L’anticipo arriva di solito dai parenti che già si trovano negli Stati Uniti oppure è ricavato dalla vendita dei pochi oggetti che possiedi. Il resto è un salto nel buio. Monti su un autobus di linea, superi la frontiera con il Guatemala dove vieni presa in consegna dal trafficante che hai già contattato via internet. Gli versi il pattuito e inizi il viaggio che entra in Messico e risale verso il nord. Nascosta in camioncini e automobili. I pericoli sono in agguato. Puoi essere fermata, rapita, tenuta in ostaggio da altre bande che conoscono i percorsi e fanno razzia di chi li affronta magari di notte, senza garanzie e protezioni. Alla fine, se superi tutti gli imprevisti e sei ancora in forze, devi affrontare l’ultimo ostacolo. Il fiume. Il Rio Grande. Attraversarlo non è facile. Dipende dalla stagione e dagli orari. Poi, natura a parte, è sorvegliato, battuto dalle pattuglie che ti aspettano dall’altro lato del Messico. “Fa paura”, dice Wilmer Sanchez, 36 anni, che ammette di aver rinunciato proprio davanti a quel tratto d’acqua scuro e pieno di correnti. Adesso ci riprova; è qui, tenta di trovare coraggio con il corso intensivo di nuoto. Le altre che attendono di entrare in piscina si scambiano informazioni e notizie. Tutte sono piene di speranza. Sanno cosa le aspetta. Perché conoscevano chi ce l’ha fatta e chi è affogata. Altre giovani madri, spesso laureate, mediche e ingegnere senza lavoro. Partite per ricominciare un’altra vita. Uccise all’ultimo perché non sapevano nuotare. Proprio dal fiume che le divideva dal grande sogno.