Le carceri durante la pandemia di Mauro Palma* treccani.it, 11 aprile 2022 L’annuncio è stato importante: negli istituti penitenziari del nostro Paese, 1.246 detenuti sono iscritti a corsi universitari, molti di tipo triennale, ma anche un quarto di essi frequenta corsi di laurea magistrale e ben 25 quelli post-laurea. Accanto a questo dato, un altro di segno ben diverso: 851 sono i detenuti italiani analfabeti e altri 627 non hanno completato la scuola elementare; più di 5.000 si sono fermati a questa soglia del primo grado di istruzione. Il carcere vive, dilatandole, le contraddizioni che affliggono la società esterna: il divario è eclatante e diviene ancora maggiore se si considera che molti sono i casi non rilevati. La dilatazione delle differenze sociali appare chiara quando si esamina l’elevato numero di coloro che sono in carcere per scontare una pena inflitta - non un suo residuo - inferiore a uno o due anni: insieme si giunge a più di 3.000 persone che rappresentano ‘plasticamente’ la povertà che affligge il territorio esterno a quelle mura e che si riflette al di dentro di esse. Superfluo è, infatti, chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta; importante è piuttosto riscontrare che la sua esecuzione in carcere, pur in un ordinamento quale il nostro che prevede forme alternative per le pene brevi e medie, è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, quindi, che parla di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo. Al di là della volontà del costituente e delle indicazioni dell’ordinamento penitenziario queste detenzioni si concretizzano soltanto in tempo vitale sottratto alla normalità - interruzioni di vita destinate probabilmente a ripetersi in una inaccettabile sequenzialità. Per questo sono spesso le altre voci, di natura non istituzionale, che nel nostro sistema detentivo frequentano il carcere a determinare la possibilità che questi tempi non siano vuoti, ma abbiano valore, intercettando bisogni, interloquendo, prospettando alcuni progetti. Un ritmo di presenze che si è fermato negli ultimi due anni per la pandemia da Covid-19, che stenta tuttora a riprendere e che costituisce uno dei più gravi danni all’interno di un sistema che già era molto critico per più aspetti, in primo luogo per l’affollamento dei suoi anonimi spazi. Se, infatti, si può dire che il sistema detentivo ha contenuto dal punto di vista sanitario il temuto espandersi a dismisura del contagio, altrettanto non è possibile affermare per quanto è avvenuto nelle dinamiche relazionali al suo interno e, quindi, per il rischio del permanere di una situazione di staticità centrata soltanto sul contenere. Già i primi giorni dei provvedimenti di chiusura hanno fatto vivere qualcosa di assolutamente inconsueto: la morte di ben 13 persone nel contesto di dimostrazioni e rivolte sviluppatesi all’annuncio dell’interruzione dei colloqui con i propri affetti. L’ansia che all’esterno si sviluppava verso un pericolo inedito che individuava in ciascuno di noi la vittima e il potenziale veicolo del pericolo stesso si raddoppiava all’interno dei luoghi di privazione della libertà e soprattutto in carcere si scontrava con l’impossibilità di adottare quelle minime misure igieniche o di distanziamento che pur venivano indicate come essenziali. Una società presa dalla propria angoscia ha troppo frettolosamente archiviato quelle morti, quasi come effetti collaterali di una grave situazione complessiva. È stato il ricorso alle possibilità offerte dalle tecnologie della comunicazione a far rientrare una certa calma, attraverso i video-colloqui con i propri familiari. Tuttavia, la quotidianità in carcere è mutata e quei corridoi, quelle celle sono diventati luoghi di semplice contenimento. Ci si è abituati a una privazione del significato del tempo recluso; e si stenta ora a riprendere il cammino. Ecco perché l’afflizione punitiva vissuta negli ultimi due anni è divenuta ancor più pesante: la pena si è fatta più afflittiva e tutto ciò dovrebbe trovare una compensazione da parte del legislatore. Forse una compensazione in termini di accelerato accesso alle misure alternative, assegnando una maggiore incidenza in termini di tempo ai giorni e ai mesi trascorsi in queste particolarissime condizioni; forse una maggiore immissione di investimenti culturali e di attività volte a ridare significato al proprio tempo recluso, cercando di ridurre quella distanza che separa anche simbolicamente coloro che seguono un percorso alto di studi e coloro che stentano a scrivere la propria firma nell’Italia del XXI secolo. Forse una compensazione in termini di modifica dello sguardo esterno con cui ci si rivolge a questo mondo, quasi sia distante e diverso da noi, spesso con parole di rifiuto e ritorsione, senza comprendere che è parte di noi: del nostro corpo sociale. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Quando si amministra la giustizia senza umanità e buon senso di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 11 aprile 2022 Per la giustizia italiana una forma grave di Sla è “compatibile con il regime carcerario” mentre un libro su carcere e giustizia “aumenterebbe il carisma criminale”. Storie di “giustizia” che lasciano basiti. Forse è come Selah Lively, il giudice che compare nella antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: una storia così; o forse è più semplice, un’ordinaria burocratica amministrazione, dove quello che conta sono i giusti timbri e protocollare come prescritto dai regolamenti, vai a sapere. Il fatto è che la Sclerosi Laterale Amiotrofica è una malattia che se ne frega dei timbri e del protocollo: quanto ti prende, non lascia scampo: non c’è cura, uccide lentamente, condanna senza appello o prescrizione. Puoi solo contare i giorni, sperare che nella fase finale i farmaci ti diano sollievo. Le statistiche dicono che l’incidenza, per quel che riguarda la SLA è di circa uno/tre casi ogni centomila abitanti; si stima siano circa 3.500, un migliaio di nuovi casi ogni anno. Il più noto dei malati, Luca Coscioni, il “maratoneta”, trasforma la malattia, lo stesso suo corpo in strumento di lotta politica, sostenuto da Marco Pannella: per la libertà di ricerca, per il diritto all’autodeterminazione del proprio destino, si sono battuti da leoni quali erano. È sempre un calvario, la SLA; figuriamoci se sei in carcere, come Maximiliano Cinieri. È un uomo di 45 anni, detenuto ad Alessandria. Da quel che si sa, lo hanno arrestato un anno fa, e poi condannato per estorsione: otto anni. Qualche mese fa gli viene diagnosticata la SLA: una forma grave, prima il tronco, ora gli ha ridotto l’uso di braccia e mani. Fa così, questa malattia, ogni giorno ti paralizza di più. Con le stampelle ancora cammina, ma già nutrirsi, deglutire, è un problema. Quanto può durare? Nessuno lo sa con certezza: mesi, qualche anno… Che ci sta a fare in cella in queste condizioni? Il medico del carcere nella sua relazione sottolinea come non sia “la collocazione idonea per un detenuto con le sue caratteristiche cliniche”. Non basta? Ci sono anche il primario di neurologia dell’Ospedale di Alessandria e un altro specialista torinese: confermano. Cosa ci vuole ancora, per concedere gli arresti domiciliari? Niente da fare. Per un consulente nominato dal giudice la condizione clinica in cui Cinieri si trova è “compatibile con il regime carcerario”. Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Cutolo, anche quando erano praticamente in irreversibile stato vegetativo, ce li siamo tenuti ben custoditi al regime speciale del 41-bis; almeno erano Riina, Provenzano, Cutolo… Cinieri, che senso ha negargli di poter stare a casa, e lì finire i suoi giorni? Perché tenerlo in carcere, dove sicuramente un malato di SLA non può avere quell’assistenza di cui pure ha diritto, quale che sia il reato commesso? Come si amministra la Giustizia è qualcosa che spesso lascia basiti, increduli. Per esempio: ci sono voluti ben tre gradi di giudizio, arrivare fino alla Corte di Cassazione, per stabilire che un detenuto, a prescindere dalla colpa di cui si è macchiato, ha comunque il diritto di pasti “normali”, soprattutto se può permetterseli. Perché in origine lo Stato, attraverso il ministero della Giustizia aveva detto di NO, all’”uguaglianza alimentare”, e fatto ricorso. Patrizio Picardi, sottoposto al regime di massima sicurezza del 41bis, accusato di far parte del clan camorristico dei Maliardo, chiede che di avere un pacco viveri, il cosiddetto “sopravvitto” accessibile ai detenuti comuni; e cibi cotti nei pacchi postali inviati dall’esterno. Risposta negativa. Picardi lamenta la “lesione del proprio diritto…tali limitazioni cagionano un attuale e grave pregiudizio al detenuto, nel contempo determinando una ingiustificata disparità di trattamento”. La Cassazione gli dà ragione. Che si voglia impedire a un boss della delinquenza organizzata di comunicare con l’esterno, con i suoi affiliati e complici, è più che giusto. Ma le comunicazioni con i “picciotti” e i “cumparielli” all’esterno passano attraverso un piatto di pasta o dei dolci? Se si ordina una cassata, un pollo arrosto, una pastiera, si lanciano messaggi, e se ne ricevono? Pare eccessivo. Con linguaggio un tantino ampolloso, si riconosce infatti che i beni richiesti da Picardi non comportano rischi di sorta in questo senso: “non vanno contro la necessità di impedire forme di comunicazione con l’esterno o il perpetuarsi di logiche associative nel contesto penitenziario, anche attraverso l’acquisizione di una posizione di supremazia su altri detenuti”. Questa la risposta, dopo tre gradi di giudizio, della Cassazione all’occhiuto e vigile ministero della Giustizia. Resta l’interrogativo: c’è un cibo, un particolare menù, che può costituire “artificio di collegamento” con i malavitosi fuori del carcere? In attesa che questo interrogativo sia sciolto, un’altra vicenda; questa almeno strappa un sorriso. La storia comincia con un libro. Carcere di Viterbo, ancora un detenuto, sottoposto al regime del 41-bis. Chiede di poter acquistare il libro ‘Un’altra storia inizia qui’. È una riflessione a quattro mani su carcere e giustizia. Fatta regolare domanda, risposta negativa. Chissà: forse è un libro pericoloso, lettura che è meglio evitare. L’occhiuto e attento “censore” motiva così il suo NO: “…il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”. Chi saranno mai i due autori responsabili di questo inquietante aumento di carisma? Due giuristi, si confrontano a partire dal magistero del defunto arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini: l’allora Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia; e il professor Adolfo Ceretti, docente di criminologia. Chi avrebbe potuto immaginare che i due sono dotati di questo pericoloso potere carismatorio. A pensarci bene, tuttavia… La titolare del ministero di via Arenula è persona di cultura giuridica unanimemente riconosciuta; coniuga questa sapere ad altrettante riconosciute doti di umanità; un buon senso che è anche il suo contrario: senso buono. È grazie al suo impegno, quando era vice-presidente a palazzo della Consulta, se per la prima volta dalla sua nascita la Corte Costituzionale effettua una serie di “visite” nelle carceri italiane. Un incontro tra due mondi agli antipodi: la legalità costituzionale da una parte; l’illegalità, la criminalità, la marginalità sociale, dall’altra. I giudici incontrano i detenuti di Rebibbia a Roma; San Vittore a Milano; Nisida a Napoli; Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova; Terni; Lecce sezione femminile. Stimolante e prezioso incontro da cui nasce un eccellente docu-film, Viaggio in Italia. La Corte Costituzionale nelle carceri, di Fabio Cavalli. In effetti, conoscere il suo pensiero, leggere i suoi libri, fa sì che si acquisisca qualche ulteriore “potere”, in termini di consapevolezza dei propri doveri e diritti. Il ministro ha un’agenda fitta di impegni gravosi e delicati. Sia consentito un sogno: sarebbe gustoso se un giorno si presentasse al carcere di Viterbo. Qualcosa tipo: “Buongiorno. Sono il privilegio che fa aumentare il carisma criminale…Mi fate entrare?”. Giustizia, accordo a rischio. Ma Cartabia tratta: “È la riforma del possibile” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 aprile 2022 I 5 Stelle: chiudiamo solo se c’è un chiarimento politico. “Non ho rimpianti per essermi seduta su una poltrona così scomoda”, confidava mercoledì scorso Marta Cartabia parlando di riforme della giustizia alla Scuola di perfezionamento delle forze di polizia. Erano i giorni caldi della trattativa sul Csm e l’ordinamento giudiziario, e la ministra ha spiegato il suo approccio con parole che, rilette all’indomani dell’accordo tra i partiti di governo, possono considerarsi una sorta di bilancio. Per adesso positivo, in attesa dei prossimi passaggi. “Le riforme, in presenza di una maggioranza così vasta e al cui interno ci sono posizioni e sensibilità diverse, sono necessariamente il frutto di una sintesi che le tenga insieme - spiegava la Guardasigilli. Anche quando si parte da binomi in apparenza inconciliabili come giustizialismo e garantismo, sicurezza e rieducazione della pena, qualità ed efficienza, si possono trovare punti d’incontro”. Soluzioni di compromesso “frutto del possibile e del contesto dato, negli spazi dettati dalla politica”. È avvenuto con le riforme già approvate della giustizia civile e di quella penale, può avvenire per quelle ancora da approvare: “Sono i giorni decisivi”, annunciava Cartabia. Alla ministra piace scalare montagne, e sa che le cime si conquistano un passo dopo l’altro. Due mesi fa era stata superata, all’unanimità, la tappa del Consiglio dei ministri; ora, dopo estenuanti trattative, sembra raggiunto l’accordo alla vigilia dell’esame di Montecitorio, dove però Lega e Italia viva minacciano voti che vanno in senso contrario alle soluzioni trovate. Poi si passerà al Senato, dove i numeri sono ancora più a rischio: Cartabia ha chiesto di mantenere tutto com’è per evitare nuovi crepacci, ma sempre dal centro-destra giungono malumori. La vetta, insomma, non è ancora raggiunta. Tuttavia la ministra continua a confidare nelle sue doti di mediatrice e negli appelli al dialogo. L’ha detto e ripetuto ad ogni incontro con i rappresentanti della variegata e litigiosa maggioranza: “Ciascuno di voi ha ceduto su qualcosa per andare nella direzione dell’altro, e di questo vi ringrazio”. Con un implicito appello a non disperdere ciò che si è faticosamente costruito. Il risultato non sarà il migliore possibile, nemmeno secondo le opinioni personali di Cartabia, ma è il massimo che si può ottenere nelle condizioni attuali. Il sorteggio per l’elezione del Csm - sbandierato come irrinunciabile fino all’altro giorno da Lega, Forza Italia e Italia viva, a cui la ministra ha sempre opposto i propri sospetti di incostituzionalità - è scomparso per ricomparire nella definizione dei collegi elettorali. I Cinque stelle hanno ceduto su limitazioni nel passaggio tra funzioni di giudice e pubblico ministero che assomigliano molto alla separazione delle carriere inseguita dal centro-destra, ottenendo però uno stop quasi definitivo alle “porte girevoli” tra politica e magistratura; adesso però, di fronte ai sussulti degli altri, il co-relatore Eugenio Saitta insorge: “Serve un chiarimento politico, altrimenti, la riforma è a rischio”. Il Pd s’è accontentato di un sistema elettorale per il Csm che avrebbe voluto più proporzionale e meno maggioritario (come chiedevano le toghe, e per questo osteggiato dal centro-destra), in cambio di una non-mortificazione dei magistrati che prestano la loro competenza al governo; Azione ha rinunciato alla responsabilità civile delle toghe, ma ha avuto il “fascicolo” di giudici e pm che allarma moltissimo l’Associazione magistrati, secondo la ministra senza motivo: agli atti del Csm sono già previsti gli elementi utili a segnalare “significative anomalie”. Il risultato raggiunto al momento è l’unico in grado di tenere insieme ciò che altrimenti si sfalderebbe: l’alleanza di governo. Com’è stato, ad esempio, per l’improcedibilità che ha affiancato l’abolizione della prescrizione dopo il processo di primo grado: c’era un ostacolo da rimuovere perché alcuni lo pretendevano, lo si è superato con un aggiramento che non piace ad altri, ma si è riusciti ad andare avanti. Ora si proverà a proseguire con lo stesso metodo. La nuova giustizia. Qualunque scelta non sarà mai amata dall’Anm di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 11 aprile 2022 Quando esplose lo scandalo Palamara, il presidente Mattarella parlò senza giri di parole di “un quadro sconcertante di manovre per veicolare le nomine di importanti procure” e chiese di accelerare’- le riforme - a partire da quella del Csm - per restituire credibilità alla giustizia nel rispetto della Costituzione, concetto ribadito solennemente nel discorso di reinsedíamento davanti alle Camere. Ora la maggioranza ha raggiunto una faticosissima intesa sulla riforma Cartabia - peraltro subito contestata da Lega e Italia Viva -, un inevitabile compromesso che rappresenta il minimo sindacale affrontando solo in parte i nodi cruciali del malfunzionamento di un sistema giudiziario corroso dalla sindrome politico-correntizia. Una riforma light, dunque, di front a cui però 1’Anm ha eretto le solite barricate, arrivando - per voce del suo presidente Santalucia - a minacciare lo sciopero. Non c’è nulla da fare: nonostante gli scandali scoperchiati da Palamara, e nonostante le guerre intestine che hanno delegittimato perfino la Procura-simbolo di Milano, il sindacato dei magistrati non vuole né riforme né pagelle, perché ritiene che dietro “le parole d’ordine della meritocrazia e delle valutazioni di qualità” si nasconda “la volontà di compromettere la stessa funzione di garanzia che la Costituzione assegna al Csm”. Considerazioni segnate da un arroccamento corporativo che si ostina a negare la realtà, visto che la riforma del sistema elettorale del Csm è diventata necessaria e urgente proprio a causa della deriva che ha trasformato un organo di rango costituzionale in una sorta di circolo privatistico delle correnti organizzate. L’Anm, però, è pronta allo sciopero “come ai tempi di Berlusconi”, si è lasciato sfuggire Santalucia: un riferimento molto significativo e anche un po’ inquietante, perché ripropone in tutto e per tutto un clima di scontro che raggiunse il suo apice ogni volta che i governi di centrodestra provarono ad arginare lo strapotere della magistratura. Allora - era il 2011 - il segretario dell’Anm Cascini dichiarò che a suo avviso “questa maggioranza non ha legittimità storica, politica, culturale e anche morale per affrontare la riforma della giustizia”, un pronunciamento la cui enormità avrebbe trovato poi pieno riscontro nelle rivelazioni di Palamara, con l’ammissione di vere e proprie strategie di persecuzione contro partiti considerati avversari politici dalle avanguardie ideologiche della magistratura. Il caso Berlusconi, in questo senso, resta il più clamoroso ed emblematico. Ma l’Anm continua a negare l’evidenza: è vero che la grande maggioranza dei giudici svolge ogni giorno con imparzialità un lavoro fondamentale al servizio della democrazia, ma la storia degli ultimi trent’anni racconta purtroppo anche la realtà deviata di un partito delle procure che ha fatto ampio uso nel tempo di interventi orientati, mediaticamente pilotati e aventi finalità politiche. Si chiama uso politico della giustizia, col suo corollario obliquo di fughe di notizie, gogne mediatiche e condanne preventive. La riforma Cartabia, sempre che vada in porto, ci mette una pezza, ma servirebbe molto di più per rimettere il sistema giudiziario in linea con la Costituzione e porre fine alla finta obbligatorietà dell’azione penale, alle sistematiche carcerazioni preventive e ai frequenti copia e incolla con cui vengono avallate le richieste delle procure. La separazione delle funzioni è solo un timido passo, ma l’Arun non ci sta, in difesa della Casta e del potere improprio conquistato nella lunga stagione del giustizialismo. Indennità e incarichi al ministero. I punti da chiarire della riforma di Benedetta Frucci Il Tempo, 11 aprile 2022 Per capire come la magistratura in Italia abbia assunto sempre più potere, più che dentro le procure, si dovrebbe volgere lo sguardo alla politica. Il teatrino della riforma Cartabia non è altro, infatti, che un film già visto: si parte da dichiarazioni di garantismo roboante e si finisce con il partorire un topolino. Un topolino che, per certi versi, rafforza ancora di più Io strapotere correntizio. Fatto ancora più grave, se si pensa che questa riforma arriva dopo che, grazie alle rivelazioni di Palamara, i nodi sono venuti al pettine ormai da tempo. Sarebbe interessante ed estremamente chiarificatore, quindi, se la ministra, assieme a quei partiti che esultano per la mediazione raggiunta, rispondesse per noi a qualche questione. In primo luogo, dovrebbe spiegarci come il sorteggio dei collegi andrebbe a limitare lo spazio di manovra delle correnti, quando è evidente che il magistrato candidato in un collegio distante territorialmente dal proprio ufficio giudiziario, necessiterebbe del sostegno politico dell’apparato correntizio per poter essere eletto, a meno che non si tratti di uno di quei magistrati celebri per le inchieste roboanti che finiscono sulle prime pagine dei giornali. Eppure, le soluzioni più efficaci sono sotto la luce del sole: il sorteggio temperato dei componenti del Csm; o, in subordine, un sistema proporzionale puro, che garantirebbe quanto meno la rappresentanza. In secondo luogo, sproposito delle pagelle ai magistrati, dovrebbe spiegarci come non sì sia resa conto di un fatto evidente: per ottenere il massimo della valutazione, “ottimo”, il magistrato avrà ancora una volta bisogno del sostegno correntizio. Qualora poi, un giudice coraggioso, volesse assolvere l’imputato sgradito alle toghe rosse, potrebbe avere diverse remore a farlo, perché inimicandosi le correnti, potrebbe vedersi valutato con “buono” o “sufficiente”. In terzo luogo, potrebbe chiarirci la questione delle indennità: durante il Governo Renzi, fra le polemiche, fu fissato un tetto a 240 mila euro per gli stipendi nella pubblica amministrazione. Ovviamente la regola sembra non valere per quei magistrati che sono chiamati dalla politica a lavorare negli uffici ministeriali: accade infatti che essi possano, agevolmente, percepire la doppia indennità, superando quindi quel famoso tetto de facto. Anche qui, via Arenula si oppone a qualunque intervento. Come mai? In quarto luogo, potrebbe illuminarci sul perché si sia opposta al divieto di ritorno in magistratura di quei giudici che hanno ricoperto il molo di capi di gabinetto: verranno, infatti, collocati fuori ruolo solo per un anno. Di fatto, a pensar male, si è creata una corsia preferenziale per quei magistrati che, negli uffici ministeriali, stanno scrivendo materialmente la riforma, in pieno conflitto d’interesse. Perché il nodo dei fuori ruolo è proprio questo: mentre un magistrato eletto in parlamento è riconoscibile e noto, un tecnico agisce per la natura stessa delle sue funzioni nell’ombra, pur essendo legato ai partiti che lo chiamano a ricoprire quel ruolo esattamente quanto un eletto. E in un parlamento sempre più depotenziato, è chiaro come il potere di un tecnico superi quello di un parlamentare nella possibilità di incidere sulle norme. Infine, c’è una questione spinosa e poco chiara che riguarda gli anni di permanenza in funzioni direttive o semidirettive per quei magistrati che aspirino a partecipare a un concorso per il conferimento di un nuovo incarico. Attualmente, la norma prevede che siano necessari 4 anni di permanenza. La proposta Bonafede ne prevedeva 5. Quella Cartabia, alza il numero a 6. Una scelta inspiegabile apparentemente, a meno che non la si legga tenendo conto che tale innalzamento permetterà di tagliare fuori alcuni candidati, che, magari, ambiscono alla procura di Napoli o a quella di Firenze, un’aspirazione che si sussurra abbia, fra gli altri, Nicola Gratteri. Giustizia, Costa (Azione): “Riforma chiusa ora sul Csm i partiti non cerchino pretesti” di Liana Milella La Repubblica, 11 aprile 2022 Il vicesegretario del partito di Calenda: “Innocui i distinguo di Lega e Iv. M5S e Pd stiano sereni”. La ministra Cartabia porterà a casa la riforma del Csm? “Spero che non spuntino sabotatori dell’ultim’ora”. Iv e Lega si stanno smarcando? “L’accordo è chiuso, innocui distinguo non vanno drammatizzati”. Oggi si comincia a votare in commissione, ma Pd e M5S sono in allarme. “Pensino ai contenuti e non cerchino pretesti per litigare”. Enrico Costa, vice segretario di Azione, è l’incubo delle toghe. La dipingono come il cattivo della giustizia... “Da quando in qua proporre e far approvare norme di civiltà giuridica e di rispetto della Costituzione diventa una cattiveria?”. Perché è proprio lei che ha inventato e fatto passare le regole più insidiose di questa riforma... “Forse lo sono per le correnti che in futuro perderanno gran parte del loro potere”. Lei si definisce un liberale, come suo padre Raffaele. Non sarà invece che è molto più a destra? “Io sono rispettoso dei diritti del cittadino e voglio che lo Stato non scarichi su di noi le sue inefficienze. E voglio che a prevalere siano i magistrati più bravi e non i più organici alle correnti”. I giudici dicono che le sue trovate sulla giustizia sono molto peggio di quelle di Lega e Forza Italia... “Forse perché colgono nel segno”. Il fascicolo delle performance è opera sua e l’Anm lo bolla come come una schedatura... “Ho scritto l’emendamento, poi riformulato dal governo, di mio pugno perché oggi mancano gli elementi per valutare chi è più bravo e chi lo è meno. Oggi il 99% dei giudici ha un giudizio positivo. O sono tutti geni o c’è qualcosa che non funziona”. Non sarà invece che lei, da avvocato, è pregiudizialmente contro di loro? “Tutt’altro. Sono convinto che nell’appiattimento generale a sguazzare siano le correnti. Se gli arresti di un magistrato si traducono sempre in assoluzioni, se le inchieste fanno flop, se le sentenze vengono ribaltate nei gradi successivi, questo è un fatto da analizzare”. L’Anm dice proprio questo, la toga penserà alla carriera e non alla giustizia... “E io mi chiedo perché un giovane magistrato, bravo e con buoni risultati sul lavoro, si senta rappresentato da un’associazione che tutela l’appiattimento professionale”. E dove mette l’illecito disciplinare contro il pm che, secondo lei, non deposita tutte le prove? “E lei, a uno che arresta un innocente, vorrebbe anche dare un premio? In 30 anni abbiamo avuto 30mila ingiuste detenzioni, e cioè almeno 100mila innocenti in galera. Non le vengono i brividi?”. Se un pm dovesse temere di perdere un processo, questa sarebbe la fine della giustizia... “Però quel pm deve evitare di sbattere l’indagato in prima pagina come fosse colpevole ancor prima del processo”. Per questo lei si è inventato prima la legge sulla presunzione d’innocenza e poi pure l’illecito disciplinare per chi la viola. Così muore l’informazione giudiziaria... “Ma vive lo stato di diritto. Il marketing giudiziario illiberale, arbitrario e incivile perché trasferisce come oro colato le tesi dell’accusa prima che l’interessato possa difendersi”. Un solo passaggio da pm a giudice e viceversa. Di fatto è già la separazione delle carriere... “Non è così. Carriere del tutto divise vuol dire avere un giudice che non veste la stessa casacca dell’accusa. Oggi portano la stessa e per questo il giusto processo è scritto solo in Costituzione”. Giustizia, il pg di Cassazione Salvi attenua le “punizioni” per le procure che violano il bavaglio di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 11 aprile 2022 Dopo il decreto sulla presunzione d’innocenza, restano comunque pesanti le restrizioni per chi esercita il diritto-dovere di comunicare ai giornalisti arresti e indagini. Più burocrazia, più lucchetti, un rischio appena più temperato per la toga che parla. Restano pesanti restrizioni sulla comunicazione giudiziaria delle Procure. É comunque linea dura quella che passa per il decreto sulla presunzione d’innocenza, già varato lo scorso novembre dalla ministra Cartabia. La nota di “orientamento” del Pg della Cassazione, Giovanni Salvi, pur escludendo per ora le “nuove fattispecie di illecito disciplinare” per il procuratore - che aveva voluto introdurre Azione, con Enrico Costa - ribadisce che la conferenza stampa “dovrà essere motivata da un atto a parte in cui si dia conto dell’interesse pubblico specificamente ravvisato che giustifica la scelta”, che sarà in capo solo al vertice dell’ufficio, il quale in casi di particolare rilevanza e complessità dovrà informare il Pg. L’obbligo della giustificazione scritta cade invece per il comunicato stampa. Ma quando concretamente ricorrono le “condizioni per la diffusione di informazioni sui procedimenti penali”? (Quesito non di poco conto, non a caso sono trascorsi 40 giorni tra la riunione via web dei procuratori con Salvi e la nota firmata dal Pg). Scrive Salvi che “la non predeterminazione legislativa dell’interesse pubblico da valutare in ordine alla comunicazione e alla sua forma rimette al titolare del potere di informazione la scelta discrezionale di attuarla, alla luce di circostanze fattuali, temporali e territoriali che non possono essere univocamente previste. Di conseguenza, una volta operata la scelta - quando del caso anche in forma scritta - essa non può esser sindacata, se non nei casi di palese irragionevolezza”. Una limatura che non piace a Costa. “Se il Parlamento approva una legge e questa non piace alla magistratura, le toghe utilizzano l’interpretazione per anestetizzarla. Così i giudici provano a far rientrare dalla finestra, attraverso una circolare, cose che la legge ha fatto uscire dalla porta”. Eppure era caduto anche l’emendamento di Alfredo Bazoli del Pd, che tendeva ad ammorbidire il dettato della ministra. Nuove regole che drasticamente restringono gli spazi di una comunicazione trasparente, e avevano provocato dure critiche, anche in Csm. Era stato il togato Giuseppe Cascini, di Area, a sottolineare: “L’effetto finale sarà quello di silenziare totalmente, dal punto di vista informativo, quanto avviene nelle Procure. Non si parlerà più di nulla. Non si saprà mai più nulla”. E anche dal Palazzo di Giustizia di Milano, l’allora reggente Riccardo Targetti, aveva parlato chiaro sul decreto Cartabia: “Come cittadino lo giudico male, come magistrato la ritengo difficile da applicare. A me sembra che introduca il concetto di velina di regime”. Cade, intanto, anche l’emendamento migliorativo firmato da Alfredo Bazoli, deputato Pd, se l’accordo definitivo sulla riforma Csm supererà le ultime tensioni tra centrosinistra e Lega. Salvi nella sua nota, intanto, conferma i solidi paletti, ribadendo che deve essere evitata “ogni indebita espressione di opinioni, considerazioni e notizie che, ove non trasfuse negli atti di indagine divenute sino a quel momento pubblici, deve considerarsi illecita”. Non solo: “laddove la comunicazione informale non fosse rispettosa della presunzione di innocenza, costituirebbe di per sé una violazione (…) con ogni conseguenza”. Il bavaglio per ora resta. Le norme sulla presunzione d’innocenza sgradite ai pm anche perché non estese ai legali di Valentina Stella Il Dubbio, 11 aprile 2022 Ci mancava pure la gelosia per i penalisti “esonerati” dal riserbo sulle indagini. Partiamo da alcuni dati: una ricerca condotta qualche anno fa da parte dell’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali, presieduto ai tempi da Renato Borzone, in collaborazione con il dipartimento di Statistica dell’Università di Bologna, ha rilevato che il contenuto degli articoli di cronaca giudiziaria “è fondato essenzialmente su fonti di carattere accusatorio (circa il 70% degli articoli non riporta la difesa quale fonte di informazione), e comunque larga parte di esso è, ancora una volta, modellato sulle tesi d’accusa, siano esse oggetto di apprezzamento e consenso o di mera esposizione”. Inoltre, sempre quella ricerca ci disse che oltre il 60% delle notizie riguarda l’arresto e le indagini preliminari, solo l’11% la sentenza. Quindi, a causa di una certa stampa “embedded” presso le Procure, in questi anni abbiamo assistito a un racconto unilaterale delle vicende giudiziarie, dimenticandoci della fase del dibattimento. Sapete invece cosa teme ora parte della magistratura? Che saranno gli avvocati a prendersi la scena e/o a divenire le nuove fonti privilegiate della stampa, visto che la direttiva ha imposto dei limiti alla comunicazione della magistratura requirente e alla forza di polizia giudiziaria. La preoccupazione è emersa anche recentemente in un interessante convegno organizzato da “Giustizia Insieme”, la “piattaforma permanente dedicata al confronto tra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile”, dal titolo Processo mediatico e presunzione di innocenza (lo potete riascoltare su Radio radicale). Durante uno dei panel è stata sollevata, anche giustamente, la seguente questione dalla dottoressa Donatella Palumbo, pm alla Procura di Lecce: considerato che la norma si riferisce alle autorità pubbliche, le fonti del giornalista potrebbero ora essere in maniera prevalente le difese e/o le parti offese, che non rientrano in quella categoria. In pratica ci si è chiesto se non possa verificarsi una indiretta lesione della presunzione di innocenza. In altri contesti altri magistrati hanno rilevato che, già prima dell’entrata in vigore della norma, a contattare i giornalisti sono stati spesso gli avvocati per farsi pubblicità. Pur di incassare una citazione su un giornale, alcuni difensori sarebbero capaci di danneggiare persino la reputazione dell’assistito, hanno detto. Siccome in ogni categoria c’è sempre qualcuno che agisce in maniera poco ortodossa, possiamo anche immaginare che in alcuni casi sia così. Ma di certo, come ha sottolineato recentemente in un altro convegno l’avvocato Lorenzo Zilletti, responsabile del Centro studi giuridici “Aldo Marongiu” dell’Unione Camere penali, “non è paragonabile il fenomeno delle conferenze stampa o delle veline delle Procure con i comportamenti deontologicamente scorretti tenuti in modo occasionale da avvocati spregiudicati. Il lettore del giornale o lo spettatore del tg sono certamente più influenzati dalla comunicazione ufficiale della pubblica autorità che non dalla notizia filtrata ai giornalisti da altre fonti”. Anche perché nella fase interessata dalla normativa, ossia quella delle indagini preliminari, gli avvocati non hanno tutte le informazioni di cui dispone invece il pubblico ministero. Certo, un problema potrebbe essere generato dalla mediatizzazione delle parti civili e delle persone offese prima del processo. Apriamo una parentesi: non ha torto il professore e avvocato Ennio Amodio quando sostiene che nel processo penale la presenza della parte civile costituisce un aspetto incompatibile con il rito accusatorio, in quanto la difesa deve giocare una partita contro l’accusa e contro la parte civile, avendo davanti a sé anche un giudice non sempre terzo e imparziale. Chiusa la parentesi, pensiamo ad esempio ai casi di violenza sessuale. Abbiamo visto tante trasmissioni televisive con le presunte vittime in studio a raccontare la loro esperienza e i loro avvocati in collegamento. Questa è sicuramente una profonda distorsione della comunicazione giudiziaria, tesa a ledere la presunzione di innocenza. Ma comunque: esiste davvero il rischio che oggi a condurre la narrazione giudiziaria ci siano altri protagonisti con lo stesso potere mediatico delle Procure? Ora andiamo verso una inversione di tendenza? Impossibile, per le ragioni che vi abbiamo esposto. Piuttosto, come ha sottolineato il direttore scientifico di “Giustizia Insieme”, il dottor Roberto Conti, occorre promuovere una “leale cooperazione” fra “i diversi attori nella rappresentazione della giustizia, lasciando ai margini atteggiamenti assolutistici, onniscienti, a volte supponenti e boriosi di coloro che, pur legittimamente espressivi di una di quelle verità, la contrabbandano come l’unica verità. Tutto questo impone dunque una grande dose di coraggio in tutti i protagonisti”. Eppure durante lo stesso convegno di “Giustizia Insieme”, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha tirato in ballo sempre l’avvocatura: “Per il magistrato informare è un dovere, non è un diritto. Resta ancora inaffrontato il tema del processo mediatico, perché il pubblico ministero e il giudice devono contrastare le informazioni errate e fuorvianti che vengono fornite dalle parti che non hanno obbligo di verità, non hanno obblighi specifici di correttezza. Anche questa è una cosa che dobbiamo discutere: il difensore ha obbligo di verità? Ha obbligo di correttezza? Non so, è un tema però che forse va posto, perché non è possibile che la disciplina sia solo quella del magistrato”. Innanzitutto sarebbe interessante capire come si concilia il dovere comunicativo evocato da Salvi con le recenti parole del presidente della Repubblica, e del Csm, Sergio Mattarella: “A voi”, ha detto rivolto ai giovani magistrati, “è chiesto di amministrare la giustizia con professionalità e con riserbo”. Per il resto, la sensazione è che alla magistratura non solo dia fastidio questa nuova norma, come spesso vi abbiamo raccontato, ma che il fastidio aumenti perché ad esserne interessati sono solo i magistrati e non anche gli avvocati. Si sta guardando forse il dito e non la luna? Placanica: “Non è diffidenza, è autoprotezione: per i pm il sistema è chiuso e noi siamo intrusi” di Simona Musco Il Dubbio, 11 aprile 2022 “La diffidenza della magistratura nei confronti degli avvocati non è altro che un meccanismo di autoprotezione: il magistrato si sente come il buon padre di famiglia e l’avvocato deve essere tenuto fuori, perché lui sì che viene inteso come soggetto che ha un interesse “partigiano”“. A dirlo è Cesare Placanica, ex presidente della Camera penale di Roma, che al Dubbio spiega il perché di una insofferenza sempre più palese. I casi di Potenza e Brescia rappresentano una degenerazione del rapporto tra magistratura e avvocatura. Ritiene che ci sia una sorta di timore, da parte delle toghe, nei vostri confronti? Credo sia doveroso, intanto, distinguere il “bestiario” da quello che accade normalmente. I casi di Potenza e Brescia sono patologici e il dato patologico va isolato e va affrontato, evitando un approccio massimalista al problema, non serio e neanche corretto. Al tribunale di Roma, faccio un esempio, non ho mai visto trasformare il certificato medico in notitia criminis. Ma lo dico come dato obiettivo anche rispetto all’autorevolezza della classe forense, che non è al punto di essere messa in discussione, da questo punto di vista. Il discorso è, in realtà, molto più serio e profondo quando riguarda non il dato patologico, ma l’approccio alla gestione della giustizia. In che senso? Faccio un esempio: chiunque voglia occuparsi di capire un problema del sistema giustizia deve per prima cosa ancorarsi ai dati. Noi avvocati abbiamo da anni, sulla scorta della nostra esperienza, la sensazione che l’udienza preliminare sia completamente fallita, perché nessun giudice, anche per motivi tecnici, fa effettivamente da filtro. E abbiamo anche la sensazione di un fallimento rispetto a quello che era la funzione di controllo vera e propria del gip rispetto al pubblico ministero. Faccio questo lavoro da 31 anni e non credo ci sia la dovuta diffidenza nell’approccio del gip rispetto all’ufficio del pubblico ministero. Piuttosto c’è l’opposto, un approccio “confidente”. Per “diffidenza” intende un approccio critico al materiale probatorio? Sì. Il giudice deve riscontrare che l’impostazione e l’idea accusatoria siano effettivamente fondate, soprattutto nella fase dell’applicazione della misura cautelare. Anche rispetto ai Tribunali della Libertà di tutta Italia abbiamo la sensazione che il vaglio non sia così approfondito come dovrebbe essere. Noi abbiamo un sistema che in nessun modo accetta il rischio di un colpevole condannato e che invece, fisiologicamente, accetta il rischio di un colpevole mandato assolto. Può sembrare anche non bello: chi non ha sensibilità democratica e liberale ripudia questo concetto. Quando quel famoso magistrato dice che si tratta di colpevoli che la fanno franca è perché lui, per sua sensibilità culturale e giuridica, non accetta la possibilità del colpevole che, per insufficienza del materiale probatorio, venga assolto. Invece il sistema questo lo pretende. Quello che un sistema democratico non può accettare è l’opposto: il bicchiere deve essere visto sempre mezzo pieno e mai mezzo vuoto. Questo approccio critico, dicevamo, non c’è. E tornando al discorso originario, per capire se questa sensazione sia una follia o anche soltanto una cattiva impressione dovuta alla prospettiva in cui si pone l’avvocato, esattamente opposta a quella del pm, basterebbe cominciare ad analizzare i dati statistici. E dire quante misure cautelari siano accolte e quante rigettate. Sarebbe interessante. Perché se viene rigettata la metà delle richieste allora, forse, avrebbe ragione il pubblico ministero. Ma se ne viene accolto il 99% allora forse abbiamo ragione noi a dire che non c’è un vero vaglio. E i dati cosa dicono? Vengono, con dolo, tenuti nascosti. Eppure non sono di chi amministra la giustizia, perché il sistema giustizia è gestito dalla politica, nel senso più alto e più nobile del termine, e i protagonisti del sistema giustizia, con funzioni diverse e con pari dignità, sono tutti essenziali allo scopo finale di un processo, che è quello di accertare il più possibile come siano andati dei fatti, scongiurando soprattutto il pericolo di condannare un innocente. Da cosa dipende questa diffidenza rispetto alla classe forense? È un meccanismo di autoprotezione, una visione filosofica autoritaria e autocratica della gestione della giustizia. Il magistrato si sente come il buon padre di famiglia e non ce l’ha con l’imputato, perché non farebbe nulla contro di lui. Il cittadino è oggetto della giustizia. E per quanto quella dell’avvocato sia una funzione pubblica, che non fa parte del sistema autoritario, deve essere tenuto fuori dal sistema giustizia, perché lui sì che viene inteso come soggetto che ha un interesse “partigiano”. Quindi il pm “imperatore” gestisce tutto autonomamente, perché si percepisce come imparziale, caratteristica che non attribuisce al soggetto con il quale dovrebbe interloquire. Questa concezione autoritaria è smentita dalla storia, perché inevitabilmente porta verso distorsioni. E l’unica cosa che non consente le distorsioni è un efficace e vero sistema di controllo. Le degenerazioni del caso di Palamara sono dovute proprio a questo: dalla mancanza effettiva di controllo, che può avvenire solo con la trasparenza. A tal proposito, una forma di “controllo” potrebbe essere rappresentata dal diritto di voto agli avvocati nei Consigli giudiziari, soluzione molto criticata dai magistrati. Secondo lei perché? È l’unico modo per evitare una deriva che è sistematica di ogni sistema chiuso. Il potere si autoalimenta, non accetta il contraddittorio, tutto quello che è al di fuori è sbagliato e ha necessità proprio di una chiusura. E il controllo, perché sia effettivo ed efficace, pretende trasparenza. Il che vuol dire che io devo stare lì dentro, devo vedere e devo poter decidere. Altrimenti è un soliloquio. Ed è per questo l’idea che non piace. Un altro esempio di diffidenza ha riguardato la sentenza della Consulta sulla segretezza della corrispondenza tra detenuti al 41 bis e difensori: per alcuni magistrati significava autorizzare la consegna di veri e propri pizzini tramite l’avvocato... Come dissi a Travaglio, quella considerazione è stata vergognosamente offensiva. Intanto perché appena si scopre che un avvocato si presta a cose del genere deve essere ovviamente radiato dall’ordine e processato, e l’avvocatura deve costituirsi parte civile. Ma siamo sempre nell’ambito del patologico. La Consulta si è posta il problema e ha detto che è una facoltà connaturata al diritto di difesa, che c’è in ogni Stato democratico, quindi ha un rango primario rispetto ad un’eventuale possibile patologia di fondo. Dopodiché la Corte ha detto chiaramente che una riflessione su questo dato si potrebbe fare se fosse patrimonio acquisito alla nostra conoscenza l’esistenza di una ricorrente trasgressione, da parte della classe forense, del divieto di legge di non portare notizie di mafia dal boss detenuto ai suoi consociati. Siccome questo dato empirico non esiste e non esiste una prassi - e nemmeno un’apprezzabile casistica -, come hanno detto i giudici, né è ipotizzabile, questa riflessione non può essere fatta. Fermo restando che se si arrivasse a fare il dibattito bisognerebbe capire cosa sacrificare rispetto a un’esigenza di polizia. È così brutale, disarmante e miserabile il ragionamento che è stato fatto da non poter essere preso in considerazione. Ma questo è il sintomo della volontà di minare una gestione che sia effettivamente democratica della giustizia. Quale potrebbe essere la soluzione? Intanto vorrei dire che l’avvocato nel Consiglio giudiziario non ha interesse a starci. L’interesse è della collettività, che vuole garanzie sul fatto che un potere incredibile ed eccezionale come quello di somministrare giustizia abbia un serio controllo. E quindi non è un problema dell’avvocato, ma del cittadino. Quello che si deve fare, poi, è parlarne. Far capire alle persone di cosa si tratta, demistificando gli argomenti che vengono scientificamente introdotti, fuorvianti e irrilevanti rispetto al tema di cui si parla, sempre agitando le paure e banalizzando patologie che esistono ed esisteranno sempre. Ma nessuno sogna di togliere le pistole alla polizia perché ogni tanto qualcuno perde la testa. Il Sistema sì è guardato nello specchio del diritto e si è assolto di Rosario Russo* Il Dubbio, 11 aprile 2022 La forza di legge è impressa dal Parlamento, i cui membri sono eletti democraticamente dal Popolo sovrano, con l’intermediazione dei partiti. I parlamentari non sono mandatari degli elettori, ai quali rispondono soltanto al momento dell’elezioni (c.d. responsabilità politica). L’applicazione della legge spetta all’ordine giudiziario, governato dal C.S.M. per assicurare l’indipendenza dei magistrati ordinari da ogni altro potere. Essi sono servi soltanto della legge, (per dirla con Cordero) sono ‘condannanti’ ad interpretare la legge, quale dettata dal Parlamento, per applicarla al caso concreto. Il principio della separazione dei poteri fa sì che nell’esercizio della giurisdizione non possano - e non debbano influire altre istituzioni, corpo elettorale, governo e partiti compresi. Pertanto l’amministrazione della carriera e la funzione disciplinare sui magistrati sono riservati al C.S.M., i cui membri sono nominati infatti dai magistrati stessi (per due terzi), in modo da rispecchiare le loro specifiche funzioni (giudici di merito, requirenti e giudici di legittimità), ma anche dal Parlamento (per un terzo). Ne fanno parte di diritto il Primo presidente e il Procuratore generale della Suprema Corte, a tali incarichi nominati dallo stesso C.S.M., che è presieduto dal Capo dello Stato. Dovendo assicurare l’indipendenza dei magistrati ordinari, il C.S.M. non può che essere altrettanto indipendente da ogni altra istituzione, istanza o pressione. La sua funzione è istituzionalmente difensiva e protettiva: non ha altro scopo se non quello di assicurare che i magistrati siano servi soltanto della legge e rispettino - facendo rispettare perciò esclusivamente la volontà del Popolo sovrano, inverata e oggettivata nella Legge. La magistratura, in conclusione, non può essere indipendente e autonoma se non lo sia in primo luogo - e soprattutto - il C.S.M. La dialettica partitica-politica - dopo avere partorito la legge - resta ugualmente estranea tanto all’attività decisoria dei giudici quanto alle funzioni svolte dal Consiglio Superiore della Magistratura. La politica ha ragioni e metodi, compreso il “sistema spartitorio” studiato da G. Amato, che la giurisdizione non può. e non deve - condividere. Soltanto a queste condizioni “la magistratura può costituire un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art, 104 Cost.). Parodiando Pasolini, tutti ...sappiamo e ...abbiamo perfino le prove inconfutabili dell’anti “Sistema Palamara”! Colto in flagranza di reati (art. 323) e di violazioni disciplinari (gravissimi, reiterati, sistematici e continuati) il dott. Luca Palamara, anziché contestare gli addebiti, ha osato esaltare e magnificare la propria funzione di pontiere e mediatore, in quanto membro togato del C.S.M., tra le correnti dell’A.N.M., i membri laici del Consiglio stesso e gli apparati politici, in spregio alla legge ed in danno dei tanti magistrati privi di appoggi correntizi. Davvero difficile immaginare in astratto una condotta così patentemente eversiva della Costituzione, un esercizio di tracotanza così devastante! L’interprete deve prendere atto del suo enorme successo editoriale, mediatico e popolare, nonostante la sua radiazione dall’Ordine e dall’A.N.M., ma non può fare a meno di studiarne le cause. Per comprenderle è essenziale fare il punto sulla situazione scaturita dall’anti “Sistema Palamara”. Dopo tre anni risultano sanzionati soltanto i magistrati in servizio che parteciparono alla cospirazione svoltasi nella “notte della Magistratura” e tra di essi soltanto Palamara è stato radiato dall’ordine. Invece né Palamara né taluno dei tanti magistrati protagonisti delle ‘raccomandazioni’ immortalate dalle famose chat sequestrate è stato mai punito. Ben vero, dopo il loro sequestro la Procura perugina le ha trasmesse al P.G. presso la Suprema Corte, al C.S.M. e perfino all’A.N.M., senza indagare se esse costituissero prova del delitto (tentato o consumato) di abuso d’ufficio (artt. 110 e 323 c.p. nell’interpretazione datane da Cass. Pen. sent. n. 442 del 2021, pag. 5.). E così, mentre con analoga imputazione al Tribunale di Catania sono in fase dibattimentale due processi penali per le ‘raccomandazioni’ con cui i docenti universitari si scambiavano favori per le nomine accademiche, il documentatissimo e omologo sistema spartitorio all’interno del C.S.M., cioè per l’appunto l’anti “Sistema Palamara”, è rimasto impunito, sebbene aborrito dalla Costituzione. Non basta: radiato solo Palamara (a diverso titolo), niente è rimasto intentato per impedire che gli altri magistrati implicati fossero a qualunque titolo puniti. Ricevute le chat, il P.G. presso la Suprema Corte emana un editto con cui assume che le autopromozioni, cioè le raccomandazioni dirette dal magistrato a Palamara, non costituiscono violazione dell’obbligo disciplinare di correttezza. Non può farlo perché chi per legge è tenuto, come il P.G., ad esperire l’azione disciplinare, non è legittimato a perimetrare autonomamente il proprio obbligo. Non solo, ma perfino il C.S.M. e le Sezioni Unite hanno (ovviamente) respinto la tesi del P.G. Il quale, intanto con un altro editto, decide di avere anche il potere di segretare l’archiviazione perfino rispetto al C.S.M. Il risultato: nessuno può sapere quante e quali autopromozioni ed eteropromozioni (raccomandato raccomandante raccomandatario siano state archiviate: top secret. Anche il Consiglio Superiore della Magistratura si attiva), ma in modo decisamente improprio. Niente è più doloso di una raccomandazione. Tuttavia le famose chat vengono esaminate dal C.S.M. nell’ambito vistosamente improprio del procedimento amministrativo per incompatibilità ambientale e funzionale; e siccome esso presuppone una condotta incolpevole, è inevitabile l’archiviazione. Infine i Probiviri dell’A.N.M., faticosamente ottenute le chat, cominciano a vagliarle. Ma l’associazione consente agli indagati di dimettersi per eludere la sanzione endoassociativa, in palese contrasto con le clausole dello statuto. Per gli indagati che non si dimettono, archiviazioni dei Probiviri e condanne del C.D.C. sono dichiarate inaccessibili perfino ai soci. Infine, nonostante le autorevoli raccomandazioni del Presidente della Repubblica, il Legislatore ha abbozzato riforme inidonee a neutralizzare l’anti “Sistema Palamara”. Esploso il caso Palamara, la stessa magistratura associata aveva doverosamente riconosciuto che il sistema spartitorio attuato da Palamara è causato dalla “cinghia di trasmissione” che unisce i vertici dell’A.N.M. ai membri togati del C.S.M., sicché è necessario tagliare alla radice tale cordone ombelicale. Ebbene, i conditores hanno deciso d’ignorare, in sede di riforma, che precise disposizioni del codice etico (art. 7 bis) e dello statuto (art. 25 bis) dell’A.N.M sono ora finalizzate ad interrompere il perverso predominio delle correnti associative sul C.S.M., che alimenta il sistema spartitorio-correntizio. La tanto attesa riforma legislativa non ha inteso assecondare neppure la tardiva - ma benefica ‘riconversione’ all’indipendenza dei magistrati associati. Tutti coloro che ne avevano il dovere hanno esaminato e vagliato; nessuno risulta avere sanzionato o apprestato rimedi. Il magistrato illegittimamente raccomandato o raccomandante (in pregiudizio dell’ignaro dott. Nessuno) non è il “soldato Ryan” ma è salvo. Non lo è l’Ordine giudiziario. E l’Utente finale della Giustizia lo sa a tal punto che, costretto a scegliere, opta (con malcelata sofferenza) per Palamara. Si, certamente egli è colpevole per avere introdotto nella Giurisdizione il metodo spartitorio-correntizio, ma ... ‘almeno’ - così commenta il cittadino - ha ‘pagato’ in prima persona con la radiazione dall’ordine. I suoi tanti correi invece hanno evitato qualunque sanzione e sono rimasti nei loro ambiti uffici. Soprattutto l’ordinamento - in tutte le proprie sfaccettature (repressive e riformatrici) - si è guardato nello specchio del diritto e - con compiacimento - si è assolto (o graziato), dimostrando così per tabulas che quello intestato a Palamara non è l’anti “Sistema Palamara”, ma il vero, unico, incontrastato e vittorioso “Sistema”. Palamara non viene acclamato per le sue gesta, ma soltanto perché - a suo confronto - ben peggiori si sono rivelati il sistema giuridico e i tanti suoi correi. E così che paradossalmente l’artefice del sistema spartitorio prevale (non solo mediaticamente) non per virtù propria, ma per i più gravi demeriti dei suoi correi e dell’intero sistema che ha denunciati. Nessuno sembra accorgersi che i suoi successi editoriali testimoniano il “grido di dolore” dell’Utente finale della Giustizia, quale soltanto Much ha saputo riprodurre sulla tela. *Già Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione Caso Cucchi. Un uomo che muore nelle mani dello Stato riguarda tutti noi di Valentina Calderone* Il Riformista, 11 aprile 2022 Dodici anni, cinque mesi e tredici giorni. Questo è il tempo che la giustizia italiana ha impiegato per decretare definitivamente le responsabilità per l’uccisione di Stefano Cucchi. Il geometra romano di trentuno anni che nei primi mesi dopo la sua morte è stato variamente definito, da stampa e personaggi politici, come il “piccolo spacciatore di Tor Pignattara”, “anoressico, tossicodipendente, larva, zombie”. Nessuno potrà più dire adesso che Stefano è morto per colpa della sua magrezza, delle sue abitudini, delle sue debolezze. La sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri responsabili dell’arresto e del trattenimento di Cucchi sancisce la fine di una vicenda giudiziaria incredibilmente lunga e travagliata, con centinaia di udienze, numerose perizie, diversi soggetti imputati e un’attenzione dei media mai vista prima per un caso di abusi da parte delle forze dell’ordine. Con l’associazione A Buon Diritto abbiamo conosciuto la famiglia Cucchi a una settimana dalla morte di Stefano, e studiando i primi atti d’indagine chiedemmo sin da subito di indagare su quanto accaduto la notte dell’arresto. E invece le indagini sono state dirottate per anni, sviate per spostare l’attenzione dalla caserma di carabinieri all’interno della quale, oggi lo sappiamo con assoluta certezza, Stefano ha incontrato la morte. Il processo di primo grado per i depistaggi messi in atto con l’intento di coprire le responsabilità degli operatori si è concluso giovedì scorso con una sentenza di condanna: otto uomini appartenenti all’Arma sono stati ritenuti colpevoli di favoreggiamento, calunnia, falso ideologico. Un’opera complessa di depistaggi durata anni. Da una parte, quindi, non dovrebbero stupirci questi tredici anni impiegati per arrivare alla verità, dall’altra però, non possiamo non farne tema di riflessione. La vicenda di Stefano Cucchi è stata paradigmatica da molti punti di vista, ha permesso di svelare un sistema estremamente complesso, il funzionamento di una macchina ben rodata di azioni messe in atto a tutti i livelli al fine di coprire le responsabilità, ma ha anche rappresentato la possibilità di parlare pubblicamente di queste vicende e ha consentito una crescita della consapevolezza collettiva su temi che continuano a essere molto difficili da trattare. Di Stefano Cucchi si è parlato nei telegiornali, nei libri, nei film, la sua vicenda è stata rapidamente conosciuta a livello nazionale, approfondita e utilizzata per raccontare altre storie. La famiglia, e soprattutto la sorella Ilaria, sono diventati voce che chiedeva incessantemente verità e giustizia e, nonostante tutta la caparbietà dimostrata e l’attenzione ricevuta, c’è voluto un tempo enorme per arrivare a ottenerle, quella verità e quella giustizia. Ma se allora ci sono voluti quasi tredici anni per arrivare a capo di una vicenda che ha provocato fortissime emozioni e scosso l’opinione pubblica, che è stata raccontata e analizzata, che esito possono avere le altre decine e centinaia di storie di abusi che non conosceremo mai? In questi anni alcune le abbiamo raccontate: Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Michele Ferrulli, Francesco Mastrogiovanni, Andrea Soldi, Mauro Guerra, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva. Vicende diverse, con molti tratti in comune, uno su tutti l’incommensurabile dolore delle famiglie che devono affrontare processi in cui spesso è la vittima a essere sotto accusa, la sua vita, le sue abitudini, le sue relazioni. Lo scandalo suscitato dalla morte di un uomo che si trovi sotta la custodia dello Stato non sarà purtroppo sufficiente a far sì che storie come queste non accadano mai più. Ma se c’è una cosa che possiamo imparare dalla vicenda di Stefano Cucchi, e dalle emozioni che ci ha provocato, è che ora più che mai dobbiamo continuare a monitorare, fare domande, pretendere verità. Un uomo che muore nelle mani dello Stato riguarda tutti noi. Stefano Cucchi ce lo ha insegnato. *Associazione A Buon diritto Messina. Carcere di Barcellona, giovane donna si impicca ad un albero nell’ora d’aria di Mario Garofalo Gazzetta del Sud, 11 aprile 2022 Una donna 36enne, di nazionalità romena, si è suicidata all’interno della Casa circondariale di Barcellona, dove era detenuta da poco tempo. La tragica scoperta degli agenti della Polizia penitenziaria è avvenuta nel pomeriggio di ieri, nel patio dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario, al termine dell’ora d’aria. La donna, detenuta nel settimo reparto, all’interno della “sezione femminile”, si è impiccata ad un albero di nespolo con un pantalone elastico, verosimilmente un pantacollant, in una zona poco lontana dal cortile e dall’area in cui abitualmente i detenuti consumano il loro momento di libertà. A quanto pare il suo gesto avrebbe raggiunto lo scopo in modo fulmineo, nonostante sia stato dato l’allarme e siano accorsi rapidamente gli agenti. La volontà di uccidersi si è purtroppo tradotta in dramma sotto gli occhi delle telecamere del circuito di videosorveglianza, nonostante il punto in cui è avvenuto il suicidio si trovi in una zona poco distante dall’occhio che trasmette le immagini alla centrale operativa. Milano. Luigi Pagano e 40 anni di lavoro in carcere: il dibattito alla biblioteca di Quarto Oggiaro di Redazione Milano Corriere della Sera, 11 aprile 2022 L’ex direttore del carcere di San Vittore presenta il suo ultimo libro con Franco Bonisoli, ex detenuto e oggi impegnato in percorsi di giustizia riparativa. Ha diretto per 16 anni la casa circondariale milanese di San Vittore, poi è stato a capo di tutti i penitenziari del Nord-Ovest e numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Laurea in giurisprudenza, sposato, due figli, napoletano, Luigi Pagano ha raccontato la sua lunga esperienza nel libro “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere” (304 pagine, Zolfo Editore). Non solo un testimone: nella sua lunga carriera Pagano è stato artefice del processo di cambiamento del carcere in Italia (che però è ancora lontano da essere al passo con i tempi). Ne parla lunedì 11 aprile, alle 18, alla biblioteca di Quarto Oggiaro in via Otranto angolo Carbonia, a Milano, con Franco Bonisoli, ex detenuto e oggi impegnato in percorsi di giustizia riparativa. L’iniziativa è inserita nel progetto di quartiere “Apriti cielo” in collaborazione con l’associazione Amici della Nave. Pagano racconta il carcere dall’interno, forte di un’esperienza umana e professionale maturata in un susseguirsi di destinazioni, da Pianosa a San Vittore. La partecipazione è gratuita con prenotazione al numero 02.88465813. Accesso con green pass rafforzato e mascherina Ffp2 per i maggiori di 12 anni. Voghera (Pv). “Vivicittà” entra in carcere corsa in nome della pace di Stefania Prato La Provincia Pavese, 11 aprile 2022 Il Vivicittà approda al carcere di Voghera. Dopo tre anni di assenza per la pandemia, la manifestazione podistica nazionale indetta dalla Unione italiana sport per tutti, tenuta in 30 piazze italiane domenica scorsa, è stata replicata dentro le mura di 17 istituti penitenziari, tra cui la casa circondariale vogherese. La manifestazione è stata allestita dall’Atletica Pavese. Una ventina di concorrenti, fra detenuti e atleti esterni, hanno corso o camminato per 2 chilometri lungo un percorso ricavato nel cortile interno della struttura. Al termine premiati i primi tre. L’italiano Antonino, il romeno Cristian e il tunisino Atef sono stati i più veloci. Si è corso nel nome della pace, tema portante di tutto il Vivicittà nazionale. Tra gli esterni hanno corso Gianni Tempesta dell’Atletica Pavese, Danilo Torti (Iriense), Matteo Marioni (Scalo Voghera), Cinzia Menna e Gabriele Brizzi (Tds). Tutti hanno gareggiato sotto la direzione dei giudici Gianna De Micheli, Enzo Capuzzo, Marziano Vailati e Mariarosaria Ciardulli. Fondamentale la collaborazione della polizia penitenziaria vogherese. Al termine interventi di Gianni Tempesta, referente Uisp Pavia, e dell’educatrice Adele Ianneo, che ha portato i saluti del nuovo direttore Davide Pisapia. - “Ariaferma” di Leonardo Costanzo finalista al Premio David di Donatello di Roberto Rinaldi articolo21.org, 11 aprile 2022 Il film Ariaferma del regista e sceneggiatore Leonardo Di Costanzo è candidato al Premio David di Donatello, il premio cinematografico italiano che verrà assegnato il 3 maggio prossimo dagli studi di Cinecittà a Roma. È in gara come miglior film e miglior regia, come miglior attore protagonista (Silvio Orlando), miglior attore non protagonista (Fabrizio Ferracane), miglior sceneggiatura originale (Leonardo di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella), miglior produttore, miglior fotografia, miglior compositore (Pasquale Scialò), miglior scenografia, miglior montaggio, miglior suono. Undici in totale. La sinossi del film Ariaferma diretto da Leonardo Costanzo racconta di “un vecchio carcere ottocentesco, situato in una zona impervia e imprecisata del territorio italiano, è in dismissione. Per problemi burocratici i trasferimenti si bloccano e una dozzina di detenuti rimane, con pochi agenti, in attesa di nuove destinazioni. In un’atmosfera sospesa, le regole di separazione si allentano e tra gli uomini rimasti si intravedono nuove forme di relazioni”. Il regista Leonardo Costanzo spiega cosa è accaduto durante la preparazione del film: “Il carcere di Mortana nella realtà non esiste: è un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte carceri. Quasi ovunque abbiamo trovato grande disponibilità a parlare, a raccontarsi; è capitato che gli incontri coinvolgessero insieme agenti, direzione e qualche detenuto. Allora era facile che si creasse uno strano clima di convivialità, facevano quasi a gara nel raccontare storie. Si rideva anche. Poi, quando il convivio finiva, tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo spaesamento. E proprio questo senso di spaesamento ha guidato la realizzazione del film: Ariaferma non racconta le condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”. Possono cambiare le relazioni tra detenuti e i poliziotti penitenziari se si verificano delle condizioni tali da modificare la distanza che separa i primi dai secondi? Ariaferma presentato fuori concorso alla 78° esima edizione della Biennale Cinema di Venezia, se ne fa carico e cerca di dimostrarlo. Nel corso della puntata di “Che tempo che fa” intervistati da Fabio Fazio, Toni Servillo e Silvio Orlando che interpretano rispettivamente il ruolo di ispettore della polizia penitenziaria e quello di detenuto, testimoniano il valore del film, reduci pochi minuti prima dalla proiezione del film nel carcere di Bollate a Milano. Toni Servillo: “Un detenuto, dopo aver assistito alla proiezione, ha usato più volte la parola “fiducia” e Ariaferma racconta che, attraverso un piccolo gesto, si comprende la fiducia e si può rompere una catena di vendetta e di violenza, che altrimenti si perpetua all’infinito e non intende il carcere come una possibilità di recupero di una vita. Non guarda a un uomo che sta scontando la sua pena come qualcuno che possa avere altre possibilità, altre potenzialità, altri talenti. Quando l’istituzione si allontana, chi vive in luogo di sofferenza come il carcere, si ritrova a viverla insieme e fa compiere dei gesti dove la fiducia reciproca cresce un po’ alla volta. Un agente di polizia penitenziaria che ci accompagnava in carcere ci ha detto che la fiducia reciproca fa stare meglio loro e fa stare meglio i detenuti”. Durante la trasmissione “Che tempo che fa” è intervenuto anche lo scrittore Roberto Saviano: “Il film ha il pregio di raccontare il problema carcerario che è gigantesco, anticipando i tempi per quello che poi è accaduto durante il Covid in assenza di tutto ciò che è umano in carcere: la condivisione della precarietà tra agenti e detenuti. Più si verifica una condizione di angoscia e di disagio tra i detenuti e più le organizzazioni criminali diventano potenti. Le persone pensano che più le condizioni detentive sono punitive, meno verranno commessi nuovi reati. Purtroppo accade il contrario e un carcere costruito così è un carcere dove comanda il crimine. Là dove non c’è il diritto, il detenuto si rivolge ad un capozona. Lo spazio del carcere deve interrompere la condizione dell’uomo di commettere un crimine e intraprendere un percorso di riforma. La misura della democrazia è dentro il carcere ed è qui che si può osservare” Ariaferma ha il merito di raccontare la vita in carcere senza ricorrere a facili espedienti narrativi a cui siamo abituati. Il film è un’incursione nel profondo del genere umano diviso tra “buoni” e “cattivi” la cui sorte per condizioni di vita tende ad accomunare e non a dividere. Un avvicinamento progressivo e inarrestabile per sondare i sentimenti che appartengono a chiunque senza distinzioni di nessun genere. Anche tra il personale di polizia penitenziaria e i detenuti. Azioni capaci di modificare il pensiero di chi ha la responsabilità di custodire i detenuti, spesso in situazioni di privazione dei più fondamentali diritti della persona. La sceneggiatura e la regia descrive con molta efficacia la realtà sociale del carcere, senza mai cadere nel rischio di enfatizzarla in negativo o scadere in luoghi comuni e dettati da un pensiero che ritiene il detenuto una persona pericolosa e a cui solo il carcere impedirà di commettere altri reati, anche quando esca avendo scontata la pena. Uomini e donne incapaci di integrarsi nella società civile e di rispettare ogni regola. Ariaferma racconta il tempo sospeso vissuto dai detenuti a causa di una condizione temporale e psicologica minata dall’incertezza e dalla mancanza di prospettive. Un tempo che sembra non trascorrere mai. Non a caso il regista chiarisce che non “è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”. Con l’emergenza causata dal Covid-19 ogni attività trattamentale con l’ausilio di professionalità educative si è interrotta, privando di fatto la possibilità di seguire corsi di formazione, studio e attività rieducative. I contatti con l’esterno sono stati interrotti e impedite le visite dei familiari. In Ariaferma viene descritta la condizione di isolamento subita e le conseguenze che ne derivano, risolte in modo positivo scegliendo di includere e non di dividere. Il carcere di Bollate a Milano è d’esempio per essere un istituto a custodia attenuata in grado di fornire un vasto programma di attività trattamentale, tra cui quella del teatro, e far sì che i detenuti perseguano processi di autoresponsabilizzazione, la messa in prova mediante permessi e la possibilità di lavorare all’esterno. Il documentario sulle carceri sarde selezionato dalla Rai di Emanuele Floris sassarioggi.it, 11 aprile 2022 In concorso a Festival Nazionale Tulipani di seta nera. A bordo di un’Apecar per raccogliere gli ex voto dei detenuti in Sardegna. Questo il tema di “Per Grazia Non Ricevuta”, il documentario selezionato al Festival internazionale della cinematografia sociale Tulipani di seta nera. Diretto da Davide Melis e prodotto da Karel, racconta il viaggio del cantautore cagliaritano Joe Perrino e dell’artista sassarese Giovanna Maria Boscani nelle carceri isolane tra il 2017 e il 2018, un tour fatto di dialogo con le persone recluse, di concerti e di ex voto ricevuti e custoditi all’interno e all’esterno della “Apixedda” come una installazione permanente. “Ma non si tratta - spiega Perrino - di una natura morta. Il film vuole denunciare le condizioni spesso medioevali in cui si vive all’interno delle prigioni”. Da Badu e Carros a Lanusei fino a Tempio e Alghero, il tour attraversa le realtà carcerarie ma non può documentare il suo interno. “Siamo entrati dentro - interviene la Boscani - ma non abbiamo ricevuto il permesso di fare riprese”. Le situazioni incontrate, riferiscono i due, sono “grottesche e gli uomini sono come animali in gabbia”. “Ho incontrato dei galantuomini - sottolinea Giovanna - e alcuni ex voto dimostrano una sensibilità artistica fuori dal comune”. Con differenze espressive come nel caso di Lanusei dove predomina il lato pittorico o Uta contraddistinto invece dalla scrittura. E così il progetto, ideato dall’associazione Marco Magnani, con il contributo di Regione Sardegna e Fondazione Sardegna, si arricchisce di testimonianze inevitabilmente crude. “Ci hanno raccontato dei loro problemi - sostengono i due artisti - ad esempio sanitari, come essere sieropositivi e privi dei medicinali necessari, o dell’incognita sul futuro una volta usciti di prigione”. Un patrimonio orale e materico raccolto da Perrino-Boscani anche nello spettacolo che stanno rappresentando in questo periodo tra le “canzoni di malavita” eseguite dal primo e le performance autoriali della seconda. Assieme a questo si affianca la presentazione del documentario nelle scuole sarde: “Abbiamo ricevuto - racconta Giovanna Maria- delle reazioni straordinarie da parte dei ragazzi che si sono intrattenuti a lungo a parlare con gli ex detenuti o in semilibertà che ci affiancano nella spiegazione”. Un importante feedback dal vivo che si somma a quello della visione del documentario. Per votarlo bisogna accedere fino al 17 aprile al link Rai di Per Grazia Non Ricevuta. Ogni visualizzazione porta un voto e per chi ne otterrà di più vi è in palio il prestigioso Premio Sorriso Rai Cinema Channel. La forza non basta, gli errori dei nostalgici della Guerra Fredda di Antonio Polito Corriere della Sera, 11 aprile 2022 Di fronte alla legge della “geopolitica”, che cosa volete che importi che il 73% degli ucraini abbiano votato per Zelensky presidente, consentendogli di battere il rivale filo-russo perfino in molte zone oggi dette “russofone”? I numerosi pensatori che tentano di convincere gli italiani ad abbandonare l’Ucraina al suo destino, in nome della pace, del buon senso o del quieto vivere, sono affetti da anacronismo. Sembrano nuovi “cold warrior”: si muovono cioè negli schemi mentali di una Guerra Fredda che è finita da 31 anni. Il loro ragionamento, quello che fa più presa sul grande pubblico perché intriso di apparente “realismo”, è il seguente: il mondo e l’Europa sono divisi in “blocchi” (termine tornato di moda). Ciò che sta di qua, in prossimità geografica e culturale con la Russia, spetta dunque alla Russia. Noi che stiamo di là, e che siamo “satelliti” della potenza americana quanto l’Ucraina lo è della Russia, non dobbiamo impicciarci. Altrimenti scoppia la Terza Guerra Mondiale. E infatti corredano quest’analisi con cartine geografiche pre-1991, per mostrare come sia oggi accerchiata dalla Nato una potenza russa che allora invece arrivava, col Patto di Varsavia, fino ai confini dell’Austria. Solo in virtù di questo anacronismo - analizzare l’oggi con gli strumenti del passato - si può comprendere come essi possano accettare che una potenza militare, insoddisfatta del governo di un Paese vicino e delle sue politiche, decida di cambiarlo con un’invasione. È esattamente ciò che succedeva nella Guerra Fredda, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968, in Polonia nel 1980: i carri armati cambiavano i governi, e l’Occidente non poteva farci niente. Nelle loro teste, solo in qualche caso davvero addestrate alla politica internazionale, il più delle volte provenienti dai più disparati campi della sociologia e della filosofia, del sindacalismo e del giornalismo, c’è ancora un Muro a dividere l’Europa. La scomparsa dell’Urss non è stata per loro l’inevitabile esito di una sconfitta storica, ma “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo” (secondo le parole dello stesso Putin). E non tanto perché abbia messo fine al comunismo, che ormai quasi nessuno difende più. Ma perché ha eliminato il contrappeso dell’imperialismo russo che teneva i piedi l’equilibrio del terrore con gli Usa, e garantiva a noi la pace (il punto di vista dei popoli che erano rimasti “di là”, sotto il tallone russo, è di solito trascurato). In quest’ottica il motore della storia è solo la forza, il potere, la geografia. La stessa democrazia si riduce a mera finzione. Di fronte alla legge della “geopolitica”, che cosa volete che importi che il 73% degli ucraini abbiano votato per Zelensky presidente, consentendogli di battere il rivale filo-russo perfino in molte zone oggi dette “russofone”? Perché mai un semplice successo elettorale gli darebbe il diritto di cambiare il corso della storia, dove il posto degli ucraini è assegnato da secoli e il destino di sottomissione alla Russia è immutabile? E ora, perché non cede alle richieste di Mosca, che vuole solo “riprendersi l’Ucraina” (altra affermazione frequente), e non cede invece territori e indipendenza, privandosi di quello che nel resto del mondo si chiama “sovranità” e che distingue uno Stato da una colonia? Come tutti gli anacronismi, però, quest’idea del mondo non corrisponde alla realtà. Non che la geopolitica non conti più. Ma intanto è cambiata: la potenza russa, narrata spesso in tv con gridolini estasiati di ammirazione (“Putin può sventrare l’Ucraina come e quando vuole”) non è più quella di una volta. Uscita sconfitta dalla Guerra Fredda, la Russia è un Paese in declino, economico e demografico. E non è più “l’altra superpotenza”, avendo perso il posto a vantaggio della Cina. Soprattutto, è cambiato il mondo. Quando è finito l’impero sovietico, e sia la Federazione Russa sia l’Ucraina, insieme, contemporaneamente e di comune accordo, sono diventati due Stati indipendenti, non esisteva ancora Facebook, Google era appena nata, Twitter e Instagram erano al di là da venire, come i droni, l’e-commerce e le auto elettriche. Soprattutto non esisteva ancora l’Unione Europea, fondata a Maastricht proprio l’anno dopo. Questo nuovo mondo, con tutti i suoi limiti e difetti, ma fatto di pace e consumi, democrazia e benessere, ha cambiato anche gli uomini. Popoli che secondo i nostri “professori della resa” dovrebbero starsene buoni buoni di là, vogliono venire di qua, perché con i telefonini e con la testa sono già di qua. L’Europa stessa, che appare a noi deludente e prosaica, per loro è invece un polo di attrazione, la speranza di un futuro diverso, un sogno cui hanno diritto ad ambire. Non credo sia un caso se i più anti-europei in Europa siano di solito anche i più filo-Putin: democrazia e autocrazia si escludono, e gli ucraini lo sanno benissimo. Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina - Guai a credere che la storia sia fatta solo dai rapporti di forza. Parlando alla radio dopo che l’invincibile macchina bellica nazista aveva invaso l’Urss nel 1941, Stalin disse: “La storia insegna che non vi sono stati e non vi sono eserciti invincibili”. Su che basava la sua convinzione, dimostratasi poi esatta? Sul fattore umano; sul patriottismo del suo popolo; sulla determinazione della sua nazione. Il nazionalismo ucraino ha forse una data di nascita più recente. Ma è molto probabile che essa corrisponda con l’invasione russa della Crimea e del Donbass nel 2014. Da allora anche il popolo ucraino è cambiato. E vedendolo resistere con tanta dignità e sofferenza, torna in mente la risposta che un vecchio bolscevico dà a una famiglia di russi in Stalingrado, il nuovo romanzo di Vassilij Grossman. Come sarà possibile fermare un così formidabile nemico, gli chiedono; e lui replica paragonando l’invasore al gigante Anteo del mito greco: “Quando questo finto Anteo avanza sulla terra che vorrebbe conquistare la sua forza non aumenta a ogni passo, come succede al vero Anteo, ma diminuisce. Non è lui che assorbe forza dalla terra, ma è la terra, a lui ostile, che gliela sottrae finché, stremato, Anteo si schianterà al suolo”. Mai sottovalutare il fattore umano. Il voto a Parigi che preoccupa l’Europa di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 11 aprile 2022 Il presidente Macron è andato meglio rispetto ai sondaggi dell’ultimo giorno. Se tra due settimane dovesse cadere, sarebbe una sorpresa assoluta. Marine Le Pen pone questioni giuste; cui però dà risposte sbagliate. Emmanuel Macron è in testa e sarà molto probabilmente rieletto. Ma chi si era illuso che, con il richiamo all’ordine segnato prima dalla pandemia e poi dalla guerra, la belva sovranista si fosse ammansita, si sbagliava. Anzi, essa ruggisce più che mai. E ruggisce anche nella capitale dei Lumi, della ragione, dei diritti universali dell’uomo, della fraternità planetaria. La belva ovviamente non è una donna; è un pensiero anzi un istinto, è una protesta anzi una rivolta. Il clamoroso 24 per cento che Marine Le Pen ha raccolto ieri al primo turno delle presidenziali vale più del 60% del suo amico Viktor Orbán. E non solo perché ai consensi di Marine vanno aggiunti quelli dell’estrema destra di Éric Zemmour e della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, che uniti alle frattaglie trotzkiste e vandeane portano l’elettorato antisistema oltre la soglia fatidica del 50 per cento. Sono voti che non si sommeranno al ballottaggio. Ma sono comunque un segno di ribellione. Orbán è al potere in Ungheria da dodici anni. Ha asservito o silenziato la stampa libera. In Francia non c’è un giornale, non c’è una rete tv che sostenga Marine Le Pen. Certo, la figlia non è demonizzata come il padre. Però resta un outsider. L’establishment francese, con la parziale eccezione di Vincent Bolloré, non la vuole. Il punto è che molti francesi non vogliono più saperne dell’establishment e del suo candidato, Emmanuel Macron. Il presidente è andato meglio rispetto ai sondaggi dell’ultimo giorno. Se tra due settimane dovesse cadere, sarebbe una sorpresa assoluta. Marine Le Pen pone questioni giuste; cui però dà risposte sbagliate. Il suo progetto di smantellamento dell’Unione Europea indebolirebbe ulteriormente il piccolo risparmiatore, lo esporrebbe alle tempeste finanziarie, finirebbe con il far crescere ancora quei prezzi che lei promette di abbassare. Anche una parte di coloro che non amano Macron lo considera comunque più affidabile della Le Pen. Eppure il risultato francese non si spiega solo con le esitazioni del presidente, che ha iniziato la campagna elettorale troppo tardi e l’ha impostata su una riforma delle pensioni inevitabile ma impopolare. All’evidenza, la guerra in Ucraina non indebolisce i populisti putiniani. Marine Le Pen è un’amica di Putin, anche se ha dovuto mandare al macero i volantini che la ritraevano al Cremlino al suo fianco. È stata finanziata prima dai russi, poi dagli ungheresi. Se mai tra due settimane dovesse farcela, per Vladimir Putin sarebbe una vittoria: il fronte dell’Occidente sarebbe spaccato. Non solo Marine intende disfare l’Unione Europea; vuole Parigi fuori dal comando integrato della Nato, anzi dell’Otan come si dice qui. E pure il sinistro Mélenchon fino a ieri difendeva Putin e addossava all’Alleanza Atlantica la responsabilità della crisi ucraina. Questo non significa che la maggioranza dei francesi sia filorussa. Significa che le sue priorità sono altre. Prezzi, salari, potere d’acquisto: i punti su cui Le Pen e Mélenchon battono da mesi. Macron è stato un buon presidente. Ha ridotto la disoccupazione. Ha domato la pandemia inventando il Green Pass (anzi, pass sanitaire) e insistendo sui vaccini. Eppure ha dato l’impressione di parlare soprattutto alla Francia urbana, ricca, che dalla globalizzazione trae vantaggio, e pure dall’immigrazione. E di dimenticare - Marine dice disprezzare - la Francia profonda, delle periferie e delle campagne, che dalla globalizzazione e dall’immigrazione è sorvolata e impaurita. Non a caso Macron è forte nelle grandi città, da Lione a Tolosa, è fortissimo a Parigi, ed è debole in provincia. La saggezza popolare lo paragona ad Anquetil, l’elegante calcolatore che vinceva il Tour con le cronometro, mentre Marine è Poulidor, il simbolo della Francia arcaica e laboriosa, dalle mani callose e dalla fronte sudata (anche se la villa di famiglia, dono di un sostenitore, sorge nel verde della ricca banlieue di Saint-Cloud). Solo che l’amatissimo Poulidor arrivava sempre secondo: otto podi, mai un Tour, non un solo giorno in maglia gialla. Tra due settimane sapremo se Marine - come è molto probabile - è davvero l’eterna seconda, o si rivelerà la Mitterrand della destra, capace di entrare all’Eliseo dopo una vita di sconfitte. Se davvero dovesse farcela, l’Unione Europea non sarebbe più la stessa, e il mondo neppure. Ma già questo suo buon risultato può ringalluzzire i sovranisti italiani, che con Marine hanno da sempre un buon rapporto. Non solo Giorgia Meloni, che è già all’opposizione, ma soprattutto Matteo Salvini: il leader populista che si converte all’europeismo, appoggia Draghi e rielegge Mattarella potrebbe sentire il richiamo della foresta. E pure i Cinque Stelle, passati - almeno nella versione Di Maio - dai Gilet gialli a Macron ed Enrico Letta, avvertono che il vento potrebbe girare di nuovo, e che sia a destra sia a sinistra i radicali prevalgono talora sui moderati. Ancora una volta, la campana di Notre Dame suona per tutti noi. Luca Attanasio: dubbi, misteri e omissioni sulla morte dell’ambasciatore in Congo Il Domani, 11 aprile 2022 L’ambasciatore e il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci sono stati uccisi il 22 febbraio del 2021, e da qual momento l’inchiesta italiana ha incrociato quelle dei magistrati del Department of Safety and Security dell’Onu - per il coinvolgimento di dirigenti e dipendenti Pam (Programma alimentare mondiale) - e degli inquirenti congolesi. I tre filoni hanno camminato su terreni molto accidentati e portato a una serie di accertamenti utili a capire qualcosa in più su quanto possa essere accaduto quella drammatica mattinata nella strada che da Goma porta a Rutshuru, nella provincia del Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo. Ma lasciano tuttora infiniti dubbi in quanto a scopo dell’agguato, mandanti ed esecutori. La missione- Di certo si è compreso che molte cose nella predisposizione e nella realizzazione di quella missione sono andate clamorosamente storte: secondo le accuse i dirigenti del Pam Rocco Leone, vicedirettore per il Congo e all’epoca dei fatti direttore ad interim, e Mansour Rwagaza, responsabile di area, hanno gravemente “omesso le cautele” atte a garantire una adeguata sicurezza allo svolgimento del viaggio alterando, falsificando o presentando i rapporti propedeutici alle autorizzazioni in netto ritardo. I due, unici iscritti nel registro degli indagati da Colaiocco, si appellano all’immunità diplomatica e rifiutano di rispondere. Anche sul risk assessment emergono questioni da verificare sia per quanto riguarda il comportamento del dipartimento di sicurezza del Pam, al cui vertice per il Congo c’era Hugh Long, sia per quanto attiene alla chiarezza dei regolamenti di safety e security previsti dalla Farnesina. Ci sono poi molte perplessità attorno al ruolo dell’esercito regolare congolese (Fardc) e della Monusco, la forza di interposizione Onu odiata dalla popolazione locale che le rimprovera scarsa protezione e complicità in affari loschi, la quale, nel caso fosse stata istruita la pratica sicurezza in modo congruo, avrebbe ricoperto il ruolo di scorta armata. L’inchiesta congolose - Ma se con le inchieste italiana e interna del Pam qualche progresso è stato fatto e una minima verità accertata - ma solo per quanto attiene alle mancate cautele e alla scellerata predisposizione della missione - sul lato congolese si ha la sensazione di un percorso che si incaglia nelle giungle della burocrazia, della poca trasparenza, della mancata collaborazione e del caos che regna assoluto nel paese, in modo particolare nel Kivu e nell’Ituri, estremo lembo orientale, dove sono in azione circa 150 milizie irregolari. In Congo, a quanto riferiscono fonti interne alla procura e le carte sembrano confermare, i nostri investigatori sostanzialmente non sono mai entrati in partita. I carabinieri del Ros, che nei giorni successivi all’omicidio erano a Goma, la capitale del Nord Kivu, hanno fatto ritorno a casa senza il minimo risultato per mancanza di autorizzazioni. A ciò si aggiunge che alle due rogatorie inviate a maggio e settembre la procura di Roma non ha mai ricevuto risposta. Sono passati quasi 14 mesi da quel tragico 22 febbraio e gli interrogativi, piuttosto che dissiparsi, aumentano. Alle cerimonie organizzate in memoria dell’ambasciatore a un anno dal tragico evento a Limbiate, suo paese d’origine dove vivono tuttora i genitori, al di là delle commoventi testimonianze di parenti, amici e collaboratori portate presso il teatro della cittadina e davanti alla tomba, si respirava un’aria di impazienza: un anno dopo, regna il buio fitto riguardo mandanti, movente ed esecutori materiali. Le ipotesi della semplice rapina per estorcere qualche decina di migliaia di dollari, finita male, o di un tentativo di rapimento a scopo di riscatto, senza uno straccio di evidenza, creano, se possibile, maggiore disagio. Gli arresti - Le autorità congolesi a quanto risulta dagli atti e dalle dichiarazioni ufficiali hanno vantato nel primo anno di indagini tre serie di arresti. La prima è stata annunciata all’interno di una lunga intervista rilasciata ad Africa News dal presidente della Repubblica Democratica del Congo Felix Tshisekedi a maggio. “A un certo punto, abbiamo avuto alcuni sospettati che sono poi stati arrestati” ha detto al giornalista François Chignac, subito innescando agenzie di tutto il mondo che battevano la notizia della cattura degli organizzatori e degli esecutori dell’assassinio dell’ambasciatore italiano e della sua scorta. Peccato che si trattava di un gruppo di sbandati che sarebbero stati rilasciati di lì a poco perché assolutamente estranei ai fatti. A gennaio scorso, il comandante di polizia del Nord Kivu, generale Aba Van Ang, ha invece annunciato l’arresto di sei presunti componenti del commando che avrebbe progettato ed eseguito l’agguato del 22 febbraio. Secondo l’ufficiale i sei giovani erano parte di una banda armata denominata Aspirant a capo della quale ci sarebbe stato un settimo indiziato risultato latitante. La notizia, diramata a seguito di una conferenza stampa improvvisata dallo stesso Van Ang dal giardino della gendarmeria sul cui prato sedevano ammanettati e scalzi i sei arrestati, non confermata a livello politico da Kinshasa, ha fatto il giro del mondo. Ma dopo qualche timido entusiasmo, ha suscitato più dubbi che certezze: sono davvero quei sei ragazzi vestiti approssimativamente e buttati sul prato del posto di polizia, i componenti di una spietata banda che, secondo testimonianze incrociate, era dotata di armi sofisticate e si era accampata in attesa del convoglio dal pomeriggio del 20 febbraio 2021? Alla notizia degli arresti, comunicata in modo informale ai nostri inquirenti, l’ambasciata a Kinshasa si è attivata per chiedere informazioni mentre la procura di Roma ha avviato le proprie verifiche intenzionata, come riporta l’Ansa in una agenzia del 19 gennaio scorso, a “chiedere, per vie ufficiali, i verbali delle dichiarazioni rese dagli arrestati”. Che queste carte siano mai arrivate è tutto da dimostrare. Di certo non ve n’è traccia nel fascicolo anche perché, pochi giorni dopo - l’8 febbraio - il procuratore Colaiocco ha chiuso l’inchiesta. Il 28 febbraio scorso, infine, la polizia congolese ha dichiarato di aver fermato un gruppo di malviventi in azione nell’area di Goma. Secondo gli investigatori, fra questi, ci sarebbe un elemento della banda che avrebbe assalito il convoglio su cui viaggiavano Attanasio, Iacovacci e l’autista Milambo. Nella conferenza stampa di annuncio del nuovo arresto non si fa menzione di quale, tra i componenti del gruppetto, sia quello che avrebbe preso parte all’agguato. Anche in questo caso, da Kinshasa, silenzio assordante. Tutto, quindi, resta nel vago e le ipotesi avanzate a proposito del movente oscillano tra il sequestro con richiesta di un milione di dollari come riscatto, all’agguato a scopo di rapina per una somma di 50mila dollari. Di certo, rispetto alla prima operazione annunciata dal presidente Tshisekedi a maggio, queste di gennaio e febbraio, sembrano presentare elementi minimamente più probanti. Fonti interne della Farnesina assicurano la credibilità della pista imboccata dall’inizio dell’anno dagli inquirenti congolesi. Non sono pochi, invece, tra quelli che seguono il caso, a mantenere un buon livello di scetticismo corroborato anche dalla mancanza di una presa di posizione politica e del conseguente appoggio da parte di Kinshasa che, su un tema così delicato come la cattura degli assassini di un ambasciatore di uno stato europeo, continua a latitare. Gli altri arresti - Ma dalla lettura delle carte del fascicolo italiano, emerge la notizia di altri arresti eseguiti nelle ore successive al drammatico evento, di cui fino a oggi nessuno aveva mai parlato e che non hanno mai guadagnato la ribalta dell’annuncio ufficiale delle varie procure coinvolte nell’inchiesta né della politica. Eppure aprono uno squarcio su una vicenda su cui varrebbe la pena fare più luce. Come risulta da fonti vicinissime all’inchiesta congolese, infatti, immediatamente dopo l’agguato si era proceduto al fermo di alcune persone: elementi che avrebbero fornito ospitalità ai presunti esecutori, poi un uomo, effettivo dell’intelligence, che ha prelevato materiale dalle macchine su cui viaggiavano l’ambasciatore e il carabiniere, tra cui la valigetta di quest’ultimo, e infine una serie di persone prelevate dall’ospedale locale perché trovate con ferite da arma da fuoco. I feriti, ascoltati perché uno degli assalitori era stato visto fuggire con grosse perdite di sangue, sono stati poi rilasciati perché ricoverati da prima dell’attentato. Oltre a questa prima “retata”, sempre nella stessa giornata del 22 febbraio 2021 sono stati arrestati anche elementi delle Fardc, uno dei quali reo di aver rimosso senza giustificazione apparente un posto di blocco allestito a causa di ripetuti sequestri avvenuti proprio qualche settimana prima nel tratto di strada poi percorso dal convoglio. Elementi delle forze armate congolesi, inoltre, come sostenuto da testimoni attendibili e riportato dalle carte, sarebbero sospettati di essere in collegamento con le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FdlR) una milizia di etnia Hutu, in azione nell’area, tra i protagonisti del caos totale in cui versa la regione del Kivu del Nord in cui, dal maggio 2021, è in atto lo stato d’assedio che ha decretato il passaggio del potere esecutivo e giudiziario ai militari. Su tutti questi personaggi, arrestati o solo sospettati che fossero, già dal giorno dopo sembra essere calata una sorta di immunità che ha condotto al rilascio o allo stralcio. Come mai? I capi d’accusa, a quanto risulta, sarebbero stati almeno meritevoli di ulteriori indagini da parte degli inquirenti congolesi. Ma anche da parte degli italiani, una volta venuti a conoscenza di tutto qualche mese dopo l’agguato. Tanto più che le testimonianze depositate e a disposizione degli inquirenti contribuiscono a ricostruire un impianto attorno a movente e mandanti forse non immediatamente probabile, ma di certo degno di approfondimento. Le ipotesi avanzate dai testimoni e verbalizzate riporterebbero a un agguato organizzato nei minimi dettagli - il commando, come ampiamente verificato, si trovava in loco già due giorni prima e disponeva di molte armi alcune delle quali sofisticate - a cui avrebbero contribuito elementi deviati dell’esercito e dei servizi di polizia congolesi. A quale scopo? Per innescare, questo sostengono le fonti, una sorta di strategia della tensione, attribuire alle famigerate FdlR (che sono state subito tirate in ballo dalle autorità di Kinshasa) la paternità dell’azione omicida e contribuire così alla loro eradicazione definitiva dall’area date la penetrazione e la progressiva conquista di territorio conseguite dalle stesse. Che non si trattasse di tentativi di rapina o sequestro improvvisati, ma che ci fosse qualcosa di molto più grande dietro l’ideazione di un agguato ben preparato lo indicherebbe un dato segnalato nel fascicolo: poche ore prima del drammatico evento, un convoglio di operatori umanitari europei è transitato indisturbato nello stesso tratto di strada dove erano accampati da due giorni gli esecutori. Un ultimo elemento relativo alle ore e ai giorni immediatamente successivi che emerge dalle carte e che solleva dubbi è il fatto che la richiesta dei tabulati telefonici inoltrata dagli inquirenti congolesi per controllare i flussi dei militari sospetti o arrestati, sarebbe stata negata dai dirigenti delle aziende di telefonia mobile in modo del tutto irrituale. In ultima analisi, le persone che hanno riferito di questa serie di fatti alludono all’ipotesi di un possibile depistaggio a opera di livelli congolesi più alti. Gli elementi qui sopra descritti provengono da varie testimonianze di individui congolesi a vario titolo vicini all’inchiesta. È normale, probabilmente, mantenere tutte le cautele del caso, soprattutto a causa della situazione di anarchia pressoché totale che regna nell’area e della difficoltà di verifica. Alcune ricostruzioni, poi, rasentano la fantapolitica e risultano di difficile evidenza. Da qui a ignorarle del tutto, però, ci passa molto. C’è qualche elemento ulteriore intercorso nello svolgimento delle indagini che porta a escludere totalmente questa pista? Dalla lettura delle carte non sembra essercene traccia. Eppure la pista non è stata coltivata. Sul fronte politico, c’è poi un tema di grande rilievo che desta riflessione, l’atteggiamento del presidente Felix Tshisekedi e, più in generale, le relazioni tra l’Italia e la Repubblica Democratica del Congo. Dopo gli omicidi, il capo di stato africano è venuto in Italia due volte: ha incontrato in una visita ufficiale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, in occasione del G20 a Roma, il premier Mario Draghi. Fonti interne alla Farnesina riferiscono che in tutti e due i casi il presidente congolese ha affrontato con le nostre autorità la questione Attanasio-Iacovacci. Stando però a quanto dichiarato dai nostri inquirenti e riportato nel fascicolo della procura, l’inchiesta fatica a fare progressi per la pressoché totale assenza di collaborazione delle autorità congolesi. È possibile allora che in un anno di relazioni, visite e incontri qui da noi “improntati alle massime cordialità e cooperazione” non si sia riusciti a ottenere sostegno fattivo alle indagini? Un appoggio politico ai nostri inquirenti che lamentano, oltre alla mancanza di collaborazione, l’invio di due rogatorie senza il minimo esito? In uno di questi passaggi in Italia, il 2 settembre, Tshisekedi è stato ricevuto al Quirinale. Al colloquio era presente la viceministra degli Esteri Marina Sereni. Questo giornale, saputo da fonti congolesi di una probabile visita del presidente del Congo in Italia, ha provato a richiedere un’intervista tramite la nostra ambasciata. Agli inizi di agosto il ministro plenipotenziario Fabrizio Marcelli, in servizio a Kinshasa, rispondeva che la richiesta sarebbe stata inoltrata al gabinetto del presidente ma che ancora non si conosceva la data della visita. Meno di un mese dopo Tshisekedi era a Roma per una visita lampo che non lasciava spazio a incontri con altri esponenti del governo. La visita, nel frattempo, si tingeva di giallo. In una nota ufficiale della presidenza congolese, riportata il 2 settembre da Agenzia Nova, si parlava di un incontro “questa mattina in Vaticano con papa Francesco”, molto probabilmente mai avvenuto visto che non esiste alcun riscontro negli organi ufficiali della Santa Sede. Stati Uniti. Il più anziano condannato a morte del Texas chiede clemenza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 aprile 2022 Carl Wayne Buntion, 78 anni, 31 dei quali trascorsi nel braccio della morte del Texas, ha chiesto clemenza in vista dell’esecuzione, prevista il 21 aprile. I suoi difensori hanno chiesto al governatore Greg Abbott di commutare la condanna a morte in ergastolo, sostenendo che la giuria del processo venne indotta a ritenere che Buntion avrebbe costituito un futuro pericolo per altri detenuti e per il personale della prigione: dove peraltro è rimasto per oltre tre decenni commettendo solo tre infrazioni nessuna delle quali negli ultimi 23 anni. Buntion è stato condannato a morte nel 1991 per l’omicidio di un poliziotto. Non ha mai negato le sue responsabilità. È in attesa dell’esecuzione, nel braccio della morte, da 31 anni, 20 dei quali trascorsi in una cella d’isolamento per 23 ore al giorno.