L’iniziativa di Aiga: i giovani avvocati entrano nelle carceri italiane di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 13 aprile 2022 Oggi l’Associazione italiana giovani avvocati visita 19 istituti penitenziari in tutta Italia: “La pena deve tendere alla rieducazione”. Un viaggio da Nord a Sud, senza tralasciare il Centro, per conoscere più in profondità le esigenze e le emergenze del pianeta carcere. Ha questo obiettivo la visita organizzata per domani dall’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) in diciannove istituti penitenziari. I rappresentanti della giovane avvocatura faranno il loro ingresso contemporaneamente, a partire dalle 10.30, grazie alla collaborazione del Dap e del ministero della Giustiziano che hanno rilasciato le relative autorizzazioni. Le carceri interessate sono quelle di Pescara, Melfi, Reggio Calabria Arghillà, Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Udine, Regina Coeli - Roma, Cassino, Casa Circondariale femminile Pontedecimo Genova, Milano Bollate, Ancona, Campobasso, Torino, Bolzano, Spoleto, Venezia, Barcellona Pozzo di Gotto, Palermo e Foggia. L’iniziativa è la prima dopo la creazione, nello scorso mese di febbraio, dell’Onac (Osservatorio Nazionale Aiga sulle carceri). L’organismo ha l’intento, come riferisce il presidente Aiga, Francesco Paolo Perchinunno, “di portare alla luce quella parte del sistema giustizia e del sistema sociale troppo spesso dimenticato, e che, invece, si deve imporre all’attenzione di uno Stato che si voglia definire civile”. Il numero uno dell’Aiga sarà presente a Roma, a Regina Coeli, con la senatrice Angela Anna Bruna Piarulli (M5S) ed il deputato Jacopo Morrone (Lega), ex sottosegretario alla Giustizia. “Abbiamo avuto - dice l’avvocato Perchinunno - l’opportunità di accedere contemporaneamente in tutte le regioni d’Italia all’interno degli istituti penitenziari. L’Onac è il primo osservatorio a vantare 130 sedi su tutto il territorio nazionale. Questa è la nostra peculiarità ed il nostro punto di forza in quanto ci permetterà di garantire una reale e concreta mappatura di tutti gli istituti penitenziari. Il nostro obiettivo è quello di sensibilizzare opinione pubblica e legislatore sull’importanza di avviare in Italia un serio dibattito sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, per dare effettività al principio costituzionale di rieducazione della pena, per la dignità di detenuti e del personale di polizia penitenziaria. Senza tralasciare, al tempo stesso, la sicurezza del nostro Paese”. Quanto accade negli istituti penitenziari non può essere considerato qualcosa di avulso dalla realtà quotidiana del Paese. “Il “sistema carcere” - prosegue Perchinunno - deve iniziare ad essere, attraverso l’analisi e lo studio non solo e soltanto della condizione dei detenuti, ma anche dell’insieme delle strutture e sovrastrutture che ne regolamentano l’attività. È un tema centrale dello Stato di diritto quale è quello italiano. “Per questo motivo al centro dell’attenzione dello studio e dell’intervento dell’Onac saranno analizzati i vari aspetti del sistema penitenziario, non solo con riferimento alle criticità, innegabili ed esistenti ormai da troppo tempo all’interno degli istituti, ma anche a quei profili positivi e di effettiva realizzazione del concetto di rieducazione sociale del condannato, senza dimenticare di porre l’accento sulle condizioni lavorative ed umane di tutti gli operatori del sistema penitenziario, che ben meritano attenzione”. “Siamo convinti che soltanto attraverso il raggiungimento di un equilibrio, che consideri tutte le parti coinvolte nel processo rieducativo, sia possibile l’effettiva realizzazione non solo del dettato costituzionale, ma anche una concreta tutela della dignità umana, che si tratti di detenuti, polizia penitenziaria ed operatori in generale”. “La Rems non è un surrogato dei manicomi criminali” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 13 aprile 2022 Franco Corleone: “È necessario mantenere il numero chiuso, ma va rimodellata”. “Il problema delle Rems non sono tanto i numeri, ma il tema è più complesso, stanno aumentando le perizie che spesso sono inaccettabili per qualità e approfondimento e sono moltissime le misure di sicurezza provvisorie rispetto a quelle definitive e questo mette difficoltà gli psichiatri”. L’ex commissario governativo per il superamento degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari), Franco Corleone, prova a sintetizzare i nodi aperti che rendono sempre più urgente una riforma delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Procura e camera penale hanno posto l’accento sui numeri della Rems di Pergine ritenuti insufficienti (sono 10 in tutto, sia per Trento che per Bolzano) e sul problema dei troppi detenuti in carcere con problemi psichiatrici. “Le persone che in carcere manifestano problemi di salute mentale è perché non sopportano la condizione carceraria, ma non hanno patologie bensì problemi comportamentali - chiarisce. Nella Rems di Pergine non ci sono particolari problemi legati alle liste d’attesa. Anche i magistrati devono capire che le Rems non sono un surrogato degli ex Opg”. Il numero chiuso per Corleone ha un senso. “Se in una struttura avessimo un sovraffollamento non ci sarebbe più lo sviluppo terapeutico necessario. La Rems è l’ultima ratio e ci devono andare solo le persone che hanno disturbi mentali e sono state prosciolte perché incapaci. È necessario mantenere un numero chiuso”. Corleone ricorda quello che definisce “il bubbone” di Castiglione delle Stiviere: “Abbiamo 160 persone ospiti della struttura e il 40% è rappresentato da misure di sicurezza provvisorie, questo crea le liste d’attesa, poi ci sono le perizie che largheggiano, bisogna intervenire”. La Rems secondo il politico che, fa parte dell’Osservatorio sulla chiusura degli ex manicomi criminali, “va rimodellata”. “Continuo a ritenere che abbiamo fatto una rivoluzione gentile - riflette - ma alla luce anche della sentenza della Corte Costituzionale serve una riforma”. Secondo Corleone la via maestra dovrebbe essere quella di arrivare a un giudizio per tutti e poi dopo la condanna affrontare il problema della destinazione, “perché - precisa - non tutte le persone hanno la stessa patologia”. Infine ricorda la proposta 2939 presentata alla Camera dei Deputati da Riccardo Magi “che ha raccolto l’elaborazione della proposta dalla Società della Ragione e da molte altre associazioni e scioglie i nodi legati a vecchi principi affermando nuove categorie legate alla legge 180 per cui la libertà è terapeutica”, analizza. “Dopo 90 anni si potrebbe anche dire basta al codice Rocco”. In che senso? “Mettere in campo una riforma radicale che elimini la non imputabilità e stronchi alla radice le contraddizioni”. “Carcere reietto: è sofferenza, discarica e perdita di valore” di Viviana Lanza Il Riformista, 13 aprile 2022 Intervista alla sociologa Valeria Verdolini di Antigone. Per numero di reati, per numero di persone in carcere anche in attesa di giudizio, per livello di sovraffollamento, per carenza e vetustà degli spazi, Napoli e la Campania sono in cima alle classifiche nazionali. Se a questo aggiungiamo lo scandalo dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere commessi da agenti ai danni di detenuti, e per cui c’è un procedimento penale in corso, è evidente che il tema carcere è un tema centrale. Ma che istituzione è oggi il carcere? Quali sono le funzioni che svolge e come sono organizzati i suoi spazi? Ne parliamo con Valeria Verdolini, ricercatrice in Sociologia e componente dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone, che a Napoli ha presentato uno studio su questi temi contenuto nel libro “L’istituzione reietta”. “Nella letteratura scientifica e nel senso comune si usa il termine “istituzione totale”, mutuandolo da Goffman, che presuppone il carattere inglobante, che tende a coinvolgere direttamente tutte le 24 ore della persona detenuta in custodia. La mia analisi è che le trasformazioni recenti dettate da diversi fattori, come l’aumento della povertà, una certa cultura populista, una domanda più giustizialista, alcuni fattori interni come la crisi pandemica e l’aumento delle fragilità abbiano generato un incremento della conflittualità associata e fanno propendere per una definizione differente. Il modello rieducativo può essere associato solo a quella parte di detenuti che sta scontando pene più lunghe, altrimenti diventa una pena retributiva che non opera delle trasformazioni vere nelle persone”. Carcere come istituzione reietta. In che senso? “Uso termine reietta con tre accezioni: una si riferisce al carcere che accoglie una sofferenza sociale; una seconda al carcere come discarica sociale che raccoglie persone che fanno fatica ad essere assorbite nel corpo sociale tradizionale; una terza che fa riferimento al termine reietto inteso come togliere valore, perché il passaggio attraverso il penitenziario è un passaggio che prevede anche un peggioramento sostanziale delle condizioni di vita e delle relazioni”. Rispetto al passato si sente più spesso parlare di carcere, ma le iniziative per migliorarlo appaiono ancora sporadiche, limitate e, almeno in Campania, la situazione resta critica come sempre... “Dipende da quale angolazione guardiamo il problema. Per alcuni aspetti condivido questa lettura, per altri aspetti dobbiamo rilevare come il carcere abbia vissuto trasformazioni repentine negli ultimi anni. Pensiamo all’impatto che ha avuto la sentenza Torreggiani del 2013 (la Corte europea ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, ritenendo che le condizioni di vita dei detenuti fossero paragonabili a trattamenti inumani e degradanti, ndr) sul sovraffollamento e sulle misure di contenimento della sofferenza. La sorveglianza dinamica ha determinato una trasformazione profonda e la popolazione carceraria ha subìto variazioni significative, passando dalle 67mila presenze alle 52mila dopo la Torreggiani, per poi risalire a 62mila alla vigilia della pandemia e arrivare ai 54mila di adesso. E sono stati registrati episodi molto gravi che hanno avuto la conseguenza di sollevare l’opinione pubblica, come il caso Cucchi e il caso Santa Maria Capua Vetere”. Cosa deve intendersi per carcere che cambia? “Una struttura che investe molto sul penitenziario e sulla relazione tra l’istituto e il contesto esterno. Parliamo di inserimenti lavorativi, investimenti sulle forme di rieducazione, misure di sostegno al reddito in uscita. Si tratta di cambiamenti che permettono di ridurre la sofferenza sociale, ma che sono dipendenti dalla condizione economica di crisi determinata dalla recessione causata dalla pandemia e, non ultima, dalla crisi del gas dovuta alla guerra. La situazione è complicata”. Molti pensano che il carcere sia un mondo a parte rispetto alla società. Eppure un legame forte e costante tra il mondo di “fuori” e il mondo di “dentro” consentirebbe di avere un carcere migliore e quindi anche una società migliore. Cosa ne pensa? “Anche senza una visione tanto progressista del carcere, sarebbe miope non pensare che le persone attraversano lo spazio penitenziario per un tempo breve. E quello che incontrano in quegli spazi è una condizione peggiore di quella che c’è fuori, ma soprattutto una condizione che non offre chance formative, per cui quel passaggio non farà che acuire la sofferenza che diventa inutile, perché inefficace per le finalità rieducative, e uno spreco sia di tempo che di denaro. Il carcere, a quel punto, non farà quello che dovrebbe fare rispetto ai presupposti anche costituzionali e aumenterà la sofferenza sociale, diventando causa degli eventi che vuole in qualche modo combattere. Quindi è chiaro che debba esserci un dialogo tra carcere e società esterna”. C’è una popolazione che gestisce il carcere e una che lo abita. Sono davvero così diverse trovandosi a vivere in maniera coatta gli stessi ambienti con gli stessi disagi e difficoltà? “La differenza sostanziale è che la popolazione che lavora in carcere è una popolazione libera, cosa che quella dei detenuti non è. Quello che però è comune è la sofferenza del penitenziario che viene distribuita equamente tra coloro che lo abitano”. Che scenari si prospettano? “La pandemia, o meglio la sindemia ha una capacità di amplificazione della sofferenza soprattutto per le parti più vulnerabili della società. Non possiamo predire il furto ma possiamo leggere le tendenze che ci sono, e quel che emerge è che i prossimi saranno anni di grande sofferenza sociale. Se non ci saranno iniziative come il Pnrr ma anche come più investimenti sul carcere, che non si limitino solo alla costruzione di qualche nuovo padiglione, sarebbe importante organizzarsi con vari antidoti democratici. Ci sono già aree di riforma, c’è attenzione da parte della ministra Cartabia: speriamo che nei prossimi mesi ci sia più coraggio nel provare a cambiare il mondo penitenziario”. Riforma del Csm: i magistrati minacciano lo sciopero e Iv vota contro la maggioranza di Giulia Merlo Il Domani, 13 aprile 2022 La riforma riesce a mettere d’accordo i gruppi associativi delle toghe: a distanza di 12 anni dall’ultimo sciopero contro il governo Berlusconi, ora tocca a Cartabia subirlo. Intanto, Renzi annuncia che Iv non voterà la riforma perché “L’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia inutile. Meglio così ma ancora non ci siamo”. La riforma dell’ordinamento giudiziario targata Marta Cartabia prosegue a fatica in Commissione, sulla base di un fragile accordo di maggioranza da cui già Italia Viva si è sfilato. Fuori dal palazzo, intanto, la magistratura associata insorge. Per la prima volta dai tempi del caso Palamara, i gruppi associativi sembrano aver trovato un avversario comune nella riforma e minacciano lo sciopero se il testo non verrà modificato. Per ora la situazione è di stallo: in commissione Giustizia sarà corsa contro il tempo per votare gli emendamenti e fare arrivare il testo in aula entro la data fissata del 19 aprile. Nella stessa data, l’Associazione nazionale magistrati ha convocato il Comitato direttivo centrale, per stabilire le iniziative di mobilitazione sulla riforma, se non saranno introdotte modifiche sui punti più critici: dal fascicolo sulle performance, considerato vessatorio, alla regola di un solo cambio di funzioni tra giudice e pm nella carriera, che apparirebbe come una separazione di fatto delle carriere. “Con la scusa dell’efficienza ci si accinge ad approvare riforme che, invece, per un’eterogenesi dei fini puniranno e isoleranno proprio i magistrati più liberi, quelli che vogliono decidere seguendo la loro coscienza”, è ill commento del segretario nazionale di Magistratura Indipendente, Angelo Piraino. Sulla stessa linea anche la segretaria nazionale Unicost, Mariarosaria Savaglio: “La riforma, per come inizialmente prospettata, rischiava di costituire un vulnus ai principi costituzionali di autonomia e indipendenza”, con il risultato che “si sta disegnando un magistrato pavido e burocrate e una giustizia di tipo difensivo, che pregiudicherà la tutela dei diritti dei cittadini”. Anche le toghe progressiste di Area, con il segretario Eugenio Albamonte chiedono “di proclamare lo stato di agitazione, che preveda una serie di manifestazioni intermedie a partire da un’assemblea straordinaria dell’Anm e si concluda, se nulla cambia, con lo sciopero”. Secondo Albamonte, infatti, il rischio della riforma è di creare un sistema giudiziario “ripiegato su carriera e gerarchia”, con il rischio di una “burocratizzazione della giurisprudenza anche in funzione di autotutela”. Il no di Italia Viva - Eppure, l’accordo di maggioranza sembra ormai essere stato trovato, salvo per un particolare. Italia Viva, partito che si è distinto proprio per i duri scontri con la magistratura, ha annunciato che voterà contro la riforma, anche a costo di andare contro la ministra Cartabia e il governo Draghi. Già in commissione Matteo Renzi aveva scatenato contro la ministra il magistrato e ora deputato di Iv, Cosimo Ferri, che ha contestato duramente i contenuti della riforma come poco incisivi sulla sostanza dei problemi, in particolare per quanto riguarda la riforma del sistema elettorale del Csm. Ora, nonostante i lunghi giorni di tavoli per trovare un accordo, arriva lo strappo: “Non voteremo la riforma della giustizia perché non è una riforma. L’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia inutile. Meglio così ma ancora non ci siamo”, ha scritto Renzi nella sua Enews. Il fascicolo delle performance - Il punto più criticato, infatti, è il cosiddetto fascicolo delle performance: introdotto con un emendamento del deputato di Azione Enrico Costa (lo stesso del decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, molto criticato dalle toghe) e riformulato ma accolto dal ministero. Per ogni magistrato verrà formato uno schedario che contiene le attività svolte: dati statistici e documentazione dell’attività svolta (non solo quella decisoria ma anche le misure cautelari disposte ed eventualmente revocate) “sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo”, “la tempestività nell’adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di significativa anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento e del giudizio”, si legge nel testo prodotto dal ministero della Giustizia dopo l’accordo nei vertici di maggioranza. Tale fascicolo diventerà uno strumento essenziale sia “ai fini delle valutazioni di professionalità” e quindi gli aumenti progressivi di stipendio, ma anche per “il conferimento degli incarichi” direttivi e semidirettivi da parte del Consiglio superiore della magistratura, ovvero gli scatti di carriera. Secondo le toghe, invece, si tratta di uno strumento che inibirà i magistrati i quali, preoccupati di valutazioni negative, burocratizzeranno il lavoro e punteranno tutto sulla carriera. Esattamente il male che la riforma era chiamata a correggere. Lo sciopero - Lo sciopero non sarebbe iniziativa da poco. La magistratura ordinaria non lo utilizza di frequente e quando lo fa la rottura con il sistema politico è profonda. Da notare però che la magistratura ha indetto scioperi anche contro la precedente riforma dell’ordinamento giudiziario, che venne poi approvata nel 2006 dall’allora governo Berlusconi. In quel caso, gli scioperi furono addirittura quattro. L’ultima volta in linea temporale risale 12 anni fa: al governo c’era sempre Silvio Berlusconi e il bersaglio delle critiche non era il ministero della Giustizia ma quello dell’Economia, guidato da Giulio Tremonti. All’epoca, l’Anm protestava contro “misure eccessivamente penalizzanti per i magistrati” a causa di “tagli iniqui alle retribuzioni e un’ulteriore destrutturazione del servizio giustizia”. Era in approvazione un decreto legge, infatti, che incideva “in misura rilevante sulle retribuzioni dei magistrati nella prima fase della carriera, soprattutto dei più giovani che subiscono una riduzione di stipendio fino al 30%”. No di Renzi alla riforma: “Così usciamo dal governo” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 13 aprile 2022 A scatenare la rottura, un emendamento per innalzare l’età pensionabile delle toghe dai 70 ai 72 anni. L’sms a Cartabia: “Se ci provi lasciamo la maggioranza”. Bonafede replica: “Non sa di che parla”. La riforma della giustizia parte in salita. E rischia di andare a sbattere contro un muro. Anzi: contro un tetto. Perché è a sfondare un tetto, quello dell’aumento dell’età pensionabile per i magistrati che l’ultracasta puntava, sottobanco. Matteo Renzi se n’è accorto e ha alzato subito i toni, tanto da minacciare il ritiro di Italia Viva dalla maggioranza. Ecco che cosa è successo. Nelle more di una riforma di per sé debole, qualche manina ha pensato di poter introdurre, non vista, una misura tanto gradita alla magistratura - e ai suoi più alti papaveri - da risultare non solo stridente ma imbarazzante, soprattutto in quel contesto. L’aumento dell’età pensionabile per i magistrati, per un intervento del legislativo di via Arenula, sarebbe dovuta passare dai 70 ai 72 anni. La casta sarebbe diventata gerontocasta, con quei due anni in più che sarebbero serviti come ulteriore scatto per le carriere e come ricalcolo per l’aumento cedolare. Un ponte d’oro di 24 mesi che ai più dirà poco, ma al quale qualcuno teneva. E tanto. I casi sono molteplici: si parla di decine di magistrati che si apprestano a dire addio alla toga. Tra gli altri Giovanni Salvi, al vertice della procura generale della Cassazione, che sta per andare in pensione. Ecco che al riparo da sguardi indiscreti al Ministero avevano pensato di introdurre la prolunga dei due anni. Chi? “Il ministero è nelle mani del Pd”, ci dice un giurista che lavora intorno all’ufficio legislativo. Voci. Quel che è certo è che l’emendamento sarebbe passato ai Relatori, per farlo proprio. E da lì in poi affondarlo sarebbe diventato complicato. Così, appena la notizia è arrivata alle orecchie di Matteo Renzi, l’ex premier è tornato minaccioso, ha prospettato di imbracciare l’arma della sfiducia. I colpi di artiglieria pesante hanno risuonato da via Arenula a Palazzo Chigi, dopo aver raggiunto Marta Cartabia sul telefonino. “Allungare l’età del pensionamento dei magistrati? Se ci provi, usciamo dal governo”. Un colpo di artiglieria secco che ha centrato l’obiettivo e fatto cambiare marcia alla Ministra e all’esecutivo. Dopo poche ore, ecco che l’emendamento viene ritirato. Il segnale sarebbe stato ricevuto forte e chiaro dagli uffici di Draghi: via Italia Viva dalla maggioranza, via i suoi ministri dall’esecutivo, si sarebbe dovuti ricorrere a un rimpasto e a una nuova richiesta di fiducia alle Camere. E con i chiari di luna che il centrodestra sta prospettando sulla delega fiscale e la riforma del catasto, non è proprio il caso di giocare col fuoco. Italia Viva alza sulla giustizia quei toni che hanno caratterizzato la sua iniziativa garantista dall’inizio del percorso parlamentare, difficile dirsi sorpresi. Sulla riforma Cartabia, Renzi non ha nascosto la delusione. Ieri mattina ci ha fatto anche un tweet: “Non voteremo la riforma della giustizia perché non è una riforma. L’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia inutile. Meglio così ma ancora non ci siamo”. È vero che la partita era stata intermediata attraverso un vertice di maggioranza tenuto sabato scorso, con la ministra della Giustizia Marta Cartabia collegata da remoto, sui nodi spinosi relativi ai passaggi di funzioni e al sistema elettorale del Csm. Ma a rompere questa intesa di massima era già stata Italia Viva, e non in modo inaspettato peraltro, visto che i renziani si erano rifiutati di ritirare i propri emendamenti in commissione Giustizia alla Camera. Renzi rivendica: “Sulla riforma del Csm, siamo gli unici che non voteranno a favore. Lega e Pd, grillini e Forza Italia hanno trovato un compromesso con la riforma Cartabia”, sottolineando che questa comunque rappresenta “un grande passo in avanti” ma “il vero problema dello strapotere delle correnti e del fatto che chi sbaglia non paga mai, con la riforma Cartabia non si risolve. Le correnti continueranno a fare il bello e il cattivo tempo nel Csm. Peccato, una occasione persa. La riforma arriverà, se arriverà, nella prossima legislatura. Questo è un pannicello caldo, anzi tiepido”. E con il Riformista parla Cosimo Ferri. L’ex magistrato, ora parlamentare renziano, ricalca la stessa cifra: “È una riforma inutile che non porta discontinuità e rafforza il peso delle correnti. Non tutela i magistrati silenziosi che lavorano nel quotidiano, scrivendo le sentenze, lontano dalle correnti”, dichiara. “Non capisco come la politica non si renda conto di trovarsi di fronte a un nuovo regalo alla logica correntizia”, aggiunge. E se la prende con lo strumento delle pagelle: “Per chi come me conosce l’interna corporis della magistratura, è ben difficile pensare che stando al di fuori delle correnti si possa ottenere un Ottimo. Si può ottenere tutt’al più un Buono”, esemplifica. E affonda: “È uno strumento che può diventare pericoloso”. I renziani, insomma, la riforma (“riformicchia”, dicono) Cartabia proprio non la voteranno. Se rischia di cadere il governo? A rassicurare sulla tenuta dell’esecutivo, ospite di Un Giorno da Pecora su Rai Radio1, ha pensato la ministra per la Famiglia e le Pari opportunità Elena Bonetti. “Non sarà certamente Italia Viva a far cadere il governo e mi auguro che non lo faccia nessun’altra forza politica”, ha proseguito la ministra renziana. La fiducia sui temi della riforma fiscale e della giustizia? “Se possibile meglio evitarla su questi argomenti controversi e dibattuti - ha spiegato Bonetti - sono questioni che richiedono ampia trasversalità. Su di queste serve un dialogo tra le forze parlamentari”. “Il tema - aggiunge non è se si rischia o no la tenuta del governo”, quanto piuttosto “se l’esecutivo fa le cose che è chiamato a fare. Se il governo non è in grado di portare a casa la riforma fiscale viene meno uno degli obiettivi che l’esecutivo si è dato”. Il tempo, intanto, stringe: finora si è approvato solo il primo degli emendamenti del governo, ne mancano da esaminare circa 140 tra proposte dell’esecutivo, altre dei partiti su cui c’è il parere favorevole della ministra e proposte di Iv e Lega, con entrambe le forze politiche che non hanno ritirato gli emendamenti su cui non c’è accordo. Il disegno di legge è calendarizzato in Aula il 19 aprile, mentre le prossime elezioni per il rinnovo del Csm sono in programma a luglio: la promessa fatta a suo tempo dal premier Mario Draghi di non mettere la fiducia è sempre più appesa a un filo. Riforma della magistratura, perché cambierà poco e nulla di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 aprile 2022 La riforma della magistratura è quasi pronta e cambierà molto poco nel sistema giustizia. In commissione si dovrebbe votare oggi. I partiti hanno trovato l’accordo su un testo che sfiora appena i privilegi dei magistrati e stabilisce un sistema di elezione del Csm che con ogni probabilità, anziché indebolire (o cancellare) il correntismo, aumenterà il potere delle correnti. I magistrati però non sono contenti, perché comunque ritengono che i loro privilegi e la loro autonomia - intesa come assenza di qualunque possibilità di controllo sul loro operato - non devono essere neppure sfiorati, perché sfiorandoli si rimetterebbe in discussione l’enorme porzione di potere che la magistratura, e in modo del tutto particolare le Procure, hanno conquistato per sé negli ultimi 30 anni modificando - a danno degli altri poteri - gli equilibri previsti dallo Stato liberale. Il partito delle Procure difende palmo a palmo ogni centimetro conquistato dalla Riforma Cartabia, e minaccia di scendere in lotta con lo sciopero e la richiesta di bloccare tutto. Il partito dei Pm ritiene che se una riforma va fatta tocca ai magistrati scriverla. Al Loro partito, cioè - credo - all’Anm, che è il luogo dove le correnti trovano il compromesso. E si attestano su questa linea come fosse il Piave. Del resto la ministra Cartabia ha trovato enormi difficoltà per ottenere almeno un accenno di riforma. Che serva, per così dire, non a stravolgere il sistema e riportarlo alla legalità, ma almeno a dare un segnale piccolo piccolo di rinnovamento. Le difficoltà hanno nome e cognome: Pd e Cinque Stelle, che in Parlamento costituiscono un blocco che si divide su quasi tutte le materie politiche ma ritrova l’essenza della sua unità nel mettersi al servizio del partito delle Procure. Come si esce da questa impasse? Certo non se ne esce con questo Parlamento. E il governo di coalizione può fare poco. Restano i referendum. Sono l’unico strumento che il partito delle Procure non controlla (è impossibile spiccare un mandato di cattura contro i referendum…). Se si raggiunge il quorum e se vincono i sì la situazione generale si rovescia. Una vittoria ai referendum sarebbe la prima vera sconfitta del potere dei Pm in tutta la storia della repubblica. C’è la possibilità che questo avvenga? La possibilità c’è, ma è sottile sottile. “Toghe in sciopero? Le urne sono vicine anche per loro” di Errico Novi Il Dubbio, 13 aprile 2022 Intervista a Luciano Violante: “Se i magistrati urlano alla lesa indipendenza ogni volta che si prova a valutarli, pretendono l’anarchia. Utile il voto degli avvocati sulla professionalità dei giudici”. “Ci sono le elezioni. Non me ne vorrà se semplifico, ma è così. Se vogliamo spiegare la reazione della magistratura guardiamo il calendario: cosa succede a luglio? Che si deve eleggere il nuovo Csm, e quindi c’è la corsa a non deludere la base. Tutto qui. Ecco perché dai magistrati arriva un no incondizionato alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Ci sono cose peraltro che meritano secondo me un giudizio critico, ma se si dice no a tutto c’ qualcosa che non va”. Ecco, presidente Luciano Violante: lei ha iniziato da magistrato, prima di presiedere la Camera dei deputati e imporsi, tra l’altro, come una delle voci più innovative, nel dibattito sulla giustizia. Ma cos’è che davvero non va, nella magistratura? Il legame con i totem e l’orrore per i tabù. Anche qui, non si tratta di psicologismo. Ma è mai possibile che qualunque novità venga interpretata come una lesione dell’autonomia e dell’indipendenza. Ecco il totem: quelle due parole che non possono però diventare motivo per rifiutare qualsiasi riforma e sottrarsi quindi a qualsiasi responsabilità. E la riforma Cartabia è così inutile o malfatta? Apprezzo gli sforzi compiuti dalla ministra, e apprezzo alcuni aspetti positivi: penso al doveroso vincolo dell’ordine cronologico nell’attribuire gli incarichi direttivi. Da annoi si diceva che avrebbe evitato le nomine a pacchetto, ed è stato previsto. L’esclusione dei consiglieri componenti la sezione disciplinare dalle commissioni che si occupano di incarichi è formulata in modo troppo rigido, ma la si può comprendere. Ma non è solo questo il punto, non si tratta solo di dissentire dalle stroncature incondizionate delle correnti o del Csm: si tratta anche di incapacità di una controproposta costruttiva. Io sono d’accordo sul fatto che il fascicolo delle performance non sia uno strumento adeguato: penso che rischia di portarci fuori strada, perché la giurisdizione è un’altra cosa. Non è statistica intesa in senso verticale ma qualità delle decisioni, che possono essere giuste anche se prese da un magistrato di primo grado poi smentito dalla Cassazione. Dico però che l’Anm avrebbe dovuto mettere sul tavolo soluzioni alternative al fascicolo per risolvere il problema delle valutazioni di professionalità. E lei cosa avrebbe proposto? Una commissione esterna al Csm, che giudichi il magistrato dopo i primi quattro anni di attività. Basta quell’intervallo di tempo per comprendere se poi, nel prosieguo della carriera, quel giudice potrà essere all’altezza. Un’altra soluzione trascurata? Dare continuità al Consiglio superiore, sul modello della Corte costituzionale. Mi spiego: sarebbe bastato approfittare della circostanza insolita che 5 componenti togati si sono dimessi nel corso del quadriennio. Chi è subentrato al loro posto, secondo l’articolo 104 della Costituzione ha il diritto di completare il proprio mandato quadriennale. Quindi bastava prevedere di eleggere solo gli altri: in tal modo le prassi dell’organo di autogoverno si sarebbero trasmesse. Si sarebbe trattato di un intervento minimo ma prezioso. La magistratura avrebbe detto no a qualsiasi cosa? Ripeto: le elezioni per il nuovo Csm sono fortemente condizionanti. Si insegue il consenso, e riemergono i tratti più tipici del conservatorismo giudiziario: non si tocca niente, né intendono proporre alternative. Come c’è finita, la magistratura, in questa crisi? Scomparso il nemico Berlusconi, è arrivato una sorta di liberi tutti, una perdita di coesione? In parte è vero: sotto i colpi di un avversario che ha straordinari mezzi di comunicazione e finanziari, è chiaro che ti ricompatti. Dopo quella fase, si è creato un curioso meccanismo che ha indotto nella magistratura un’autogestione atipica: poiché dalla politica non arrivava alcuna proposta seria, se non leggi penali confuse, deleghe a conoscere, per così dire, ebbene, la magistratura si è trovata fra le mani un potere così eccessivo che ha ritenuto di poterlo gestire al di fuori di ogni controllo. In modo incontrollato, appunto. Quindi è stata colpa anche, se non soprattutto, della politica? Insisto su un concetto: la sovranità. Il potere politico, il Parlamento, o è sovrano o non è. Vuol dire che deve assicurare regole e ordine. E invece la politica non ha dato regole e ha creato disordine. Al panorama va aggiunta una componente. Quale? I mezzi di comunicazione: ecco, il magistrato inquirente non deve più provare a dimostrare che sei colpevole, deve capire se sputtanarti o no, se additarti come colpevole morale. Mamma mia... Però invito a non sottovalutare le componenti della magistratura che sono del tutto distanti dal conservatorismo dell’Anm: penso al gruppo riunito attorno alla rivista Giustizia insieme. Naturalmente settori del genere, attenti alla cultura della professione, all’identità del magistrato, hanno un approccio critico più aperto ma anche nessuna intenzione di entrare nel conflitto fra le correnti. Davvero non salva nulla, della proposta sul fascicolo delle performance? Si vuole individuare il pubblico ministero che ricorre con eccessiva frequenza contro le assoluzioni in primo grado: e se invece di trovarci di fronte a un magistrato che ricorre troppo, fossero invece quei giudici ad assolvere troppo? No, non credo alla statistica utilizzata in termini del genere. Ma come dicevo, altre possibilità esistono, alcune non sono state considerate nella riforma in discussione, e certamente la magistratura non può pretendere di affermare il seguente principio: che qualsiasi tentativo di valutare la professionalità costituisce una lesione dell’autonomia e dell’indipendenza. E no: l’indipendenza esiste se c’è responsabilità. Senza, è anarchia. Non si tratta più di un potere costituzionale ma dispotico. Il suo giudizio sul testo Cartabia è in chiaroscuro, è così? Apprezzo lo sforzo, e anche alcune specifiche contromisure, come l’istituzione, presso il ministero, di un ufficio preposto a misurare la funzionalità di ogni Tribunale o Procura. Si poteva fare di più. Alcune scelte mi paiono rispondere a esigenze identitarie dei partiti: vale anche per la separazione delle funzioni, che nasconde una perdita di valore. E il no di Anm e Csm alle sanzioni per chi viola le norme sulla presunzione d’innocenza? Forse l’illecito disciplinare andrebbe circostanziato meglio, ma una cosa è certa: non è più possibile assistere a quelle conferenze stampa in cui si scolpisce l’identikit del mostro per poi scoprire dopo un paio d’anni che si trattava di un innocente. Certo, servirebbe anche uno scatto di autodisciplina da parte di voi giornalisti. Sui casi di violenza sessuale, per esempio, ci siete riusciti. Ma con la corruzione è improbabile... Sembrerà irrealistico: ma le grandi trasformazioni si compiono a partire dalle cose irrealistiche. Eccezion fatta per voci autorevoli come Canzio, Pignatone o Spataro, il no della magistratura è compatto anche sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari... E invece a me sembra una norma corretta. Soprattutto nella formulazione individuata adesso, in cui si evita che a pronunciarsi sia il singolo avvocato. Lo si sarebbe esposto anche a delle difficoltà. Nel momento in cui invece è il Consiglio dell’Ordine a diversi esprimere collegialmente, in senso positivo o critico, si tratta solo di un contributo utile. Avviene nelle università americane per esempio: gli studenti valutano la qualità delle lezioni. Nel caso dei Consigli giudiziari e delle valutazioni di professionalità sui giudici, la parte togata, maggioritaria, avrebbe tutto il modo di dimostrare l’insussistenza di eventuali giudizi critici da parte del Foro. Sottoporsi serenamente al giudizio vale in tutti i cointesti, non vedo perché non dovrebbe valere per la magistratura. Csm, Migliucci: “É una riforma blanda, non capisco l’allarme dei magistrati” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 aprile 2022 Intervista all’ex presidente dell’Unione Camere Penali Italiane: “Noi avvocati non siamo ospiti nei Tribunali, siamo invece coprotagonisti dell’esercizio della giurisdizione: non vedo perché dovremmo rappresentare una interferenza”. Per l’avvocato Beniamino Migliucci, past president dell’Unione Camere Penali Italiane, la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario di cui si sta discutendo è “blanda, debole”, ed è per questo che non comprende come la magistratura possa pensare a iniziative come quella dell’astensione. “Cosa avrebbero fatto se avessero approvato la separazione delle carriere?”. In base a quanto emerso fino ad ora, cosa pensa della riforma? Per quanto si è appreso, ritengo sia una riforma molto debole che non risolve effettivamente i problemi che anche l’Unione delle Camere Penali, nel tempo, ha evidenziato. Si tratta di un piccolo passo avanti, ma ho la sensazione che, nonostante lo scandalo Palamara, non vi sia stata una presa di coscienza delle reali criticità della magistratura. Questa consapevolezza a chi manca, alla politica o alla magistratura? Innanzitutto, ad una parte della magistratura. Quest’ultima è sicuramente una istituzione importante del Paese ma quanto emerso in questi anni, a partire dai famosi fatti dell’Hotel Champagne, avrebbe dovuto indurre ad una maggiore riflessione e autocritica. E invece una larga fetta della magistratura ha reagito male, chiudendosi in sé stessa e ponendosi in contrapposizione a qualsiasi tentativo di riforma, quasi che quest’ultima fosse da considerare una offesa all’autonomia e alla indipendenza delle toghe. Qual è il punto più debole della bozza di riforma? Lei sa che quando ero Presidente dell’Ucpi abbiamo raccolto le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere. È questo quello che manca: una vera riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario che conferirebbe maggiore autorevolezza al Giudice e così alle sentenze, rispetto alle indagini. Tutto il resto si risolve in un pannicello caldo. Ad esempio, la riforma dei magistrati fuori ruolo: si prospetta una diminuzione del loro numero, ma non si capisce perché debbano occupare totalmente il ministero della Giustizia e non si aprano significativamente le porte ad avvocati e professori universitari. In più, i magistrati continueranno a ricoprire ruoli in alcuni Ministeri dove non occorre la loro presenza, proseguendo ad alimentare una commistione impropria tra politica e magistratura. Elementi positivi invece? Sicuramente l’introduzione del fascicolo delle performance, grazie all’emendamento dell’onorevole Enrico Costa. Fino ad oggi questo era un argomento tabù. Noi siamo sempre stati contrari alla responsabilità diretta dei magistrati, ma allo stesso tempo crediamo che occorra trasparenza per l’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi e debba prevalere la qualità. Abbiamo sempre sostenuto la necessità di valutazioni più serie e mirate, non pilotate dal potere delle correnti. Se il 70%, ad esempio, delle inchieste di un pm si concludono con una assoluzione, o se nella stessa percentuale le sentenze di un giudice vengono riformate, allora è chiaro che siamo in presenza di una anomalia che va presa in considerazione per lo sviluppo della carriera. Non è possibile che tutti vengano sempre ritenuti bravi e meritevoli. Il fascicolo è uno degli elementi maggiormente stigmatizzato dalla magistratura ma anche il Pd ha parlato di schedatura... Davvero non capisco come si possa parlare di schedatura. Qui nessuno vuole schedare i magistrati, ma semplicemente avere più elementi a disposizione per valutare la loro professionalità, considerato che fino ad oggi non sembra aver prevalso il merito, ma piuttosto l’appartenenza alle varie correnti. E poi penso che la gran parte della magistratura, che lavora bene e con dedizione, sarà ben felice di veder valorizzato il proprio operato. Tornando al Pd, questo dimostra che resiste una subalternità da parte di alcuni partiti verso la magistratura, che fin che possono frenano velleità riformatrici, ma non in questo caso, visto anche il placet della Ministra Cartabia sulle valutazioni di professionalità. Cosa pensa dell’ipotesi di uno sciopero come prospettato dal Presidente Anm ma anche da singoli magistrati? Credo che sia una iniziativa davvero fuori luogo, che fa male alla magistratura stessa. In più, non capisco di cosa si lamentino visto che siamo in presenza di una riforma blanda, frutto dell’ennesimo compromesso politico. Cosa avrebbero fatto se, ad esempio, si fosse giunti ad una vera riforma che garantisse la terzietà anche ordinamentale del giudice? Non ritiene però fondata l’obiezione che ha fatto per esempio Eugenio Albamonte, Segretario di AreaDg, quando in una intervista ci ha detto: “una valutazione della performance giudiziaria dei provvedimenti come parametro di valutazione professionale del magistrato porta al paradosso che gli unici che avranno la valutazione positiva saranno quelli della Cassazione perché sono gli ultimi a giudicare”? Si tratta di un ragionamento illogico, perché si afferma “io non devo essere giudicato perché chi è sopra di me non verrà giudicato”. Innanzitutto, la professionalità dovrebbe essere valutata anche per diventare Consiglieri di Cassazione. Inoltre, il parametro delle sentenze impugnate dinanzi alla Cedu potrebbe consentire di saggiare la validità delle sentenze di legittimità. Il Consigliere del Csm Nino Di Matteo, commentando all’AdnKronos la riforma, in riferimento alla partecipazione degli avvocati nei pareri per le valutazioni di professionalità ha detto che così i magistrati saranno più esposti a possibili interferenze esterne. Che ne pensa? Le parole del dottor Di Matteo rappresentano l’idea di una magistratura chiusa e autoreferenziale, per cui, come dice il titolo di una vecchia canzone di Caterina Caselli “nessuno mi può giudicare”, si respinge la possibilità per l’avvocatura di esprimere pareri. Ma non dovrebbe essere così. Noi non siamo ospiti nei Tribunali, siamo coprotagonisti dell’esercizio della giurisdizione quindi non vedo perché dovremmo rappresentare una indebita interferenza. Carlo Nordio: “Una magistratura che vuole conservare l’irresponsabilità” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 13 aprile 2022 Il magistrato ad HuffPost: “La riforma è insufficiente, ma meglio di nulla, e tocca il potere dell’Anm, per questo minacciano lo sciopero. Ed è inaccettabile”. La magistratura è pronta a dichiarare lo sciopero contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Il provvedimento ancora non è legge - e, data la difficoltà con cui procedono i lavori, con Italia Viva che si è ufficialmente smarcata, non lo sarà a breve - ma le varie associazioni delle toghe hanno chiesto all’Anm una reazione forte contro il provvedimento. In particolare, sono contrarie all’introduzione del cosiddetto “fascicolo delle performance”, introdotto con un emendamento del parlamentare di Azione Enrico Costa. Si tratta di un documento nel quale si andrebbe a rendicontare l’attività del magistrato, con un occhio, per i pm, alle inchieste che sono state smontate in giudizio, e per i giudici alle sentenze riformate nei successivi gradi di giudizio. Da questo fascicolo, una specie di pagella, dipenderebbero le progressioni di carriera. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio - già procuratore aggiunto a Venezia, titolare di importanti inchieste come quella sul Mose o, negli anni ‘90, sulla Tangentopoli veneta, attento osservatore delle dinamiche tra giustizia e politica, che ha uno sguardo sempre lucido e critico nei confronti dei rischi delle degenerazioni del potere giudiziario - cosa pensa del possibile sciopero e dei contenuti fondamentali della riforma. Alle correnti della magistratura, nessuna esclusa, il provvedimento su Csm e ordinamento giudiziario che dovrebbe arrivare in Aula dopo Pasqua non piace. E sono pronte allo sciopero. La stessa Anm non lo ha per ora escluso. Si aspettava questa reazione? Mi aspettavo una reazione forte dei vertici dell’Anm, perché questa riforma - per quanto insufficiente a risolvere i problemi della giustizia e del potere giudiziario - tocca il potere dell’Anm. Una qualche reazione, dunque, era prevedibile, però io credo che lo sciopero sia inammissibile. E non perché un magistrato non possa scioperare, ma perché può farlo solo per alcuni motivi. Quando lo sciopero delle toghe è legittimo, secondo lei? Vede, il magistrato ha due volti. Il primo è quello dell’impiegato statale, del dipendente pubblico che risponde a uno statuto e percepisce una paga. L’altro, invece, è quello di chi, vestendo la toga, rappresenta il potere giudiziario, uno dei tre poteri dello Stato. Io credo quando si pongono problemi relativi al primo volto - pensiamo al caso di una riduzione dello stipendio - lo sciopero sia più che legittimo. Perché riguarda i magistrati in quanto impiegati. Nell’altro caso, invece, quando si varano leggi che riguardano le toghe in quanto potere giudiziario, credo che scioperare sia illegittimo. Il magistrato ha il compito di applicare la legge, non può scioperare contro la stessa. È inammissibile. Io a scioperi di questo genere non ho mai partecipato. Però i rappresentanti delle associazioni specificano che l’aspetto più grave della riforma è l’introduzione del fascicolo per le valutazioni... Naturalmente! Perché questo provvedimento va a toccare quell’elemento vitale che è l’irresponsabilità dei magistrati. Finora la valutazione delle toghe non è stata fondata sui risultati che ottengono. Se si leggono i documenti in cui è contenuta sembra che siano tutti bravi, intelligenti e molto produttivi. Poi, però, si scopre che non è vero. Il tutto, peraltro, è aggravato dal fatto che i giudizi non vengono fatti in base a criteri oggettivi, ma in base a criteri generici che sono arbitrari. Detto questo, però, vorrei specificare che bisogna tenere a mente una differenza. Quale? Bisogna distinguere le sentenze dei giudici dall’attività del pm. Nel primo caso si valuta il fatto, l’errore è sempre in agguato. Nel secondo caso, invece, il pm si nasconde dietro l’obbligatorietà dell’azione penale. E ci sono casi in cui finisce per fare inchieste dolorose per gli indagati, dispendiose per lo Stato, che poi si rivelano infondate. Quando gli si chiede il conto, ti rispondono ricordando che esiste l’obbligatorietà dell’azione penale. Allora si potrebbe cambiare prospettiva, si potrebbe eliminare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Anche a questo, però, i pm rispondono di no. Perché ti dicono che quel principio è garanzia di libertà ed eguaglianza. Il risultato di questo principio, però, in alcuni casi, è solo l’impostazioni di inchieste lunghe e costose che però si rivelano inutili. Portando alla luce questa differenza pone una questione interessante. I rappresentanti delle correnti però sostengono che le pagelle costringerebbero le toghe, anche quelle giudicanti, a ridursi a meri burocrati. E porterebbero al conformismo giudiziario. Esiste questo rischio? Io credo che il giudice debba essere liberissimo e indipendentissimo quando valuta il fatto. Quando, però, si passa alle questioni di diritto, anche se non esiste il principio dello stare decisis (dell’uniformarsi al precedente giurisprudenziale, ndr) mi sembra difficile ammettere che un giudice monocratico, da solo, possa decidere in senso contrario rispetto alle Sezioni unite della Cassazione. Perchè è vero che il giudice risponde soltanto alla legge, ma è altrettanto vero che le Sezioni unite della Cassazione sono interpreti della legge stessa. E se decidiamo che la fedeltà soltanto alla legge debba tradursi in libertà di un giudice monocratico di interpretare la norma come gli pare, la certezza del diritto va a farsi benedire. I giudici non si trasformeranno in meri burocrati, quindi? Mi lasci dire che questa tesi non è altro che l’espressione di una vuota formula petulante di giudici che vogliono sentirsi svincolati dalle interpretazioni delle corti superiori, in base alla libertà di coscienza. In realtà poi succede che combinano solo danni, che la Cassazione è costretta a riparare. E ciò porta processi lunghi e dolori e costi per l’imputato. Il quale, invece, ha diritto a sentenze conformi alle interpretazioni della Suprema corte. In un’intervista al Giornale oggi Luciano Violante dice che nella magistratura c’è un “inaccettabile conservatorismo”. Condivide questa tesi? Assolutamente sì. E credo che il peggior conservatorismo sia di quelli che si dicono progressisti. Che, in realtà, vogliono che non cambi nulla. Io, invece, credo che tante cose dovrebbero cambiare: dal reclutamento dei magistrati alla formazione, dalle porte girevoli al sistema elettorale del Csm. La questione delle porte girevoli dovrebbe però essere risolta con questo provvedimento. Arriva tardi? Da tempo sostengo, e l’ho anche scritto, che una toga non possa scendere in politica attiva se ha fatto indagini che hanno avuto conseguenze politiche. Non parlo di terzi, parlo anche di me stesso, perché inchieste come quelle sul Mose o su Tangentopoli hanno toccato la politica. Allora io mi chiedo, se hai fatto indagini per le quali sono stati incarcerati esponenti di partiti, non è anomalo che ti candidi per prendere il posto di chi hai messo in prigione? Si riferisce a chi si candida a cariche elettive. Chi invece ha incarichi di governo o presso ministeri potrebbe tornare a vestire la toga? No. Poniamo il caso del capo degli ispettori del ministero della Giustizia. Questo diventa, come è giusto che sia, il braccio armato del ministro. Perde la sua indipendenza, ed è normale, perché in quel ruolo la deve perdere. Ciò, però, causa un vulnus alla sua immagine. E quindi non può tornare a fare il magistrato. Ha fatto riferimento al sistema elettorale del Csm. Cosa pensa del sorteggio delle corti d’Appello per i collegi? È un tentativo di portare un minimo di sorteggio per spezzare il vincolo tra elettori ed eletti, ma è insufficiente. La vera soluzione sarebbe un sorteggio vero, con i consiglieri che sarebbero estratti da un canestro fatto di magistrati già valutati quattro volte, docenti di materie giuridiche e presidenti di consigli giudiziari. Ma per fare questo, come dice la ministra Cartabia, bisogna cambiare la Costituzione. Basterebbe una maggioranza qualificata, ma è una riforma che le correnti non vogliono, perché hanno paura di perdere potere. Ed è una paura giustificata, perché lo perderebbero davvero. Ma ci guadagnerebbero i cittadini, che non dovrebbero assistere più a scandali come quello di Palamara. A fine legislatura e con una maggioranza così variegata una riforma costituzionale per rendere possibile il sorteggio non è una strada percorribile. È impossibile, infatti. Ed è per questo che spero nel successo del referendum, perché possa dare almeno un segnale alla politica. A proposito di referendum, uno dei quesiti riguarda la separazione delle funzioni. Nell’accordo di maggioranza (dal quale si è ufficialmente sfilata Italia Viva) è previsto un limite al passaggio da giudice a pm, o viceversa. Potrà avvenire solo una volta nel corso della carriera. È d’accordo? Sarei per la separazione delle carriere tout court, ma anche in questo caso bisognerebbe cambiare la Costituzione. Siccome il meglio è nemico del bene, credo che questo limite sia un primo passo per spezzare il vai e vieni tra magistratura giudicante e requirente. Toghe pronte allo sciopero per difendere la casta di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 aprile 2022 Pressioni nei confronti dell’Anm perché indica la protesta. I magistrati di sinistra parlano di vendetta. E preparano manifestazioni come ai tempi di Berlusconi e Castelli. Anche se mini questa riforma è segno di autonomia. Le toghe faranno lo sciopero contro la timidissima miniriforma Cartabia? Brr, che paura, vien da dire, parafrasando un ex presidente del consiglio. Ma, nella chiamata alle armi del sindacato, il vero pensiero dell’intera Casta dei magistrati lo manifestano in modo esplicito quelli di sinistra: la politica vuole vendicarsi. E preparano manifestazioni come ai bei tempi andati, quasi Draghi fosse Berlusconi e Marta Cartabia il ministro Roberto Castelli. Altri tempi, altri personaggi. Ma il succo è sempre lo stesso: l’ordinamento giudiziario non si tocca. E il Csm, pur dopo lo sconquasso delle denunce di Luca Palamara, o lo riformiamo noi, o niente. Ma quel che colpisce è l’uso del Termine “vendetta”, come se qualcuno intendesse presentare il conto per quell’assalto alla politica che rese protagonisti alcuni pubblici ministeri a partire dal 1992-1993. La paura che - pur in presenza di una insufficiente miniriforma che Matteo Renzi, annunciando il voto contrario di IV, ha definito “pannicello tiepido” - il Parlamento possa per una volta decidere senza prendere ordini dalla Anm, sta serpeggiando come un brivido che corre di bocca in bocca, anche negli ambienti dei sindacati più moderati. Ma qualcuno ha la coscienza sporca e butta lì la parola tremenda: vendetta. Perché il mondo politico dovrebbe vendicarsi, se non avesse subito qualche torto? O forse è stato un assalto violento e fino a ora senza ritorno? Non è così difficile andare indietro con la memoria a quel che successe trent’anni fa. Per esempio potrebbe riemergere il ricordo di quel giorno del 1993 in cui il Parlamento perse la verginità e si inginocchiò ai piedi di un gruppo di pm che ebbero l’ardire di definirsi pool “Mani Pulite”, e votò la decapitazione di quell’immunità che i Padri Costituenti avevano voluto come contrappeso dell’indipendenza della magistratura. Da quel giorno non ci fu più divisione dei poteri e il potere fu uno solo, quello delle toghe. Le quali, giorno dopo giorno, hanno dato le pagelle ai politici. Hai l’insufficienza? Galera. Arrivi a malapena al sei? Arresti domiciliari. Per tutti gli altri, diciamo che un’informazione di garanzia non si nega a nessuno. Ecco svelato il vero motivo per cui oggi l’intera magistratura, compresi due ex procuratori molto diversi tra loro come Giancarlo Caselli e Luciano Violante, non accetta di esser giudicata. Assolutamente. Tanto che il fascicolo per la valutazione del magistrato viene considerata con sprezzo “una schedatura”. Come se si avesse timore di una contaminazione con le stesse forze di polizia con cui si opera quotidianamente. Ma anche come se la vita del magistrato non potesse essere quella casa di vetro che si richiede al politico o all’uomo di governo. La verità è che si teme di perdere quel 99% di valutazioni positive che aprono automaticamente la strada alle carriere, come è la situazione di oggi. Come se gli errori, ma anche le forzature politiche volute nell’applicazione della legge, non fossero sotto gli occhi di tutti. Come se non si sapesse che il 50% dei detenuti in attesa di giudizio sarà assolto. Come se non fosse evidente a tutti, soprattutto, che nessun magistrato paga mai. Che il Presidente della Corte Costituzionale (e chissà se gli altri membri erano tutti d’accordo) ha cancellato la possibilità di sottoporre a referendum il quesito sulla responsabilità civile diretta. E anche che la totale irresponsabilità del pubblico ministero italiano è un caso unico nel mondo occidentale e democratico. Alcuni rappresentanti delle correnti sindacali in toga pare non si rendano neanche conto di quel che dicono. Prendiamo la rappresentante di Unicost, Mariarosa Savaglio, la quale prospetta, in caso di approvazione della riforma Cartabia nel punto in cui istituisce il fascicolo delle performance, questo fosco futuro: “Si sta disegnando un magistrato pavido e burocrate e una giustizia di tipo difensivo…”. Questa è dunque l’immagine che la toga dà di se stessa: se qualcuno vuol darmi il voto e giudicare la mia attività, allora io non faccio più niente, mi metto in difesa e interrompo le indagini. Un mondo di pusillanimi, dunque. Dove è finita la spavalderia di coloro che furono gli eroi di Mani Pulite? E i guerrieri del “Processo Trattativa”? Tutti coniglietti accecati dai fari di un fascicolo. Ricordiamo quando nel 1994 i pm del Pool di Milano avevano inscenato la loro protesta in tv in quanto con il “decreto Biondi” che cambiava le regole sulla custodia cautelare, senza manette non avrebbero potuto più svolgere il loro lavoro. Ma in seguito, quando il decreto fu sciaguratamente ritirato dal governo Berlusconi, meno del 10% dei detenuti scarcerati ritornò in prigione. Che voto darebbe oggi il fascicolo a Davigo Colombo e Di Pietro? E Francesco Greco sarebbe diventato procuratore capo? E quei magistrati che in Sicilia imbeccarono Enzo Scarantino, pur sapendo che si trattava di un “pentito” fasullo, e tutti i giudici che mandarono in galera gli innocenti per quindici anni, nell’attesa del “pentito” genuino, come sarebbero giudicati oggi? Per non parlare del fatto che, pur dopo tre fallimenti, c’è ancora qualcuno a Firenze che sta indagando per la quarta volta su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti di stragi. Senza il senso del ridicolo, ma con la certezza dell’impunità. Di quella che il segretario di Md chiama la “di fatto separazione delle carriere” non vale neppure la pena parlare, visto che della separazione delle funzioni si occupa il referendum, e la riforma Cartabia si limita a ridurre a uno il numero dei passaggi, già ridotto dalla riforma Castelli, da funzione giudicante e requirente e viceversa. Sciopero, dunque? Brr, che paura! La funambolica idea secondo cui la causa della malagiustizia dipende dall’assetto del Csm di Ivano Iai Il Dubbio, 13 aprile 2022 Tra i variegati commenti alla c. d. riforma Cartabia si è fatta strada una funambolica suggestione: che la causa della malagiustizia sia l’attuale disciplina sulla composizione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura. Poiché così non è - altrimenti il sistema avrebbe finora operato con regole illegali - per uscire da un’impasse che rischia di pregiudicare l’approvazione in Parlamento del testo confluito, l’ 11 febbraio scorso, nel maxiemendamento del Governo (cui si aggiunge la pletora di emendamenti all’esame della Commissione Giustizia della Camera), occorre prendere coscienza, una volta per tutte, che nessuna legge è vincolata alla voluntas del suo originario autore, ma se ne affranca per diventare norma nella sintesi dei fondamentali canoni interpretativi. Alle riforme di qualsiasi tempo e settore sociale, tra cui l’onnipresente ordinamento della giustizia, non servono proclami ma esecutori di ampie vedute e buon senso perché l’esegesi normativa è una pratica culturale capace di generare anche gli effetti più imprevedibili: come una cattiva legge può spiegare effetti positivi se affidata a buoni propositi, così una buona legge può risultare dannosa se asservita a una cattiva applicazione. A far buona la regola è, alla fine, l’interprete che persegue l’interesse dello Stato il quale, anche in materia di giustizia, è governato dal principio di democrazia (artt. 1 e 101 della Costituzione). Alcune riflessioni sulla riforma. Una riguarda il mandato dei componenti togati da consegnare, secondo gli accordi della maggioranza parlamentare, a un casuale sorteggio dei collegi che si infrange con il tradizionale sistema di regole fondato sulla consapevolezza elettorale: potrebbe essere una soluzione legittima a condizione, però, che lo stesso metodo, conosciuto nell’antica Atene per designare i magistrati del massimo tribunale, sia esteso a ogni tipo di elezione; ma poiché la ratio ispiratrice è di garantire l’indipendenza più della capacità il rischio, ontologico nella parola, è che per sorte si possa indebolire la qualità dell’organo di autogoverno. Un CSM libero da condizionamenti non è una semplice prospettiva per la tutela del singolo magistrato, bensì un modello indipendente di garanzia per l’ordine giudiziario e per il governo autonomo di criteri uniformi capaci di allontanare dall’assegnazione degli incarichi direttivi le geometrie correntizie - sicché sia il merito a scegliere i nomi, non viceversa - e superare nelle procedure interne, spesso severe ad personam, i conflitti di un organo che accoglie tra i suoi membri l’accusatore e il massimo giudice (del ricorso) disciplinare. Una seconda attiene ai rapporti tra Procure e organi di informazione. La disciplina è contenuta nell’art. 5 del d. lgs. 20 febbraio 2006, n. 106 ma più che riformarla servirebbe, semmai, rieducare gli stimoli che animano doveri antitetici egualmente oggetto di tutela: sul fronte giornalistico quello di cronaca, che nell’ottica del lettore è il diritto a un’informazione sottratta al pericolo che fonte e notizia siano entrambe illusioni di conoscenza; sul fronte giudiziario la parete di riserbo che gli uffici inquirenti dovrebbero erigere per contenere le solleticazioni ai travasi esterni di informazioni, in particolare gli scoop (privilegiati) di alcuni a scapito dei buchi (inscienti) di tutti gli altri, al fine ultimo di proteggere l’indagine secondo il paradigma costituzionale della presunzione d’innocenza fin quando corre (lento) il procedimento penale. Una terza, infine, riguarda il perenne conflitto tra il potere politico stricto sensu inteso e l’autorità giudiziaria che, rispetto al primo, non persegue finalità antitetiche essendo cosa pubblica anche la giustizia. Se, per un verso, la separazione delle carriere è più coerente con il sistema accusatorio (il giudicante è terzo e imparziale, il pubblico ministero è parte come l’avvocato), appare però insensato che l’esperienza parlamentare o di governo possa interrompere l’osmosi che arricchisce il grande patrimonio di conoscenze nel settore pubblico ed è altrettanto fuori luogo il richiamo alle c. d. porte girevoli, il cui divieto è nato in Giappone per contrastare la “discesa dal cielo” (amakudari) degli alti funzionari dello Stato in pensione nelle società private operanti nel settore ministeriale affidato alle cure dei primi. Oltre alla frattura costituzionale (art. 3), rischieremmo la dispersione, in danno dell’interesse collettivo, di un patrimonio professionale di indiscutibile caratura tecnica e sensibilità giuridica, mentre, tra i funzionari pubblici, i parlamentari continuerebbero a varcare le porte girevoli delle società private menandosi dietro le polveri del concluso mandato. Legge Severino, la sospensione dalla carica non va computata nella durata delle pene accessorie di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2022 La prima è una misura amministrativa di “autotutela” mentre l’interdizione dai pubblici uffici è un effetto della condanna. La Cassazione respinge il ricorso del politico locale che, condannato per peculato, riteneva che dalla durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici andasse scomputato il periodo di sospensione dalla carica elettiva e dall’impiego pubblico che aveva già patito. Con la sentenza n. 14025/2022 viene respinta la tesi del ricorrente fondata sulla fungibilità dei periodi di applicazione delle due diverse misure. Il ricorrente - a cui era stata convertita da perpetua a temporanea l’interdizione dai pubblici uffici - riteneva che tale pena accessoria fosse da ritenersi scontata tenuto conto della durata della sospensione dalla carica già subita. Il ricorrente era stato, in effetti, sospeso sia di diritto dalla carica di consigliere comunale sia in via cautelare da quella di impiegato comunale. Il giudice dell’esecuzione aveva successivamente provveduto a convertire l’erronea interdizione perpetua nella forma temporanea, in quanto la pena definitiva risultava contenuta entro i due anni. Ma - come chiarisce la Cassazione - i due aspetti della vicenda non sono sovrapponibili. Due le finalità e due gli ambiti della sospensione e dell’interdizione: il primo perimetro è quello amministrativo (con la sospensione di diritto o cautelare il bene che viene protetto è la stessa pubblica amministrazione) mentre il secondo perimetro costituito dalle pene accessorie quale l’interdizione ha natura sostanzialmente afflittiva nei confronti di chi si macchia di determinati reati pur rivestendo ruoli o cariche pubbliche. Infine, anche la competenza dimostra la non coincidenza delle due diverse misure: infatti la sospensione è affidata alle autorità amministrative (prefetto per quella did irtto e dirigente dell’ufficio pubblico per quella cautelare) mentre l’interdizione (pena accessoria alla condanna) è applicata in sede di giudizio dal giudice penale. La Cassazione coglie l’occasione per affermare che, dovendo escludersi la natura penale della sospensione dalla carica, la legge che la dispone non soggiace al divieto di irretroattività. Quindi è applicabile anche a fatti precedenti il 2012 anno di entrata in vigore della legge Severino. Espulso dopo dieci anni in Italia, il Tar Liguria: “Non ha interiorizzato le regole del vivere civile” Il Dubbio, 13 aprile 2022 Respinto il ricorso di un cittadino albanese contro il provvedimento della questura di Savona che aveva negato il rinnovo del permesso di soggiorno. È legittimo che la Questura non rinnovi il permesso di soggiorno a un immigrato, imponendogli il ritorno in patria con la famiglia (moglie e figli minorenni), anche se è residente da oltre un decennio in Italia e occupato con regolare contratto di lavoro subordinato, perché “non ha interiorizzato le regole essenziali del vivere civile”. Regole violate “con la commissione di reati di rilevante gravità”. Lo ha stabilito dal Tar della Liguria, bocciando il ricorso di un cittadino albanese contro il provvedimento della questura di Savona che aveva negato il rinnovo di permesso in seguito alla condanna a 3 anni per 16 episodi di spaccio di droga. “La Questura - ha spiegato il Tar nella sentenza - ha evidenziato che tutto il nucleo familiare possiede la stessa cittadinanza e pertanto può rientrare nel paese di origine, senza rischi di divisione. È stato ritenuto che prevalesse l’esigenza di allontanare uno straniero pericoloso, nonostante la situazione famigliare e gli anni di permanenza in Italia”. Nella sentenza del Tar si rileva che l’amministrazione ha considerato la “situazione familiare dell’interessato e gli anni di permanenza sul territorio nazionale, ritenendo che tali elementi fossero recessivi in quanto non hanno influito “sull’interiorizzazione delle regole essenziali del vivere civile che sono state violate mediante la commissione di reati di rilevante gravità”“. “Tale valutazione - si osserva nella pronuncia - non può considerarsi manifestamente illogica o arbitraria ove si consideri che lo straniero è stato condannato per sedici episodi di cessione di stupefacenti avvenuti nell’arco di un anno”. Treviso. Protesta per il vitto: 10 detenuti dell’Ipm danno fuoco ai materassi di Giuliano Pavan Il Gazzettino, 13 aprile 2022 L’incendio scoppiato durante la rivolta al carcere minorile di Santa Bona. Erano circa una decina. Si sono barricati all’interno di un’ala del carcere minorile di Santa Bona. E poi, come segno di protesta per il vitto all’interno della casa circondariale, hanno dato alle fiamme alcuni materassi. Una vera e propria rivolta quella andata in scena ieri sera, martedì 12 aprile, poco prima delle 21, nella struttura di detenzione per i minorenni di Treviso, punto di riferimento per l’intero Nordest. I contorni della vicenda non sono ancora chiari, come non è chiaro se ci sia stato un capopopolo a guidare la sommossa. Di certo le fiamme e il fumo che si sono sprigionati all’interno del minorile erano visibili a centinaia di metri di distanza. Tanto che tutto il quartiere si è allarmato, anche per la presenza massiccia di mezzi delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco. Un’ambulanza, intervenuta su chiamata della questura di Treviso alle 21.05, ha stazionato all’esterno del minorile per circa un’ora. Poi è tornata vuota all’ospedale Ca’ Foncello. Segno che nessuno dei ragazzi ospitati nella struttura ha avuto bisogno di cure. Ed è l’unica nota positiva di una serata che avrebbe potuto avere dei risvolti molto più tragici. Nel piazzale anche alcune volanti della polizia, in azione di supporto. Dentro, invece, gli agenti della polizia penitenziaria, coordinati dalla direttrice Mariavittoria Fattori, hanno gestito la situazione sedando la rivolta e riportando la calma tra i giovani detenuti. Fondamentale è stato però l’intervento dei vigili del fuoco. Una squadra giunta dal vicino comando di via Santa Barbara è entrata al primo piano nell’ala occupata dai rivoltosi, facendo breccia in una porta per portarli fuori sani e salvi, mentre il fumo usciva denso dalle finestre sbarrate del minorile. Nella concitazione del momento uno degli agenti della penitenziaria è rimasto contuso: per lui qualche giorno di prognosi dopo un controllo nell’infermeria della casa circondariale. L’intera ala interessata dalla rivolta è stata dichiarata inagibile dopo che i vigili del fuoco hanno avuto ragione delle fiamme. Questa mattina verrà effettuato un ulteriore sopralluogo per quantificare i danni e verificare che la struttura non sia a rischio cedimento. Poi verranno fatte tutte le valutazioni del caso, comprese le denunce a livello penale una volta individuati i ruoli e le responsabilità. La scena a cui si sono trovati davanti i pompieri e gli agenti della polizia penitenziaria parla di una devastazione totale dell’area. Oltre alle pareti annerite dal fumo, i giovani detenuti non si sono limitati a dar fuoco ai materassi, ma hanno distrutto tutto quello che hanno avuto a tiro, gettandolo poi nel fuoco e alimentando dunque il rogo. Non avevano però calcolato che quelle azioni potevano costare care: quando il fumo ha completamente invaso l’ala, se non fossero intervenuti subito gli agenti in servizio assieme ai vigili del fuoco i rivoltosi sarebbero stati in trappola, rischiando non solo di intossicarsi o ustionarsi ma addirittura la vita. La sezione adulti della casa circondariale di Santa Bona non ha avuto alcun danno, e i detenuti non sono nemmeno stati spostati dalle loro celle. Poco dopo le 23 l’intervento si è chiuso. Bergamo. In carcere inaugurato il laboratorio tessile L’Eco di Bergamo, 13 aprile 2022 “Professionalità, solidarietà e speranza”. Il progetto Il taglio del nastro alla presenza del vescovo Beschi. Vi lavoreranno detenuti e detenute per tre pomeriggi alla settimana. Il grembiule grigio con il logo “Ricucendo tex lab” è la divisa dei detenuti e delle detenute che lavoreranno nel nuovo laboratorio tessile inaugurato ieri nella Casa Circondariale di Bergamo. Quello stesso grembiule verrà indossato dal vescovo Francesco Beschi, che martedì 12 aprile ha benedetto la struttura, nella celebrazione del Giovedì Santo, quando in Cattedrale ripeterà il rito della Lavanda dei piedi. “Accolgo con meraviglia - ha detto il vescovo - questa nuova iniziativa che mi evoca una condizione che viviamo in questi giorni di Pasqua e in questi tempi. In carcere le persone sono costrette a vivere a distanza ravvicinata, accomunate però da un sentimento di solitudine e abbandono. Ma mi sembra anche che le persone recluse, proprio per quello che accade “attorno” al carcere, possano percepire che non sono abbandonate. Il progetto ha una valenza positiva per chi è coinvolto, ma anche per i soggetti che lo promuovono, dando vita a una rete di rapporti e collaborazione. Il nome “Ricucendo” mi fa pensare a quell’arte giapponese che ricompone i vasi rotti con l’oro. In questo caso l’oro è la professionalità, la solidarietà, la speranza che rende un insieme di pezzi un oggetto ancora più bello”. Il grembiule che è simbolo della volontà di ricucire la propria vita da parte di chi si trova in una condizione di restrizione della libertà, processo che deve essere sostenuto dalla formazione e dal lavoro come è stato ricordato dai rappresentanti dei partner dell’importante progetto: l’assessore Marcella Messina per il Comune di Bergamo, Donatella Caseri di ABF - Azienda Bergamasca Formazione, Anna Minervini presidente del Club Soroptimist International Bergamo; Chiara Ferraris, presidente del Gruppo Tessili e moda di Confindustria Bergamo; Fausto Gritti dell’Associazione Carcere e Territorio; Fondazione Istituti Educativi Bergamo. Per tre pomeriggi alla settimana i detenuti e le detenute, che già si sono formati durante lo scorso anno, e nuovi che sono attualmente in formazione, cominceranno a lavorare per soddisfare le prime commesse arrivate: 800 grembiuli neri con il logo ricamato a colori di Abf, e le borse per le campionature del Gruppo Albini che saranno utilizzate nella Fiera Milano Unica a luglio. Busto Arsizio. Non visitò un detenuto, medico del carcere assolto di Sarah Crespi La Prealpina, 13 aprile 2022 L’uomo si sentì male, ma gli fu solo data una tachipirina. Era accusata di rifiuto di atti d’ufficio: medico del carcere di via per Cassano, secondo l’accusa non avrebbe visitato un detenuto che una notte lamentava uno stato febbrile anomalo. Il gup Stefano Colombo l’ha assolta perché il fatto non costituisce reato (il pubblico ministero Carlo Alberto Lafiandra aveva chiesto la condanna). Perché allora - era il 2018 - come oggi nella casa circondariale di Busto i medici sono pochi, la sanità è fragile e non è possibile fare fronte a tutte le emergenze. Il detenuto è comunque vivo e vegeto, anzi, sabato scorso è tornato in libertà e di quella vicenda non ne vuol più sapere nulla. Difeso dall’avvocato Giovanni Pignataro, era stato lui a sporgere denuncia, sentendosi vittima di trascuratezza e a processo si era costituito parte civile. Accadde che una notte d’inverno l’uomo si svegliò di soprassalto con la testa rovente e brividi fortissimi. Avvertì gli agenti in servizio, c’era la dottoressa di guardia ma con il mandato di visitare solo i pazienti urgenti. In più sapeva che la collega del turno precedente lo aveva già sottoposto ad accertamenti dagli esiti negativi, quindi si limitò a mandargli in cella una tachipirina. L’indomani la temperatura del detenuto schizzò ancora più in alto, la gola era in fiamme e le ossa doloranti. Aveva la tonsillite e furono necessari gli antibiotici. A suo parere si trattava di un classico caso di omissione, ma il giudice ha dato un’interpretazione più ampia e articolata dei compiti di un medico dietro le sbarre, basandosi sull’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario: c’è discrezionalità e non obbligo di visita. E mancando un protocollo preciso e univoco in materia di sanità carceraria è impossibile parlare di rifiuto d’atti d’ufficio. Padova. La pasticceria del carcere “riscopre” la storia della colomba pasquale padovaoggi.it, 13 aprile 2022 Dov’è nata veramente? Tra storia e leggenda c’è la realtà della pasticceria Giotto, nata al carcere Due Palazzi e approdata in corso Milano. C’è un lungo filo che percorre diverse tappe nella storia e che unisce la verde Irlanda alla laguna veneta: un racconto che trae origine dal medioevo più lontano e che spiega com’è nata una tradizione irrinunciabile, quella della colomba pasquale. Il viaggio - Si comincia con il lungo viaggio di San Colombano, uno dei padri spirituali d’Europa, partito dal lontano Leister, uno dei quattro storici regni irlandesi e fattosi “pellegrino di Cristo”. Lungo la strada che lo avrebbe portato a Bobbio, sua meta finale e terra in cui sorge l’abbazia che porta il nome del grande santo, Colombano incontrò a Monza la regina Teodolinda. Al predicatore fu offerto un lauto pranzo a base di selvaggina, forse persino troppo ricco, per un periodo, quello della Quaresima, votato al digiuno. Per non rifiutare e non offendere così la regnante, Colombano benedì la carne, che si trasformò in un pezzo di pane dalla forma di colomba. Storia o leggenda - Una leggenda, per l’appunto. Ma le origini medioevali del dolce pasquale per eccellenza si rintracciano anche in altri fonti: dall’assedio di Pavia (sempre in epoca longobarda) alla nascita e allo sviluppo di Venezia, che avviene proprio nello stesso periodo. E non è un caso se uno dei dolci tipici di Venezia (e di altre città del Veneto) sia proprio la “fugassa”, la focaccia dolce che viene consumata sempre nel periodo di Pasqua (“no xè Pasqua sensa fugassa”, recita ancora oggi un proverbio). Nel giorno della festa più importante dell’anno per tutti i cristiani, nella Venezia della Serenissima, si teneva la sfilata patrizia del Doge, con il seguito delle maggiori cariche e dell’aristocrazia. Immancabile la visita dogale al monastero di San Zaccaria, dove le monache preparavano un sontuoso banchetto. Il pranzo terminava con la tipica “fugassa”, per l’occasione a forma di corno ducale, la “corona” dei dogi, antico simbolo regale di origine bizantina: una sagoma affusolata che può ricordare quella di una colomba. Quanto c’è di vero? Quel che è certo è che un dolce che ricorda la colomba pasquale è sempre stato consumato in Veneto, fin dai tempi più remoti. Ed è stato un genio della pubblicità e del marketing, il veronese Dino Villani, a riproporlo in chiave moderna, con la nuova denominazione - quella di “colomba, per l’appunto” - pensata per uno dei colossi dei prodotti dolciari industriali: un’idea che negli anni ‘30 conquistò il mercato, tanto da venire ampiamente copiata. Giotto - Ma la colomba non è un’esclusiva delle grandi aziende. Tra le realtà artigianali che portano avanti questa tradizione pasquale, c’è Pasticceria Giotto, coinvolgendo il suo laboratorio situato all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, in cui lavorano detenuti impegnati a imparare un mestiere che potrà aiutarli nel reinserimento sociale. Tra i dolci e la pasticceria fresca che escono dalle mura del carcere, la colomba classica, così come quella a “Sapori di Sicilia”, ricca di canditi d’arancia e di scorzone di mandarino tardivo di Ciaculli, ma anche la colomba al cioccolato, ai frutti di bosco, alla “pesca e albicocca” oltre a quella senza canditi. Il tutto accanto alle uova di cioccolato, ai più piccoli “ovetti” e, per l’appunto, alla focaccia veneziana, realizzata anche secondo l’antica ricetta “al grano franto”, con chicchi macinati a bassa pressione e una pioggia di semi di girasole. Che a Padova si può degustare nella sua versione tradizionale, proprio grazie alla Pasticceria Giotto, che ha aperto un punto vendita in corso Milano. Milano. Presentazione del libro “Letteratura d’evasione”, scritto dai detenuti milanotoday.it, 13 aprile 2022 Il 20 aprile, alla libreria Colibrì, Ivan Talarico e Federica Graziani dialogano con Marco Rossari e presentano il libro “Letteratura d’evasione”, edito dal Saggiatore. Che cosa significa essere liberi? Potere uscire di casa tutti i giorni quando si vuole, mangiare a qualunque ora del giorno e della notte, andare a correre in un parco, a scalare una montagna, a fare un tuffo nel mare, fare l’amore con la persona che si desidera ogni volta che se ne ha l’occasione. E come si fa a essere liberi quando ciascuna di queste cose e? negata? Una risposta provano a darla i detenuti del carcere di Frosinone con i testi che formano questa antologia. Composto durante il laboratorio di scrittura ideato e condotto da Ivan Talarico, nell’ambito del progetto Fiorire nel pensiero curato e ideato da Federica Graziani, questo insieme di racconti, brevi autobiografie, pagine diaristiche, lettere, surrealistici “cadaveri squisiti” e altri esercizi letterari rappresenta una rottura delle pareti che separano l’esterno del carcere dalla realtà? al suo interno, permettendo sia a chi legge sia a chi scrive di abitare insieme uno spazio di confronto e vicinanza: quello della letteratura. Uno spazio di libera espressione nel quale gli autori danno voce al proprio passato, ai propri sogni e alle proprie paure, descrivono gli ambienti della prigione e le planimetrie di citta? immaginarie, inventano storie a partire da una fotografia e si reinventano come personaggi di finzione, condividono ricordi e parlano di amore e di morte, di errori commessi e di scelte fatte con coraggio. Arricchita dalle prefazioni di Luigi Manconi e Alessandro Bergonzoni, Letteratura d’evasione e? una testimonianza della potenza liberatoria e rigenerante della scrittura. Un’opera corale che e? anche una riflessione sulla reclusione e sulla possibilità? che un carcere non sia solo un punto di arrivo ma anche un nuovo inizio. Perché?, come scrive Manconi, “letteratura d’evasione e? sia quella che consente al detenuto-lettore di emanciparsi dalla claustrofobia mentale e fisica delle sbarre, delle porte blindate, degli spazi coatti, sia quella prodotta dal detenuto-scrittore. Ovvero da chi, nella prigione psicologica e materiale, ha trovato uno spiraglio per prendere aria, per sgranchire gambe e braccia, per conquistare una porzione di autonomia e di liberta?”. Pavia. 10 carcerati raccontano la detenzione attraverso “podcast” web di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 13 aprile 2022 Il progetto attivato da un bando europeo punta alla realizzazione di audio-documentari sui temi di provenienza etnica e stili di vita. Podcast radiofonici per raccontare e raccontarsi. Dieci detenuti della casa circondariale di Torre del Gallo stanno partecipando al progetto Sharad, vincitore di un bando Erasmus+, che mette in rete realtà carcerarie di diversi Paesi europei. I giovani del carcere pavese rappresentano l’Italia e si confronteranno con i detenuti di Francia, Portogallo e Romania. Il corso attivato dal Cpia di Pavia è finanziato dai fondi Pon ed è dedicato agli studenti del carcere iscritti ai percorsi di primo livello: propone una formazione dedicata a scrittura, registrazione, montaggio e divulgazione di contenuti e podcast radiofonici. Il primo lavoro è un confronto sull’autobiografia linguistica, curato dagli insegnanti Eleonora Salvadori e Davide Podavini: insieme i detenuti riflettono su come la provenienza etnica e linguistica influenzi i loro stili di vita e, nello specifico, anche il modo di affrontare il periodo della detenzione. Un confronto interessante visto che la classe dei dieci studenti è una “babele” linguistica: tra loro infatti ci sono cittadini marocchini, tunisini, albanesi, filippini, nigeriani e anche un italiano di etnia sinti. A curare la formazione tecnica due esperti di progetti radiofonici ad impronta sociale come Anaïs Poirot-Gorse e Nicola Mogno, audio-documentaristi in onda su Radio Popolare ma anche collaboratori in altre emittenti. A conclusione del percorso, i prodotti realizzati dagli studenti detenuti di Pavia saranno fruibili dal pubblico sulla piattaforma Sharad, insieme a quelli realizzati nelle carceri degli altri Paesi partner. “Questo è l’ultimo corso attivato dal Cpia e sta creando contaminazione di esperienze tra tante realtà diverse - spiega Davide Podavini, insegnante della classe protagonista del progetto- è stato accolto con entusiasmo dai nostri studenti perché risponde al desiderio di raccontarsi attraverso codici e strumenti della contemporaneità, di acquisire nuove competenze tecniche per rispondere alla necessità di dire e di esistere, di apprendere e di condividere”. Anche altre iniziative mirate all’istruzione sono state riattivate a Torre del Gallo. Superata la fase più critica della pandemia, si sta infatti cercando di ripristinare il calendario delle attività fondamentali, dopo un biennio gravato da difficoltà quali l’attivazione della didattica a distanza in assenza di strumenti tecnologici e informatici. Sono ripartiti ad esempio i corsi di alfabetizzazione della lingua italiana e di primo livello (ex licenza media) che coinvolgono, per l’anno scolastico 2021/2022, settantadue corsisti detenuti. Nei prossimi giorni, inoltre, sempre grazie alle progettualità Pon, il Cpia fornirà alla struttura di detenzione dei monitor digitali, che verranno installati presso i locali didattici del carcere e che saranno uno strumento essenziale per la didattica e la formazione. Daniele Bonomi, dirigente scolastico del Cpia di Pavia ha sottolineato che “si lavora in condizioni difficili, si affrontano quotidianamente nuove complessità e sfide, ma grazie all’impegno comune si ricomincia a vedere un orizzonte positivo”. Così Saviano ha fotografato il maxiprocesso a Cosa nostra in 10 puntate del suo podcast di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2022 “Lo Stato è mafia”, “La mafia ha vinto”, sono affermazioni puerili che vanno di moda ma del tutto fuorvianti e ingenerosi nei confronti degli uomini, servitori del Paese, che sono stati trucidati per colpirla. La mafia non solo rappresenta l’anti Stato, ma ha anche perso grazie ai sacrifici di giudici, poliziotti, sindacalisti, giornalisti attraverso le inchieste e di quei politici che l’hanno combattuta promuovendo nuove leggi, come ha fatto Pio La Torre. Non riconoscerlo, significa dipingere una mafia invincibile e quindi dare la percezione che ci sia stata una sorta di resa ad essa. Non è andata così. Siamo al trentennale delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, ma sarebbe grave dimenticare il maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino, che ha sferrato a Cosa Nostra un colpo decisivo. Non con la forza muscolare, ma con l’uso del Diritto. Un aspetto che ha voluto sottolineare Roberto Saviano grazie al suo nuovo podcast pubblicato da Audible Original, nato con la collaborazione di Massimiliano Coccia, dal titolo “Maxi - il processo che ha sconfitto la mafia”. Sì, perché - e va ribadito - il maxiprocesso è la testimonianza concreta della presenza di uno Stato che ha finalmente deciso di abbattere frontalmente Cosa Nostra. Il podcast merita di essere ascoltato, perché passo dopo passo ci si immerge in questo maxiprocesso che vede 475 imputati, 635 avvocati, 16 giudici, otto giudici popolari, 349 udienze, 1314 interrogatori di boss, trafficanti di droga e pentiti, 635 arringhe difensive. Il tutto tenuto in un’aula, un bunker appositamente costruito per evitare attentati e per fare in modo di rendere il dibattimento asettico, quasi staccato dalle tensioni della città. Come sappiamo, il maxi non fu indolore per Totò Riina e gli provocò un odio che si è portato fino alla tomba. Per rendere bene l’idea, prendiamo in esame la testimonianza di un pentito, Antonino “Nino” Giuffre, ex capo mafia di Caccamo, nel palermitano. Tra le altre cose si occupò di garantire a lungo la latitanza di Bernardo Provenzano e fino al 1992, quando passò un anno in carcere, fu presente alle riunioni della commissione provinciale palermitana, l’élite di Cosa nostra. A proposito di una delle riunioni, Giuffrè ha confermato quanto detto da altri pentiti, e cioè che alla fine del 1991 Riina comunicò che, da notizie certe, già sapeva che in Cassazione il maxiprocesso rischiava di finire malissimo. Dunque bisognava vendicarsi, colpire i politici che avrebbero promesso di interessarsi e non avevano concluso nulla e i principali responsabili del processo stesso, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che per di più continuavano attivamente a indagare su un altro fronte, quello del tavolino a tre gambe: mafia, politica e imprenditori per la gestione pubblica degli appalti. Attenzione alle date. Alla fine del 1991, i mafiosi avevano già deciso di uccidere Falcone e Borsellino. Quanto ai politici, l’elenco di Riina, notoriamente un sanguinario, era lungo e comprendeva, secondo Giuffre, diversi nomi, a partire dall’allora ministro della giustizia Claudio Martelli. Tutto era finalizzato alla vendetta e alla cautela preventiva, come stabiliranno le sentenze definitive per le stragi. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’esito della Cassazione del 30 gennaio 1992. Riina sperava in un giudice iper scrupoloso, che avrebbe potuto smantellare il capo d’accusa unitario. Così non è stato grazie all’intervento di Falcone stesso, il quale ideò il criterio di rotazione delle sezioni. Totò Riina, se si leggono i suoi dialoghi intercettati nel 2013, quando era al 41 bis, usò parole dure e irripetibili contro Falcone, reo soprattutto di aver fatto fallire l’esito sperato. Una rabbia che, come detto, si trascinò fino all’ultimo dei suoi giorni. Interessante il podcast di Roberto Saviano perché rende bene l’idea di come erano strutturati i corleonesi. Pensare che presero il comando solo perché sanguinari è un errore. Lo spiega molto bene, sottolineando che “si fanno interpreti solerti e zelanti del ritorno al rigore; come sempre accade in tutte le derive autoritarie, i ribelli si pongono come giustizieri di una regola compromessa, vogliono ristabilire i costumi ormai degradati”. Infatti i corleonesi si misero a capo di un’operazione di riordino dentro Cosa Nostra: tornare alle regole prime, alle decisioni collegiali. “La provincia che ricorda ai cittadini ormai rammolliti dalla bella vita quale sia il compito dell’Organizzazione”, narra Saviano in una delle 10 puntate del podcast. Questo per quanto riguarda il discorso “ideologico”, utile a Riina per saldare la sua leadership. Poi ci sono i soldi, l’obiettivo principale: quello di accumulare più ricchezza possibile, essendo quest’ultima direttamente collegata al potere. Una fonte di grande importanza è il narcotraffico. Ed ecco che Saviano ricorda che nel maxi era imputato anche Koh Bak Kin, l’uomo di Singapore, il ponte tra la mafia siciliana e i clan dell’Oriente. Importante, come ha fatto Saviano, ricordare il coraggio del giudice Alfonso Giordano, scomparso recentemente, che - come viene sottolineato “con pacatezza, con uno stile del tutto particolare, riuscì a tenere a bada l’aula più dura della storia repubblicana. Giordano, giudice civile, accettò l’incarico dopo sedici rifiuti da parte dei suoi colleghi”. Lui che non aveva mai inflitto una condanna penale si ritrovò improvvisamente a dover decidere se condannare al carcere a vita altri esseri umani. Vale la pena riportare cosa disse il giudice Giordano: “Quasi inconsapevolmente fui guidato da qualcosa di interiore. Non sono mai stato così tranquillo e sereno come in quel periodo. Non so per quale motivo, potrei anche sospettare un intervento divino. La serenità nasceva dal fatto che io mi ero proposto di fare assolutamente quello che veramente andava fatto per esigenza di giustizia e non per vendetta od opportunismi”. Saviano ci tiene a dire che il maxiprocesso ha messo in luce la teatralità dei boss che hanno fatto la storia di Cosa nostra. Michele Greco e Luciano Liggio hanno presentato la loro versione dei fatti quasi mettendo in scena un copione. Ma questa versione fu affrontata senza aggressioni. Il giudice Giordano - che ha presieduto il processo di primo grado - li ha lasciati parlare, ha dato loro tutto lo spazio per argomentare, per poi smontare, parola per parola, tutto l’impianto scenico che avevano messo in campo. Lo Stato ha vinto attraverso il diritto. È ciò che ci differenzia dalla mafia e da uno Stato di polizia. Per Falcone, come ha sempre ricordato attraverso i suoi libri e convegni, lo Stato di diritto non è qualcosa che si può nascondere quando hai di fronte a te chi ha commesso un crimine orrendo. Il diritto vale sempre. È la forza inimitabile che ha lo Stato e che la criminalità organizzata non ha. Per comprendere questo e tanto altro ancora, va assolutamente ascoltato il podcast ideato, scritto e curato da Roberto Saviano e Massimiliano Coccia. Su Audible, il podcast è composto da 10 puntate, ricche di riflessioni, testimonianze inedite, audio originali e interviste. È la restituzione della memoria, visto che a causa di una certa narrazione predominante, l’essenza del maxiprocesso di Palermo rischiava di finire nell’oblio. Italia promossa sul rispetto dei diritti umani, bocciata sul sistema giudiziario di Edoardo Izzo La Stampa, 13 aprile 2022 Report del Dipartimento di Stato USA. Promossa o quasi sul rispetto dei diritti umani (“Il governo ha identificato, indagato, perseguito e punito i funzionari che hanno commesso violazioni dei diritti umani. A volte ha implementato in modo efficace leggi contro la corruzione ufficiale”); bocciata o quasi sul funzionamento di un sistema giudiziario la cui lentezza è stata “criticata” dalle istituzioni nazionali ed europee e che la pandemia di Covid-19 ha portato all’estremo. Sono questi alcuni dei punti principali del capitolo dedicato all’Italia nel Report del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti nel mondo. Di seguito i dati principali. Rispetto dell’integrità della persona. Sul tema del rispetto dell’integrità della persona il Rapporto cita a titolo d’esempio alcuni casi di spicco delle cronache degli ultimi anni: dall’incriminazione per arresti illegittimi e torture di 11 carabinieri di Piacenza a quella del direttore e capo delle guardie carcerarie del carcere di Torino, per aver favorito il maltrattamento dei detenuti alla vicenda vergognosa delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere su un gruppo di detenuti che nel 2020 protestava per le misure anti-Covid nel periodo più buio della pandemia. Carceri. Il Report parla di “condizioni complessivamente soddisfacenti gli standard internazionali” ma poi parla esplicitamente di “alcune carceri sovraffollate e antiquate” e cita alcune delle drammatiche denunce dell’Associazione Antigone e della ONG Ristretti Orizzonti: detenuti in attesa di giudizio mischiati ai già condannati con sentenza definitiva; carceri come quelli di Taranto, Brescia, Lodi e Lucca che superano il 180 per cento della capacità; celle senza acqua calda; mancanza d’accesso all’attività fisica che sfocia in casi di autolesionismo e così via. Un mix di sovraffollamento e mancanza di servizi che hanno causato diversi morti, tra cui 35 casi di suicidio. Insufficiente sotto tutti i punti di vista anche l’accesso all’assistenza sanitaria, con impossibilità di applicare le misure anti-Covid. Innumerevoli, infine, le denunce di maltrattamenti, censite anche in un rapporto del gennaio 2020 del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa. Arresti e detenzione. Procedure generalmente rispettate, ma il tasto dolente restano il continuo rischio di superamento dei termini per la detenzione preventiva (per legge da 2 a 6 anni) e i ritardi dei processi. Sintomi di malessere del sistema giudiziario che secondo analisti e magistrati indipendenti dipendono in gran parte dal gran numero di reati legati al mondo della droga e dell’immigrazione, all’elevato numero di detenuti stranieri, all’insufficiente digitalizzazione degli atti processuali e alla stessa carenza di risorse, compresi magistrati e il personale amministrativo. Indipendenza della magistratura. “Generalmente rispettata dal Governo”, annota il Rapporto che fa riferimento solo a “segnalazioni isolate secondo cui la corruzione giudiziaria e le indagini politicamente motivate da parte dei magistrati hanno ostacolato la giustizia”. Equo processo. La costituzione prevede il diritto a un processo equo e pubblico e una magistratura indipendente in genere ha fatto valere questo diritto. Ma la legge nella realtà non è uguale per tutti: “I detenuti stranieri - annota il Rapporto - non sono stati in grado di accedere tempestivamente ai necessari servizi di interpretazione o traduzione”. Di più: “Il ministero della Giustizia ha riferito che il periodo tra un’accusa penale e l’inizio del processo è stato in media di 478 giorni. Inoltre, sono trascorsi in media 1.038 giorni prima che un caso arrivasse alla corte d’appello dal momento dell’incriminazione iniziale”. I ritardi del sistema si traducono poi in nuove ingiustizie: “Gli imputati a volte hanno approfittato dei ritardi per superare i termini di prescrizione, il che ha consentito loro di evitare una sentenza di colpevolezza al processo, o di essere scarcerati in attesa di un appello da parte dell’ufficio del pubblico ministero. Nel 2019 il Ministero della Giustizia ha denunciato la prescrizione applicata a 113.524 casi”, annota il Rapporto, che tuttavia dà conto della riforma dell’ottobre 2021 che ha previsto una prescrizione di due anni per le cause in appello e di un anno per le cause che arrivano in Cassazione. Libertà di stampa. Diritto rispettato. Nella casistica segnalata dal Report si sottolinea che “le sanzioni penali per diffamazione sono state eseguite di rado, ma il 21 aprile un giudice di Roma ha condannato un ex redattore e giornalista del quotidiano La Repubblica a pagare 50.000 euro all’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini come compenso per un articolo relativo a una cancellazione viaggio in Israele”. In risalto la “crescente ostilità nei confronti dei giornalisti, principalmente a causa delle minacce affiliate alla criminalità organizzata” e le molestie ai giornalisti da parte di “attivisti neofascisti” e le molestie sulle piattaforme dei social media “da parte di attivisti privati ????e politici”, in aumento nel 2020 per un totale di 123 casi di intimidazione censiti dalla polizia nei primi 7 mesi dell’anno. La Federazione nazionale della stampa italiana ha inoltre segnalato 110 casi di minacce rivolte a giornalisti tra gennaio e giugno, di cui 18 da parte di bande criminali organizzate e 36 da organizzazioni politiche estremiste. Rifugiati. Il Rapporto riconosce che il Governo ha collaborato con l’UNHCR e altre organizzazioni internazionali e umanitarie nel fornire protezione e assistenza ai rifugiati, ai richiedenti asilo e ad altre persone preoccupanti, per un totale di 63.062 migranti irregolari marittimi accolti in Italia paese, rispetto ai 32.919 del 2020. Ma riporta anche le osservazioni di ONG e osservatori indipendenti sulle “difficoltà nelle procedure di asilo, comprese incoerenze nell’applicazione degli standard nei centri di accoglienza e tassi di rinvio insufficienti delle vittime della tratta e dei minori non accompagnati a servizi adeguati”. Sotto la lente anche le accuse rivolte al Governo per gli accordi stretti con la guardia costiera libica; le denunce per lo sfruttamento lavorativo, compreso il traffico di manodopera, dei richiedenti asilo, in particolare nei settori agricolo e dei servizi; lo sfruttamento sessuale, compreso il traffico sessuale dei minori migranti non accompagnati. “L’elevata disoccupazione nel paese e il blocco del Covid-19 hanno anche reso difficile per i rifugiati trovare un lavoro legale”, prosegue in Rapporto e “i limitati tentativi del governo di integrare i rifugiati nella società hanno prodotto risultati contrastanti. Molti richiedenti asilo si sono trasferiti in altri paesi europei”. Violenze domestiche. “La pandemia di Covid-19 potrebbe aver causato e mascherato un aumento della violenza contro le donne”, annota il Rapporto, sottolineando che “tra agosto 2020 e luglio 2021 62 donne sono state uccise da conviventi o ex partner”, mentre nello stesso periodo, le autorità hanno segnalato 11.832 casi di stalking e la hotline gestita dal Dipartimento per le Pari Opportunità ha ricevuto 7.974 chiamate, con un aumento del 39 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020. Nel 72 per cento di quei casi di violenza, i maltrattamenti sono avvenuti in casa dove, nel 48 per cento dei casi, erano presenti bambini. Discriminazioni razziali o etniche. Le denunce riportate dal Rapporto riguardano casi di “incitamento all’odio, attacchi violenti, sgomberi forzati da campi non autorizzati e maltrattamenti da parte delle autorità municipali”. Nel 2019 le autorità hanno denunciato 726 crimini di odio razziale, inclusi 234 episodi di incitamento alla violenza, 147 atti di profanazioni gravi e 93 atti di violenza fisica. Sotto la lente anche la condizione dei campi Rom non autorizzati spesso privi di accesso all’acqua potabile, all’elettricità o alle fognature, i cui ospiti hanno una aspettativa di vita media di circa 10 anni inferiore a quella del resto della popolazione. Abusi su minori. Nel 2020 la Ong Telefono Azzurro ha registrato un aumento del 41 per cento del numero di denunce di abusi su minori. Nel 2020 sono state 13.527 le denunce di minori scomparsi, di cui circa il 70 per cento erano stranieri. Il governo ha implementato programmi di prevenzione nelle scuole, ha prontamente indagato sui reclami e punito i colpevoli. Sfruttamento sessuale dei bambini. Osservatori indipendenti e il governo hanno stimato che almeno 4.000 minori stranieri sono stati vittime di sfruttamento sessuale, compreso il traffico sessuale di minori. Secondo il Dipartimento per le Pari Opportunità, il numero delle vittime minori della tratta che hanno ricevuto assistenza è diminuito da 160 nel 2019 a 105 nel 2020. Nel 2020 la Polizia Postale ha segnalato 1.578 casi di pedofilia online, con un aumento del 232% rispetto al 2019. Minori sfollati. il Ministero dell’Interno ha denunciato 5.101 minori non accompagnati arrivati ??nel Paese tra gennaio e 17 agosto. Al 31 luglio, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha segnalato la presenza nel Paese di 8.382 minori non accompagnati, di cui il 97% erano ragazzi. Ha inoltre affermato che 325 minori precedentemente registrati nei centri di accoglienza sono stati denunciati come dispersi tra gennaio e luglio, mettendoli a rischio di sfruttamento lavorativo e sessuale, compresa la tratta. Antisemitismo. L’Osservatorio sull’antisemitismo, parte del Centro di documentazione ebraica contemporanea, ha riportato 123 incidenti antisemiti tra gennaio e agosto, compresi atti di violenza. La maggior parte degli incidenti si è verificata durante le festività o le celebrazioni ebraiche. Tra gli episodi segnalati, lo smantellamento da parte delle forze dell’ordine del gruppo estremista di estrema destra, l’Ordine Ariano Romano. Discriminazioni di genere. Le ONG che si battono per i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersessuali (LGBTQI+) hanno segnalato casi di violenza sociale, discriminazione e incitamento all’odio. Il sito Gay.it ha ricevuto 70 segnalazioni di discriminazione nei confronti di uomini gay tra gennaio e luglio rispetto alle 64 registrate nel 2020. Caporalato. Segnalati gli sforzi del Governo per contrastare gli intermediari illeciti e lo sfruttamento, specie nel settore agricolo. Nel 2020 le autorità nazionali hanno identificato 1.850 potenziali vittime di caporalato e altri reati in materia di diritto del lavoro, di cui 119 erano migranti privi di documenti. Squadre in diverse province del centro-sud Italia hanno ispezionato 758 siti, controllato 4.767 posizioni e identificato 1.069 violazioni delle regole del lavoro e 205 potenziali vittime. Lavoro minorile. Durante l’anno sono state segnalate alcune segnalazioni di lavoro minorile, principalmente nelle comunità di migranti e rom. Nel 2020 ispettori del lavoro e carabinieri hanno individuato 127 lavoratori minorenni, di cui 51 operanti nel settore dei servizi (alberghi e ristoranti). Discriminazioni sul lavoro. I casi segnalati si basano su genere, religione, disabilità, orientamento sessuale e identità di genere. In molti casi, secondo i sindacati, le vittime di discriminazione non hanno voluto richiedere le forme di tutela previste dal diritto del lavoro o dai contratti collettivi, per timore di ritorsioni. Secondo uno studio Eurostat del 2021, la retribuzione oraria lorda delle donne era in media del 14,1% inferiore a quella degli uomini che svolgevano lo stesso lavoro nel paese nel 2019. Nel 2020 gli ispettori del Ministero del Lavoro hanno effettuato 309 ispezioni a tutela delle madri lavoratrici e delle donne in gravidanza. I settori con il maggior numero di violazioni includevano l’ospitalità, il commercio all’ingrosso e al dettaglio, il turismo e l’assistenza sanitaria e domiciliare. Sicurezza sul lavoro. Nel 2020 ispettori del lavoro e carabinieri hanno ispezionato 103.857 aziende (comprese le aziende agricole) e identificato 93.482 lavoratori le cui condizioni di lavoro violavano il diritto del lavoro. Nel 2020 si sono verificati 1.270 decessi sul lavoro per incidenti nel settore industriale e 554.340 incidenti denunciati che hanno provocato infortuni. Fine vita, i paletti della Lega: Pillon relatore e una stretta anti-droga di Giovanna Casadio La Repubblica, 13 aprile 2022 Le condizioni del Carroccio per non affossare la legge sul suicidio assistito in Senato: il nome più accreditato è quello del senatore ultra cattolico da sempre contrario al ddl Zan e aumentare le pene prevedere l’arresto in flagranza per spaccio. Non sarà insabbiata la legge sul suicidio assistito al Senato, ma a patto che uno dei relatori della proposta sia leghista e che, parallelamente, si discuta nelle commissioni Giustizia e Sanità di aumentare le pene e prevedere l’arresto in flagranza per spaccio e produzione di droga. Sono le condizioni poste dalla Lega. Entro giovedì le commissioni dovrebbero riunirsi per decidere, in vista dell’esame del fine vita fissato subito dopo Pasqua. E il nome più accreditato come relatore è quello del leghista Simone Pillon, senatore ultra cattolico, promotore della battaglia contro il ddl Zan sull’omofobia e della campagna contro l’utero in affitto (su cui Matteo Salvini ha appena presentato una proposta di legge di iniziativa popolare), che in Italia è già vietato, però da perseguire, secondo la Lega, anche se si ricorre alla pratica all’estero. “Sono pronto” ha detto Pillon ai colleghi senatori. Ma ha sottolineato che la legge sul suicidio assistito è da modificare per evitare la pratica eutanasica nei confronti degli anziani malati. Per ora però, e per evitare la sollevazione di Pd, M5S e Leu, il senatore a chi gli chiede una dichiarazione, si limita a rispondere: “No comment, farò sapere”. Dunque tra i fronti aperti da Salvini, oltre al catasto, alla delega fiscale e alla riforma della giustizia, c’è anche quello dei diritti civili. Alla Camera con l’ostruzionismo sullo “ius scholae”, in Senato affondando la legge sul suicidio assistito approvata a Montecitorio, contrarie le destre, il 10 marzo scorso. Annamaria Parente, la presidente della commissione Sanità, di Italia Viva, ha chiarito che non intende ritardare: “Garantirò l’iter istituzionale”. Insomma accelerazione sì, melina no. E pensa di chiedere un parere agli uffici per la legge sulla droga (primo firmatario il capogruppo Massimiliano Romeo), dal momento che l’argomento è in discussione a Montecitorio. Per il Pd il fine vita è una battaglia di civiltà. Dichiara il vice presidente dei senatori dem, Franco Mirabelli: “C’è l’impegno dato dalla Corte costituzionale al Parlamento di legiferare sul suicidio assistito e al Senato arriva un testo che si limita a recepire la sentenza della Corte: dobbiamo assolutamente completare l’approvazione”. Allo stesso modo la pentastellata Alessandra Majorino attacca: “Il comportamento della Lega sul suicidio assistito è inaccettabile dal punto di vista parlamentare e politicamente è ricattatorio”. Si sfoga Loredana De Petris di Leu: “Il centrodestra sta cercando di mettere i bastoni tra le ruote sul fine vita, preparando l’ostruzionismo ancor prima che si cominci a discutere”. I numeri dei giallo-rossi al Senato sono più risicati che alla Camera, quindi il percorso per l’approvazione definitiva è tutto in salita. In otto articoli, la legge riprende le indicazioni della Consulta dopo la sentenza del 2019 sul caso Cappato, processato e poi assolto per avere aiutato nel suicidio medicalmente assistito Dj Fabo. Sono previsti molti paletti, tra cui il passaggio attraverso le cure palliative e il requisito per poter accedere al suicidio assistito è quello di essere attaccati a macchine di sostegno vitale. Per i radicali e l’associazione Coscioni il rischio è che la legge provochi discriminazioni tra malati terminali e chiedono di allargarne le maglie. Ma per i centristi come Paola Binetti, medico, cattolica, “è una pratica eutanasica”. Il centrodestra è sulle barricate e si comincia già dai relatori. In commissione Sanità si pensa di indicarne due: la dem Caterina Biti e, forse, il grillino Giuseppe Pisani, medico. Pillon dovrebbe essere nominato invece dal presidente della commissione Giustizia, il leghista Andrea Ostellari. Salvo ripensamenti, per evitare il muro contro muro. Rifugiati. Il centro Astalli: “Nel 2021 raddoppiati gli sbarchi e aumentati gli abusi sulle donne” di Paolo Rodari La Repubblica, 13 aprile 2022 Il Rapporto 2022 del Servizio dei Gesuiti ai rifugiati è stato presentato dal cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali. “Nel 2021 sono 67.040 i migranti arrivati in Italia via mare, quasi il doppio rispetto ai 34.154 dell’anno scorso. I minori stranieri non accompagnati sono stati 9.478, a fronte dei 4.687 del 2020. Ancora oggi circa due migranti su tre sono ospitati nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria pensati per far fronte all’arrivo dei grandi numeri”. Lo dice il Rapporto annuale del Centro Astalli Rapporto 2022 del Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti ai rifugiati, presentato oggi dal cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali Ue, dalle vice ministra degli Esteri, Marina Sereni, e da padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli: “Il sistema dell’accoglienza diffusa (Sai), con piccoli numeri e progetti d’integrazione più mirati - rileva il servizio ai rifugiati dei Gesuiti -, accoglie solo circa 25.000 persone delle 76.000 presenti nelle strutture convenzionate”. Le persone in situazioni di particolare fragilità, vittime di tortura, violenza intenzionale o abusi sessuali, che nel corso dell’anno sono state accompagnate dal Centro Astalli attraverso l’azione coordinata del servizio medico e dello sportello legale sono state numeros: “Quasi tutte le donne seguite dal servizio di ginecologia (213 nel 2021) hanno subito torture, violenza di genere o abusi, nei Paesi di origine o durante i viaggi”. E ancora: “Le vittime di tortura che si sono sottoposte a una visita per il rilascio del certificato medico-legale da presentare alla Commissione Territoriale sono state 334, in prevalenza uomini ma con una percentuale di donne in aumento (il 32% del totale), provenienti soprattutto da Nigeria, Senegal ed Eritrea. Spesso il disagio di queste persone, che fatica sempre più a emergere nelle prime fasi dell’arrivo, esplode più tardi: nei centri di accoglienza in convenzione con il SAI la percentuale di rifugiati vulnerabili è in aumento (37% sono vittime di tortura e violenza): lavorare su percorsi di integrazione quando è venuta meno una presa in carico tempestiva della vulnerabilità rappresenta un aggravio molto serio sulla riuscita dei percorsi di autonomia”. “Una sottolineatura doverosa - si legge ancora nel rapporto - riguarda coloro che hanno vissuto l’esperienza del carcere in Libia: in modo pressoché unanime raccontano di abusi, violenze e persecuzioni. Nel 2021 si sono aggiunti a loro i migranti che sono riusciti ad arrivare in Italia passando dai Balcani e che raccontano di percosse e violenze da parte di forze dell’ordine nel tentativo di respingerli”. Gli effetti socio-economici della pandemia acuiscono le vulnerabilità dei rifugiati, aumentano fragilità e marginalità sociale: “Il sistema d’accoglienza a più di due anni dal superamento dei decreti sicurezza non riesce ad uscire dalla logica dell’emergenza. Le migrazioni spariscono dai media ma non cessano gli abusi in Libia, le morti in mare e i respingimenti indiscriminati alle frontiere. Continuano a essere molti gli ostacoli che impediscono a richiedenti e titolari di protezione internazionale di fruire realmente di diritti che dovrebbero essere loro garantiti per legge - sottolinea il Centro -. Uno dei primi scogli è ormai da anni l’iscrizione anagrafica, che rappresenta uno dei presupposti necessari per l’accesso effettivo ai diritti sociali. La digitalizzazione di molti uffici ha rappresentato un aggravio nella vita dei migranti forzati. Un percorso, il loro, già di per sé accidentato e reso tortuoso da una burocrazia respingente, è stato ulteriormente complicato dalle misure necessarie al contenimento della pandemia, che in molti casi non hanno tenuto conto delle difficoltà degli utenti più fragili”. “Anche la campagna vaccinale - aggiunge il Rapporto - ha avuto bisogno dell’intervento del privato sociale per arrivare alle fasce più vulnerabili della popolazione. A Palermo la sede del Centro Astalli è divenuta un vero e proprio hub dove potersi vaccinare. Lo sportello sanitario di Catania è stato un riferimento per tutti coloro che, pur vaccinati, non riuscivano a ottenere il green pass perché non erano in possesso della tessera sanitaria”. “Il Centro Astalli, che da sempre collabora con le istituzioni in una logica di sussidiarietà, per rendere i servizi pubblici più accessibili e adeguati ai bisogni reali delle persone, non può che esprimere preoccupazione quando ostacoli, burocratici o organizzativi, finiscono per allontanare coloro che avrebbero più urgenza di sentirsi inclusi e accolti”. Rifugiati. Sempre più vittime di tortura, ma l’Europa chiude le porte di Adriana Pollice Il Manifesto, 13 aprile 2022 Il report del Centro Astalli. “Solo per gli ucraini è scattata la protezione temporanea, misura inapplicata da venti anni”. Nel 2021 via mare sono arrivati in Italia in 67mila, due su tre sono ospitati nei Cas. Nel 2021 sono stati 67.040 i migranti arrivati in Italia via mare (nel 2020 erano approdati in 34.154). I minori non accompagnati sono stati 9.478 a fronte dei 4.687 del 2020. Circa due migranti su tre sono ospitati nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria, effetto dei decreti Salvini. Nel sistema dell’accoglienza diffusa (Sai), con piccoli numeri e progetti d’integrazione mirati, ci sono solo circa 25mila persone delle 76mila presenti nelle strutture convenzionate. I dati sono contenuti nell’ultimo rapporto del Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti dedicato ai rifugiati. Le richieste d’asilo su scala mondiale nel 2021 sono state circa un quarto rispetto all’anno precedente ma l’Ue continua nella politica di chiusura delle frontiere. Padre Camillo Ripamonti: “Solo la crisi dei profughi ucraini ha portato all’adozione da parte del Consiglio Ue della protezione temporanea regolata dalla direttiva 55/2001. Una misura per 20 anni rimasta inapplicata, nonostante si siano registrati flussi massicci di persone in fuga da conflitti o violazioni dei diritti umani. Pensiamo all’Afghanistan lo scorso agosto”. Fino all’invasione russa dell’Ucraina è continuata, invece, una politica di chiusura e di esternalizzazione delle frontiere: “È stato rinnovato l’accordo con la Turchia che prevede il trattenimento sul proprio territorio di rifugiati. Si tratta di persone in fuga da Siria, Iraq e Afghanistan. Si è continuato ad assistere alle morti nel Mediterraneo (circa 2mila quelle accertate) e ai respingimenti verso la Libia o a quelli di Ceuta; ai blocchi sulla rotta balcanica, fino alla tensione tra Bielorussia e Polonia dello scorso dicembre con migliaia di migranti ammassati sul confine”. Ci sono crisi umanitarie decennali: “La Siria è giunta al suo undicesimo anno di guerra o l’Afghanistan dove, dopo venti anni di conflitto, lo scorso agosto con la partenza del contingente Nato è tornato il regime talebano. Si stima che a metà 2021 gli sfollati nel mondo siano stati oltre 84 milioni, in aumento rispetto agli 82,4 milioni di fine 2020”. Solo dalla Siria arrivano 6,7 milioni di rifugiati. Dei paesi con il maggior numero di sfollati, i primi 5 sono la Repubblica Democratica del Congo, l’Etiopia, l’Afghanistan, il Myanmar e la Repubblica Centrafricana. Il rapporto registra un aumento dei minori non accompagnati nelle strutture e nei servizi del Centro Astalli, “un’utenza particolarmente vulnerabile a cui spesso lo Stato non riesce a garantire una presa in carico protetta”. Le persone assistite in situazioni di fragilità (vittime di tortura, violenza intenzionale o abusi sessuali) sono state numerose. “Quasi tutte le donne seguite dal servizio di ginecologia hanno subito torture, violenza di genere o abusi”. Le vittime di tortura provengono soprattutto da Nigeria, Senegal ed Eritrea. Coloro che hanno vissuto l’esperienza del carcere in Libia raccontano di abusi, violenze e persecuzioni. “Nel 2021 si sono aggiunti i migranti arrivati dai Balcani, che raccontano di percosse e violenze da parte di forze dell’ordine nel tentativo di respingerli”. Tanti gli ostacoli che impediscono a richiedenti e titolari di protezione internazionale di fruire di diritti garantiti per legge. Uno dei primi scogli è l’iscrizione anagrafica. “Un percorso accidentato, reso tortuoso da una burocrazia respingente, è stato ulteriormente complicato dalla pandemia. Anche la campagna vaccinale ha avuto bisogno del privato sociale per arrivare alle fasce più vulnerabili”. Quelle ustioni dei migranti a bordo delle navi umanitarie di Luigi Manconi La Repubblica, 13 aprile 2022 Mentre scrivo, la nave Sea Watch 3 dell’omonima ONG si trova a sud della Sicilia, di fronte a Gela, in attesa dell’indicazione di un porto dove sbarcare le 211 persone, soccorse nel Mediterraneo centrale tra sabato e domenica. Un naufragio come centinaia di altri registrati negli ultimi dieci anni. Qui si vuole evidenziare un dettaglio - anch’esso sempre ricorrente - che, tuttavia, risulta trascurato o totalmente ignorato. Nel comunicato della Ong Sea Watch si legge che tra i minori e le donne molti presentavano “segni di gravi ustioni dovute al carburante”. È un particolare atroce che, credo, merita di essere approfondito. Si tratta di una conseguenza, tra le più crudeli, del viaggio in mare intrapreso nelle condizioni imposte dalla necessità di fuggire, come si può e come si riesce, da un destino disgraziato. Quelle ustioni sono l’effetto della combinazione tra acqua di mare e carburante: una “miscela maledetta”, come la definisce Caterina Bonvicini nel bel libro Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie, pubblicato da Einaudi (con un saggio e le foto di Valerio Nicolosi). L’autrice, che ha compiuto più missioni di soccorso in mare a bordo di navi umanitarie, mentre assiste al trasbordo di una donna con tre bambini, scrive: “Ancora più inquietante è stato vedere la barella arancione alzarsi dal ponte verso l’elicottero e dondolare; la sua lenta ascesa, durata forse pochi minuti, a me è sembrata un’eternità. Lei, divorata dalle ustioni, di colpo in cielo, verso quello strano paradiso, sospesa e in attesa - di smettere di soffrire tanto, almeno”. E ancora: “Il giorno dopo, mentre giocavo con loro, a un certo punto mi hanno fatto vedere i segni delle ustioni. Ha cominciato una bimba e gli altri l’hanno seguita a ruota, neanche fosse stata una gara. “Io qui!” “Io qui!”. C’era chi indicava il viso e chi mostrava la bruciatura sul petto. “Io qui!” “Io qui!”. Tutti ne avevano. Sorridevano, mi facevano vedere peluche e trattori, le guance coperte di ustioni”. La fantastica metafora di Giuseppe Ungaretti (L’allegria dei naufragi) diventa, qui, un terribile pezzo di realtà, che la penna sicura di Bonvicini sa raccontare con scrittura, per così dire, severa: ovvero senza alcuna concessione alla retorica e senza alcun compiacimento verso quell’estetica dell’orrore così diffusa. Per una curiosa coincidenza, a pochi giorni di distanza da quello di Bonvicini, Castelvecchi pubblicherà un altro libro, anch’esso opera di una giovane donna, che ripercorre quelle stesse via d’acqua. È il racconto di Valentina Brinis, Come onde del mare. Diario di bordo di un’esperienza umanitaria. Un libro singolare e affascinante, dove il resoconto di una “esperienza umanitaria” offre l’occasione per una riflessione sincera, e talvolta spietata, su se stessa, a partire da temi come la malattia, la maternità, la perdita. In questa combinazione tra il dolore del mondo e la sofferenza individuale di chi, carica di inquietudine e sconforto, tuttavia affronta l’impresa di strappare esseri umani al mare, non si avverte alcuna incongruenza. Ciò grazie a una scrittura sobria, che la pena sembra rendere ancora più asciutta. La linea rossa tra etica e geopolitica di Massimo Nava Corriere della Sera, 13 aprile 2022 Per il dopoguerra gli interrogativi sono molti e l’analisi della situazione deve andare al di là della condanna morale dell’aggressione russa. Non saranno mai abbastanza le parole di condanna per la guerra di Putin. Non sarà mai abbastanza l’indignazione di fronte all’insensato prezzo inflitto alla popolazione di un Paese aggredito. Non sarà mai abbastanza la pietà per le vittime, compresi i ragazzi al servizio dell’invasore che a migliaia torneranno a casa in casse di legno. Queste sono le ragioni del cuore e di uno slancio di solidarietà che ci ha spinto a scegliere da che parte stare. Tuttavia, la sfera dell’etica non dovrebbe avere del tutto il sopravvento su considerazioni geopolitiche per comprendere genesi del conflitto, conseguenze e possibili vie d’uscita, probabilmente avulse da valutazioni morali. La narrazione sintetica, di massacri attribuiti a una parte sola, di vittime da un lato e ambizioni del “nuovo Hitler” dall’altro, amplifica invece la sfera etica e conferma una lettura lineare degli avvenimenti che, storicizzati, apparirebbero più complessi. Una sottile linea rossa divide la sfera dell’etica dalla geopolitica. Se si prova a oltrepassarla si rischia il linciaggio mediatico, peraltro poco nobile in democrazia. Ma ragionare aiuta, con la speranza che la Storia non continui a ripetersi. Napoleone era un brigante per Lev Tolstoj e un condottiero per Victor Hugo. La semplificazione del “nuovo Hitler”, malato o impazzito, impedisce di riflettere sulla strategia di allargamento della Nato e sulle ragioni che hanno spinto Mosca a dispiegare la forza militare. Per Putin è stato un pretesto, per molti osservatori indipendenti anche un errore. Gli interventi di Usa e Nato in Serbia, Libia, Irak, Afghanistan, non giustificano l’invasione di un Paese democratico, ma restano decisioni che hanno fatto a pezzi il diritto internazionale e provocato decine di migliaia di vittime, non messe sul conto di nessun tribunale. Il separatismo del Donbass e l’annessione della Crimea hanno un precedente (e un altro pretesto) nel Kosovo. Gli accordi di Minsk non sono stati applicati, la conquista dell’autonomia e la riconquista della sovranità hanno provocato quattordicimila morti. Sono argomenti che ci dicono che la guerra, fino all’ultimo minuto, poteva essere evitata e che, dopo tanti lutti, si torna al punto di partenza: l’autonomia dei territori contesi, la neutralità dell’Ucraina come base di trattativa. Se immaginiamo il dopoguerra, qualche interrogativo si impone. Al di là delle responsabilità, ci saranno vincitori e vinti. Chi sta vincendo? Quali scenari si stanno disegnando sulle macerie? Piaccia o meno, il capolavoro geopolitico lo stanno portando a compimento gli Stati Uniti, dopo la figuraccia in Afghanistan e le tentazioni isolazioniste. Washington ha rilanciato valori occidentali, ricompattato la Nato, spinto gli europei a spendere in armamenti (di cui gli Usa saranno i maggiori fornitori), aumentato esportazioni di gas e petrolio. Cina e India si mantengono quasi neutrali. Si sono astenute sul voto di condanna all’Onu e sostengono la Russia nell’aggirare le sanzioni. Calcolano di trarre vantaggi da un’alleanza “energetica” con la cricca del Cremlino, ricca di materie prime e sul lastrico finanziario. La Russia è stata sospesa dal Consiglio dei diritti umani, su richiesta degli Usa, ma la mozione è stata approvata con 93 favorevoli, 24 contrari e 58 astenuti, fra i quali India, Messico, Brasile, Pakistan, Indonesia, Egitto. La Cina ha votato contro. Il mondo si sta di nuovo dividendo in blocchi, verso una confrontazione fra Occidente e resto del pianeta che raffredda alleanze contro altre emergenze: terrorismo e ambiente. L’Europa è unita nella condanna della Russia. Ma qualche riserva sull’unanimità delle intenzioni è lecita, se si osservano le posizioni della Germania sulle forniture di gas e dell’Ungheria in rapporto al Cremlino. E fa venire i brividi il possibile terremoto in Francia, la vittoria di Marine Le Pen, amica di Putin. Intanto, si lecca le ferite delle sanzioni, vede impennarsi l’inflazione, abbassa i termosifoni, chiude gli occhi su regimi arabi in cambio di petrolio e stenta a imporsi sinergie per costruire la difesa comune. Se è lecito oltrepassare la linea rossa, occorre riflettere sulle possibilità di vittoria dell’Ucraina, al di là della sua eroica resistenza grazie anche alle forniture di armi da Europa e Stati Uniti. È un Paese devastato, percorso da fremiti nazionalisti, spopolato da milioni di profughi, probabilmente costretto a una sostanziale neutralità e all’amputazione dei territori contesi, nell’anticamera (ma fino a quando?) dell’Europa. Quanto alla Russia, la sconfitta morale è catastrofica e il prezzo che sta pagando sul piano militare ed economico è altissimo. Ma la linea rossa ci obbliga a riflettere sul consenso di Putin in patria, sul rafforzamento delle alleanze del Cremlino, sulle minacciose strategie che Mosca è tutt’ora in grado di mettere in campo nel Mediterraneo e in Africa. A poco servirebbero tribunali internazionali per crimini di guerra, se Putin conservasse le leve dell’apparato per continuare il conflitto, almeno fino a un risultato minimo che gli consenta di salvare la faccia sua e l’onore del Paese. Non sarà etico, ma probabilmente è logico. La difesa dell’Unione europea: l’esercito che piace (solo ora) di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 13 aprile 2022 Molti ex pacifisti oggi si dicono favorevoli ma soltanto perché continuano a pensare che il vero avversario sia l’”egemonismo americano” e quindi la Nato. Improvvisamente l’idea di un esercito europeo sta ricevendo un plebiscito di consensi. Attempati pacifisti, studenti barricadieri, molti personaggi custodi del retaggio “antimperialista” della sinistra, i quali fino a ieri al solo parlare di necessità per l’Ue di un suo proprio apparato di difesa militare mostravano il più radicale dissenso sostenendo che la vocazione dell’Europa era quella all’”inclusione”, ad essere uno “spazio del diritto” e ad altre simili nobili cause, oggi invece ammettono che sì, un esercito europeo è necessario. Ma non è tanto l’aggressione russa all’Ucraina ad aver fatto cambiare loro idea quanto ciò che essa ha prodotto: cioè l’evidente rilancio del ruolo della Nato e dunque il rafforzamento del ruolo degli Stati Uniti sulla scena europea e mondiale. E infatti è con tutta evidenza in contrapposizione a tale ruolo che gran parte del fronte neo-ex-pacifista, il quale si riunisce intorno alla parola d’ordine “No alla guerra”, si dice oggi a favore di un esercito europeo. La verità è che per il pacifismo nostrano il vero avversario continua ad essere l’America. Sicché pur di opporsi all’”egemonismo americano” e a quello che viene considerato il suo strumento militare rappresentato dalla Nato - rivelatosi più che mai centrale nel sostegno alla causa ucraina - va bene anche la scoperta del patriottismo europeo e l’ipotesi di un esercito targato Ue. Insomma dal secco “No alla Nato” di un tempo si è passati all’odierno “Facciamo a meno della Nato armandoci per conto nostro” (salvo poi, però, alquanto contraddittoriamente, opporsi a spada tratta a ogni aumento della spesa militare). Personalmente sono convinto non da oggi - cioè da quando non si era in molti a dirlo - che se vuole contare qualcosa nel mondo, se vuole avere una politica estera, l’Unione europea deve dotarsi di uno strumento militare, deve armarsi adeguatamente. Ma il sano realismo che sta dietro questo proposito deve fare i conti non solo con il fatto che verosimilmente un obiettivo del genere non può essere realizzato prima di una ventina d’anni (ad essere ottimisti), ma anche con la circostanza che prima è indispensabile sciogliere due o tre giganteschi nodi politici. Sicché parlare oggi di “esercito europeo” come un’alternativa alla Nato è solo un esercizio retorico o un espediente politico di bassa lega. Probabilmente le due cose insieme. Innanzi tutto, come dovrebbe essere evidente, un esercito europeo realmente operativo non nasce dalla somma di dieci/quindici organismi militari finora assai diversi tra loro da moltissimi punti di vista a cominciare da quello degli armamenti (per cui accade che ogni esercito sappia usare solo le armi proprie). Un esercito europeo vuol dire invece creare un organismo integrato a ogni livello, dotato di un’effettiva, fisiologica, capacità di comunicazione tra i diversi contingenti nazionali e addestrato a operare unitariamente. Ma queste non sono cose che s’organizzano in sei mesi e neppure in un anno. A rendere tutto più complicato si aggiunge il fatto che un simile processo aggregativo soffrirebbe della mancanza in partenza di un nucleo forte egemone con funzione e capacità aggreganti quale è oggi nella Nato l’esercito degli Stati Uniti. Non basta. Come dimostra nella maniera più evidente l’attuale guerra in Ucraina, oggi, per essere operativo un esercito deve disporre di quattro requisiti essenziali: di un sistema globale di osservazione satellitare, di complessi apparati elettronici di spionaggio e intercettazione, di un sistema efficiente di comunicazioni tra tutte le sue unità sul campo e tra queste e il centro, e infine di un’intelligence capace a tutti i livelli. Ora, specialmente per quel che riguarda il primo di questi requisiti (ma anche per gli altri credo che il discorso non sia troppo diverso) mi sembra molto difficile - se non in tempi medio-lunghi - che un esercito europeo possa offrire garanzie adeguate. Organizzare un sistema di osservazione satellitare efficace, indipendente da quello di cui dispongono gli Stati Uniti, è un’impresa che richiederebbe certamente investimenti e tempi non proprio irrilevanti: anche in questo caso anni. Da qui a quella data che cosa farebbe l’Europa? Manderebbe a combattere un esercito virtualmente cieco? C’è peraltro una questione ancora più importante di tutte quelle enumerate finora, e cioè: chi è che decide circa l’impiego di un esercito europeo, vale a dire di fatto circa una dichiarazione di guerra e la discesa in campo dell’Ue? La Commissione di Bruxelles non ne ha certo i poteri; allora il Consiglio dei capi di governo? E come? Stando ai trattati attuali, che peraltro non prevedono certo una simile eventualità, dovrebbe trattarsi di una decisione necessariamente all’unanimità: ma è mai immaginabile che su una decisione così drammatica sia possibile mettere d’accordo il Portogallo, Cipro e la Lituania? Insomma: chi decide? Come? E ancora: che cosa ne sarebbe ai fini di un’eventuale dichiarazione di guerra o comunque di un intervento militare, dei vari articoli della Costituzione della Repubblica italiana e di tutte le altre Costituzioni delle democrazie membri della Unione europea le quali più o meno riservano tutte ai parlamenti o ai governi nazionali il diritto di dichiarare la guerra e di disporre delle forze armate? È fin troppo ovvio, insomma, che senza una profonda e Dio sa quanto ardua riforma dell’Unione europea, senza una riforma che trasformi l’Unione attuale in un autonomo soggetto politico di tipo statale con propri organi di governo legittimati a decidere anche della pace e della guerra, senza di ciò parlare oggi di esercito europeo in alternativa alla Nato è un esercizio puramente velleitario. È un parlare d’altro per evitare di compromettersi con un giudizio sulle cose che sole oggi veramente contano: l’indipendenza dell’Ucraina, la sconfitta dell’aggressione russa. Le carceri russe (e turche) strapiene di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 13 aprile 2022 Stordisce sapere quante sono le persone recluse in Russia: quasi mezzo milione, oltre 275.000 in Turchia. Avete presente gli orrori nelle carceri russe denunciati da Amnesty International, da varie ONG e più ancora dal sito gulagu.net? I pestaggi, le brutalità, i detenuti gettati dalle finestre, le umiliazioni, gli stupri nel carcere di Saratov e altre prigioni documentati da una gran quantità di filmati agghiaccianti raccolti dall’ex detenuto Sergei Savelyev e postati on-line su una miriade di siti, giornali e tv di tutto il mondo (da spavento il servizio de Le Iene) con un tale impatto da obbligare Mosca a promettere correzioni? Per carità, non saranno tutti così, i penitenziari da San Pietroburgo a Petropavlovsk, però stordisce sapere quante sono le persone recluse in Russia: quasi mezzo milione. Un terzo dei 1.414.172 uomini e donne che nel gennaio 2021, dato più recente, risultavano detenuti nelle 49 amministrazioni carcerarie degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Numeri diffusi dal dossier Prisons and Prisoners in Europe 2021 a cura di Marcelo F. Aebi, Edoardo Cocco, Lorena Molnar & Mélanie M. Tiago appena pubblicato dall’Università di Losanna. Dove si legge appunto che nel 2021 i reclusi erano 53.329 in Italia 59.045 in Germania, 62.673 in Francia, 87.035 Gran Bretagna contro 275.115 in Turchia e 478.714 in Russia. Nove volte più che da noi. Quanto al rapporto con la popolazione, ogni 100.000 abitanti (più o meno quelli di Andria) c’erano 90 detenuti in Italia, 162 in Albania, 176 in Estonia, 179 in Polonia, 180 nella Repubblica Ceca, 190 in Lituania, 192 in Slovacchia, 215 in Azerbaigian, 231 in Georgia, 325 in Turchia (unico paese senza un passato comunista) e 328 nella Federazione Russa. Un dato presumibilmente cresciuto con le ultime retate di chi si è opposto all’invasione dell’Ucraina. Curiose, se non dessero i brividi, le parole dette da Matteo Salvini nel marzo ‘17 dopo uno degli arresti dell’oppositore Aleksei Navalny, destinato a perdere parzialmente la vista perché colpito agli occhi da un lancio di zelyonka per poi essere avvelenato col gas nervino e infine tornare a Mosca per essere sbattuto in carcere per nove anni: “Mi sembra esagerato creare novelli eroi. È l’ennesima montatura mediatica. Io sono per la libertà di pensiero. E sono sempre per le manifestazioni autorizzate. Ma non mi pare che questa fosse autorizzata”. Assai più grave gli sembrerà, in tempi di Covid, usar gli idranti sui neofascisti di Forza Nuova. Iran. “Detenuti lasciati morire per diniego di cure mediche” amnesty.it, 13 aprile 2022 Rapporto di Amnesty International sulle prigioni iraniane. Le autorità penitenziarie iraniane stanno commettendo sconvolgenti violazioni del diritto alla vita negando intenzionalmente cure mediche vitali ai prigionieri malati, non autorizzando o ritardando i ricoveri ospedalieri urgenti e rifiutando di indagare per accertare le responsabilità. È quanto ha denunciato oggi Amnesty International in un rapporto che esamina i decessi in carcere di 92 uomini e quattro donne, avvenuti dal gennaio 2010 in 30 prigioni di 18 province iraniane. Questi casi, precisa l’organizzazione per i diritti umani, sono illustrativi e non esaustivi: il totale potrebbe essere assai più alto poiché tanti altri casi non vengono denunciati per il ben fondato timore di rappresaglie. I 96 casi non comprendono le morti in carcere dovute alla tortura e all’uso delle armi da fuoco, su cui Amnesty International aveva già pubblicato un rapporto nel settembre 2021. Almeno 11 prigionieri sono morti dopo che erano state negate loro cure mediche adeguate per traumi provocati al momento dell’arresto o del trasferimento in carcere. Gli altri 85 sono morti a seguito del diniego di cure mediche per gravi problemi di salute - infarti, complicazioni gastro-intestinali o polmonari, insufficienze renali, Covid-19 o altre infezioni - emersi all’improvviso in carcere o relativi a preesistenti patologie non curate durante la detenzione. Il rapporto denuncia la prassi comune di non autorizzare o ritardare ricoveri ospedalieri di prigionieri in condizioni critiche di salute e quella, altrettanto comune, di negare cure mediche adeguate, test diagnostici, controlli periodici e terapie post-operatorie: situazioni che aggravano i problemi di salute, procurano ulteriore dolore e causano o contribuiscono a causare morti precoci. I reparti clinici delle prigioni iraniane non hanno a disposizione attrezzature per affrontare situazioni sanitarie gravi né sufficiente personale di medicina generale, per non parlare di quello specialistico, a cui è richiesto di fare visite per una sola o più ore nel corso della settimana “se necessario”. Di conseguenza, i detenuti che hanno bisogno di cure urgenti o specialistiche devono essere immediatamente trasferiti fuori dal carcere. Abdolvahed Gomshadzehi, arrestato quando era minorenne, è morto a 19 anni nella prigione principale di Zahedan nel maggio 2016. I medici del carcere avevano suggerito il suo ricovero ospedaliero ma la direzione del carcere aveva rifiutato. È deceduto a causa di grumi di sangue nel cervello, causati dai pestaggi subiti durante l’arresto o gli interrogatori, due anni prima, e non curati. Nel corso della sua detenzione, le sue ripetute richieste di cure mediche erano state respinte. Sessantaquattro dei 96 prigionieri di cui si occupa il rapporto di Amnesty International sono morti in carcere e, di questi, molti all’interno delle loro celle, il che significa che nelle ultime ore di vita non hanno ricevuto attenzione medica. Almeno 26 prigionieri sono morti durante il trasferimento in ospedale o poco dopo il ricovero, ritardati intenzionalmente dalla direzione delle carceri o dal personale medico. In almeno sei casi, prigionieri in gravi condizioni di salute erano stati trasferiti in isolamento, in celle di punizione o in quarantena. Quattro di loro sono morti mentre erano soli in cella, due sono stati autorizzati al ricovero ospedaliero quando era troppo tardi. In molti casi, la direzione delle carceri o il personale medico avevano accusato i prigionieri di aver “esagerato” o “falsificato” i sintomi. Nader Alizahi, morto nel novembre 2017 a 22 anni nella prigione principale di Zahedan, era stato accusato di aver riferito falsi dolori alla testa: era stato visitato e gli avevano dato una terapia per un’infezione gastro-intestinale. Vite terminate troppo presto - In gran parte dei casi, i prigionieri erano di giovane o mezza età: 23 avevano tra 19 e 39 anni, 26 tra 40 e 59 anni. Le prigioni con un’ampia popolazione carceraria appartenente alle minoranze oppresse sono citate spesso in questo rapporto di Amnesty International: 22 delle 96 morti sono avvenute nella prigione di Urmia, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, in cui la maggior parte dei detenuti è di origine curda e azera. Tredici morti si sono verificate nella prigione principale di Zahedan, nella provincia del Sistan e Belucistan, dove si trovano in gran parte prigionieri beluci. Dei 96 detenuti, 20 erano in carcere per reati di natura politica. L’impunità - Il clima di sistematica impunità prevalente in Iran incoraggia la direzione delle prigioni a continuare a negare le cure mediche ai detenuti, con conseguenze mortali. Le autorità non solo rifiutano di indagare sui decessi ma insistono a presentare la qualità delle prestazioni sanitarie offerte ai prigionieri come “esemplari” o “senza precedenti” nel mondo. Data questa situazione, Amnesty International ha rinnovato il suo appello al Consiglio Onu dei diritti umani a istituire un meccanismo d’indagine per raccogliere, conservare e analizzare prove sui più gravi crimini di diritto internazionale commessi in Iran. Per scongiurare ulteriori perdite, evitabili, di vite umane attraverso il diniego di cure mediche fondamentali, Amnesty International ha sollecitato le autorità iraniane, in attesa di radicali riforme strutturali delle strutture sanitarie all’interno delle prigioni, a far sì che i prigionieri in condizioni di salute critiche siano immediatamente trasferiti fuori dal carcere e che lo stesso sia fatto in relazione ai prigionieri con diagnosi di preesistenti o subentrati gravi problemi di salute. Una delle riforme necessarie è la modifica del regolamento che consente alla direzione delle prigioni e alle autorità giudiziarie di ignorare o annullare le richieste del personale medico e di prendere decisioni sul trasferimento all’esterno dei detenuti che hanno bisogno di cure mediche.