I diritti o sono di tutti o non sono di nessuno di Gianfranco Falcone L’Espresso, 12 aprile 2022 A partire da oggi, e in seguito per le prossime settimane, usciranno una serie di articoli sul carcere. Perché il carcere? Perché è uno dei luoghi dell’impossibile, uno di quei luoghi in cui l’umano sembra venir meno, eppure riesce misteriosamente a fiorire. Il carcere è un luogo fisico, ma è anche metafora. Senza dubbio è uno di quei luoghi in cui lo Stato mette alla prova la sua presenza, le sue ideologie, nei confronti di chi è più fragile. C’è una frase che mi è molto cara “I diritti o sono di tutti o non sono di nessuno”. Come potrei interessarmi dei diritti delle persone disabili, se non mi occupassi anche dei diritti dei migranti, dei malati mentali, dei carcerati, dei senza tetto, tanto per stilare un primo elenco? Come potrei sostenere i miei diritti se non pensassi anche ai diritti di chi mi è prossimo? Se guardassi semplicemente al mio non potrei più parlare di diritti, parlerei di privilegi. Allora per me diventa indispensabile guardare i luoghi, le persone, i contesti, le relazioni in cui i diritti di tutti devono prendere forma ed essere. Perché su questo tema non esiste la parola loro, esiste la parola noi. Oggi dialoghiamo con Susanna Marietti. Chi è Susanna Marietti? Sono la coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone. Ovviamente la mia vita non si esaurisce in questo, né si esaurisce in questo il mio interesse per il tema del carcere. Sono una persona che a una certa età ha capito di volersi impegnare nell’ambito della protezione, della promozione dei diritti della persona, cominciando non dai miei ma da quelli delle categorie più deboli e meno protette della società. Ho incrociato Antigone tanti anni fa. Credo sia un’associazione che, a differenza di come a volte accade in altri contesti, sappia proporre una visione della convivenza della società, della collettività e del mondo, a tutto tondo. Nonostante il suo specifico sia il carcere e il sistema penale, Antigone riesce a inquadrare l’uso che lo Stato fa del sistema penale in un modello generale di proposta di convivenza civile. Ho fatto per tanti, tanti anni la volontaria ad Antigone e poi a un certo punto è diventato il mio lavoro. Nel nostro dialogo useremo daremo la parola penale o useremo la parola rieducare? In italiano si parla di codice penale, di codice di procedura penale, di sistema penale. Un conto è il penale e un conto è il penitenziario. Il penitenziario è un sottoinsieme del penale. E l’esecuzione della pena, è la parte finale. Il sistema penale comprende in sé dalle indagini al processo, e tutto il sistema che ruota attorno all’elenco di comportamenti che la società ha deciso essere penalmente vietati, e all’elenco delle sanzioni che la società ha deciso essere una risposta della pubblica autorità a quei comportamenti. Quindi, è una cosa ben più ampia. Dopodiché la pena è pena. Il carcere è una pena, che poi debba tendere alla rieducazione non toglie che sia una pena. La Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione. Non è che non parla di pene. Mette insieme le due cose. Fa parte delle vostre attività visitare gli istituti penali? Esattamente. Una delle nostre attività, sicuramente una delle più importanti e caratterizzanti il nostro lavoro, è il monitoraggio delle condizioni di detenzione in Italia. Lo facciamo dal 1998. Quando il ministero della Giustizia ci ha autorizzato a visitare gli istituti di pena, più o meno con le stesse prerogative che la legge concede ai membri del Parlamento, e a una serie di altre categorie. Quindi, ogni anno svolgiamo circa cento visite. Diciamo che più o meno in due anni li abbiamo visti tutti. E poi ricominciamo. Pubblichiamo ogni anno un rapporto sulle carceri italiane, che è il frutto in buona parte della nostra osservazione diretta. Con l’idea di vedere se c’è una discrepanza tra la vita reale in carcere e quello che è previsto dagli standard nazionali e internazionali. In queste visite voi siete andati anche al Sestante. Che cos’è il Sestante? Il Sestante è un reparto di articolazione psichiatrica, che sta nel carcere di Torino Lorusso e Cutugno. Dopo la riforma che ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari le articolazioni psichiatriche in carcere, la normativa poi è stratificata e non è lineare, dovrebbero avere una doppia funzione. Da un lato di osservazione psichiatrica. Ovvero la legge dice che quando c’è il dubbio che una persona, quando sopravviene una malattia psichiatrica in carcere debba essere messo per un massimo di 30 giorni in osservazione per capire che problema ha. Quindi da un lato è un’osservazione psichiatrica, dall’altro invece gestisce la malattia psichiatrica conclamata di persone che al momento della commissione del reato sono state giudicate capaci di intendere e di volere. Quindi, non hanno avuto una misura di sicurezza come si dà alle persone non imputabili ma hanno avuto una pena. Però durante l’esecuzione di questa pena è sopravvenuto un disagio di tipo psichiatrico. Quindi il Sestante si prenda cura anche delle patologie preesistenti alla carcerazione, non soltanto di quelle sopravvenute in seguito, durante l’esecuzione della pena? Dipende. Nel senso che se una patologia preesistente ha fatto sì che al momento della commissione del reato la persona venisse prosciolta a causa di questa patologia, non considerata capace di intendere e di volere, allora no. Questa persona sarebbe mandata in una REMS, che è una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Se invece questa patologia psichiatrica non compromette, non è grave abbastanza, o comunque riguarda altre sfere della psiche umana ma non compromette la possibilità della persona di essere consapevole del reato commesso allora va in carcere. A quel punto può darsi che il carcere decida, in accordo con la Asl del territorio, di far stare questa persona almeno per un periodo di tempo, in un’articolazione della salute mentale come il Sestante perché ha bisogno di cure. Sul sito del ministero di Giustizia rispetto al Sestante sono scritte alcune affermazioni, gliele leggo: Attività psichiatrica ambulatoriale; Attività psichiatrico-forense istituzionale; Attività psicologica ambulatoriale; di Osservazione psichiatrica e di trattamento. Nella sua visita al Sestante ha trovato tutto questo o ha trovato delle discrepanze rispetto a quanto affermato? Il Sestante è diviso in due sezioni. Io ne ho visitata una delle due, quella più critica che è quella dell’osservazione psichiatrica. È difficile rispondere a quello che lei mi ha chiesto perché non è attraverso una visita che tu vedi se fanno o no il colloquio con lo psicologo. Tra l’altro era tardo pomeriggio quando sono andata. Non era l’orario dello psicologo. Quindi non è così che uno vede se tutte quelle cose ci sono o non ci sono. Quello che io ho trovato è stato sicuramente uno stato un po’ di abbandono di queste persone, non una presa in carico psicologica a tutto tondo sicuramente. Una sovra rappresentazione dell’aspetto farmacologico della cura, e comunque un degrado ambientale percepibile. Nell’intervista che lei ha rilasciato il giornalista del Corriere della Sera parlava di lampadine rotte, di scarichi che non funzionavano. Quella non è un’intervista. Quando io sono uscita da lì ho scritto un articolo sul mio blog su Il Fatto Quotidiano, poi vari giornali hanno ripreso e copiato pezzetti di quell’articolo. Ma io non ho rilasciato nessuna intervista. In quell’articolo parlavo anche di un signore che mi diceva di stare al buio da diversi giorni perché non gli funzionava la luce. Effettivamente ha provato davanti a me a spingere l’interruttore e non funzionava. Un altro signore diceva che la turca, che era ben in vista nella sua cella, non scaricava e che le sue feci erano lì. Non mi sono avvicinata a controllare. Si è avvicinato l’agente di polizia che era con me e non ha ribattuto. Non ha detto non è vero. Quindi, immagino che fosse vero. Io per discrezione sono rimasto qualche passo indietro. La stampa come ha affrontato il problema del Sestante? In quel momento tutti i giornali hanno ripreso la notizia, il Corriere della Sera, La Stampa, le varie radio; Radio 3 ne ha parlato, Radio Radicale. È stato poi il motivo per cui il ministero della Giustizia ha chiuso il reparto e la Procura di Torino ha aperto un’indagine che è ancora in corso. Ci sono degli indagati? No. No, contro ignoti. Stanno facendo le indagini per capire. Di recente c’era stato anche il pestaggio a Santa Maria Capua Vetere. In un’intervista l’attore e regista Ascanio Celestini ipotizzava, paventava, la possibilità che si trattasse di un sistema di intervento, non soltanto di un episodio. Però, se metto insieme gli avvenimenti del Sestante e quelli di Santa Maria Capua Vetere, viene fuori un’immagine del sistema carcerario che fa acqua da tutte le parti. È così? Sicuramente è un sistema che ha moltissimi limiti come noi denunciamo da tanto tempo. In fatto di violenza non è l’unico caso quello di Santa Maria Capua Vetere. Questo non lo dico io. Abbiamo avuto delle sentenze per tortura, a San Gimignano, a Ferrara. Altre indagini sono in corso. Antigone è parte civile in vari processi per tortura, maltrattamenti, falso, cose di questo tipo, in carcere. Santa Maria Capua Vetere certo è un caso un po’ diverso dagli altri. Forse perché è il più grande episodio insieme a quello che accade nel 2000 nel carcere di Sassari dal punto di vista numerico. Anche lì ci fu un pestaggio che riguardò centinaia di persone. Accadde nel carcere San Sebastiano di Sassari nell’aprile del 2000. A Santa Maria Capua Vetere abbiamo più o meno un centinaio di detenuti vittime e un’ottantina di indagati. Quello di San Sebastiano fu un episodio collettivo. Altre sentenze che ci sono state riguardavano magari il pestaggio di un singolo detenuto. Per esempio c’è il caso famoso di Asti. Che poi portò anche alla condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Lì c’erano due detenuti che erano stati tenuti in celle di isolamento e ripetutamente picchiati. Antigone era nel processo sia a Strasburgo che in Italia. È un caso che abbiamo presente. Riguardava quattro agenti e due detenuti. Santa Maria è invece un caso più eclatante. L’Italia è stata multata dall’Unione Europea per il trattamento riservato ai detenuti. Che cosa accadde? Si riferisce alla sentenza Torreggiani del 2013. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo funziona così: se il singolo cittadino crede che uno dei suoi diritti tutelati dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo sia stato violato dallo Stato va alla Corte. Se la Corte ritiene che lui abbia ragione condanna lo Stato a pagargli un risarcimento. Nel caso della sentenza Torreggiani erano arrivate a Strasburgo migliaia di ricorsi tutti analoghi. Nel senso che avevano tutti per tema il sovraffollamento carcerario come causa di un trattamento inumano e degradante. Già la Corte si era espressa nell’estate del 2009 nel caso di un detenuto che era stato fatto vivere per tre mesi a Rebibbia in una cella sovraffollata, e aveva condannato l’Italia a risarcirlo per trattamento inumano e degradante. Al seguito di questa sentenza moltissimi detenuti che si trovavano nella stessa condizione andarono a presentare il proprio ricorso a Strasburgo. Quando la Corte si vide arrivare migliaia di ricorsi analoghi usò uno strumento che fa parte del regolamento della Corte ormai da vari anni, quello della sentenza pilota. Ovvero, invece di condannare il Paese per ognuno dei singoli ricorsi si limita a esaminare il primo dei ricorsi tutti uguali, che in quel caso era quello di Torreggiani e altri. La corte condanna in quel caso e poi sospende gli altri, dicendo “Guarda Paese membro, - in questo caso l’Italia -, visto che ti ho condannato per il primo e visto che gli altri sono uguali al primo, ti condannerei migliaia di volte allo stesso modo. Invece di fare questo, visto che è evidente che tu hai un problema di tipo sistemico, ti do un’indicazione politica. Risolvi il tuo problema”. Quindi, a seguito della condanna della sentenza Torreggiani l’indicazione della Corte fu di risolvere problema del sovraffollamento penitenziario e di introdurre delle garanzie maggiori per i detenuti entro un anno di tempo. L’Italia si dette da fare, fece una serie di modifiche normative e anche amministrative. Mise su una commissione che fece una serie di proposte di tipo amministrativo, furono varati due decreti legge in quell’anno. Per cui la popolazione detenuta diminuì di circa 15.000 unità. Furono introdotti meccanismi di garanzia per i detenuti. Fu introdotto un tipo di ricorso più forte al magistrato di sorveglianza. Furono introdotti dei meccanismi di compensazione per chi aveva avuto delle violazioni. E alla fine di questo anno di tempo che era stato lasciato all’Italia, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che è l’organismo che si occupa di verificare che le cose che la Corte dice allo Stato siano effettivamente fatte, esaminò la situazione dell’Italia e si disse soddisfatta. L’Italia aveva rispettato le indicazioni della Corte. Quindi, non ci furono altre penalizzazioni. Questa è la storia. Quanti sono oggi i detenuti in Italia? Oggi i detenuti in Italia sono 54.645. Quanti dovrebbero essere perché non si parli di sovraffollamento? Meno. Perché la capienza regolamentare ufficiale degli istituti di pena è di 50.856. Quindi, è inferiore. Ma al di là di questo noi sappiamo, e il ministero lo ammette, che varie migliaia di questi posti che vengono comunque conteggiati sono in realtà inutilizzabili, perché fanno parte di sezioni che sono in ristrutturazione, o cose di questo tipo. Quindi non dovrebbero contare. Diciamo quindi che ci sono circa 8.000 persone in più rispetto a quelle che dovrebbero esserci. Con queste 8.000 persone in più si può parlare ancora di un sistema che tende alla rieducazione come vuole la Costituzione? La rieducazione non è solo un fatto di affollamento. Certo, l’affollamento rende tutto più complesso. Al di là della mancanza di spazio fisico, che ovviamente in carcere è fondamentale, si tratta anche di un sistema che è comunque pensato per 50.000 persone e deve farsi carico di molte di più. Quindi c’è l’assistenza sanitaria, gli educatori, gli assistenti sociali, tutto ciò ha un sovraccarico. È chiaro che già il sovrannumero dei detenuti crea un problema anche alla rieducazione. Ma al di là di questo non è che se adesso 10.000 persone uscissero dal carcere le altre si troverebbero in un sistema improntato all’integrazione sociale. Non è così. Bisogna cambiare anche altri meccanismi, cambiare la mentalità del sistema. Non è facile capire che cos’è la reintegrazione sociale, ma sicuramente è necessario dare delle opportunità concrete a queste persone, di lavoro, di formazione professionale, di scuola. Purtroppo queste cose sono troppo residuali oggi in carcere. Problema sanitario. Come è stata affrontata dal carcere la pandemia? In vari modi. Ovviamente su base regionale. Quindi come tutta la sanità. Ormai dal 2008 la sanità penitenziaria è passata al servizio sanitario nazionale. Prima i medici erano dipendenti del ministero della Giustizia. Dopo il 2008 sono diventati dipendenti del ministero della Salute, sono delle Asl. Quindi, la stessa medicina che cura i cittadini liberi cura i cittadini detenuti. Tendenzialmente tutte le regioni hanno più o meno messo in atto misure abbastanza paragonabili. Cioè, tende di pre triage fuori dal carcere per chi arrivava, 15 giorni più o meno di quarantena per i nuovi arrivati, la creazione sia di reparti quarantena ma anche reparti covid per i conclamati. Questo dal punto di vista sanitario. Dal punto di vista invece delle misure governative adottate nel penale, fin da subito c’è stata una facilitazione, una velocizzazione dell’accesso alla detenzione domiciliare. Perché ovviamente la cosa fondamentale era fare spazio. Altrimenti le sezioni quarantena, le sezioni covid non si potevano creare. Quindi, i detenuti che avevano pene brevi e che comunque non erano pericolosi e che già andavano in permesso premio, si è cercato di mandarli il più possibile in detenzione domiciliare. I detenuti in regime di semilibertà, cioè quelli che escono al mattino e tornano la sera a dormire in carcere hanno avuto licenze straordinarie per cui hanno dormito a casa. Avevano cioè di giorno la semi libertà e di notte la detenzione domiciliare in maniera da non fare avanti e indietro. Perché la cosa più pericolosa era il dentro fuori. Sono stati bloccati nei momenti più caldi sia i colloqui con i parenti, sostituiti da video chiamate, e le attività del volontariato, della scuola e così via. Tornando un attimo al Sestante. Il Sestante è un riferimento soltanto per il carcere di Torino o lo è anche a livello nazionale? Sicuramente a livello regionale. Il Sestante fu il primo reparto costruito con certe modalità nel 2000. Chi lo pensò creò un sistema che aveva un raccordo con i servizi psichiatrici, il territorio, con i dipartimenti di salute mentale. Quindi, anticipando quello che poi successe più avanti dappertutto in tutta Italia. L’idea originaria era una buona idea. Poi è diventata quella discarica che è diventata. Quindi, divenne in questo senso un po’ un modello per tutta l’Italia. Invece se lei mi chiede se oggi ci mandano detenuti da tutta Italia posso risponderle che è un reparto molto grande per essere un’articolazione psichiatrica, ha tanti posti. Quindi, può darsi che se c’è un detenuto che sta male e non c’è posto da altre parti lo mandino là. Come è avvenuto il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari? Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono chiusi. Nel 2014 c’è stata una legge, la legge 81. Ci fu una commissione parlamentare del Senato guidata da Ignazio Marino, lui era medico e poi divenne sindaco di Roma. Quando era senatore questa commissione sanitaria fece il giro degli ospedali psichiatrici giudiziari con le videocamere. Poi pubblicò le immagini che ebbero un impatto molto forte sull’opinione pubblica. Costrinsero la politica a interessarsi del sistema, e a chiudere quei posti che erano veramente dei posti orribili. Adesso, con le nuove norme, gli ospedali psichiatrici giudiziari non esistono più. Esistono le REMS, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, che hanno una vocazione del tutto diversa. Sono strutture molto più piccole, a vocazione esclusivamente sanitaria, sul territorio. E sono solo per persone non imputabili. Quindi, per il reo folle considerato non imputabile. Quindi con una misura di sicurezza e non con una pena. Per le altre categorie cioè coloro che hanno bisogno di un’osservazione psichiatrica e chi, come si dice, è un sopravvenuto ex articolo 148, cioè ha sviluppato una patologia psichiatrica durante l’esecuzione della pena se la deve cavare il carcere. Non li può mandare nelle REMS. Prima li mandava negli ospedali psichiatrici giudiziari. Quindi se la cava il carcere con le sezioni di articolazione per salute mentale. Oppure con le possibilità che la legge offre per far curare le persone all’esterno dei servizi territoriali. Quando si parla di carcere si parla spesso di maschile. Che ne è del femminile? Del femminile se ne parla meno perché i numeri sono molto diversi. In carcere in Italia le donne sono poco più del 4%, il 4,1% della popolazione detenuta complessiva. Questo accade più o meno in tutta Europa e in tutto il mondo. In Europa si oscilla tra il quattro e l’otto. Quindi, la vera domanda da porsi è che bisognerebbe capire perché le donne delinquono così tanto meno degli uomini. Il carcere è plasmato al maschile perché la grande maggioranza delle persone in carcere sono uomini. Abbiamo in Italia quattro istituti interamente femminili, a Roma Rebibbia femminile, che è l’istituto femminile più grande d’Europa, poi a Venezia, a Pozzuoli e a Trani. Questi quattro istituti ospitano meno di un quarto delle donne detenute. Gli altri tre quarti abbondanti sono ospitati in sezioni femminili all’interno di carceri a prevalenza maschile. Queste sono le situazioni più svantaggiate perché da un lato non puoi non averle. Perché se mantenessi soltanto i quattro istituti femminili, a parte che non ci entrano, in alcuni casi costringeresti le donne a scontare la pena molto lontane da casa loro e dalla famiglia. È importante che ci siano tante sezioni femminili, in maniera che possa essere una sezione di prossimità rispetto al tuo luogo, dove hai i tuoi affetti. I quali in questo modo possono venire a fare i colloqui e tutto il resto. Però ovviamente una piccola sezione con tre, quattro, dieci, quindici donne in un carcere dove magari ci stanno trecento uomini, è ovvio che sarà una sezione più abbandonata. Perché il direttore che deve scegliere se convogliare delle risorse umane, economiche, attività di volontariato o che, verso la parte maschile o verso quella femminile, andrà verso quella che copre trecento detenuti e non quella che ne copre dieci. Quindi, ovviamente sono le situazioni un po’ più faticose dal punto di vista trattamentale. Quali sono le problematiche che emergono maggiormente? La gestione della maternità è una di quelle? Come viene affrontata la maternità in carcere? Sicuramente, se mi parla dal punto di vista umano e non giuridico, quello è uno dei problemi più sentiti dalle donne: la mancanza dei figli. È la prima cosa di cui ti parlano. Il sistema giuridico affronta la questione con una serie di norme che sono pensate per avvicinare la mamma al figlio, per non recidere questo rapporto. La più dolorosa ma anche a volte indispensabile è quella che consente di tenere il bambino con sé fino ai tre anni di vita. Per cui in carcere ci sono alcuni bambini. Ma poi ci sono anche altre norme. Per esempio esiste una forma di detenzione introdotta nel 2001, di detenzione domiciliare che si chiama proprio Detenzione domiciliare speciale per detenute madri, che permette a donne con figli fino ai dieci anni di età di accedere a questa forma speciale di detenzione anche fuori dai limiti temporali della pena della detenzione domiciliare ordinaria, per ripristinare la convivenza con il figlio. Poi esistono le case famiglia protette per donne che hanno commesso reati. Insomma ci sono una serie di norme che sono attente a questo tema. Un po’ meno forse per quanto riguarda norme specifiche di tutela del rapporto tra figli in generale fuori e persone detenute dentro. L’unico strumento normativo di soft law [soft law: norme che non hanno un’efficacia vincolante diretta nda] è una risoluzione del Consiglio d’Europa del 2018. Con i figli si tende, nelle carceri in cui è presente ma quasi ovunque, si tende a fare i colloqui in maniera un po’ più informale in quelle che si chiamano le aree verdi, quindi ai giardinetti. Si può mangiare insieme, poi in alcuni istituti ci sono le sale colloquio con le ludoteche per accogliere i bambini mentre stanno in attesa di vedere il papà o la mamma. Queste sono tendenzialmente le misure. Come Antigone avete provato a darvi una risposta sul perché le donne delinquono di meno degli uomini? Non è tanto come Antigone. La letteratura criminologica e sociologica ci ha provato tante volte, da tanti anni. Ci provava Lombroso dicendo che era proprio la forma del nostro cranio che faceva sì che eravamo così inette da non saper far bene neanche i reati. Al limite eravamo pazze ma mai criminali per scelta. Poi un’altra risposta che si è data è che il ruolo di angelo del focolare che la società attribuisce alla donna fa sì che difficilmente la donna rompa questo ruolo stesso. Poi si è visto che nelle società dove il processo di emancipazione femminile è più avanzato non è che poi questo porti ad avvicinare più di tanto il tasso di delinquenza femminile a quello maschile. Direi che è una risposta non si è riusciti a darla da nessuna parte. L’Associazione italiana giovani avvocati il 13 aprile in visita alle carceri di Gabriella Lax studiocataldi.it, 12 aprile 2022 Le visite alle carceri si snoderanno dalle 10.30 alle 13: i giovani avvocati entreranno contemporaneamente in 19 sedi, da Nord a Sud. Il prossimo 13 aprile è la giornata scelta da Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) per le visite nelle carceri italiane di tutte le regioni. Dalle 10.30 alle 13 i giovani avvocati entreranno contemporaneamente in 19 carceri italiane, da Nord a Sud. Le carceri che saranno visitate - Grazie all’autorizzazione ottenuta dal Dap e dal Ministero della Giustizia, la storica iniziativa abbraccerà le carceri di Pescara, Melfi, Reggio Calabria Arghillà, Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Udine, Regina Coeli - Roma, Cassino, Casa Circondariale femminile Pontedecimo Genova, Milano Bollate, Ancona, Campobasso, Torino, Bolzano, Spoleto, Venezia, Barcellona Pozzo di Gotto, Palermo e Foggia. Mappatura concreta delle carceri - Come ha evidenziato in una nota stampa il presidente Aiga, Avv. Francesco Paolo Perchinunno “Abbiamo avuto l’opportunità di accedere contemporaneamente in tutte le regioni d’Italia all’interno degli istituti penitenziari. L’O.N.A.C. è il primo osservatorio a vantare 130 sedi in tutto il territorio nazionale, questa è la nostra peculiarità ed il nostro punto di forza in quanto ci permetterà di garantire una reale e concreta mappatura di tutti gli istituti penitenziari. Il nostro obiettivo - continua Perchinunno - è quello di sensibilizzare opinione pubblica e legislatore sull’importanza per il nostro Paese di avviare un serio dibattito sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, per dare effettività al principio costituzione di rieducazione della pena, per la dignità di detenuti e del personale di polizia penitenziaria e per la sicurezza del nostro Paese”. La riforma Cartabia mette fine all’era del populismo giudiziario di Davide Varì Il Dubbio, 12 aprile 2022 Forse qualcuno dirà che la guardasigilli non ha avuto la forza di compiere fino in fondo la rivoluzione di cui la giustizia aveva bisogno. Ma bisogna riconoscere la fine di un’era: l’era dell’egemonia delle procure. Qualcuno dirà che si poteva fare meglio, che la guardasigilli non ha voluto affondare il colpo, né ha avuto la forza di compiere fino in fondo la rivoluzione di cui la giustizia aveva davvero bisogno. Eppure noi pensiamo che non sia così: la riforma del Csm che l’Aula (Salvini permettendo) dovrà votare, è un evento storico perché rompe 30 anni di egemonia panpenalista e riafferma principi (della separazione, seppur attenuata, delle funzioni alla “pagella” per i magistrati) che erano stati sepolti da decenni di pensiero unico, di appiattimento sulle “ragioni” della magistratura. Insomma, anche grazie alla spinta referendaria, il Parlamento ha potuto affrontare temi che erano inimmaginabili fino a pochi anni fa, forse addirittura mesi. Forse qualcuno ha dimenticato le “scorribande” di qualche magistrato che, senza contraddittorio e passando da uno studio tv all’altro, teorizzava “impunemente” il ribaltamento dell’onere della prova; o quel ministro che andava ripetendo che la giustizia italiana era un modello e che gli innocenti, qui da noi, non vanno in carcere; tutto questo nel Paese in cui ogni giorno tre persone finiscono in cella da innocenti. Parliamo di 30mila persone in 30 anni e di 46 milioni spesi in indennizzi, per chi è più attento ai soldi piuttosto che ai diritti. Il che ci porta dritti dritti a uno dei punti che più hanno innervosito i magistrati. E parliamo del cosiddetto “fascicolo delle performance” che dovrà servire a valutare la professionalità e la correttezza delle nostre toghe. Si tratta di un passaggio fondamentale che stabilisce per la prima volta la responsabilità professionale del magistrato di fronte ai propri errori. Errori, è bene ricordare, che spesso investono in modo drammatico la vita di migliaia di cittadini italiani. Insomma, per capire la portata di quel che sta accadendo in questi giorni in commissione Giustizia, dobbiamo volgere lo sguardo dietro di noi e tornare ai “magnifici anni ‘90”, all’esplosione di Tangentopoli, alla divinizzazione dei pm che cambiarono il Paese (c’è chi parla di golpe) massacrando in modo sistematico il nostro Stato di diritto. Ecco, questo è uno di quei casi in cui il passato dovrebbe esserci utile per capire cosa accade nel presente. Qui non si tratta di ingoiare la migliore delle riforme possibili ma di riconoscere la fine di un’era: l’era dell’egemonia delle procure. Csm, mezza magistratura in rivolta: “Ora tutti in piazza” di Simona Musco Il Dubbio, 12 aprile 2022 Il costituzionalista Celotto giustifica le barricate contro la riforma Cartabia: “Non si riduca il servizio giustizia a un algoritmo”. “Mobilitiamoci”. Il coro delle toghe di fronte all’accordo sulla riforma del Csm è unanime: con le nuove regole, autonomia e indipendenza verranno spazzate via, a favore di un magistrato “pavido e burocrate, e di una giustizia di tipo difensivo, che pregiudicherà la tutela dei diritti dei cittadini”, tuona Mariarosaria Savaglio, segretaria nazionale di Unicost. E grossomodo il timore accomuna tutti, magistrati di “destra”, “sinistra” e di centro, pronti a piantare le tende in piazza pur di evitare quello che già per tutti è uno stravolgimento dei principi costituzionali. Concetto ribadito a gran voce dall’Anm, che ha convocato per il 19 aprile - giorno in cui la riforma dovrebbe arrivare in Aula - una riunione straordinaria del comitato direttivo centrale per discutere della faccenda. Una data simbolica per condurre una sorta di esame parallelo a quello dell’Aula, il cui prologo è rappresentato dalle parole del segretario Salvatore Casciaro, secondo cui si corre il rischio di “una regressione culturale”. A spaventare è soprattutto il fascicolo di performance dei magistrati, che racchiuderà gli esiti delle decisioni giudiziarie: “Attenzione alle statistiche, scrupoloso ossequio alle direttive dei dirigenti e ai precedenti giurisprudenziali guideranno l’attività dei magistrati”, con lo scopo di svilire “l’alto senso della funzione”, secondo Casciaro. Per il quale tale scelta porterà in dote “atteggiamenti di conformismo giudiziario, se non addirittura difensivistici”. Dal canto suo, Magistratura indipendente ricorda come quella del magistrato sia l’unica categoria del comparto pubblico sottoposta periodicamente a delle valutazioni di idoneità - positive, però, nel 99% dei casi -, “verifiche necessarie per non essere licenziati” che vengono “spacciate per promozioni”. Nel fascicolo, ora, rientreranno anche le statistiche sui “successi” dell’attività di giudici (anche civili) e pm. E per “Mi”, ciò provocherà un condizionamento a cascata, facendo così passare il messaggio che esista “una magistratura alta e una bassa”, con un conseguente appiattimento dei magistrati “sulle idee di chi sta più in alto”. “Il giudice potrà condizionare la carriera del pubblico ministero, il giudice di appello potrà condizionare la carriera di quello di primo grado e a sua volta il giudice di Cassazione potrà condizionare la carriera di tutti quelli dei gradi inferiori”, afferma il segretario nazionale della corrente moderata Angelo Piraino. Da qui la richiesta all’Anm di una mobilitazione, condivisa anche dalle toghe di Autonomia e Indipendenza, che invocano lo sciopero attraverso la voce del coordinatore Guido Marzella. È lui a contestare anche il nuovo sistema elettorale, basato sul sorteggio dei distretti giudiziari in cui si vota: “Si sbandiera che dovrebbe togliere potere alle correnti, ma è una bufala gigantesca: favorisce le più forti”. Ma la riforma, secondo Casciaro, ha anche un altro scopo: la separazione delle carriere, anche se ciò non viene dichiarato apertamente. Scopo che verrebbe raggiunto con il limite di un solo passaggio di funzione tra giudice e pm, un modo, prosegue il segretario dell’Anm, per aggirare la Costituzione in tema di unità della giurisdizione, approdando a “una sostanziale incomunicabilità delle funzioni”. Insomma, tutti scontenti. E non poteva essere diversamente, secondo Alfonso Celotto, ordinario di Diritto costituzionale a Roma Tre che, interpellato dal Dubbio, ribadisce la difficoltà nel trovare un equilibrio tra le poste in gioco. E dà ragione alle toghe circa il rischio che si nasconde dietro il fascicolo delle performance. “Non bisogna assolutamente trasformare il servizio della giustizia in un algoritmo che dà i punteggi ai numeri di sentenze o alla produttività - sottolinea - perché non si tratta di una catena di montaggio per sfornare pezzi. Bisogna trovare un criterio adeguato per valutare il lavoro di una toga, ma la produttività del magistrato è come tutta la produttività della pubblica amministrazione, che da sempre non riesce a individuare un criterio di valutazione. Giudicare un servizio come la giustizia è difficilissimo”. D’altra parte le difficoltà riguardano, secondo Celotto, soprattutto la questione della legge elettorale, primo step, secondo alcuni, per abbattere il correntismo. “Siamo ancora a un punto di grande difficoltà - sottolinea -, perché si tratta comunque di un organo elettivo, nel quale devono essere eletti i rappresentanti di 10mila persone, e non è pensabile che non ci siano liste di candidatura. È naturale. Non è stata trovata una soluzione solida, e ciò è dimostrato dal fatto che nella ricerca del punto di sintesi si sentano scontenti sia i magistrati sia le forze politiche”. Quale sarebbe la soluzione per evitare il correntismo e garantire il rispetto del dettato costituzionale? “Il sorteggio non è un criterio valido - aggiunge -, perché in un organo rappresentativo, come da Costituzione, serve necessariamente una rappresentanza. Il vero nodo da sciogliere è quello delle nomine di direttivi e semidirettivi, perché è lì che si giocano le partite più complicate. Noi sappiamo che la magistratura ordinaria usa il criterio del merito, che però spesso fa sì che a una carica di procuratore o presidente si candidino decine di possibili aspiranti, con tutte le polemiche che si susseguono e tutte le questioni di cronaca che abbiamo sentito. Una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare, come in passato già avvenuto per le toghe ordinarie, il criterio della magistratura amministrativa, in cui le cariche direttive e semidirettive vengono assegnate per anzianità, salvo demerito. In quel modo diventa meno competitiva l’assegnazione, e ciò rasserena molti rapporti. Ma la rappresentanza è inevitabile che sia legata a correnti, partiti, gruppi”. Anche nel caso in cui si procedesse con un sistema misto - sorteggio più elezione -, le cose cambierebbero ben poco: “È chiaro che per essere votato il singolo magistrato debba rivolgersi a qualcuno. È un’esigenza politica e non può non esserci, anche affinché l’organo sia rappresentativo e di autogoverno. Come ci hanno dimostrato gli scandali degli ultimi mesi, il punto nodale è, da un lato, il funzionamento dei criteri con cui attribuire incarichi direttivi e semidirettivi, dall’altro il grande problema è chi giudica sugli incarichi. È giusto che sia il Tar o serve un’alta Corte? Quella potrebbe essere una strada”. Nello Rossi: “La riforma del Csm? Contro i cattivi compromessi uno sciopero ci starebbe tutto” di Liana Milella La Repubblica, 12 aprile 2022 Il direttore di “Questione giustizia”, la rivista di Magistratura democratica, boccia la riforma Cartabia sulla magistratura: “Il fascicolo per ogni toga è da ricorso alla Consulta”. E su un solo salto di carriera da pm a giudice dice: “Vistosa concessione mentre incombe il referendum”. “Ma il governo e la ministra hanno scritto solo una bozza oppure un progetto razionale nel quale credevano? Alla fine il compromesso raggiunto è negativo, e per giunta precario”. Dice così a Repubblica Nello Rossi, ex avvocato generale della Cassazione, oggi direttore di Questione giustizia, la rivista online promossa da Magistratura democratica, che ha in cantiere un numero speciale sulla riforma del Csm. I suoi ex colleghi magistrati ne sono convinti, questa riforma è soltanto “punitiva”... “Questa riforma punisce e mortifica innanzitutto la giustizia che ha bisogno di magistrati operanti in un quadro di certezze e di responsabilità precise, con l’impegno rivolto all’efficienza ma anche alla qualità del lavoro”. Tant’è che stanno pensando a fare sciopero... “Per i magistrati lo sciopero è un mezzo estremo; ma se decidessero di farlo li capirei. Dopo che la ministra ha disinvoltamente riposto in un cassetto il lavoro della Commissione di studio da lei stessa istituita si è aperta una trattativa confusa e vociante da cui è scaturito un cattivo compromesso”. Ammetterà però che con le correnti la magistratura ha davvero esagerato... “Sono anni che la magistratura sta facendo i conti con alcune pratiche gravi e inaccettabili del passato e che l’associazionismo è stato chiamato a guardarsi allo specchio. Ora però basta con le rappresentazioni caricaturali e grottesche. Con le sue discussioni, i suoi incontri, le sue riviste, l’associazionismo resta una realtà viva, insostituibile e insopprimibile. Un magistrato “solo” non sarebbe né più indipendente né più imparziale; sarebbe invece più debole e indifeso di fronte alle pressioni e alle seduzioni dei gruppi di potere”. Questa riforma è incostituzionale? Se sì, mi dica i punti che la potrebbero portare davanti alla Consulta... “Un solo esempio: criteri di valutazione del magistrato meramente statistici avulsi dal merito dei processi sono chiaramente fuori dal modello costituzionale”. Parla del fascicolo delle performance? Per via Arenula c’era già al CSM, per l’Anm è una schedatura... “Le statistiche del lavoro dei magistrati ci sono già. Ma l’idea di annotare e comparare gli “scostamenti” tra richieste dei pm e sentenze, nonché tra decisioni dei giudici di primo grado e quelle dei gradi successivi è una escogitazione impraticabile e priva di senso ai fini di valutare la professionalità”. E perché questa idea non andrebbe bene? “È inattuabile per i pubblici ministeri che non seguono quasi mai personalmente un processo dall’inizio alla fine e non possono essere certo valutati in base all’operato di altri magistrati intervenuti nel processo. È ingannevole per i giudici: perché il giudice che viene dopo dovrebbe essere il metro della professionalità del giudice che viene prima? E che facciamo se la Cassazione annulla sentenze di appello già contabilizzate ai fini di una valutazione negativa? Infine questa “ideona” è potenzialmente molto dannosa perché potrebbero spingere i magistrati requirenti a moltiplicare le impugnazioni. Per non parlare della pericolosissima logica dei “successi” del pm e dei rischi di conformismo giurisprudenziale dei giudicanti”. Un solo passaggio da pm a giudice e viceversa nella carriera. Non è già la separazione delle carriere a Costituzione invariata? “È una vistosa concessione ai fautori della separazione delle carriere. Non dimentichiamo che su questa misura incombe il referendum che separerebbe i magistrati per sempre sulla base della scelta iniziale compiuta subito dopo il concorso. Una vera follia, inconcepibile in qualunque altra amministrazione pubblica o privata”. E l’illecito disciplinare per chi viola la presunzione di innocenza? Non tappa la bocca ai pm sulle inchieste e lede la libertà di stampa? “Tutti invocano illeciti penali e disciplinari chiari e ben definiti. Tranne che per i magistrati che dovrebbero essere incolpati sulla base di norme generiche e confuse”. Finirà che, con il nuovo illecito, andrà sotto disciplinare il pm che non motiva i provvedimenti, e non potrà nemmeno spiegare nulla... “Francamente non è questo il punto. I provvedimenti si motivano negli atti giudiziari e non nei rapporti con la stampa”. Legge elettorale e il sorteggio dei distretti: la giudica davvero una soluzione anti-correnti? “Questo ritornello l’ho già sentito. Dal 1990 al 2002 si sono sorteggiati i collegi per scompaginare le correnti. È finita che sono stati eletti al Csm solo i magistrati delle grandi sedi”. Referendum sulla giustizia e legge sul Csm. Con la Bongiorno la Lega chiede mani libere. Questo significa che la legge Cartabia avrà pochi mesi di vita se il centrodestra vince le future elezioni? “Il compromesso che si vuole realizzare oggi non è solo negativo, è anche precario perché immediatamente revocato in dubbio da alcuni dei suoi stessi autori. È ora di capire se il governo e il ministro hanno redatto solo una bozza della riforma o un progetto razionale nel quale credevano”. Giustizia, Costa (Azione): “Riforma chiusa ora sul Csm i partiti non cerchino pretesti” di Liana Milella La Repubblica, 12 aprile 2022 Il vicesegretario del partito di Calenda: “Innocui i distinguo di Lega e Iv. M5S e Pd stiano sereni”. La ministra Cartabia porterà a casa la riforma del Csm? “Spero che non spuntino sabotatori dell’ultim’ora”. Iv e Lega si stanno smarcando? “L’accordo è chiuso, innocui distinguo non vanno drammatizzati”. Oggi si comincia a votare in commissione, ma Pd e M5S sono in allarme. “Pensino ai contenuti e non cerchino pretesti per litigare”. Enrico Costa, vice segretario di Azione, è l’incubo delle toghe. La dipingono come il cattivo della giustizia... “Da quando in qua proporre e far approvare norme di civiltà giuridica e di rispetto della Costituzione diventa una cattiveria?”. Perché è proprio lei che ha inventato e fatto passare le regole più insidiose di questa riforma... “Forse lo sono per le correnti che in futuro perderanno gran parte del loro potere”. Lei si definisce un liberale, come suo padre Raffaele. Non sarà invece che è molto più a destra? “Io sono rispettoso dei diritti del cittadino e voglio che lo Stato non scarichi su di noi le sue inefficienze. E voglio che a prevalere siano i magistrati più bravi e non i più organici alle correnti”. I giudici dicono che le sue trovate sulla giustizia sono molto peggio di quelle di Lega e Forza Italia... “Forse perché colgono nel segno”. Il fascicolo delle performance è opera sua e l’Anm lo bolla come una schedatura... “Ho scritto l’emendamento, poi riformulato dal governo, di mio pugno perché oggi mancano gli elementi per valutare chi è più bravo e chi lo è meno. Oggi il 99% dei giudici ha un giudizio positivo. O sono tutti geni o c’è qualcosa che non funziona”. Non sarà invece che lei, da avvocato, è pregiudizialmente contro di loro? “Tutt’altro. Sono convinto che nell’appiattimento generale a sguazzare siano le correnti. Se gli arresti di un magistrato si traducono sempre in assoluzioni, se le inchieste fanno flop, se le sentenze vengono ribaltate nei gradi successivi, questo è un fatto da analizzare”. L’Anm dice proprio questo, la toga penserà alla carriera e non alla giustizia... “E io mi chiedo perché un giovane magistrato, bravo e con buoni risultati sul lavoro, si senta rappresentato da un’associazione che tutela l’appiattimento professionale”. E dove mette l’illecito disciplinare contro il pm che, secondo lei, non deposita tutte le prove? “E lei, a uno che arresta un innocente, vorrebbe anche dare un premio? In 30 anni abbiamo avuto 30mila ingiuste detenzioni, e cioè almeno 100mila innocenti in galera. Non le vengono i brividi?”. Se un pm dovesse temere di perdere un processo, questa sarebbe la fine della giustizia... “Però quel pm deve evitare di sbattere l’indagato in prima pagina come fosse colpevole ancor prima del processo”. Per questo lei si è inventato prima la legge sulla presunzione d’innocenza e poi pure l’illecito disciplinare per chi la viola. Così muore l’informazione giudiziaria... “Ma vive lo stato di diritto. Il marketing giudiziario illiberale, arbitrario e incivile perché trasferisce come oro colato le tesi dell’accusa prima che l’interessato possa difendersi”. Un solo passaggio da pm a giudice e viceversa. Di fatto è già la separazione delle carriere... “Non è così. Carriere del tutto divise vuol dire avere un giudice che non veste la stessa casacca dell’accusa. Oggi portano la stessa e per questo il giusto processo è scritto solo in Costituzione”. Giustizia, ecco la riforma piccola piccola: ora servono i referendum di Piero Sansonetti Il Riformista, 12 aprile 2022 Intervista a Gian Domenico Caiazza. “Non è centrata sulle questioni cruciali che noi avevamo posto. Però qualche timida innovazione c’è. Sebbene in Parlamento ci sia un blocco Pd-5S schierato a difesa della corporazione dei Pm”. La riforma della magistratura è quasi pronta e cambierà molto poco nel sistema giustizia. In commissione si dovrebbe votare oggi. I partiti hanno trovato l’accordo su un testo che sfiora appena i privilegi dei magistrati e stabilisce un sistema di elezione del Csm che con ogni probabilità, anziché indebolire (o cancellare) il correntismo, aumenterà il potere delle correnti. I magistrati però non sono contenti, perché comunque ritengono che i loro privilegi e la loro autonomia - intesa come assenza di qualunque possibilità di controllo sul loro operato - non devono essere neppure sfiorati, perché sfiorandoli si rimetterebbe in discussione l’enorme porzione di potere che la magistratura, e in modo del tutto particolare le Procure, hanno conquistato per se negli ultimi 30 anni modificando - a danno degli altri poteri - gli equilibri previsti dallo Stato liberale. Il partito delle Procure difende palmo a palmo ogni centimetro conquistato dalla Riforma Cartabia, e minaccia di scendere in lotta con lo sciopero e la richiesta di bloccare tutto. Il partito dei Pm ritiene che se una riforma va fatta tocca ai magistrati scriverla. Al Loro partito, cioè - credo - all’Anm, che è il luogo dove le correnti trovano il compromesso. E si attestano su questa linea come fosse il Piave. Del resto la ministra Cartabia ha trovato enormi difficoltà per ottenere almeno un accenno di riforma. Che serva, per così dire, non a stravolgere il sistema e riportarlo alla legalità, ma almeno a dare un segnale piccolo piccolo di rinnovamento. Le difficoltà hanno nome e cognome: Pd e Cinque Stelle, che in Parlamento costituiscono un blocco che si divide su quasi tutte le materie politiche ma ritrova l’essenza della sua unità nel mettersi al servizio del partito delle Procure. Come si esce da questa impasse? Certo non se ne esce con questo Parlamento. E il governo di coalizione può fare poco. Restano i referendum. Sono l’unico strumento che il partito delle Procure non controlla (è impossibile spiccare un mandato di cattura contro i referendum…). Se si raggiunge il quorum e se vincono i sì la situazione generale si rovescia. Una vittoria ai referendum sarebbe la prima vera sconfitta del potere dei Pm in tutta la storia della repubblica. C’è la possibilità che questo avvenga? La possibilità c’è, ma è sottile sottile. Sono ore cruciali per la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Da un lato un dibattito politico serrato, dall’altro una magistratura pronta allo sciopero. Di questo scenario parliamo con Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Presidente Caiazza che giudizio dà dell’accordo a cui si è giunti nel fine settimana? Questa riforma è strutturalmente debole, non essendo, tra l’altro, centrata sulle questioni che noi riteniamo cruciali. Tanto è vero che appena sarà approvata e avremo visto i contenuti, siamo pronti a scendere in campo con le nostre proposte di legge di iniziativa popolare. Tuttavia, dobbiamo sottolineare qualche elemento positivo: mi riferisco in particolare alle valutazioni di professionalità e all’emendamento dell’onorevole Costa grazie al quale si è costituito il fascicolo di performance che segnalerà statisticamente l’indice delle anomalie. È un primo passo importante verso la responsabilizzazione professionale dei magistrati. Tuttavia questa previsione non piace a una parte della magistratura perché darebbe vita a burocrati impauriti, come ha detto il Presidente dell’Anm in una intervista a La Stampa... Si tratta di obiezioni pretestuose e che nascondono l’idea di fondo di una magistratura autoreferenziale che non tollera di essere valutata e giudicata. E comunque il magistrato non deve temere di assumere decisioni creative, innovative in quanto la valutazione non verrà operata sui singoli provvedimenti ma su una statistica quadriennale. In merito al fascicolo, anche il Partito Democratico, e non solo Caselli, ha parlato di schedatura. Questo porta a fare una considerazione: la politica è ancora subordinata alla magistratura? In questo Parlamento c’è una maggioranza relativa molto sensibile alle esigenze corporative della magistratura. La reazione del Pd sulle valutazioni di professionalità lo dimostra e significa scimmiottare le parole di Caselli. Un passo avanti è rappresentato dalla norma che stabilisce che è possibile un solo passaggio di funzioni tra pm e giudice. Questo apre la strada alla vera riforma della separazione delle carriere? Certamente viene fissato un principio. Anomalie, come quella di avere come presidente di sezione di Cassazione un magistrato che per 30 anni ha fatto il pubblico ministero, devono essere cancellate. Però bisogna dire che già con la riforma Castelli i passaggi si erano ridotti di molto, siamo intorno ad una percentuale del 2%. Come Unione appunto sostenete che è una riforma debole però la dura reazione dell’Anm, compresa quella di ipotizzare uno sciopero, ci deve forse spingere a pensare che non sia proprio così... Innanzitutto questo dimostra che la magistratura associata ha perso la misura della propria crisi e ha reazioni estremamente corporative pure in presenza di riforme con impatto contenuto. Certo, la riforma sta cominciando a toccare punti che noi riteniamo importanti. Il merito è della Ministra Cartabia: ella ha idee e coraggio però in un contesto politico di maggioranza molto eterogeneo e per questo complesso da gestire. È vero che il nostro complessivo giudizio è di insoddisfazione sulla riforma, però, data la situazione, la Guardasigilli ha probabilmente ottenuto il massimo possibile. Però la stessa Ministra oltre un anno fa aveva detto alle Camere che la riforma era improcrastinabile. Tuttavia ha depositato gli emendamenti in Commissione giustizia solo a fine febbraio, dopo aver messo da parte il lavoro della Commissione Luciani. Con più tempo per discutere si sarebbero potuti ottenere risultati migliori? In teoria una maggiore discussione sarebbe stata certamente auspicabile. In pratica con questo quadro politico non sarebbe servito a molto dibattere di più. La magistratura italiana in questa riforma che avversa è sostenuta sostanzialmente dalla coalizione Pd-Movimento Cinque Stelle, ossia dalla quasi maggioranza del Parlamento. Possiamo anche discutere anni ma il problema è che c’è un blocco saldo a difendere strenuamente le prerogative corporative della magistratura. Ma se si arrivasse a porre la fiducia anche su questa riforma, non sarebbe l’ennesimo fallimento delle prerogative parlamentari? È senza dubbio un fallimento della democrazia governare a colpi di fiducia. Già prima del Governo Draghi, dall’inizio della legislatura, si va avanti a colpi di fiducia. In questo caso però avrebbe qualche giustificazione: su un tema così divisivo come è quello sulla giustizia e con una tale maggioranza politica è pressoché inevitabile arrivare a porre la fiducia. È già troppo che si siano fatti questi passi avanti. Cosa ne pensa di questa querelle a distanza tra il deputato di Italia Viva, Cosimo Ferri, e il Segretario di Area Eugenio Albamonte? Ferri è un parlamentare della Repubblica e quindi sia lui che il gruppo politico di appartenenza non possono avere limitazioni nell’esercizio delle loro prerogative. Poi nella politica esistono anche questioni di opportunità e ognuno le gestisce come crede. In un recente convegno di Giustizia Insieme è emerso che ora la preoccupazione della magistratura è quella che gli avvocati diventino i nuovi protagonisti della comunicazione giudiziaria, le nuove fonti della stampa, visto che la norma sulla presunzione di innocenza limita molto le Procure. Il Pg di Cassazione Salvi ha anche detto: “Anche questa è una cosa che dobbiamo discutere: il difensore ha obbligo di verità? Ha obbligo di correttezza? Non so, è un tema però che forse va posto, perché non è possibile che la disciplina sia solo quella del magistrato”... Dinanzi a questo genere di argomentazioni resto senza parole. Gli avvocati sono dei liberi professionisti e acquisiscono nella fase delle indagini le informazioni che il pm e il gip ritengono di mettere a disposizione. Il principio del controllo della comunicazione non può che riguardare chi fa le indagini e avanza l’ipotesi accusatoria, perché è così che si mette in discussione la presunzione di non colpevolezza. Queste blande limitazioni alla comunicazione sono poste proprio agli uffici di Procura perché è la loro comunicazione che si scontra con la presunzione di innocenza, che non può essere minata dalla comunicazione dell’avvocato. Qualora anche ci fosse qualche avvocato spregiudicato esistono le sanzioni previste dal codice deontologico. Su Ferri polemiche sciocche: fa solo ciò per cui è stato eletto dal popolo di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 12 aprile 2022 Proseguono i lavori sulla riforma del processo civile e penale. L’obiettivo è chiaro: ridurre i tempi della giustizia, non solo per necessità interne all’Ordinamento giudiziario stesso, da tempo in affanno, ma anche e soprattutto perché la buona riuscita della riforma è passaggio fondamentale per lo svincolo dei fondi europei stanziati per affrontare la crisi pandemica. Segue questa esigenza anche la riforma al sistema di autogoverno della Magistratura con lo stop alle cd. “porte girevoli”, tema già affrontato dallo scrivente su queste pagine, l’ampliamento delle ipotesi di ineleggibilità, la composizione del Csm, l’introduzione di “laici” nei Consigli giudiziari etc. È indubbio che la riforma della magistratura sia ancillare rispetto al più grosso progetto di riforma dei codici di rito, in merito ai quali talune modifiche sono invero già intervenute (si veda ad esempio l’introduzione dell’art. 344 bis c.p.p., ovvero del 161 bis c.p. che stravolgono radicalmente la disciplina sulla prescrizione), ma si muove dalla necessità di fornire al Paese un segnale, soprattutto morale, di forte rinnovamento, sì da rinsaldare il rapporto tra cittadini e magistratura, sicuramente ferito. E proprio a causa del procedimento disciplinare nascente dalle note vicende che hanno leso l’immagine della magistratura, il deputato, già procuratore, Cosimo Ferri si è visto contestare la propria presenza al tavolo dei lavori sulla riforma Cartabia, in quanto, secondo taluni, vi sarebbe un evidente conflitto di interessi: assurdo, parafrasando le accuse mosse all’on. Ferri, che un Magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa partecipare ai lavori che intendono riformare proprio quel Csm. È bene qui evidenziare, tuttavia, che la Riforma, anche in punto Csm, non tocca l’iter procedurale sui disciplinari. Che si cominci da questo punto ove l’eventuale conflitto d’interesse si riduce ad un fantasma esangue. Da un punto di vista squisitamente tecnico, è bene ricordare quali sono le prerogative di un parlamentare, così come la Costituzione sancisce, eletto dal popolo e che, in quanto tale, gode di una legittimazione di rango superiore che gli consente di essere presente ai lavori del Legislatore. In secondo luogo, il procedimento disciplinare a carico di Cosimo Ferri è ancora in itinere e solo poche settimane fa veniva diffusa la notizia che veniva negata l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni del cd. “caso Palamara” nell’ambito del procedimento disciplinare a carico dello stesso, con 227 voti a favore alla Camera e solo 86 contrari. Tale estesa maggioranza sul “no” trova le proprie ragioni, come spiegato dall’on. Pietro Pittalis, deputato in quota Forza Italia, che era relatore del procedimento in Giunta, “su valutazioni di tipo tecnico e giuridico, senza entrare in alcun modo nel merito politico”. Pertanto, pur ritenendo quale atto dovuto la bontà del procedimento disciplinare che, per ovvi motivi, deve comunque procedere ad una indagine, allo stesso tempo non è ammissibile che questa possa comprimere prerogative parlamentari, più di quanto non possa, ad esempio, fare un procedimento di natura penale. Insomma, lasciamo che le misure restrittive siano di competenza degli organi giudicanti e non già del disciplinare in seno al Csm. Quest’ultimo gode già di un notevole potere che non è necessario venga ulteriormente ampliato per fatti concludenti, pertanto si auspica che anche il magistrato e onorevole Cosimo Ferri, fintanto che non intervenga una decisione di qualsivoglia natura e, ad oggi, men che meno prospettata nella forma più embrionale, possa proseguire con serenità ai lavori di riforma, arricchendo il tavolo con tutta la sua esperienza, così come anche garantito dalle prerogative conferitegli in qualità di parlamentare investito del mandato popolare: anche in questo caso vengano estese le garanzie d’innocenza, baluardo delle istituzioni repubblicane. *Avvocato, direttore Ispeg Perché nel campo della giustizia c’è chi dice: lunga vita all’emergenza di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 12 aprile 2022 Quando agli apparati fa comodo l’incertezza transitoria (che rischia di diventare strutturale). Il coro antimafia contro la riforma dell’ergastolo ostativo. Quanto è confortevole per certe orecchie la parola “emergenza”. Rassicurante come “l’invincibile estate” che Albert Camus scoprì dentro di sé “nel bel mezzo dell’inverno”. Lo rendeva “felice”. Era la tranquillità che vinceva sul caos, la ritrovata speranza in un mondo segnato dalla guerra. Dalla mafia al Coronavirus. Prendete un’emergenza, rendetela eterna e qualcuno ci costruirà sopra un mondo, schiacciando la neutralità etimologica della parola stessa. Ciò è che emergente finisce per essere, sempre e comunque, catastrofico. L’emergency alarm traccia il percorso delle azioni future. Come il filo che delimita il recinto elettrico all’interno del quale sono costretti a muoversi i bovini al pascolo, così l’emergenza ha finito per delimitare il perimetro delle sicurezze umane. Da più di trent’anni la retorica anti mafiosa inchioda il pensiero comune al di qua del recinto. Oltre c’è una normalità che va tenuta nascosta. Gli apparati che trovano nell’emergenza la loro stessa ragione di esistenza sono schierati a difesa dei confini. Di decreti emergenziali è piena la storia. Come quello che il 28 febbraio 1991 riportò in carcere 44 mafiosi scarcerati nonostante fossero imputati nel maxiprocesso in virtù di una sentenza della Cassazione. L’elenco si apriva con il “papa” di Cosa nostra, Michele Greco di Ciaculli. La “colpa” era stata del giudice della suprema corte che da allora tutti ricordano, più che per il nome e cognome, Corrado Carnevale, per la sua fama di ammazzasentenze. Erano scaduti i termini della carcerazione preventiva, cioè quelli della fase che viene prima di essere giudicati colpevoli. Era un ragionamento in punta di diritto. La Cassazione stabilì che la sospensione della decorrenza dei termini durante il dibattimento non fosse automatica, ma che servisse un’apposita ordinanza da emettersi in data antecedente a quella in cui matura il diritto degli imputati alla scarcerazione. Apparve come una garanzia eccessiva per quel manipolo di mafiosi rinchiusi nelle gabbie del carcere Ucciardone. Il tempo è una variabile che non conta quando sei ancora un presunto criminale. Ed è forse per questo che il paese nei decenni successivi si è impegnato per allungare i tempi dei processi fino a renderli infiniti. Ci sono imputati che restano tali per una vita intera. Onde evitare che si facessero strane illusioni nel 2020 Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia del governo gialloverde, partorì la cosiddetta legge “spazzacorrotti” che aboliva la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Di fronte alle scarcerazioni degli imputati del maxiprocesso, nel 1991, il governo presieduto da Giulio Andreotti - sì, proprio lui - adottò un decreto legge che negli annali si ricorda solo con il nome del Guardasigilli che ne fu l’autore, Claudio Martelli. Tutti e 44 i mafiosi tornarono in carcere bloccando sul nascere l’indignazione dell’opinione pubblica. La stessa indignazione che esplose nel 2020 quando, in piena pandemia da Coronavirus, fu deciso di scarcerare temporaneamente dei detenuti, mafiosi e non. Fu presto ribattezzata come “la lista dei 376”. Che scandalo! Il fatto che ne beneficiassero anche dei mafiosi oscurava la circostanza che fossero malati, alcuni con patologie gravissime, e che in carcere potevano anche morirci nei giorni in cui il Coronavirus faceva molta più paura di adesso. Un decreto del ministro Bonafede, che ricordava negli effetti quello a firma Martelli, li ha riportati tutti, o quasi, in carcere, spinti dal vento dell’indignazione. In pericolo, si disse, c’era la sicurezza nazionale minacciata dai mafiosi di nuovo liberi. Sembrava di essere tornati al 1991, come se non fosse accaduto nulla nei decenni successivi, come se lo stato non avesse dato prova di sapere reagire alle stragi mafiose. Non importava che fra gli scarcerati ci fossero anche dei malati di tumore. E guai a farlo notare. Lo stato di emergenza perenne imbavaglia ogni discussione. Chi prova a porre certi temi al centro del dibattito viene subito tacciato dal fronte antimafia di essere un pericolo per la sicurezza nazionale. È successo, per ultimo, al ministro della Giustizia Marta Cartabia che ha avuto l’ardire di indicare in Carlo Renoldi il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Renoldi, la cui colpa sarebbe quella di avere osato criticare l’applicazione del 41 bis, il carcere duro frutto di una modifica dell’ordinamento penitenziario approvata nel giugno 1992 con il superdecreto antimafia Scotti-Martelli. Era la riposta agli eccidi di mafia. Il testo prevedeva che i provvedimenti “cessano di avere effetto trascorsi tre anni dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. In realtà il 41 bis è sempre stato prorogato fino ai nostri giorni, nonostante il mancato rinnovo, in un certo momento storico, sia stato individuato come il segnale del cedimento dello stato alle pressioni di Cosa nostra. I magistrati della procura di Palermo ne hanno fatto il postulato della Trattativa stato-mafia, difeso nei processi con i denti anche a costo di tacere che in nome dell’emergenza tutta la legislazione antimafia è rimasta invariata. Le congetture dei favori concessi ai boss - su tutti la disapplicazione del 41 bis - in cambio dello stop alla stagione stragista si sono scontrate con la realtà e a Palermo sono arrivate le assoluzioni dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, degli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, dell’ex colonnello Giuseppe De Donno. Gli unici condannati sono stati i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Segno che la minaccia mafiosa ci fu, con le bombe del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e del 1993 (via dei Georgofili a Firenze e via Palestro a Milano), ma gli uomini delle istituzioni imputati non la trasmisero ai vertici governativi. C’era un altro imputato, il boia di San Giuseppe Jato e collaboratore di giustizia Giovanni Brusca - ha beneficiato della prescrizione - che della premialità figlia della legislazione emergenziale ha goduto fino a ottenere la libertà. Con lui lo stato si è dimostrato magnanimo. Il vessillo del giustizialismo duro e puro è stato issato anche per mantenere l’ergastolo ostativo e cioè l’impossibilità assoluta per i condannati per reati di mafia e terrorismo di accedere ai benefici penitenziari. Vi si accedeva solo diventando collaboratori di giustizia. Un anno fa arrivò la bocciatura della Consulta: anche i mafiosi non pentiti devono poter avere permessi premio o ottenere la liberazione anticipata a condizione che dimostrino di avere reciso i rapporti con la criminalità e di essersi ravveduti. Altrimenti non si comprenderebbe l’utilità dei princìpi, inseriti nella Costituzione, di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e di funzione riabilitativa del carcere. Insomma, non è detto che si resti criminali per sempre. Il fronte antimafia si è ricompattato. A cominciare dal partito dei pm che ha in Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Nicola Gratteri e Gian Carlo Caselli i suoi più autorevoli rappresentanti. La riforma dell’ergastolo ostativo ha superato il primo step alla Camera dei deputati e approderà in Senato. I benefici per i detenuti non sono più vincolati alla collaborazione con la giustizia, ma i paletti restano. Sono esclusi i detenuti al 41 bis e i limiti minimi di pena da scontare vengono aumentati a due terzi e a 30 anni per chi è condannato all’ergastolo. Ha votato a favore anche il Movimento 5 stelle dei duri e puri, attirandosi l’indignazione del partito dell’antimafia che ha interpretato come un tradimento la scelta dei grillini. La riforma è apparsa ad alcuni addirittura peggiorativa per i detenuti rispetto al passato, ma è bastato che il coro antimafioso si indignasse per fare credere che il paese stesse prestando il fianco ai boss. Che qualcuno volesse liberare i capimafia, tradendo la memoria di chi li ha rinchiusi e in virtù di chissà quale indicibile accordo siglato tre decenni fa e senza data di scadenza. Basterebbe guardare il presente e il passato con obiettività per rendersi conto che lo stato ha raggiunto risultati enormi sul fronte della lotta alla mafia anche se qualcuno continua a credere al dogma delle menti raffinatissime che nascondono segreti e misteri. Infedeli servitori della Repubblica avrebbero strizzato l’occhio a Totò Riina e Bernardo Provenzano e, dopo che i due corleonesi hanno esalato l’ultimo respiro in carcere, proteggono la latitanza di Matteo Messina Denaro. Ammettere che la mafia stia messa peggio, ma molto peggio di trent’anni fa, e che l’emergenza di allora non è più attuale, significa minare l’esistenza degli apparati. Nessuno che sia sano di mente chiederebbe di arretrare di un solo millimetro nella lotta alla mafia, ma la valutazione deve essere obiettiva. Le forze investigative hanno a che fare con i rimasugli di una Cosa nostra fiaccata dai blitz. L’indice di mafiosità è dato dalla dedica una canzone neomelodica o dalla richiesta di aiuto per aprire una bancarella abusiva di frutta e verdura nei quartieri popolari di Palermo. Siamo di fronte a quella che il gip Claudia Rosini, respingendo una richiesta di arresto, ha definito “la mafiosità di riflesso, categoria che ancora non ha trovato ingresso nell’ordinamento”. Il rischio concreto è che restando aggrappati all’emergenza mafiosa si finisca per sbilanciare il peso delle forze investigative messe in campo a svantaggio di settori, ad esempio, come la corruzione nella Pubblica amministrazione. I segnali che il pensiero unico e stantio sia andato in frantumi ci sono tutti. La sentenza della Corte di appello presieduta da Angelo Pellino sulla Trattativa è stato quello più vistoso, ma ce ne sono altri non meno importanti. Si è registrata una diaspora a Palermo. È andato in pensione Scarpinato, l’ideologo dei “sistemi criminali”, il contenitore da cui è stato pescato il teorema della Trattativa. Di Matteo, che del processo è stato uno dei principali sostenitori, oggi è al Csm. Antonio Ingroia, che fu il “padre” dell’inchiesta prima ancora che approdasse al dibattimento, oggi fa l’avvocato dopo essere transitato nei posti di sottogoverno per volontà del portabandiera dell’antimafiosità alla presidenza della regione Sicilia, Rosario Crocetta. Il suo successore alla guida del pool, Vittorio Teresi, è in pensione. Francesco Del Bene, altro pm del processo, è alla Direzione nazionale antimafia. Roberto Tartaglia, l’ultimo a fare ingresso nel pool, oggi è al Dap e ci resterà come vice anche del “garantista” Renoldi. Il segnale più forte del cambiamento probabilmente arriva non da chi è andato via da Palermo, ma da chi vi è rimasto. Paolo Guido è il procuratore aggiunto che coordina le indagini sull’intera Cosa nostra e sulla ricerca di Matteo Messina Denaro. Nel 2012, al momento di chiudere le indagini preliminari sulla Trattativa, decise non firmare l’atto conclusivo. Era in disaccordo su alcuni punti. In particolare sul coinvolgimento dell’ex ministro Calogero Mannino, di quello dell’ex generale del Ros Subranni e sul giudicato che riguardava Dell’Utri, del quale si sarebbe dovuto tenere conto. La storia e le sentenze gli hanno dato ragione. A reggere la procura di Palermo, dopo la nomina di Francesco Lo Voi a Roma, è Marzia Sabella, tra i magistrati che coordinarono le indagini che portarono nel 2006 all’arresto di Bernardo Provenzano. Per qualcuno il blitz a Montagna dei Cavalli, dove il padrino trascorse l’ultimo periodo di latitanza, sarebbe stata una messinscena. Una resa, spacciata per una grande operazione di polizia. E invece fu un arresto vero. Sabella e Guido cercano di sondare terreni finora inesplorati per capire se l’ostinazione con cui si è guardato esclusivamente al passato possa avere finito per fare il gioco di qualcuno che nel frattempo è andato oltre la miseria del pizzo e l’ostentazione mafiosa da social network. Non è lesa maestà sostenere che in Sicilia esistono altre emergenze che meritano di essere affrontate con la stessa rigorosità della lotta alla mafia. Ciò comporterebbe, però, la fine di una narrazione che ha alimentato per decenni il mercato delle prime pagine dei giornali, dei programmi televisivi, dei libri e delle sceneggiature cinematografiche. Sono tutti pronti a rinunciare alla popolarità e alle carriere ottenute scrivendo e parlando di lotta alla mafia? Si dovrebbe spegnere, d’un tratto, la giostra e fare scendere tutti. Che sarebbe un po’ come dire, terminata l’emergenza Coronavirus, di tornare negli ospedali, nei laboratori o nelle aule universitarie alle nuove star del circo mediatico, gli esperti di Coronavirus. Virologi, infettivologi, epidemiologi, primari di terapie intensive hanno ingolfato l’informazione. Ora che l’emergenza è ufficialmente finita non si rassegnano all’idea della loro non indispensabilità. E allora spostano le nostre paure in avanti, minacciando l’arrivo di quinte e seste ondate di virus. L’emergenza continua e con essa deve restare in piedi il castello delle strutture commissariali che, nel caso della Sicilia, rappresentano una formidabile macchina del consenso. Si voterà a breve per le elezioni amministrative e per le regionali. Il contrasto al Covid ha consentito di reclutare un esercito di novemila precari, tra sanitari e amministrativi. I contratti sono scaduti il 31 marzo ed è partita la girandola di proroghe di mese in mese. Alcuni sono stati rinnovati fino a dicembre, ben oltre la data delle prossime elezioni regionali di novembre. L’emergenza è finita, ma i precari restano. Di tutto la Sicilia ha bisogno, fuorché di una sacca di nuovo precariato. Eppure è ciò che sembra profilarsi. È già accaduto in passato, con altri carrozzoni tenuti in vita con i soldi pubblici. Alcuni sono falliti, lasciando in dote sacche di lavoratori da stabilizzare. C’era una sigla che ne raggruppava parecchi. Aveva un nome attualissimo. Si chiamava “Emergenza Palermo”. Il Csm accelera sull’Antimafia: in pole Gratteri, Melillo sfavorito di Paolo Comi Il Riformista, 12 aprile 2022 A Palazzo dei Marescialli le audizioni in vista della nomina dell’erede di De Raho. Il pm di Catanzaro in vantaggio sul procuratore di Napoli che sconta l’incarico politico ricoperto con l’ex ministro Orlando. Dopo la Procura di Milano, è il turno della Procura nazionale antimafia. Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di imprimere una forte accelerazione anche sulla nomina del nuovo capo della Dna, posto lasciato libero lo scorso febbraio da Federico Cafiero De Raho, andato in pensione per raggiunti limiti di età. In pole ci sono il procuratore di Napoli Giovanni Melillo e quello di Catanzaro Nicola Gratteri. Hanno fatto domanda, ma al momento con scarse possibilità, oltre all’attuale facente funzioni di via Giulia Giovanni Russo, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, quello di Messina Maurizio De Lucia, e quello di Lecce Leonardo Leone De Castris. La scorsa settimana tutti gli aspiranti sono stati sentititi dalla Commissione per gli incarichi direttivi del Csm presieduta dal togato Antonio D’Amato. Si è trattato di audizioni a porte chiuse a cui ha partecipato - il regolamento lo consente - anche Nino Di Matteo che non fa parte della Commissione per gli incarichi direttivi ma che prima di essere eletto al Csm prestava servizio alla Procura nazionale antimafia e dove tornerà il prossimo settembre quando terminerà la consiliatura. Con Cafiero De Raho il magistrato siciliano aveva avuto un rapporto complicato al punto da essere “rimosso” a maggio del 2019 dal pool che si stava occupando delle indagini sui mandanti occulti delle stragi dei primi anni 90. Ufficialmente il motivo del trasferimento ad altro incarico all’interno della Dna era stato dovuto al fatto che il pm del processo Trattativa Stato-mafia aveva raccontato, durante la trasmissione di Andrea Purgatori su La7, alcuni dettagli, ritenuti da Cafiero De Raho di interesse investigativo e relativi a trascorse vicende giudiziarie. Riferendosi ad esempio alla strage di Capaci, Di Matteo aveva sottolineato con il giornalista il ritrovamento nei pressi del cratere della bomba di un guanto con tracce di dna femminile e di un foglietto con il numero di un funzionario dei servizi segreti. Il magistrato aveva poi ricordato che Pietro Rampulla, l’uomo che fornì il telecomando per la strage, era un estremista di destra e l’interesse di Giovanni Falcone per gli elenchi di Gladio. Di Matteo sarebbe propenso a votare Gratteri. Per il procuratore di Catanzaro ci sarebbe anche l’altro pm antimafia Sebastiano Ardita. Melillo sconterebbe un ‘peccato originale’: quello di essere stato il capo di gabinetto dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. Un incarico troppo ‘politico’ per poter ora aspirare a diventare il capo della Dna. Melillo, come si ricorderà, era stato nominato procuratore di Napoli a luglio del 2017. Per ironia della sorte aveva battuto, 14 voti a 9, proprio Federico Cafiero De Raho, fino a quel momento procuratore di Reggio Calabria. Come per la nomina di Marcello Viola a procuratore di Milano, sarà comunque determinate l’orientamento dei consiglieri laici. Salvo imprevisti, il voto è atteso dopo Pasqua. Condannato senza saperlo, finisce in carcere: “Sentenza da annullare e processo da rifare” di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 12 aprile 2022 La condanna a un anno e 8 mesi per tentato furto di un’auto fa saltare l’affidamento in prova ai servizi sociali, ma la Cassazione ha dato ragione alla difesa: “Le raccomandate non danno la certezza che sapesse del procedimento”. Sono le 16.20 del 30 aprile 2014, un uomo infrange il finestrino di una Fiat Panda in Borgo Palazzo, una donna lo vede e chiama la polizia, lui scappa ma viene preso con le mani ferite. Non ci sono dubbi, scrive il giudice che nell’ottobre 2019 condanna Alfredo Acerbis a 1 anno e 8 mesi. Lui, 61 anni, non è nuovo ai problemi con la giustizia. Nel novembre 2020 finisce in carcere per un cumulo di due pene che, proprio perché viene aggiunta questa diventata definitiva, arriva a 4 anni, 6 mesi e 15 giorni, facendogli saltare l’affidamento in prova possibile fino ai 4 anni. E fin qui è tutto nella norma. Se non fosse che il processo per il tentato furto dell’auto rischia di dover essere ripetuto. Acerbis - è il ricorso del suo avvocato di fiducia Andrea Alberti - fu giudicato senza saperlo, l’ha saputo al momento dell’arresto, il processo va annullato e rifatto, e nel frattempo lui scarcerato. Il primo punto lo dice anche la Cassazione che, annullando il no dell’Appello alla revisione della sentenza, ha tracciato la via per un nuovo passaggio in Appello. Secondo la Corte di Brescia, Acerbis era nelle condizioni di sapere del processo perché l’avvocato d’ufficio gli aveva mandato delle raccomandate agli indirizzi di residenza e di domicilio, Alzano e Nembro. Quindi, è la conclusione, si è sottratto volontariamente. Sentito dal tribunale, il legale d’ufficio aveva però riferito di non aver avuto conferma dell’avvenuta consegna delle missive e di non aver mai avuto contatti con l’imputato. E questo ha un peso. La recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione - il vangelo del diritto - sulla scorta delle garanzie volute dall’Europa chiede di più, a favore dell’imputato. Per dichiararne l’assenza non basta che abbia eletto domicilio dal difensore d’ufficio; “il giudice deve, in ogni caso, verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata l’effettiva instaurazione di un rapporto professionale con il legale domiciliatario, tale da far ritenere con certezza che l’imputato abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente allo stesso”. Si potrebbe obiettare che Acerbis, avendo i recapiti dell’avvocato, si sarebbe dovuto informare. Ma l’inerzia, per la Cassazione, non equivale a sottrarsi. E ora? Difficile che l’Appello si discosti dalla Cassazione. È probabile che si vada verso un nuovo processo daccapo per altro con il fatto sulla via della prescrizione, almeno in secondo grado. Social, hater e stalker alla sbarra di Dario Ferrara Italia Oggi, 12 aprile 2022 Social network da maneggiare con cura: la raccomandazione arriva dalla giurisprudenza di legittimità, soprattutto in materia di diffamazione e atti persecutori. Facebook, scrive la Cassazione in una delle prime sentenze sul fenomeno, la 37596/14, è una “gigantesca piazza immateriale con milioni di utenti nel mondo, che comunicano in settanta lingue diverse”: è facile dunque finire alla sbarra per hater e stalker telematici, mentre anche un semplice troll può perdere il posto se parla male dell’azienda. Idem vale per il fannullone che perde tempo fra post e thread invece di lavorare. Offese senza nome. La conferma arriva dalla pronuncia più recente: rischia la condanna per diffamazione aggravata chi offende qualcuno sul servizio creato da Mark Zuckerberg anche senza fare nomi, ricorda la sentenza n. 10762/22 della Suprema corte: è sufficiente che le contumelie siano riconducibili alla persona di mira. Il reato ex articolo 595 c.p., sottolineava già la sentenza n. 16712/14, si configura a carico dell’utente del social che rivolge espressioni ingiuriose a carico di un collega di lavoro benché nel post il destinatario degli insulti non risulti indicato per nome e cognome: affinché il delitto sia integrato è sufficiente che la persona offesa possa essere identificata da un certo numero di persone, per quanto limitato, fra i visitatori del profilo “incriminato”. E a far scattare la condanna basta il nickname dell’interessato senza che le forze dell’ordine debbano individuare l’indirizzo Ip: il titolare del profilo dovrebbe dimostrare una sostituzione di persona o l’uso illecito della sua pagina (sentenza 4239/22). Attenzione, però: non è reato l’offesa su Facebook se il destinatario è online. Nonostante l’evoluzione tecnologica, non sono cambiati i criteri per distinguere la diffamazione dall’ingiuria commessa alla presenza di più persone, che è stata depenalizzata con l’abrogazione dell’articolo 594 c.p. ad opera del dlgs n. 7/2016. Ed è proprio la presenza, pur se virtuale, il fattore discriminante fra le due fattispecie anche ai tempi di Internet: se ad esempio l’offesa viene pronunciata durante una riunione online quando sono collegate più persone contestualmente, compreso il destinatario delle offese, si verifica la fattispecie depenalizzata. Nel caso del social network blu, quindi, bisogna verificare se la persona offesa sia online al momento in cui l’imputato scrive le frasi incriminate (sentenza 44662/21). Non si può, poi, condannare il post di critica soltanto perché inserito in un thread di insulti nei confronti dello stesso destinatario: chi aggiunge la sua voce con uno scritto che non risulta di per sé offensivo aderisce sì alla critica nei confronti della persona presa di mira ma non anche alle forme illecite scelte dagli altri nella discussione che si dipana sulla pagina (3981/16). Compie invece reato il blogger che non cancella i post offensivi: è escluso che il titolare del diario in rete sia equiparato al direttore del giornale, ma il delitto è aggravato dall’uso del web come strumento di pubblicità: conta il mancato filtro dei commenti (n. 2929/19). Ma il rischio più grosso è l’hate speech perché può scattare una condanna al carcere, anche se poi sospesa: per la diffamazione su Internet la pena detentiva può essere inflitta solo in circostanze eccezionali, cioè se sono lesi gravemente diritti fondamentali, come in caso di discorsi di incitazione all’odio o di istigazione alla violenza (13993/21). Vendette punite. Passiamo a un altro classico della giungla web: la vendetta sentimentale. È punibile anche dopo l’entrata in vigore del regolamento europeo Gdpr chi crea un falso profilo della ex sul sito web porno: le nozioni di dati personali e di diffusione sono in sostanza sovrapponibili al passato e pesano l’offesa continuativa e raggiungimento di un numero indefinito di persone (sentenza 42565/19). E rischia la condanna per sostituzione di persona e violazione della privacy chi crea il profilo social con la foto di un altro: non importa che l’immagine sia stata trovata su Internet col solo intento decorativo (12062/21). A conseguenze più gravi, però, va incontro il social-stalker: è deciso il divieto di avvicinamento alle vittime a carico dell’autrice della “persecuzione telematica” via WhatsApp e Facebook all’ex compagno e a sua figlia, arrivando perfino a pedinarli (28571/20). Ancora. È condannato l’uomo perché la ragazza è costretta a bannarlo: gli atti persecutori cominciano su Facebook e vanno avanti per sette anni, tanto che la giovane è costretta bloccare pure le chiamate in entrata del molestatore sul telefonino. I post divertenti o allusivi di un tempo sono diventati minacce e offese: l’uomo viene rifiutato proprio perché asfissiante e la vittima è costretta a cambiare abitudini, temendo che il persecutore le si materializzi davanti all’improvviso durante le ore di relax. Insomma: c’è lo stato d’ansia tipico della vittima di atti persecutori. E il reato ex art. 621 bis c.p. si configura anche senza un vero e proprio stato patologico della persona offesa (sentenza 45141/19). Di più. Commette stalking pure chi pubblica sul proprio profilo post intimidatori e minacciosi, anche se la vittima non li legge personalmente ma ne viene a conoscenza attraverso terzi (19363/21). La community internet, d’altronde, ben può rientrare nella nozione di “luogo pubblico” ex art. 660 c.p.: gli apprezzamenti a sfondo sessuale postati sulla bacheca di una ragazza integrano la contravvenzione di molestie alla persona (37596/14). Sanzioni espulsive. Veniamo al lavoro, dove pure si alzano spesso i toni. È licenziato per giusta causa l’autore del post contro l’azienda: l’uso del social, infatti, determina la circolazione tra un gruppo indeterminato di persone del messaggio che contiene offese contro il capo e i vertici (27939/21). Anche qui per far scattare la sanzione espulsiva non serve che il lavoratore scriva a chiare lettere il nome del datore nei messaggi diffamatori che poi pubblica sulla sua bacheca, se il destinatario si può facilmente identificare (sentenza 10280/18). Occhio anche alle immagini, magari da qualcuno pubblicate su Instagram. La foto sul social inchioda al licenziamento il dipendente che dà un concerto musicale mentre è in malattia: il lavoratore, indisponibile al servizio per lombasciatalgia, viene ritratto nell’atto di suonare lo strumento in piedi e la condotta risulta scorretta perché ritarda la guarigione (6047/18). Infine, ce n’è anche per i fannulloni: licenziato il dipendente che sta sempre su Facebook. Decisiva la cronologia del personal computer, l’incolpata non può smentire i 4.500 accessi con password al social in diciotto mesi: rubare tempo alle attività di servizio costituisce una condotta “grave” perché in contrasto con “l’etica comune” e finisce per incrinare la fiducia del datore (3133/19). Nel social si entra solo con l’inserimento delle credenziali e la lavoratrice non riesce a smentire che gli accessi contestati siano riferibili a lei né contesta la navigazione in rete per motivi estranei all’ambito lavorativo. Lazio. Covid, aggiornate le procedure di gestione dell’emergenza epidemiologica nelle carceri garantedetenutilazio.it, 12 aprile 2022 Non più l’isolamento della singola persona detenuta in ingresso, la prassi per la quarantena ora è il gruppo ristretto di cinque persone isolate per un massimo di cinque giorni. Con una nota del 7 aprile 2022, indirizzata ai direttori generali delle Asl, al Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, ai responsabili di medicina penitenziaria e al Garante dei detenuti del Lazio, la Direzione regionale salute e integrazione sociosanitaria- Area rete integrata del territorio ha modificato in parte le precedenti procedure di gestione e sorveglianza dell’emergenza epidemiologica sars-Cov-2 negli istituti penitenziari del Lazio. Partendo dal presupposto che si è in presenza di una buona percentuale di vaccinati e che il periodo di quarantena è notevolmente diminuito, si è stabilito che solo in casi specifici la quarantena è effettuata in termini di isolamento del detenuto: la prassi è la coorte di un gruppo ristretto di detenuti isolati insieme per un massimo di cinque giorni. Inoltre, il tampone può essere sia molecolare che antigenico con indice Coi. Con la nota, sottoscritta dal direttore regionale Massimo Annichiarico, si rammenta all’amministrazione penitenziaria e ai sanitari di far rispettare l’uso dei Dpi e dell’autosorveglianza ai detenuti che rientrano negli istituti dal lavoro esterno. “In considerazione del fatto che - si legge nella nota - in una comunità chiusa come un istituto penitenziario è difficile applicare l’autosorveglianza come prevista dalle attuali normative, sia per l’alto grado di sovraffollamento che per la scarsa adesione da parte degli utenti all’utilizzo dei Dpi, si ritiene opportuno, invece, per i contatti di casi positivi, prevedere una sorveglianza sanitaria precauzionale (mantenendo la stessa composizione delle stanze), di 5 giorni con tampone antigenico rapido all’inizio e tampone molecolare o tampone antigenico Coi, alla fine. All’esito del tampone, se negativo, potrà essere revocata la sorveglianza sanitaria. Nel caso si rendesse necessario l’isolamento di una sezione detentiva, ogni istituto, in base alle proprie caratteristiche, attuerà lo stesso isolamento con le modalità ritenute più appropriate”. Nella nota si legge inoltre che, come da normativa nazionale, è richiesto il green pass base per fruire dei colloqui visivi. Per i trasferimenti dei detenuti per necessità di giustizia, che non sono mai stati sospesi, si rappresenta la necessità di continuare a garantire il trasporto e l’accompagnamento del detenuto all’esterno dell’istituto in “certificata sicurezza sanitaria” sia per gli agenti di polizia penitenziaria che per i detenuti tramite l’utilizzo dei Dpi, delle misure di igiene e sanificazione dei mezzi di trasporto a cura del Prap. Marche. Un lavoro per i detenuti: nuovi incontri del Garante anconatoday.it, 12 aprile 2022 Prosegue il percorso del Garante Giancarlo Giulianelli sulla possibilità “di formare e fornire occupazione ai detenuti dimittendi ed anche a quelli che possono essere assegnati al lavoro esterno, seppur sottoposti ancora al regime carcerario”. A quanto si legge nella nota è “già predisposto il questionario che ha l’obiettivo di individuare il numero complessivo di soggetti interessati, le diverse fasce d’età e il livello di formazione anche in base alla tipologia dei corsi attivati in questi anni negli istituti penitenziari”. Nei giorni scorsi “la problematica è stata affrontata nel corso di una riunione della Commissione regionale per il lavoro penitenziario, così come prevista dalla riforma dell’ordinamento di settore, presieduta dal Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Emilia Romagna e Marche, Gloria Manzelli. E proprio in questa sede è stata ravvisata la necessità di una ricognizione generale su quanto è stato realizzato fino ad oggi nelle Marche”. Da ultimo il Garante “ha avuto modo di relazionarsi con alcuni dei promotori del progetto “Radici”, attivato negli scorsi anni attraverso il bando della Regione Marche per l’inclusione socio - lavorativa di persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Nell’ambito del progetto in questione, come illustrato nel corso dell’incontro, sono state orientate 148 persone, contattate 219 aziende, avviati 67 Tis (Tirocini inserimento sociale) di cui 36 completati, effettuate 13 assunzioni. Tra le direttrici indicate, la sensibilizzazione di associazioni di categoria, imprese, sindacati e società civile sulla tematica in questione”. Trento. Franco Corleone: “Rems, giusto mettere il numero chiuso” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 12 aprile 2022 “Il problema delle Rems non sono tanto i numeri, ma il tema è molto più complesso, stanno aumentando le perizie che spesso sono inaccettabili per qualità e approfondimento e sono moltissime le misure di sicurezza provvisorie rispetto a quelle definitive e questo mette difficoltà gli psichiatri”. L’ex commissario governativo per il superamento degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari), Franco Corleone, prova a sintetizzare i nodi aperti che rendono sempre più urgente una riforma delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Procura e camera penale hanno posto l’accento sui numeri della Rems di Pergine Valsugana ritenuti insufficienti (sono dieci in tutto, sia per Trento che per Bolzano) e sul problema dei troppi detenuti in carcere con problemi psichiatrici. “Le persone che in carcere manifestano problemi di salute mentale è perché non sopportano la condizione carceraria, ma non hanno patologie bensì problemi comportamentali - chiarisce -. Nella Rems di Pergine non ci sono particolari problemi legati alle liste d’attesa. Anche i magistrati devono capire che le Rems non sono un surrogato degli ex Opg”. Il numero chiuso per Corleone ha un senso. “Se in una struttura avessimo un sovraffollamento di persone non ci sarebbe più lo sviluppo terapeutico necessario. La Residenza per l’esecuzione della misura di scurezza è l’ultima ratio e ci devono andare solo le persone che hanno disturbi mentali e sono state prosciolte perché incapaci. È necessario mantenere un numero chiuso”. Corleone ricorda quello che definisce “il bubbone” di Castiglione delle Stiviere: “Abbiamo 160 persone ospiti della struttura e il 40% è rappresentato da misure di sicurezza provvisorie, questo crea la lista d’attesa, poi ci sono le perizie che largheggiano per determinare l’incapacità del reo, bisogna intervenire”. La Rems secondo il politico che, fa parte dell’Osservatorio sulla chiusura degli ex manicomi criminali, “va rimodellata”. “Continuo a ritenere che abbiamo fatto una rivoluzione gentile - riflette - ma alla luce anche della sentenza della Corte Costituzionale, che affronta certi nodi, serve una riforma”. Secondo Corleone la via maestra dovrebbe essere quella di arrivare a un giudizio per tutti e poi dopo la condanna affrontare il problema della destinazione, “perché - precisa - non tutte le persone hanno la stessa patologia”. Poi ricorda la proposta 2939 presentata alla Camera dei Deputati da Riccardo Magi “che ha raccolto l’elaborazione della proposta dalla Società della Ragione e da molte altre associazioni e scioglie i nodi legati a vecchi principi affermando nuove categorie legate alla legge 180 per cui la libertà è terapeutica”, analizza. “Dopo 90 anni si potrebbe anche dire basta al codice Rocco”. In che senso? “Mettere in campo una riforma radicale che elimini la non imputabilità e stronchi alla radice le contraddizioni”. Pistoia. È l’avvocato Sannini il nuovo Garante dei detenuti La Nazione, 12 aprile 2022 Nel consiglio comunale di ieri si è tenuta la votazione decisiva. Sanata una grave mancanza. dopo una vacanza di sette anni. Finalmente la città di Pistoia tornerà ad avere il proprio garante delle persone private della libertà personale. Una mancanza che andava avanti da ormai sette anni (il mandato triennale di Antonio Sammartino si concluse nel 2015, ndr), che è stata sanata con la nomina a maggioranza, nell’ultima seduta del consiglio comunale, di Tommaso Sannini, professione avvocato, nato a Firenze nel 1969 ma residente nel comune di Pistoia. Niente da fare per Sara Mazzoncini e Giulia Melani, con quest’ultima in particolare già bocciata dall’aula lo scorso novembre nonostante fosse l’unica aspirante candidata al ruolo (da svolgere a titolo gratuito, dopo le modifiche operate al bando). Ora come allora è stato vano il sostegno alla candidatura della sociologa del diritto pistoiese da parte di alcuni consiglieri: la maggioranza di è infatti schierata con Sannini. “La buona notizia è che Pistoia abbia finalmente un garante delle persone private della libertà personale, dopo tante scelte discutibili dell’Amministrazione che hanno dimostrato scarso interesse e sensibilità - commenta Melani - conosco bene le doti umane e professionali di Sannini, abbiamo visioni affini. Dunque non posso che essere contenta perché so che si spenderà per i diritti dei detenuti con passione e impegno, come ha già fatto negli anni di volontariato nella casa circondariale di Pistoia - conclude - sarà un compito impegnativo: la lunga vacanza della figura del Garante ha aumentato in senso di sfiducia nelle istituzioni e ci sarà bisogno di essere molto presenti per lavorare alacremente e acquistare credibilità”. Milano. Morto in carcere a Opera il boss catanese Alfio Laudani nuovosud.it, 12 aprile 2022 Aveva settantasei anni ed è morto nel carcere di Opera Alfio Laudani, che stava scontando diverse condanne all’ergastolo. Fu protagonista della guerra di mafia con il clan Cappello tra gli anni ottanta e novanta, quando i Laudani erano divenuti il braccio armato della cosca Santapaola. Figlio del patriarca Sebastiano “Iano” morto a 91 anni, assieme ai suoi fratelli Gaetano e Santo, tutti e due uccisi in agguati di mafia, Alfio fu a capo dell’espansione del clan in tutta la provincia catanese, con la propria roccaforte nella macelleria di famiglia nel quartiere catanese di Canalicchio. Lì, al suo interno nel 1990 venne assassinato uno dei fratelli. Alle falde dell’Etna, l’impero mafioso dei Laudani si è radicato negli ultimi decenni. Il nome di Alfio Laudani salì agli onori della cronaca con il pentimento di Pippo Di Giacomo, il mandante dell’omicidio dell’avvocato Serafino Fama’. Pavia. “La detenzione a Torre del Gallo? Un inferno” di Manuela Marziani Il Giorno, 12 aprile 2022 Luca Filippi, ex presidente di Asm Lavori, ha trascorso in cella anche il periodo di pandemia: niente acqua calda e poca carta igienica. Altro che rieducare. Sta vicino ai detenuti che non hanno una famiglia ad aspettarli fuori dal carcere e aiuta un’associazione di volontariato che si occupa di ragazzi con problemi, in attesa di poter iniziare a lavorare come dipendente in un bar di Voghera, Luca Filippi impiega così il proprio tempo. Condannato a 2 anni, 8 mesi e 20 giorni di reclusione per l’utilizzo a fini personali delle carte di credito di Asm Lavori di cui era presidente, ora il 50enne è un uomo nuovo. Si sente cambiato? “Sono un uomo delle istituzioni e vedere come le istituzioni invece di aiutarti a compiere un percorso di recupero, ti portano ad odiare le istituzioni stesse, mi fa male come fa male alla direzione e a chi lavora in carcere. Questo sistema non funziona”. Com’è stata la sua esperienza a Torre del Gallo? “Il carcere di Pavia non ti aiuta per niente. La struttura è vetusta, le celle hanno una superficie che non raggiunge i 3 metri quadri e sono in condizioni disastrose, manca l’acqua calda quindi fatichi a lavare i piatti e a farti la doccia. Non solo, la palestra è inagibile da 5 anni perché ci piove dentro, la scuola non c’è più, i colloqui si fanno in corridoio, la chiesa è ospitata nel teatro. Altri istituti di pena hanno le lavanderie a gettoni, da noi i piatti si lavano con l’acqua fredda. Se il carcere deve essere rieducativo, questo non ti rieduca, ti porta a sviluppare una rabbia nei confronti della società. Durante la pandemia ogni giorno, io trascorrevo in cella 23 ore. Non si poteva leggere perché non era possibile prendere libri dalla biblioteca, non si potevano avere colloqui. Era difficile sopravvivere”. Chi le è stato accanto? “La mia famiglia e mi ritengo fortunato. Altri, quando entrano vengono dimenticati da tutti. A loro penso e per loro mi preoccupo. Se già non hanno un buon rapporto con le istituzioni e vengono rinchiusi in un posto in un cui non funziona nulla, non possono capire che le istituzioni li aiutano. Non tutti hanno intenzione di redimersi, ma anche chi ha intenzione di farlo, è in enorme difficoltà. Gli educatori ti vedono una volta al mese e non possono seguirti nel tuo percorso. Il medico non c’è, così spesso accade che finisci in depressione e quattro detenuti hanno deciso di farla finita. Perché, se non hai i soldi, ogni mese hai 3 rotoli di carta igienica, 2 saponi, 6 forchette di plastica e poco altro. Devi accontentarti di mangiare il rancio che ti danno e di bere il caffè nelle scodelline lasciate vuote dalla ricotta. Abbiamo avuto il riscaldamento rotto e ci siamo sentiti trattati come animali”. Ma in carcere non si può lavorare? “Pochissimi lo fanno e percepiscono 80 euro al mese. Adesso stanno tornando i corsi, uno per panettiere e uno per mulettista, poi c’è un corso alla familiarità che frequentano in cinque e uno di letture filosofiche per 7 persone quando in carcere ci sono 600 detenuti, 300 comuni e 300 speciali nella struttura nuova”. Ha mantenuto i contatti coi suoi compagni di cella? “Ho provato a insegnare la nostra lingua a chi non la conosceva e adesso tengo i contatti con alcuni che vorrebbero recuperare”... Lei ha ottenuto l’affidamento in prova e lavorerà... “Avevo chiesto di uscire prima perché avevo i requisiti, non me l’hanno consentito perché non avevo relazioni sufficienti. Per forza, passavo in cella 23 ore ogni giorno. Purtroppo quando mi sono presentato spontaneamente in carcere per pagare il mio debito, ho lasciato mio fratello a gestire da solo il nostro bar e così abbiamo deciso di comune accordo di chiuderlo. Andrò a fare il dipendente”. Roma. Antonello, Pasquale e Gennaro da Rebibbia all’Istituto superiore di Sanità di Flavia Fiorentino Corriere della Sera, 12 aprile 2022 Tre detenuti lavorano nella falegnameria interna. Il direttore Andrea Piccioli: “Un’ esperienza umana e d’inclusione sociale che arricchisce tutti noi”. Lucidano tavoli, riparano cassetti e aggiustano i ripiani di una vecchia libreria. Ma ciò di cui si sentono più orgogliosi è l’incarico di restaurare la sirena d’allarme di San Lorenzo, quella che suonò prima del bombardamento del luglio 1943. Sono Antonello, Pasquale e Gennaro, tre detenuti del carcere di Rebibbia che, grazie a un nuovo programma dell’ordinamento penitenziario e alla disponibilità dei vertici del carcere romano verso percorsi di reinserimento lavorativo, sono stati assunti per un anno all’Istituto Superiore di Sanità in viale Regina Elena. Hanno ridato vita alla storica falegnameria - racconta Mirella Taranto, dipendente della direzione generale a cui sono stati affidati i detenuti - e stanno dimostrando grande abilità artigianale, tanto che abbiamo chiesto loro di occuparsi anche di alcune strutture in legno della sala dei Nobel, come le scale per raggiungere i piani alti degli armadi dove sono conservati preziosi oggetti scientifici, alcuni appartenuti a Enrico Fermi e Rita Levi Montalcini. E presto si occuperanno della sirena che verrà poi collocata nel nostro giardino interno. Non molti lo sanno, ma questa è stata sempre una sorta di “cittadella autonoma” dove si fabbricava tutto quello che serviva all’istituto: c’erano anche i soffiatori del vetro che creavano le ampolle per gli esperimenti”. Le richieste di poter lavorare fuori dal carcere sono molte, ma la scelta dei candidati è accurata e severa. “Per poter partecipare a queste attività sono tornato sui banchi di scuola - racconta Antonello, 59 anni - perché mi mancava la licenza media e ho fatto anche due anni di superiori. Sono molto grato e spero di poter continuare a fare il falegname anche quando uscirò definitivamente”. Il nuovo “Braccio 8” del carcere di Rebibbia dove si trova il Padiglione Venere, protagonista di una sperimentazione sostenuta dall’ispettrice Cinzia Silvano in cui i detenuti vengono responsabilizzati e godono di ampie libertà, consente agli stessi (in base all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario) di recarsi autonomamente al lavoro con i propri mezzi (due ore per andare e due per tornare) senza la scorta. “Credo sia un esempio di virtuosa collaborazione nel settore pubblico - spiega Andrea Piccioli, direttore generale dell’istituto che ha fortemente voluto questo progetto - per loro è un’opportunità, ma lo è altrettanto per noi, un’occasione concreta di inclusione sociale che qui contamina tutti con entusiasmo e positività”. Motore di questo nuovo impulso su progetti di reinserimento nella vita sociale e lavorativa dei detenuti è Flavia Filippi, una giornalista di cronaca giudiziaria che per anni ha osservato da vicino le drammatiche condizioni delle carceri italiane, sovraffollate e poco inclini a percorsi rieducativi. “Volevo rendermi utile, fare da cerniera tra l’amministrazione penitenziaria e il mondo delle imprese - racconta Filippi - mi sono messa in contatto con Gabriella Stramaccioni, garante dei diritti dei detenuti e ho dato a questa iniziativa il nome di “Seconda Chance”. Per ora non è nemmeno un’associazione, ma un’attività che porto avanti da sola: ci sono già una trentina di candidati che attendono l’autorizzazione per lavorare in molte aziende romane (con sgravi fiscali e retributivi in base alla legge Smuraglia n. 193 del 2000), dai ristoranti come Le Serre Vivi Bistrot e l’Osteria degli avvocati o Uniq, ma anche l’azienda di grafica Pioda Imaging e Botw per l’allestimento di eventi. Infine, subito dopo l’Iss ho avuto l’adesione di molti enti pubblici, tra cui Cnr, Cnel, Ance e Croce Rossa”. Napoli. “Codice Ristretto”, l’opuscolo sui diritti dei detenuti: il 13 aprile la presentazione anteprima24.it, 12 aprile 2022 È in programma per il 13 aprile 2022, dalle ore 10:30, presso la sala Nassiriya del Consiglio Regionale della Campania - Isola F13 del Centro direzione di Napoli, la conferenza stampa di presentazione dell’opuscolo “Codice Ristretto”, promosso dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, in collaborazione con il Provveditorato campano dell’Amministrazione penitenziaria, l’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane e la Camera Penale di Bologna. Lo presenteranno, alla presenza anche delle Camere Penali campane e di diverse Associazioni di volontariato, il Garante campano prof. Samuele Ciambriello, il Presidente del Consiglio Regionale della Campania, l’on. Gennaro Oliviero, il Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane, l’avv. Riccardo Polidoro e il Direttore Ufficio Detenuti e Trattamento, Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania, dott.ssa Assunta Borzacchiello. “L’opuscolo “Codice Ristretto” sarà diffuso successivamente nelle carceri campane, quale strumento per fornire informazioni utili sui diritti dei detenuti e sulle modalità con cui tali diritti possono essere esercitati, fornendo consigli pratici sulla vita detentiva e sulle misure alternative al carcere. Non vuole sostituire la consultazione delle norme di legge, ma esclusivamente agevolare la comprensione del possibile accesso ai benefici”, così il Garante campano Ciambriello. Sicurezza: eversione e terrorismo, torna l’allarme. Giannini: pericolose anche le fake news di Giuliano Foschini La Repubblica, 12 aprile 2022 Ci sono due parole dal sapore antico - eversione e terrorismo - che non devono e possono essere cancellate dal lessico pubblico italiano. Perché se in questi anni non hanno preso il sopravvento è soltanto grazie al fatto che una terza parola - prevenzione - è stata più efficace. I numeri e le operazioni della Polizia nel 2021 dimostrano come la storia stia rioffrendo il fianco a una stagione orrenda e che soltanto l’intervento tempestivo delle forze di Polizia ha evitato disastri. La crisi economica dovuta alla pandemia ha riacceso focolai che sembravano spenti, riportando in piazza antagonisti di sinistra in alcuni casi e in altri quella destra eversiva che il 9 ottobre a Roma ha attaccato la sede della Cgil dopo aver provato anche ad assaltare Palazzo Chigi. Accanto a una tensione interna che cresce, l’allarme è salito anche sul fronte internazionale. La vittoria talebana in Afghanistan, prima, ha fatto rialzare l’allarme jihadista in Europa e nel nostro Paese. E, oggi, la guerra ucraina spaventa anche per i foreign fighter di ritorno. Si diceva, però, che i numeri dimostrano che nulla è stato sottovalutato: in materia di terrorismo internazionale la polizia ha controllato 154mila persone, denunciandone 53 ed espellendone 59. Milleseicento sono state le persone invece denunciate dalle Digos nell’ambito delle operazioni nel contrasto all’antagonismo politico. “Due anni di pandemia - spiega il capo della Polizia, Lamberto Giannini, il poliziotto italiano più coinvolto nella lotta al terrorismo negli ultimi 20 anni - hanno notevolmente fiaccato il tessuto socio-economico nazionale rendendo, fra l’altro, gli italiani vulnerabili ad una controinformazione talvolta alimentata da gruppi estremisti intenzionati ad imprimere alla protesta una deriva anti-sistema. Gestire le dinamiche di piazza e contrastare le derive violente ed illegali è stato fondamentale”. Il cuore è stata la saldatura del fronte no vax e la destra eversiva. Lo sa bene Diego Parente, direttore centrale della Prevenzione. “Le iniziative del variegato fronte “no vax” sono state oggetto di tentativi di strumentalizzazione in chiave violenta da parte dei gruppi estremistici sia di destra che di sinistra. In questo contesto, gli arresti di Castellino, Fiore e di altri esponenti di Forza Nuova, dopo l’assalto del 9 ottobre alla sede romana della Cgil, hanno senz’altro contribuito a riportare la protesta al suo alveo originale sottraendola agli appetiti dei gruppi più estremistici”. Il web è stato il campo di azione privilegiato. “Avere i riflettori accesi su quei gruppi che si ispirano ad ideologie nazi-fasciste e suprematiste e che hanno propagandato tesi negazioniste, xenofobe e ha permesso due arresti e circa 70 perquisizioni”. “Intervenire prima” è la cifra di questo tipo di lavoro. E’ successo spesso quando la Polizia è intervenuta su soggetti - dal fiancheggiatore della strage di Nizza a combattenti dell’Is che vivevano anonimamente in Italia - potenzialmente pronti a colpire. “La vicenda afghana - spiega Giannini - è stata ampiamente utilizzata dalla propaganda jihadista, che la vede come una grande vittoria ottenuta grazie alla perseveranza dei mujaheddin ed all’aiuto divino. Sono quindi molto frequenti sul web gli inviti rivolti anche ai cosiddetti lupi solitari ad attaccare. Diversa è invece l’attuale situazione determinata dal conflitto ucraino. L’attenzione, anche in questo caso, deve essere indirizzata a cogliere ogni segnale di strumentalizzazione con finalità violente delle numerose e partecipate manifestazioni che si stanno svolgendo nel Paese da parte di compagini di diversa estrazione, anche con riguardo alle possibili derive negative che la guerra in atto ed il sistema di sanzioni stanno determinando nell’economia, ed al risorgere delle tematiche anti Nato. Contemporaneamente è necessario poter individuare le possibili infiltrazioni di soggetti noti per il loro background criminale e terroristico che arrivano in Italia”. Ucraini, russi. Ma non solo. “Possono esserci anche soggetti che risiedevano in Ucraina allo scoppio del conflitto, pur non essendo nati lì. Infine è necessario monitorare con attenzione il fenomeno dei foreign fighter italiani che spesso provengono dall’estremismo sia di destra che di sinistra”. Menzogne, propaganda e falsi miti di guerra di Dacia Maraini Corriere della Sera, 12 aprile 2022 False notizie, propaganda, interessi contrastanti, menzogne, bufale, chi più ne ha più ne metta. Possiamo provare a sbrogliare qualche matassa, partendo dai fatti? Sappiamo tutti che i fatti si interpretano. Ma esistono dei fatti incontrovertibili che si possono interpretare, ma non negare. Vulgata 1) La guerra è guerra e le atrocità sono parte del suo Dna. Ma davvero? Quindi Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema sarebbero parte di una guerra normale? Non siamo arrivati, dopo secoli di orrori e licenze, a stabilire delle regole che di solito si rispettano, come quella di non sparare sugli inermi cittadini, non bombardare ospedali, asili, e civili inermi? Quando questo avviene, perché certo avviene, si denunciano gli abusi e si chiede la condanna. Vulgata 2) Le atrocità sono sempre state compiute, guardate i gas degli italiani in Africa, guardate gli americani in Vietnam, guardate Milosevic in Serbia ecc. Ebbene, non è una buona ragione per accettarne delle altre. Io sono tra quelli che hanno protestato, anche affrontando le cariche della polizia, per protestare contro la guerra del Vietnam, e ricordo piazze intere di giovani che lo facevano con me. Ricordo articoli di fiamma, programmi televisivi e film coraggiosi. La regola è: ogni volta che un Paese in guerra esce dalle regole (faticosamente stabilite in sede internazionale) viene denunciato, redarguito, criticato, messo all’angolo. Questa è il compito dei cittadini civili. Vulgata 3) La povera Russia è stata assalita, circondata, provocata e non ha potuto fare a meno di reagire. Compiangerei semmai quel povero popolo russo che ha dato tanto al mondo e della cui cultura ci siamo nutriti tutti; compatirei quei cittadini che sono sotto il regime di un tiranno che li priva di ogni libertà (ricordiamo i giornali chiusi, i giornalisti assassinati, le minacce di carcere a chi scrive anche solo la parola guerra). Non sono i russi che hanno invaso l’Ucraina, è un regime corrotto e tirannico che, oltre a sopprimere la libertà presso i propri cittadini, sta cercando di sottomettere e assoggettare anche i popoli vicini che hanno scelto di volere essere indipendenti e autonomi. Vulgata 4) L’Ucraina è sempre stata russa, fa parte del suo antico territorio sovietico. Ebbene, anche se dopo la rivoluzione sovietica l’Ucraina è diventata parte di una rete di influenza sovietica, secondo la volontà di Lenin doveva essere parte di una federazione di repubbliche indipendenti e con pari diritti. Ma poi è venuto Stalin che ha cominciato a espandersi a danno delle altre repubbliche, cercando di incorporare le identità dei vari popoli in un processo di russificazione che è stato feroce. Nella sua idea crudele di sovietizzazione dei Paesi vassalli, Stalin ha procurato una famosissima carestia che ha ucciso, negli anni 1932 e ‘33, più di 3 milioni di persone in Ucraina. Crollata l’Unione Sovietica, l’Ucraina si è guadagnata l’indipendenza scegliendo la democrazia. Ho sentito con le mie orecchie un giornalista russo sostenere che Kiev, Odessa, Leopoli, Mariupol appartengono alla Russia da secoli. Sarebbe come dire che l’Austria domani avrebbe il diritto di invadere la Lombardia e il Veneto perché per secoli quei territori sono appartenuti all’impero austro-ungarico. Vulgata 5) La Russia sta facendo un lavoro di denazificazione del Paese occupato. Risposta: certo, in Ucraina ci sono delle frange filonaziste, ma come ce ne sono nella stessa Russia e in tutta Europa. In Ucraina questi nostalgici costituiscono solo il 2% della popolazione ed è profondamente ingiusto dare dei nazisti e cioè dei razzisti e dei prevaricatori alle tante persone che se ne stanno terrorizzate nelle cantine senza acqua né luce per non venire catturati o uccisi. Chi è più nazista in questo caso? Dichiarare razziste quelle migliaia di mamme con in braccio i bambini che si ammassano alle frontiere e su cui si è vergognosamente sparato, non solo è falso ma profondamente vile. Dove, come, quando si riconosce il loro nazismo? Tutto ci conferma che sono pacifici cittadini che vivevano la loro vita e sono stati cacciati via brutalmente dalle loro case e dalla loro terra. Ascoltiamoli, parliamo con loro, non cancelliamoli con una etichetta. Vulgata 6) La bomba caduta sulla stazione di Kramatorsk piena di comuni cittadini, fra cui tanti bambini che tentavano di scappare via da città distrutte e bruciate, le hanno messe gli ucraini per poi incolpare l’esercito russo. E qui viene da ridere, se non ci facessero piangere per i tanti cittadini uccisi barbaramente mentre correvano con i loro fagotti una volta perse le case. Ecco, se io fossi un comico, farei ridere il mondo intero con la caricatura di queste teorie: dunque: gli ucraini nazisti, con a capo un ebreo nazista, si sono invasi da soli, si sono buttate le bombe da soli, si sono bruciati le case, hanno torturato, terrorizzato, derubato, cacciato i propri cittadini, inventandosi teatralmente le scene di morte e predazione, per dare la colpa ai russi. Ma davvero il popolo russo crede a queste fandonie? Eppure ho saputo di molti figli emigrati che hanno cercato di convincere i loro padri e non ci sono riusciti. “Sei una marionetta degli americani” è stata la risposta di questi padri rimasti in patria. Si è letto di una infermiera che a Kiev curava un soldato russo prigioniero che continuava a dire: “Vi dobbiamo uccidere tutti, perché siete nazisti e il nazismo è il nostro nemico”. E qui capiamo quanto possa diventare potente la propaganda quando un Paese è privo di ogni dialettica informativa, quando c’è una sola voce che tuona dentro le case attraverso una televisione assoggettata, una radio asservita. Un Paese in cui i giornalisti vengono avvelenati, e chi protesta, anche solo per chiedere la pace, viene buttato in prigione con la minaccia di cinque anni di galera si può considerare un Paese che racconta la verità? Vulgata 7) Infine la grande proposta: Ma invece di fare la guerra perché non create occasioni di confronto? Perché non cercate il colloquio usando la diplomazia invece delle armi? Giusto, siamo tutti d’accordo. Ma bisogna essere in due per accordarsi. Sono state fatte e si stanno facendo centinaia di tentativi per un accordo. Ma se per Putin la sola intesa possibile consiste nella resa totale e nella rinuncia a ogni libertà, come si può accedere a un accordo? Siamo di fronte a un autocrate che vorrebbe creare intorno al suo Paese altri Paesi totalitari, vorrebbe chiudere la sovranità delle nazioni sovrane, mettere al loro governo dei fantocci, cancellare ogni aspirazione alla democrazia alla libertà di pensiero e di parola. Vulgata 8) I soldati incattiviti dalle reazioni dure dei locali, si danno, per vendetta, allo stupro, uccidono a sangue freddo chiunque passi per la strada, si danno a violenze indiscriminate all’insaputa dei loro capi. Ma davvero crediamo che in un regime severissimo e stretto in una morsa di spionaggio e controlli polizieschi alcuni soldati disperati e rabbiosi si permetterebbero di comportarsi a loro piacere nelle città conquistate senza il permesso e il consenso dei loro superiori? Purtroppo o forse per fortuna, tutto ci fa pensare che non si tratta di iniziative private ma di ordini superiori e la prova ce la dà il fatto che non si tratta di casi isolati, ma di una strategia che viene ripetuta giorno per giorno in città anche lontane fra di loro. Vulgata 9) Armare gli ucraini significa incrementare la guerra. Ma siamo sicuri che disarmandoli e lasciandoli alla mercé del più potente, la guerra di conquista finirebbe? E ci sembra giusto che un popolo di 40 milioni di persone rinunci alla sua libertà e alla sua identità per paura, accettando tutte le pretese di un Paese invasore? Se l’Italia non avesse combattuto la sua battaglia di libertà sotto il regime fascista con una Resistenza che ha dato dignità al suo popolo e oltre tutto le ha permesso di mostrarsi degna di un minimo di credibilità nel dopoguerra, che fra l’altro ha prodotto una classe dirigente fra le più illuminate e coraggiose di tutta la storia nazionale, da cui è nata quella cosa straordinaria che è la nostra Costituzione, saremmo stati meglio come Paese? Vulgata 10) Stiamo attenti perché Putin chiuderà i rubinetti del gas e noi dovremo fare terribili sacrifici. Risposta: la Russia di Putin fa affari d’oro vendendo il gas. Se chiude i rubinetti non avrà più introiti. Infatti non li ha chiusi nonostante le minacce, perché quei dollari sono essenziali per la sua economia di guerra. Quindi semmai siamo noi che dobbiamo chiudere i rubinetti, trovare rapidamente energie alternative. Energie che ci sono, basterebbe investire per una rapida costruzione di pale eoliche, pannelli solari, centrali idroelettriche che per ora sono fermi per confuse ragioni burocratiche. Si insiste a dire che dare armi all’Ucraina significa scatenare la guerra nucleare. Io non sono una esperta, ma la logica mi dice che si potrebbe benissimo aiutare con armi convenzionali un coraggioso popolo che sta difendendo il suo Paese e la sua dignità (che a volta, lo posso dire io che sono stata in campo di concentramento per avere mantenuto fede alla dignità di una scelta, coincidono) chiedendo invece l’eliminazione di ogni progetto per lo sviluppo delle armi nucleari. Ma il disarmo è una azione a lungo termine. Intanto concentriamoci sul presente aiutando chi si sta impegnando non solo per difendere la sua libertà ma anche il nostro futuro di europei in un mondo che tende, per delusione e semplificazioni, a nuove forme di autoritarismo. La lotta alla povertà non fa aumentare le emissioni: uno studio di Matteo Grittani La Repubblica, 12 aprile 2022 Secondo una ricerca dell’università di Groningen portare un miliardo di persone fuori dalla soglia di sussistenza farebbe aumentare del 1.6-2% le emissioni totali annue. Gli esperti la chiamano carbon inequality, “disuguaglianza carbonica”. Prodotto emblematico del nostro tempo, descrive le abissali differenze tra le emissioni pro-capite di anidride carbonica, che riflettono gli standard di benessere dei Paesi ricchi e quelli delle aree meno sviluppate del Pianeta. La ricchezza non è mai stata distribuita in maniera tanto squilibrata come oggi. E ciò ha dirette conseguenze sul tenore di vita, sui consumi e soprattutto sull’impronta carbonica dell’esistenza di ognuno di noi. In concreto, il “peso” sull’ambiente di un abitante di Paesi dell’Africa subsahariana è come una piuma, se rapportato a quello di uno statunitense o un europeo. Portare le zone più svantaggiate del pianeta a livelli di benessere “occidentali” è un imperativo categorico ed è stato messo nero su bianco nel 2015 dalle Nazioni Unite come primo Obiettivo dello Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030. Ma c’è chi sostiene che questo enorme sforzo contro la povertà potrebbe vanificare le sfide che il cambiamento climatico ci impone. Una narrazione a tratti disfattista, che mira a svuotare di significato la transizione ecologica e a ridimensionare la necessità di passare da un’economia basata sulle fonti fossili, a una ricostruita con le rinnovabili. A confutare questa tesi arriva un’approfondita analisi dell’Integrated Research on Energy, Environment and Society (Irees) dell’Università di Groningen. Lo studio, pubblicato su Nature Sustainability, dimostra come, in realtà, un miglioramento degli standard di vita per più di un miliardo di persone che oggi vivono con meno di 1.90 dollaro al giorno causerebbe un incremento minimo delle emissioni globali, a fronte di benefici incalcolabili in termini di salute globale e protezione di minoranze e gruppi sociali più vulnerabili. La tesi dei ricercatori è chiara: eradicare la povertà e affrontare il cambiamento climatico sono due dinamiche del tutto compatibili. Il team internazionale, composto da studiosi olandesi, cinesi e statunitensi, ha analizzato un nuovo dataset messo a punto insieme alla Banca mondiale su redditi, consumi e conseguenti emissioni pro-capite di 116 Paesi del mondo. “Tenendo conto delle diverse soglie di povertà a seconda dell’area di provenienza - spiega Benedikt Bruckner, dottorando all’Irees e primo autore - abbiamo stimato l’impronta carbonica di più del 90% della popolazione globale, suddividendola in oltre 200 livelli, dalle più basse alle più elevate”. Gli esperti, coordinati dal professor Klaus Hubacek, hanno così stimato gli effetti in termini di emissioni che avrebbe il passaggio di ogni gruppo da sotto a sopra la soglia di povertà. La lotta alla povertà non incide sulle emissioni “Portare un miliardo di persone fuori dalla soglia di povertà assoluta, farebbe aumentare del 1.6-2% le emissioni totali annue”, si legge nelle conclusioni. “È semplicemente sorprendente vedere quanto poco ‘costi’ in termini ambientali l’eradicazione della povertà nelle aree più svantaggiate del pianeta”, nota Hubacek. I gas serra liberati dall’1% più ricco dei consumatori costituiscono oggi il 15% di quelli totali, che creano il riscaldamento globale. In altre parole, le responsabilità di un cittadino del Burundi o del Madagascar, la cui vita “pesa” sull’ambiente ogni anno dai 10 ai 100 kg di CO2 sono molto diverse da quelle di uno statunitense, che ne libera più di 15 tonnellate sullo stesso periodo. Ma le disuguaglianze “carboniche” sono solo la punta dell’iceberg rispetto a quelle sociali ed economiche. La novità è che si potranno appianare senza rinunciare alla sfida della crisi climatica. Delocalizzare le prigioni significa calpestare la dignità dei detenuti di Giusy Santella mardeisargassi.it, 12 aprile 2022 Abbiamo sentito parlare spesso di delocalizzazioni delle aziende portate avanti per fini economici, ma finora raramente abbiamo dovuto parlare di delocalizzazioni di prigioni e, dunque, di prigionieri, come se fossero suppellettili da spostare da un luogo all’altro senza alcuna ripercussione. E se ci sembra grave trasferire un’impresa soltanto per mero tornaconto, per approfittare della manodopera a basso costo e dei conseguenti minori oneri, ci sembra ancora più grave e vergognoso delocalizzare quello che dovrebbe essere un percorso detentivo e dunque di rieducazione come ha deciso di fare il governo danese. Pochi mesi fa, infatti, la Danimarca ha siglato un accordo con il quale è stato stabilito che, a partire dal 2023, trecento detenuti - condannati in maniera definitiva - dovranno scontare la propria pena in Kosovo, dietro pagamento di una cospicua somma di denaro attraverso cui la Danimarca si libera dai più immediati compiti legati alla detenzione di tali reclusi e, a suo dire, alleggerisce il sistema carcerario, molto sovraffollato. Che sia davvero questa la soluzione? Una disumanizzazione della pena che risponde esclusivamente alle logiche privatistiche del profitto e non tiene in nessun conto le persone recluse e il loro percorso detentivo? Noi crediamo che siano innumerevoli le modalità per liberarsi della piaga del sovraffollamento, che affligge il sistema penitenziario italiano ma anche quello di moltissimi Paesi europei e non, prima tra tutte un ripensamento del modo di intendere la pena, che non sia più sopruso, punizione, tortura. Più volte, parlando delle prigioni private, in particolare americane, abbiamo messo in luce come le logiche tipiche del mercato capitalistico comportino, per i luoghi di detenzione, un abbassamento drastico della qualità della vita e una mercificazione della vita dei detenuti. Attualmente, inoltre, molti aspetti dell’accordo intercorso tra Danimarca e Kosovo non sono chiari, a partire dalle modalità di gestione delle prigioni: come farà il governo danese a mantenere la responsabilità sull’esecuzione della pena a migliaia di chilometri di distanza? E, soprattutto, di che nazionalità saranno gli operatori che dovranno farsi carico del percorso detentivo? Un simile accordo pone una lunga serie di interrogativi e perplessità, poiché non tiene in nessun conto l’aspetto umano: i detenuti coinvolti saranno costretti a trasferirsi lontano dalle proprie case e dai propri affetti, che non potranno sicuramente incontrare, trovandosi in un luogo del quale non conoscono la lingua e nell’impossibilità di attuare qualsiasi percorso di risocializzazione che sia degno di chiamarsi tale. Dovrebbe quindi sorprenderci il cinismo e la freddezza con cui lo stesso Ministro della Giustizia danese ha parlato di tale scelta, ammettendo candidamente che le visite saranno complicate, ma che la loro possibilità teorica permane. Un simile accordo calpesta la dignità delle persone detenute, e i più basilari principi umani e di diritto. La Danimarca, infatti, fa parte dell’UE e del Consiglio d’Europa e ha inoltre aderito alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e alla Convenzione dell’ONU per la prevenzione della tortura, oltre che alle Nelson Mandela Rules, che stabiliscono espressamente il diritto dei detenuti a comunicare con le proprie famiglie e i propri cari a intervalli regolari, essendo assegnati a prigioni che siano il più vicino possibile alle proprie case e ai luoghi di riabilitazione sociale. Ricordiamo infatti che si tratta di un principio che caratterizza le regole europee e anche quelle del nostro ordinamento, dove è noto come principio di territorialità della pena. Disponendo il trasferimento lontano dai propri cari o dalla propria casa solo laddove tale scelta risponde al maggior benessere della persona detenuta, si persegue una precisa finalità: mitigare dal punto di vista umano gli effetti negativi della detenzione, che sarebbero sicuramente esacerbati da una condizione di solitudine. Non è la prima volta che uno Stato europeo decide di delocalizzare le proprie prigioni, anche se finora era accaduto solo tra Paesi che presentavano un ordinamento omogeneo: un accordo simile era stato siglato tra Belgio e Paesi Bassi nel 2010 e poi tra Norvegia e Paesi Bassi nel 2015, tuttavia per far fronte, in entrambi i casi, a situazioni provvisorie e trasferendo nuovamente i detenuti al venir meno della contingenza che aveva sollecitato l’accordo. Inoltre, tutto è avvenuto con il controllo del Consiglio d’Europa e del Comitato per la prevenzione della tortura. Non vogliamo con questo sminuire la prassi portata avanti già allora, ma soltanto sottolineare come in questo caso non sarebbe in alcun modo possibile vigilare su eventuali violazioni di diritti e abusi perpetrati poiché l’ordinamento del Kosovo sfugge alle forme di controllo tipicamente europee. Avallare tali pratiche significa correre il rischio che altri Paesi svendano le proprie garanzie costituzionali trasferendo i detenuti delle loro prigioni in Stati senza scrupoli, utilizzando la scusa del sovraffollamento, a cui - lo ripetiamo - si può rispondere in modi decisamente più umani e dignitosi di questo. I detenuti si troverebbero così in un non luogo, privati delle più basilari garanzie e dei diritti umani. È necessario l’intervento delle istituzioni internazionali per evitare che tale accordo, e altri simili, siano applicati e che abbia luogo l’ennesima disumanizzazione delle persone private della libertà personale. Polonia. Detenzioni arbitrarie e violenze contro i richiedenti asilo amnesty.ch, 12 aprile 2022 Le autorità polacche hanno detenuto arbitrariamente quasi duemila persone richiedenti asilo arrivate nel paese dalla Bielorussia nel 2021, sottoponendone molte ad abusi, tra cui perquisizioni a nudo in strutture insalubri e sovraffollate, e in alcuni casi anche a sedazione forzata e taser. Lo dichiara oggi Amnesty International nel presentare un nuovo rapporto. Attualmente, dopo un’interruzione durante l’inverno, un numero maggiore di richiedenti asilo stanno cercando di entrare in Polonia dalla Bielorussia, dove non possono accedere a ulteriori fondi a causa delle sanzioni internazionali e, visto il loro status di immigrati irregolari, rischiano molestie o arresti da parte della polizia bielorussa. Al confine polacco queste persone si trovano davanti a muri di filo spinato e respingimenti ripetuti, in alcuni casi fino a 20-30 volte, da parte delle guardie di confine. “I richiedenti asilo che hanno attraversato il confine bielorusso entrando in Polonia, compresi molti costretti a farlo dalle guardie di confine bielorusse, sono ora detenuti in centri di detenzione sporchi e sovraffollati dove le guardie li sottopongono ad abusi, negando loro il contatto con il mondo esterno”, ha dichiarato Jelena Sesar, ricercatrice regionale di Amnesty International. “Questo trattamento violento e degradante è in netto contrasto con la calda accoglienza che la Polonia offre agli sfollati in arrivo dall’Ucraina. Il comportamento delle autorità polacche sa di razzismo e ipocrisia. La Polonia deve urgentemente estendere la sua ammirevole compassione per chi entra nel paese dall’Ucraina a tutti coloro che attraversano i suoi confini alla ricerca di sicurezza”. Detenzione arbitraria e terribili condizioni di detenzione - Le guardie di confine polacche hanno sistematicamente radunato e respinto con violenza le persone che attraversavano il confine entrando dalla Bielorussia, a volte minacciandole con le armi. La maggioranza di coloro che hanno evitato il respingimento in Bielorussia e sono riusciti a chiedere asilo in Polonia sono stati automaticamente arrestati, senza una valutazione adeguata della loro situazione individuale e dell’impatto che la detenzione avrebbe sulla loro salute fisica e mentale. Sono spesso detenuti per periodi di tempo prolungati e indefiniti in centri sovraffollati che offrono poca privacy e solo un accesso limitato a strutture sanitarie, medici, psicologi o assistenza legale. Quasi tutte le persone intervistate da Amnesty International hanno detto di essere traumatizzate dopo essere fuggite da zone di conflitto e aver trascorso mesi intrappolate sul confine bielorusso-polacco. Molte soffrivano anche di gravi problemi psicologici, tra cui ansia, insonnia, depressione e frequenti pensieri suicidi, indubbiamente esacerbati dalla loro inutile detenzione. Per la maggior parte, il supporto psicologico non era disponibile. Ritraumatizzati all’interno di una base militare - Molte delle persone con cui Amnesty ha parlato erano state nel centro di detenzione di W?drzyn, che ospita fino a 600 persone. Il sovraffollamento è particolarmente importante in questa struttura, dove fino a 24 uomini sono detenuti in stanze di soli otto metri quadrati. Nel 2021 le autorità polacche hanno diminuito lo spazio minimo richiesto per i detenuti stranieri da tre metri quadrati a soli due metri per persona. Lo standard minimo dell’UE per lo spazio vitale personale nelle prigioni e nei centri di detenzione è di quattro metri quadrati a persona. Le persone detenute a W?drzyn hanno raccontato che le guardie salutavano i nuovi detenuti dicendo “benvenuti a Guantánamo”. Molte di queste persone sono state torturate nei loro paesi d’origine prima di vivere esperienze strazianti sia in Bielorussia che al confine con la Polonia. Il centro di detenzione di W?drzyn fa parte di una base militare attiva: i muri di filo spinato della struttura - e il rumore persistente di veicoli blindati, elicotteri e spari di esercitazioni militari nella zona - sono dei nuovi traumi. “La maggior parte dei giorni venivamo svegliati dal rumore di carri armati ed elicotteri, seguito da spari ed esplosioni. A volte questo andava avanti tutto il giorno. Quando non hai un posto dove andare, nessuna attività [per] distogliere la mente o uno spazio dove poter avere una breve tregua, tutto questo diventa intollerabile. Dopo le torture nella prigione in Siria, le minacce alla mia famiglia e i mesi sulla strada, penso che W?drzyn mi abbia rotto definitivamente”, ha raccontato Khafiz, un rifugiato siriano, ad Amnesty International. Nel centro di detenzione di Lesznowola, i detenuti hanno detto che il trattamento da parte delle guardie li faceva sentire disumanizzati. Il personale chiamava i detenuti con i loro numeri di caso invece di usare i loro nomi e infliggeva punizioni eccessive, compreso l’isolamento, per semplici richieste, quali un asciugamano o più cibo. Quasi tutti gli intervistati hanno riferito di comportamenti costantemente irrispettosi e verbalmente offensivi, commenti razzisti e altre indicative di maltrattamenti psicologici. Gli uomini che Amnesty International ha intervistato si sono lamentati in modo coerente del modo in cui venivano effettuate le perquisizioni corporali. Quando le persone venivano trasferite da un centro di detenzione all’altro, erano costrette a subire una perquisizione a nudo in ogni struttura, pur essendo sempre sotto custodia statale. A W?drzyn, le persone hanno raccontato di perquisizioni abusive. Per esempio, tutti gli stranieri appena ammessi vengono tenuti insieme in una stanza, è richiesto loro di spogliarsi e viene ordinato loro di accovacciarsi più a lungo del necessario per un normale controllo. Rimpatri forzati violenti - Amnesty International ha intervistato diverse persone che sono state rimpatriate con la forza e altre che hanno evitato il rimpatrio e sono detenute in Polonia. Molte di loro hanno detto che le guardie di frontiera polacche incaricate dei rimpatri le hanno costrette a firmare documenti in polacco che sospettano contenessero informazioni incriminanti per giustificare il rimpatrio. Hanno anche detto che, in alcuni casi, le guardie di confine hanno fatto un uso eccessivo della forza, per esempio utilizzando i taser, hanno trattenuto le persone con le manette e hanno persino sedato le persone che venivano rimpatriate. Le autorità hanno tentato di rimpatriare con la forza Yezda, una donna curda di 30 anni, con suo marito e tre bambini piccoli. Dopo che le è stato detto che la famiglia sarebbe stata rimpatriata in Iraq, Yezda ha avuto un attacco di panico, ha urlato e supplicato le guardie di non prenderli. Ha minacciato di togliersi la vita e si è molto agitata. “Sapevo di non poter tornare in Iraq ed ero pronta a morire in Polonia. Mentre piangevo così, due guardie hanno immobilizzato me e mio marito, ci hanno legato le mani dietro la schiena e un medico ci ha fatto un’iniezione che ci ha reso molto deboli e assonnati. Non ero lucida, ma potevo sentire i miei figli, che erano nella stanza con noi, piangere e urlare”. “Ci hanno chiesto di passare attraverso la sicurezza dell’aeroporto e le guardie ci hanno detto di comportarci bene sull’aereo. Ma io mi sono rifiutata di andarci. Ricordo di aver notato che non avevo nemmeno le scarpe, perché nel caos del campo mi sono scivolate dai piedi. Non ero lucida e non riuscivo a vedere mio marito o i bambini, ma ricordo che mi hanno obbligata a salire sull’aereo, che era pieno di gente. Piangevo ancora e imploravo la polizia di non prenderci”. Yezda ha detto di essersi rotta un piede mentre lottava con le guardie che cercavano di metterla sull’aereo. Yezda e la sua famiglia sono stati riportati a Varsavia dopo che la compagnia aerea si è rifiutata di portarli in Iraq. Per ora rimangono in un campo in Polonia. Ai volontari e agli attivisti è stato vietato l’accesso al confine tra Polonia e Bielorussia e alcuni di loro sono persino state processate per aver cercato di aiutare le persone ad attraversare il confine. A marzo, attivisti che avevano aiutato persone sia sul confine della Polonia con l’Ucraina che con la Bielorussia sono stati arrestati per aver fornito assistenza salvavita a rifugiati e migranti sul confine bielorusso, e contro di loro sono state formulate accuse potenzialmente gravi. Bloccati al confine - Il 20 marzo le autorità bielorusse hanno riferito di aver sfrattato circa 700 rifugiati e migranti dal magazzino nel villaggio bielorusso di Bruzgi che aveva ospitato diverse migliaia di persone nel 2021. Tra loro molte famiglie con bambini piccoli e persone affette da gravi malattie e disabilità. Le persone sfrattate dal magazzino si sono improvvisamente ritrovate bloccate nella foresta, cercando di sopravvivere a temperature sotto lo zero senza riparo, cibo, acqua o accesso alle cure mediche. Molti rimangono nella foresta e subiscono abusi quotidiani da parte delle guardie di confine bielorusse, che usano cani e violenza per costringere le persone ad attraversare il confine con la Polonia. “Centinaia di persone in fuga dai conflitti in Medio Oriente e in altre parti del mondo rimangono bloccate al confine tra Bielorussia e Polonia. Il governo polacco deve fermare immediatamente i respingimenti. Sono illegali, non importa come il governo cerchi di giustificarli. La comunità internazionale - inclusa l’UE - deve esigere che a coloro che sono intrappolati sul confine tra Polonia e Bielorussia sia concesso lo stesso accesso al territorio dell’UE di qualsiasi altro gruppo che cerca rifugio in Europa”, ha detto Jelena Sesar. Caso Regeni, altro schiaffo: “L’Egitto non collabora, intervenga Draghi” di Giuliano Foschini e Andrea Ossino La Repubblica, 12 aprile 2022 La resa del ministero della Giustizia: “Per il Cairo il caso è chiuso”. Il giudice aggiorna l’udienza a ottobre. La famiglia: “Presi in giro”. “Il 26 dicembre del 2020 la procura egiziana ha firmato un documento da intendersi come un decreto di archiviazione. Ritiene che questo provvedimento abbia natura decisoria irrevocabile ovvero che si tratti, con particolare riferimento alla responsabilità dei quattro imputati di una decisione non più suscettibile di impugnazione e che preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi soggetti”. Con poche righe, depositate ieri dal Dipartimento per gli Affari di giustizia del ministero nell’udienza preliminare che avrebbe potuto sbloccare il processo per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni, l’Egitto ha messo nero su bianco quello che, purtroppo, da tempo era chiaro a tutti: non solo non ha mai collaborato con l’autorità giudiziaria italiana. Ma non ha alcuna intenzione di farlo. Dunque, se l’Italia vuole processare i presunti assassini e torturatori di Regeni deve scegliere una strada diversa da quella della collaborazione del Cairo. Quale? I genitori di Giulio, Paola e Claudio, insieme con l’avvocato Alessandra Ballerini, provano a tracciarne una: “Siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto” hanno detto. “Ma a questo punto la politica è necessario faccia quello che deve: chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati. Abbiamo appena assistito a un’ennesima presa in giro”. Il riferimento, si diceva, era all’udienza preliminare che si è tenuta ieri a Piazzale Clodio in questo assurdo gioco dell’oca della (in)giustizia che è diventato il processo Regeni. Puntate precedenti, in sintesi: rinviati a giudizio dopo un lungo lavoro della procura di Roma con il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, il processo ai quattro agenti egiziani sotto accusa non è potuto cominciare perché la Corte di Assise di Roma, a differenza di quanto stabilito dal gup, ha ritenuto che senza notifica degli atti il dibattimento non potesse partire. Il punto è che la notifica non era avvenuta non per un errore. Ma perché non era stato possibile farla. L’Egitto non ha mai voluto consegnare al nostro Paese gli indirizzi degli imputati. E i giudici non hanno ritenuto sufficiente che la notizia del procedimento, con i nomi degli imputati, fosse ovunque. “Il nostro ordinamento” hanno detto, in sintesi, “tutela il diritto di difesa degli imputati”. E non importa che scappino, come nel caso degli egiziani, dal processo. Senza indirizzi non si può cominciare. A smuovere le acque ci ha provato direttamente la ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha inviato il direttore della cooperazione italiana in Egitto e si è detta disponibile a un viaggio al Cairo. Niente da fare. Com’è spiegato nel documento presentato ieri, l’Egitto ha chiuso tutte le porte. E ora? I carabinieri del Ros sono riusciti ad acquisire l’indirizzo del lavoro dei quattro ma è necessario il domicilio. Ci riproveranno con l’aiuto anche dei nostri servizi di intelligence. Ma il percorso è impervio. C’è poi la politica, che promette ulteriori passi. Come sempre in questi sei anni in cui però nulla è accaduto. La prossima udienza si terrà il prossimo 10 ottobre. “Noi non ci arrenderemo” dicono i Regeni. E questo è certo. Giulio Regeni, nuovo stop del Cairo al processo: per l’Egitto gli 007 sono innocenti di Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 12 aprile 2022 Impossibile notificare gli atti agli imputati individuati dalla Procura di Roma quali responsabili dell’omicidio. La famiglia di Giulio Regeni: “Una presa in giro, intervenga Draghi”. Per l’Egitto il procedimento contro i quattro ufficiali della National Security accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni è già in archivio, e non si può riaprire. Caso chiuso. Per questo le autorità del Cairo non hanno risposto (e non risponderanno) alle richieste italiane di conoscere i loro indirizzi, necessari per notificare gli atti e poterli processare davanti alla Corte d’Assise di Roma. La Procura generale della Repubblica araba ha già valutato le imputazioni e le prove a loro carico, e li considera innocenti. Dunque l’assistenza giudiziaria sollecitata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, pronta a un incontro con il suo omologo egiziano, non ha avuto (e non avrà) alcun esito. La lettera - A questa amara conclusione è giunto l’ultimo tentativo del giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi, dopo la lettera ricevuta dal capo del Dipartimento degli affari di giustizia del ministero di via Arenula, Nicola Russo: cinque pagine di risposta alla richiesta di farsi parte attiva con il governo del Cairo per cercare di sbloccare la situazione a livello politico, e capire se ci siano possibilità di cooperazione. Il risultato è che, al momento, non ce ne sono. Il giudice ha rinviato l’udienza di altri 6 mesi, al 10 ottobre, mentre la famiglia di Giulio chiede che la pressione politica salga di livello. L’indignazione della famiglia - “Siamo indignati dalla risposta della Procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto”, commenta l’avvocata Alessandra Ballerini, che assiste i genitori e la sorella di Giulio. “Chiediamo che il presidente Draghi, condividendo la nostra indignazione, pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro”. Il capo del Governo valuterà il da farsi, ma la replica egiziana alle mosse della ministra della Giustizia non lascia presagire nulla di costruttivo. “La condizione fermamente posta dalla ministra Cartabia per recarsi al Cairo e interloquire con il suo omologo Omar Marwan - scrive Russo - è che nel corso dell’incontro si affronti il caso Regeni. Ad oggi, nonostante i ripetuti passi svolti dal nostro ambasciatore al Cairo, il ministro della Giustizia egiziano non ha ancora fornito un riscontro alla lettera della ministra Cartabia”. La competenza - La missiva era partita da Roma il 20 gennaio. Difficile quindi che sul piano politico possano esserci passi avanti. A livello tecnico, invece, un dialogo c’è stato. Una delegazione guidata proprio da Russo è andata al Cairo un mese fa, ma s’è sentita dire che in assenza di accordi bilaterali tra i governi, la cooperazione giudiziaria internazionale è competenza esclusiva della Procura generale. I carabinieri del Ros hanno recuperato i recapiti di lavoro degli imputati e l’Avvocatura dello Stato, parte civile per conto del governo, propone di notificare lì gli atti. Ma sarebbe una forzatura del codice italiano. E proprio dalla Procura generale egiziana arriva la novità che potrebbe rappresentare lo sbarramento definitivo alla possibilità di andare avanti con il processo. Le prove raccolte dalla Procura di Roma - L’ufficio giudiziario del Cairo ha infatti esaminato le prove raccolte dal procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco (con la collaborazione del Ros e del Servizio centrale operativo della polizia) a carico del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmi Uhsam, e del maggiore Magdi Ibrahim Sherif (accusato anche delle torture e dell’omicidio). Arrivando a un loro sostanziale proscioglimento. Il memorandum - In un memorandum consegnato all’Italia il 26 dicembre 2020, è scritto che “il quadro probatorio avanzato dalle autorità italiane è poco solido e contrario ai meccanismi della cooperazione giudiziaria internazionale, il che spinge la Procura generale a ritenere che le autorità italiane si siano sviate dalla verità, ed esclude tutti i sospetti nei confronti degli indagati”. Quel provvedimento, comunica il ministero italiano al giudice Ranazzi, secondo l’Egitto “ha natura decisoria irrevocabile, non più suscettibile di impugnazione e preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi soggetti”. Di conseguenza, “l’assistenza giudiziaria sarebbe preclusa dal principio del ne bis in idem (non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto, ndr) sancito dall’ordinamento interno egiziano e dalle Convenzioni internazionali”. In pratica un’assoluzione definitiva senza che si sia celebrato il processo. Utilizzata dall’Egitto per impedire lo svolgimento di un regolare giudizio in Italia. Che resta sospeso, in attesa di una soluzione che non si trova. Camerun. Colera in carcere, due Ong alzano la voce africarivista.it, 12 aprile 2022 Almeno sei detenuti nella seconda prigione più grande del Camerun, il carcere New Bell di Douala, sono morti da marzo a causa dell’epidemia di colera che dilaga nel Paese. Lo denuncia l’organizzazione internazionale per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw) dopo che il decesso dell’ultima vittima, un militante dell’opposizione arrestato a seguito della manifestazione del settembre 2020, è morto in ospedale, incatenato alla propria barella. “Il Camerun ha l’obbligo ai sensi del diritto internazionale di garantire che tutti i detenuti siano tenuti in condizioni umane e dignitose e di garantire il loro diritto alla salute”, denuncia Hrw. Stesso monito da parte di Amnesty International, che lancia inoltre un appello a rilasciare “tutti coloro che sono detenuti arbitrariamente, compresi i detenuti delle regioni anglofone e i membri del principale partito di opposizione, l’Mrc (Movimento per la rinascita del Camerun), che sono stati arrestati negli ultimi cinque anni per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica”. Secondo Hrw, almeno altri quattro sostenitori dell’Mrc hanno contratto il colera nel penitenziario di New Bell. Secondo il ministro della Salute del Camerun, 105 persone sono morte nell’epidemia da ottobre scorso. La malattia è stata finora identificata in sei delle dieci regioni del Paese, compreso nel travagliato Sud-Ovest, dove il sistema sanitario è stato gravemente colpito dalla guerra tra le forze governative e i gruppi armati separatisti. Malattia batterica che provoca grave diarrea e disidratazione, il colera si diffonde solitamente nell’acqua e può essere letale se non curato rapidamente. Il governo ha adottato misure per frenare la diffusione del colera, come lanciare una campagna di vaccinazione, incoraggiare il lavaggio regolare delle mani e garantire che l’acqua potabile sia potabile. Ma nelle carceri sovraffollate del Camerun, anche le misure igieniche più elementari sono difficili da mettere in pratica. Il carcere di New Bell, secondo Hrw, contiene il quadruplo di detenuti rispetto alla sua capacità. Gli attivisti denunciano inoltre che la maggior parte dei prigionieri è in custodia cautelare, “in violazione delle norme internazionali”.