Emergenza Covid-19 in cella: aggravio di pena da risarcire di Mauro Palma* L’Espresso, 10 aprile 2022 Riconoscere ai detenuti benefici aumentando i giorni di liberazione anticipata. Si è chiusa alla fine del mese di marzo la fase di emergenza pandemica. Due anni pesanti per tutte e tutti noi e ancor più pesanti per chi li ha passati ristretto in luogo di privazione della libertà. Nelle carceri italiane il Covid-19 è stata un’emergenza che si è sommata ad altre criticità, rendendo la quotidianità ancor più difficile da sostenere. È stato a tutti gli effetti un aggravio dell’afflizione della pena detentiva che è essenziale riconoscere. La pena, infatti, consiste nella privazione della libertà e ogni eventuale elemento aggiuntivo, se impropriamente inflitto, deve essere interrotto e perseguito, se invece motivato da circostanze e legalmente attuato, deve prevedere opportune compensazioni. Da qui la necessità di prevedere, per periodi trascorsi in particolari condizioni di maggiore afflittività, quali quelle vissute nell’ultimo biennio, un aumento dei giorni di liberazione anticipata previsti per i semestri, valutati positivamente dal magistrato di sorveglianza rispetto alla “partecipazione all’opera di rieducazione”. Partiamo col dire che in carcere l’isolamento sanitario è stato ed è ancor più difficoltoso a causa della situazione di affollamento che affligge le strutture del nostro Paese, in modo disuguale anche all’interno dello stesso Istituto e spesso con picchi di difficile vivibilità. Distanziare e separare le persone detenute ha significato l’utilizzo di aree dismesse e non adeguate, con tutti i disagi del caso. Tutto ha pesato enormemente sulle spalle del personale penitenziario - in modo particolare della Polizia penitenziaria - che si è dovuto sobbarcare una situazione di estremo disagio e difficoltà, soprattutto nelle fasi più severe del contagio: si pensi che al 30 gennaio 2022i detenuti positivi erano 4.060 su 54.372 (circa il 7,5 per cento). In più, l’emergenza sanitaria, oltre a limitare le occasioni di socialità, ha drasticamente ridotto i colloqui con i familiari nel corso dei due anni appena trascorsi. Occorre soffermarsi un attimo su questo punto: i colloqui in carcere sono la vita, un indispensabile momento di continuità con gli affetti e con tutto ciò che sta fuori dal carcere. Negarli significa infliggere al detenuto una pena aggiuntiva, anche se va dato atto della positività dell’impiego di smartphone e di altre ipotesi di collegamento visivo remoto che certamente dovrà continuare a esistere anche passato questo periodo. In ultimo, ma non per importanza, la pandemia ha reso vuoto il tempo dei detenuti e delle detenute. Sono mancati i volontari, spesso gli insegnanti, gli educatori; sono mancati i colloqui diretti con i magistrati di sorveglianza e il prosieguo dei progetti faticosamente avviati. Le figure che riempiono i corridoi del carcere e le giornate delle persone ristrette: quell’interscambio tra dentro e fuori fatto di corsi di formazione, momenti di confronto, arte, teatro, cultura. Le limitazioni dovute all’emergenza pandemica hanno innalzato muri invisibili che si sono sommati a quelli fisici e si sono rarefatte le essenze costituzionali del ruolo rieducativo delle pene, perdendo spesso anni di lavoro e di progressi. Il tempo vuoto è una condizione tanto odiosa quanto illegittima per chi si trova in carcere. Per questi due anni di aggravio dell’afflizione detentiva è dunque necessario riconoscere a chi ha sofferto carenze strutturali e di organico elementi di ristoro in termini di benefici. Questo tempo vuoto che i detenuti sono stati costretti a trascorre deve in qualche modo compensato, la proposta del Garante nazionale è quella di corrispondere un adeguato aumento dei giorni di liberazione anticipata. Ciò allevierà indirettamente anche il lavoro di chi in carcere ha continuato a operare in questo difficile periodo, proprio per la conseguente e pur limitata riduzione di numeri che potrà determinare. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Nel decreto Energia i fondi per le Rems: “Così si torna indietro sulla chiusura degli Opg” di Niccolò Carratelli La Stampa, 10 aprile 2022 Cosa c’entrano gli ex ospedali psichiatrici giudiziari con le bollette elettriche? Bisognerebbe chiederlo a chi ha deciso di inserire l’articolo 32 nel decreto Energia, ora all’esame della commissione Industria della Camera. Perché fin dal titolo appare chiaro che non ha nulla a che fare con il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas: “Disposizioni urgenti volte all’implementazione della capacità di accoglienza delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. Sono le cosiddette Rems, strutture detentive a gestione sanitaria, destinate a ospitare autori di reati giudicati incapaci di intendere e di volere, ma ritenuti socialmente pericolosi. L’articolo in questione autorizza una spesa di 2 milioni e 600 mila euro all’anno, fino al 2024, per assicurare il funzionamento di una Rems a Calice al Cornoviglio (La Spezia). Inoltre prevede, a partire dal 2025, che il limite di spesa corrente per le Rems possa essere incrementato “in relazione agli eventuali maggiori fabbisogni emergenti”. Tanto basta per mettere in allarme alcuni deputati e tutti gli addetti ai lavori, che temono si tratti di un passo indietro rispetto alla storica decisione di chiudere i manicomi criminali, avvenuta con la legge 81 del 2014: “Una grande riforma di civiltà, che non può essere manomessa con un sotterfugio o una manovra di palazzo”, avverte Stefano Cecconi, rappresentante del comitato “Stop Opg”. La riforma tradita - L’obiettivo, fin qui disatteso, era quello di individuare percorsi alternativi alla detenzione per le persone con problemi di salute mentale, prevedendo l’assegnazione a una Rems solo come extrema ratio. Anche la Corte costituzionale si è espressa in questa direzione, con una sentenza di pochi mesi fa, in cui si raccomanda “un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio”, indispensabili per offrire un’alternativa. In realtà, nel nostro Paese continua ad esserci una distorta applicazione della legge 81 e un’eccessiva domanda di internamento nelle Rems, tanto che in alcune regioni si sono create liste d’attesa per l’ospitalità, più o meno lunghe. È il caso della Sicilia, della Calabria, della Campania, della Puglia e del Lazio, nelle quali si concentra il 78% del fenomeno. Non della Liguria, dove c’è già una Rems funzionante a Genova e non c’è una vera urgenza di aprirne un’altra. Ma quella di Calice al Cornoviglio ormai è stata costruita ed è pronta da almeno tre anni, anche se non ancora attivata, quindi è complicato ripensarci. Tra l’altro, nella prima versione del decreto era stata definita “sperimentale”, ma di fronte alle proteste il governo ha poi deciso di eliminare questo termine, che si prestava a pericolose interpretazioni. “Bisogna capire se l’obiettivo è usarla come struttura per detenuti non liguri, visto che in Liguria non c’è lista d’attesa, violando il principio di territorialità - spiega Franco Corleone, già commissario unico nazionale per il superamento degli Opg - o magari la si vuole usare per ospitare migranti stranieri, in una logica di ghettizzazione”. Un pericoloso precedente - Insomma, il caso ligure può rappresentare un precedente e “chi come me si è battuto per chiudere gli Opg, non può accettare in silenzio il rischio che vengano riaperti in modo surrettizio”, attacca Corleone, sottolineando il mancato coinvolgimento dell’”Organismo di coordinamento relativo al processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Una commissione di esperti, di cui lui stesso fa parte, istituita dal ministro della Salute Roberto Speranza lo scorso settembre e insediatasi a dicembre: “Non ci hanno minimamente consultato ed è molto grave”, dice Corleone. Ma anche in Parlamento c’è chi chiede spiegazioni e modifiche all’articolo incriminato del decreto Energia. “È una norma che non può e non deve stare in questo provvedimento ed è potenzialmente scardinante la riforma del 2014 - avverte Riccardo Magi di +Europa - si apre un varco per consentire l’avvio di nuove strutture, anche in altre regioni”. Con i colleghi D’Elia e De Filippo del Pd e Fornaro e Timbro di LeU, Magi ha presentato alcuni emendamenti per cambiare la destinazione dei 2 milioni e 600 mila euro stanziati e usarli per il “rafforzamento dei servizi e delle strutture dei Dipartimenti di salute mentale e per assicurare misure non detentive per i pazienti destinatari di misure di sicurezza e la presa in carico di pazienti provenienti dalle Rems”. Insomma, meglio puntare sul potenziamento delle strutture psichiatriche sul territorio o sull’assistenza in libertà vigilata. Il governo tira dritto - Un’impostazione esattamente opposta a quella suggerita dal decreto. Che il ministero della Giustizia ha confermato, dando parere negativo agli emendamenti in questione, perché ritenuti “in contrasto con la ratio della norma, finalizzata a risolvere il problema dell’insufficienza di posti letto in Rems - si legge. In particolare, si segnala che un crescente numero di provvedimenti giurisdizionali applicativi della misura di sicurezza detentiva in Rems, per la carenza di posti letto, non trova oggi esecuzione, con gravi conseguenze sia per la mancata erogazione della dovuta assistenza sanitaria in favore dei pazienti psichiatrici autori di reato, sia in termini di allarme sociale e di salvaguardia dell’incolumità pubblica e privata”. Un parere che certo non rassicura chi teme ci sia l’intenzione di aumentare il numero delle Rems, non solo in Liguria, tradendo così lo spirito della riforma del 2014. A maggior ragione perché, con la guerra e il difficile quadro economico, il decreto Energia dovrà procedere spedito verso l’approvazione, probabilmente con la richiesta di fiducia da parte del governo e nessun’altra possibilità di modificare il testo. Carcere, “inumano e degradante” il wc nella stanza di detenzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2022 La Cassazione, sentenza 13660 depositata oggi, ha giudicato inammissibile il ricorso del ministero della Giustizia contro la riduzione di pena disposta dal Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila. La Cassazione boccia come “inumano e degradante” il wc all’interno della stanza detentiva affermando che la separazione assicurata da un muretto alto un metro e mezzo non cambia le cose, né sotto il profilo della privacy né della salubrità. Scatta dunque il diritto al ristoro per il detenuto che, nel caso specifico, si è tradotto in un ulteriore sconto di pena di 244 giorni, per i periodi trascorsi presso gli istituti di Rebibbia a Roma e di Bari e Foggia. Sì perché in Italia sono ancora molte le celle che versano in queste condizioni, secondo un report di Antigone il 5%. La Prima Sezione penale, sentenza 13660 depositata oggi, ha così giudicato inammissibile il ricorso del ministero della Giustizia contro la riduzione di pena disposta dal Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila. Secondo Via Arenula, e viene da chiedersi come il ministero di Giustizia possa ancora sostenere simili posizioni, il ristoro (rispetto alla carcerazione nell’istituto di Rebibbia) è stato concesso “senza valutare la situazione detentiva complessiva ed attribuendo rilevanza decisiva alla presenza nella stanza detentiva di un WC, trascurando tuttavia che esso era separato dall’ambiente preposto all’espletamento delle funzioni di vita quotidiana da un muro di altezza pari a metri 1,50, quindi idoneo ad evitare che l’uso avvenisse alla vista di terze persone, così salvaguardando la riservatezza”. Per la Terza Sezione penale di Piazza Cavour all’opposto il provvedimento impugnato ha fornito una adeguata giustificazione sul punto contestato dal Ministero osservando che la “presenza del WC all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione aveva inciso sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente”. Riguardo poi all’altro motivo di ricorso secondo il quale vi sarebbe stata una errata applicazione del principio dell’onere della prova, in quanto il Tribunale di sorveglianza, con riferimento ai luoghi di detenzione di Bari e Foggia, “ha convalidato, sic et sempliciter, le allegazioni del detenuto senza considerare l’incolpevole impossibilità dell’amministrazione di reperire i dati istruttori” e senza “esperire vie istruttorie alternative”, la Suprema corte ricorda che “il Tribunale ha fatto buon governo del consolidato principio di diritto, secondo cui, nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen., le allegazioni dell’istante sul fatto costitutivo della lesione, addotte a fondamento di una domanda sufficientemente determinata, e riscontrata sotto il profilo dell’esistenza e della decorrenza della detenzione, sono assistite da una presunzione relativa di veridicità del contenuto, per effetto della quale incombe sull’Amministrazione penitenziaria l’onere di fornire idonei elementi di valutazione”. Dunque, a fronte della carenza di informazioni richieste all’Amministrazione penitenziaria - che o non aveva risposto o si era dichiarata impossibilitata a fornirle - il Tribunale di sorveglianza ha legittimamente considerato fondate le allegazioni del detenuto. Come funziona la giustizia minorile in Italia di Laura Carrer ilpost.it, 10 aprile 2022 Cosa sono gli Istituti penali per minorenni e le comunità, quanti ragazzi e ragazze ospitano, e che problemi hanno. Fin dal 1988 il sistema penale italiano prevede gli Istituti penali per minorenni, strutture carcerarie non troppo diverse da quelle per adulti, che comprendono stanze per due o tre persone e spazi comuni dedicati alle attività di formazione o di svago. In Italia sono 17, di cui uno esclusivamente femminile, e sono riservati a chi ha commesso un reato prima del compimento del 18esimo anno di età. A giudicare i minori, solitamente per accuse relative a reati contro il patrimonio (furto, rapina), contro la persona (lesioni volontarie) o all’uso di sostanze stupefacenti, sono i Tribunali per i minorenni. Agiscono in modo simile a quelli ordinari per adulti, con la sostanziale differenza che sono organi collegiali: tra i giudici che si occupano del procedimento penale a carico di minorenni non ci sono solo magistrati, ma anche professionisti con una formazione socio-pedagogica. Secondo i dati del dipartimento della Giustizia minorile del ministero della Giustizia relativi all’inizio del 2022, i minori presenti negli Istituti penali per minorenni sono 316: dai tre di Pontremoli in provincia di Massa-Carrara, fino ai 38 di Torino, passando per Milano (31), Bologna (34), Napoli (37) e Catania (24). L’Istituto penale minorile di Milano “Beccaria” si trova nella periferia est di Milano, a Bisceglie, ed è da sempre riconosciuto come uno degli istituti modello italiani. Negli ultimi anni sembra però aver perso questo primato a causa di una lunga ristrutturazione che ha impedito di usare un’intera sezione della struttura. Come riferisce nell’ultimo rapporto “Ragazzi Dentro” l’Associazione Antigone, che si occupa da anni di documentare i problemi della giustizia minorile italiana, le carceri per minori sono strutture in condizioni generalmente migliori rispetto a quelle per adulti. Il Beccaria di Milano, ad esempio, è composto da diverse sezioni nelle quali sono distribuite celle che ospitano da una a tre persone, e che comprendono i servizi igienici. Gli spazi comuni (una mensa, la scuola) sono abbastanza spogli ma funzionali e nel giardino esterno sono presenti un campo da calcio e uno da rugby. Nel gennaio di quest’anno la popolazione carceraria minorile era senza grosse distinzioni italiana e straniera e rappresentata per la maggior parte da maschi. Nel 2021 le ragazze o giovani donne entrate all’interno degli istituti penali minorili sono state in tutto 64, di cui più della metà straniere. La popolazione carceraria femminile è una minoranza anche tra gli adulti: poco più del 4% di quella totale nel 2021. I minorenni nella fascia di età tra i 14 e i 17 anni sono solo una parte di chi è detenuto (131 persone al gennaio 2022). Nella recente legge n. 117 del 2014 si è infatti innalzato dai 21 ai 25 anni l’età di permanenza all’interno del circuito penale minorile per quei soggetti che hanno commesso un reato prima dei 18 anni. I ragazzi tra i 18 e i 24 anni ospitati negli Istituti penali per minorenni sono 185. A differenza di quanto accade agli adulti, i minori incensurati o che non commettono reati gravi (la maggior parte) non vengono condannati e incarcerati. Spesso finiscono negli Istituti penali minorili in custodia cautelare per alcuni mesi, in attesa di un processo. Al dicembre 2021, secondo il rapporto di Associazione Antigone, il 75,8% dei minori che sono entrati nelle strutture carcerarie erano proprio in carcerazione preventiva. Ma il sistema prevede che il carcere sia generalmente solo un momento iniziale del percorso di riabilitazione del minore, per via del ruolo attribuito alle comunità, dove nel corso del 2021 sono entrati 1.544 ragazzi provenienti dagli Istituti minorili, di cui la metà in custodia cautelare. Spesso invece i minori detenuti finiscono in comunità perché il giudice decide di sospendere il procedimento a loro carico, cercando insieme ai servizi sociali e agli operatori delle comunità di realizzare un progetto educativo di “messa alla prova”. Sempre secondo i dati al 2021, sono stati 325 i ragazzi che sono entrati in comunità nell’ambito di questo provvedimento. La “messa alla prova” è una misura alternativa alla condizione di costrizione imposta dal carcere, che dovrebbe favorire la riflessione del minore su quanto commesso. Dal punto di vista giuridico prevede lo svolgimento di alcune attività che permettano di osservare il comportamento del minore, verificato periodicamente. Nel caso in cui il percorso di messa alla prova risulti positivo, il reato commesso è definito estinto e non viene riportato nel Casellario giudiziale del minore, quello che spesso è indicato come fedina penale. Sara Bigatti, coordinatrice pedagogica della Comunità Arizona nel quartiere di Gratosoglio a Milano - che al momento ospita dieci ragazzi di cui tre in custodia cautelare e uno in messa alla prova - spiega che i progetti educativi che gli operatori sottopongono al Tribunale dei minori sono personalizzati. “È un percorso di ricostruzione dell’identità del ragazzo, un lavoro importante sulla disfunzionalità della devianza, che parte dalle motivazioni che hanno portato al comportamento deviante e che rimette al centro i desideri e le prospettive di vita futura del minore”, dice. I motivi per cui i ragazzi finiscono in carcere e poi in comunità, per la maggior parte dopo aver commesso furti o rapine, sono spesso riconducibili alla situazione familiare nella quale sono nati e cresciuti, “per un senso di ribellione che sviluppano a causa di aspettative troppo stringenti da parte dei loro genitori” dice Bigatti. Se infatti nel primo decennio degli anni Duemila i ragazzi che arrivavano alla comunità Arizona erano perlopiù minori stranieri non accompagnati, “ora la situazione è molto diversa: abbiamo italiani e stranieri di seconda generazione, che fondamentalmente vivono le stesse problematiche. Chi è figlio di immigrati sente addosso la pressione di rigare dritto perché i suoi genitori hanno fatto tanta fatica per integrarsi, chi è italiano vive male le aspettative tipiche di molti genitori con figli adolescenti” spiega Bigatti. Secondo lei, però, le motivazioni che portano i minori a commettere un reato si possono collegare anche alla necessità di “corrispondere agli standard che la società impone e ai quali la famiglia non può far fronte per vari motivi”. Le famiglie, se lo desiderano, hanno un ruolo anche nel percorso dei ragazzi nelle comunità, che “comprende percorsi scolastici, di tirocinio lavorativo, un supporto psicologico nonché un lavoro ad hoc, se necessario, in merito alle sostanze stupefacenti”. Le famiglie possono incontrare i ragazzi dopo un certo periodo dall’ingresso in comunità, prima nel giorno di Natale o Pasqua, oppure per festeggiare compleanni e fare passeggiate al parco. A volte però le famiglie non sono così collaborative e “può capitare che non vengano a prendere i loro figli. Possono esserci motivazioni economiche che non permettono loro di viaggiare fino alla comunità, come le spese per il casello autostradale o la benzina, mentre con altre famiglie è ancora necessario instaurare una relazione costruttiva, che non si basi sulla colpevolizzazione del ragazzo per ciò che ha commesso” dice Bigatti. Quella delle visite e del contatto con il mondo esterno e la famiglia è una situazione che durante le prime ondate di pandemia è peggiorata sensibilmente. Come riportato da Associazione Antigone poche sono state le strutture che hanno garantito il diritto a visite in presenza sufficientemente prolungate, e la maggioranza ha attivato alcune misure per poi abbandonarle poco dopo per mancanza di spazi idonei. Nella comunità educativa Arizona si svolgono molte attività che cercano di preparare il minore che dovrà di lì a poco tornare nella società, sia di formazione sia di svago, dalla coltivazione dell’orto alla ciclofficina, dal laboratorio di cucina a quello di hip hop. I progetti di messa alla prova sono sin da subito condivisi dai tribunali e quindi la probabilità che non vadano a buon fine è molto bassa. Ma non è comunque semplice: “la maggior parte dei ragazzi rispetta le prescrizioni del Tribunale e prende una direzione diversa mentre altri, seppur capaci di assolvere alle richieste del giudice, fanno più fatica a modificare con la dovuta consapevolezza alcuni comportamenti che hanno portato alla devianza. Per questo il lavoro è molto, ma nella nostra esperienza è spesso positivo” dice Bigatti. La possibilità di garantire ai minori una vera alternativa alla detenzione si scontra però con un’annosa questione relativa alla giustizia penale italiana, il cosiddetto codice Rocco, il corpus di norme stilato nel 1930 dal governo Mussolini e ancora tra le fonti principali del diritto penale in Italia. Mentre da una parte si cerca di affermare il ruolo pedagogico ed educativo del carcere nel cambio delle sorti di un minore, l’impostazione del codice Rocco è più repressiva e retrograda: Antigone auspica per questo una riflessione su un nuovo codice penale per i minori, che contenga reati più specifici e sia basato su sanzioni riparative. Secondo Antigone potrebbe essere un modo di promuovere una cultura differente sul tema della giustizia minorile, che prediliga l’educazione alla punizione. Giustizia, stop alle liti tra i partiti: raggiunto “ampio” accordo nella maggioranza di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 10 aprile 2022 Chiuso l’accordo definitivo sulla separazione delle funzioni e sulla legge elettorale: saranno sorteggiati i distretti di Corte di Appello da abbinare per comporre i collegi. La Lega chiede libertà di voto sugli emendamenti relativi ai quesiti referendari. Contrario il Pd. Raggiunto l’accordo sul contenuto della riforma del Csm. Intesa sulla separazione delle funzioni e sulla legge elettorale con il sorteggio dei collegi. È durato oltre due ore il vertice sulla giustizia che è ripreso a mezzogiorno dopo lo stop imposto ieri sera da Matteo Salvini. Schiarita e contatti febbrili nella notte, e anche stamattina, soprattutto tra Lega e Forza Italia. Già dopo la prima mezz’ora dall’inizio del nuovo vertice online tra la Guardasigilli Marta Cartabia e le forze politiche della maggioranza, erano stati raggiunti i due significativi risultati. Da registrare innanzitutto che all’incontro è stato di nuovo presente, per Italia viva, il deputato e tuttora magistrato in aspettativa Cosimo Maria Ferri, che ieri aveva abbandonato la riunione, sostenendo che Iv avrebbe comunque preteso di votare i suoi emendamenti in commissione e in aula, perché cosidera la riforma, così com’è adesso, un flop. Ma evidenti ordini dall’alto riportano Iv al tavolo con la Cartabia. Ugualmente è tornata la Lega, dopo altrettanti contatti intensi tra la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno e la stessa Cartabia. Mentre anche Forza Italia, con il capogruppo Pierantonio Zanettin, pur con molte perplessità tecniche sulla legge elettorale, ritiene che sia necessario andare avanti, in vista dell’aula della Camera fissata per il 19 aprile. E che altrimenti sarebbe a rischio. Definitivo l’accordo sulla separazione delle funzioni tra giudice e pubblico ministero. Sarà possibile un solo passaggio da una funzione all’altra, entro i primi dieci anni di carriera. E libertà sempre invece di passare dal penale al civile. Si è sbloccata anche la trattativa sulla legge elettorale per eleggere i componenti togati del futuro Csm (si voterà a luglio per rinnovare quello attuale in scadenza). Verranno sorteggiati i distretti di Corte d’Appello da abbinare per comporre i collegi. Solo una nuova frizione tra la Lega e il Pd. Perché il capogruppo del Carroccio Roberto Turri chiede piena libertà di voto sui propri emendamenti connessi al prossimo referendum sui quesiti della giustizia che si terrà il 12 giugno. Parliamo soprattutto di separazione delle funzioni e di responsabilità civile. Ma su questo c’è stata una netta contrarietà del Pd che, per bocca della responsabile Giustizia Anna Rossomando, ha contestato quella che, in aula, potrà apparire come una spaccatura della maggioranza. “Se tutti i partiti pretendono di votare sulle proprie peculiarità rischia di saltare la stessa maggioranza”, dice il Pd. Ma la Lega insiste nel pretendere la libertà di voto per una coerenza con le proprie battaglie e con la raccolta di firme che è durata molti mesi. Ad annunciare la chiusura dell’accordo è il sottosegretario alla Giustizia, di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto. Mentre a reagire per primo è Enrico Costa di Azione con un tweet: “Accordo fatto su riforma del Csm. Passano le nostre proposte. Fascicolo di performance del magistrato, sanzioni per chi viola presunzione d’innocenza e per chi arresta ingiustamente, stop alle porte girevoli, giro di vite sui fuori ruolo, un solo passaggio di funzioni in carriera”. Ma proprio sul fascicolo della singola toga, da via Arenula, anche in replica all’intervista su Repubblica del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia - “è uno strumento di controllo indebito che potrà intimorire i magistrati, inducendoli a essere conformisti e indifferenti alle istanze di giustizia” - le fonti vicine alla ministra Cartabia ci tengono a ribadire che il fascicolo del magistrato già esiste, per le valutazioni che si tengono ogni quattro anni, ma che non è assolutamente nelle mani del ministro. Primo accordo sul Csm, Lega e renziani frenano. Protesta dei magistrati: così la riforma peggiora Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 10 aprile 2022 L’ira del Pd: Carroccio e Iv ritirino gli emendamenti. L’ultimo appello al “senso di responsabilità”. L’ennesimo richiamo alle parole del capo dello Stato “sulla necessità e l’urgenza della riforma” della giustizia. Infine la cauta constatazione della ministra, Marta Cartabia: “Sui contenuti c’è accordo”. Quasi insperata alla vigilia, ieri mattina l’intesa sulla giustizia è stata raggiunta. Dopo lo stop chiesto dal M5S alle “porte girevoli” con la politica per i magistrati ordinari che, eletti, non torneranno più indietro, erano tre i punti critici dell’accordo. No alla separazione chiesta dal centrodestra, ma limiti al passaggio di funzioni: uno solo tra pm e giudice e viceversa e solo nei primi io anni (nel civile anche dopo). No alla responsabilità diretta dei giudici chiesta anche da Azione, ma via libera alla “pagella” più analitica del magistrato: il fascicolo delle performance su quanti e quali provvedimenti ha preso in un anno, l’esito delle misure cautelari adottate. Niente sorteggio per i candidati al Csm, chiesto dal centrodestra per depotenziare le correnti, ma sì all’estrazione delle Corte d’Appello per formare i collegi elettorali. Un accordo che consente alla ministra Marta Cartabia di guardare con qualche speranza in più all’ultimo miglio della riforma. E ai partiti che più l’avevano osteggiata di rivendicare ciascuno un successo. Inclusa Forza Italia, che con Zanettin parla di “traguardi storici raggiunti”. Mentre Silvio Berlusconi mette in guardia il governo dal porre “la fiducia su giustizia e fisco”. Ipotesi già smentita dal premier Mario Draghi, nel primo caso, ma non nel secondo che Berlusconi accomuna in un solo destino. Ma l’Associazione nazionale magistrati protesta: “L’accordo peggiora sensibilmente un impianto già denso di criticità”. Con il segretario Salvatore Casciaro che accusa: “Il disegno complessivo mi pare sia quello di trasformare i magistrati in burocrati, un’impostazione figlia di un grave errore di prospettiva. Più che una riforma mi sembra una regressione culturale”. E sui limiti al cambio delle funzioni aggiunge: “E una separazione delle carriere camuffata”. Il fascicolo del pm poi viene de-’ finito una “schedatura”. Dal ministero precisano che “è già previsto dalle circolari del Csm” e segnala solo “un andamento gravemente anomalo che sia spia per eventuali ulteriori accertamenti ferma l’insindacabilità del merito”. Ma il “no” dell’Anm è netto. Immediata la replica di Matteo Salvini, che rilancia i referendum con toni durissimi: “La casta minoritaria dei magistrati non può continuare a condizionare la vita, la politica, l’economia di un intero Paese. L’occasione storica di cambiare gli italiani ce l’avranno domenica 12 giugno”. A sbloccare le ultime resistenze della Lega la rassicurazione della Cartabia che il testo definitivo non scongiurerà i quesiti referendari. Da lì “passa la strada del vero cambiamento”, evidenzia Giulia Bongiorno, responsabile giustizia del Carroccio, precisando il sostegno alla ministra. Meno irto di ostacoli di prima appare dunque il ritorno in Commissione giustizia lunedì con gli emendamenti riformulati. “Ora avanti con i lavori della commissione per poter rispettare i tempi previsti”, esorta il sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Ma nulla è scontato. Anzi. Il thrilling ci sarà fino all’ultimo. E il Pd lo evidenzia: “Italia viva e Lega, ancora non ritirano gli emendamenti sui quali c’è parere contrario del governo e resta l’ambiguità su come voteranno in commissione”, dice Anna Rossomando. E Walter Verini rincara: “La riforma tutela principi costituzionali, come quelli - intoccabili - dell’indipendenza della magistratura”. Sarebbe “incomprensibile che Lega e Iv non sostengano pienamente e con lealtà i contenuti dell’accordo, a partire dai voti di Commissione di lunedì”. Soddisfatti invece per lo stop alle “porte girevoli” i Cinque Stelle. Ed Enrico Costa (Azione) rivendica: “Tutti i passi avanti erano contenuti anche in nostri emendamenti”. Csm, passa la riforma anti-Sistema e le toghe si dicono pronte allo sciopero di Valentina Stella Il Dubbio, 10 aprile 2022 Sulla separazione delle funzioni e sulla legge elettorale i partiti hanno trovato una quadra anche se Italia Viva e Lega non hanno ancora sciolto la riserva. A dare il lieto annuncio dell’accordo sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario ci ha pensato il Sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto: “Nella riunione di maggioranza è stato raggiunto un ampio accordo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Esprimo soddisfazione per il maturo atteggiamento tenuto dai gruppi, sotto la regia della ministra Cartabia. Ora avanti con i lavori della Commissione Giustizia per poter rispettare i tempi previsti”. La riunione convocata dalla Guardasigilli per stamattina alle 12 da remoto, dopo la fumata nera di ieri, è terminata alle 14 e ha segnato dunque significativi passi avanti sulla strada della trattativa che ieri sembrava essersi arenata per i veti di Forza Italia e Lega. Quanto emerso non piace alla magistratura che si sente impaurita e teme una forte gerarchizzazione delle toghe. Non a caso sono pronti addirittura a scioperare. Ecco alcuni punti dell’intesa. Separazione delle funzioni tra giudice e pubblico ministero: sarà possibile solo una volta nella carriera di un magistrato cambiare funzioni da giudice a pm e viceversa e la scelta andrà fatta entro un arco temporale di 10 anni. L’accordo prevede che i 10 anni entro i quali un magistrato potrà cambiare funzioni decorrono dall’assegnazione della prima sede. Legge elettorale per il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura: è previsto il sorteggio delle Corti d’appello per andare a formare i collegi elettorali. Il sistema resta maggioritario binominale con un correttivo proporzionale, come richiesto dal Partito Democratico. Porte girevoli: chi deciderà di fare politica non potrà più indossare la toga. A tutti i magistrati, compresi quelli amministrativi e contabili, sarà estesa l’impossibilità di rientrare nelle funzioni dopo aver svolto incarichi elettivi o di governo. Le reazioni “Abbiamo definito un accordo di maggioranza sul testo della riforma del Csm. Valutazioni puntuali delle attività dei magistrati con il fascicolo di performance, rigoroso rispetto della presunzione d’innocenza, sospensione dalle funzioni per il Pm che chiede arresti omettendo di allegare elementi rilevanti per la decisione, stop alle porte girevoli, giro di vite sui fuori ruolo, un solo passaggio di funzioni in carriera. Tanti passi avanti contenuti negli emendamenti di Azione, che ancora una volta, sulla giustizia è decisiva”: così Enrico Costa, vice segretario di Azione nel commentare il vertice con la ministra Cartabia. Esulta anche il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin: “Nell’accordo raggiunto oggi, passano due obiettivi storici, ultraventennali, di Forza Italia. Per la prima volta facciamo una riforma non dettata da Anm ma dalla volontà politica”. I temi su cui Forza Italia può registrare dei risultati sono sulle porte girevoli “bloccate per i magistrati che fanno politica: non torneranno più a svolgere ruoli nella giurisdizione” e la separazione delle funzioni, con un solo passaggio dalla magistratura requirente a quella giudicante, e viceversa e solo nei primi anni della carriera. Soddisfatto anche il Movimento Cinque Stelle che parla attraverso l’onorevole Valentina D’Orso, deputata in commissione Giustizia e vicecapogruppo alla Camera: “Al termine degli incontri con il ministro della Giustizia Marta Cartabia registriamo con soddisfazione l’accordo sulle cosiddette ‘porte girevoli’ tra politica e magistratura: chi deciderà di fare politica non potrà più indossare la toga. Esattamente come avevamo previsto già nel progetto di riforma Bonafede. Grazie al nostro impegno, estenderemo a tutti i magistrati, compresi quelli amministrativi e contabili, l’impossibilità di rientrare nelle funzioni dopo aver svolto incarichi elettivi o di governo. È un risultato a lungo atteso, che conferma il nostro impegno -conclude l’esponente M5S- per una vera indipendenza della magistratura, contro tutte le storture che il sistema ha generato in tutti questi anni”. Secondo la responsabile Giustizia del Pd, Anna Rossomando, restano però dei problemi. “Siamo a un passo dal completamento del percorso per arrivare all’approvazione di un’importante riforma del Csm. È stata raggiunta un’intesa, ma un grande nodo politico resta ancora aperto: due forze politiche di maggioranza, Italia Viva e Lega, ancora non ritirano gli emendamenti sui quali c’è parere contrario del governo e resta ambiguità su come voteranno in commissione. Questo non è accettabile”. “Italia Viva ha partecipato alla riunione con il ministro ma abbiamo ribadito che i nostri emendamenti per ora restano. Bisogna verificare le riformulazioni. Siamo quindi ancora in stand by: Iv vuole discutere la sua posizione sia in Commissione che in Aula”. Così il deputato di Iv Catello Vitiello che oggi ha preso parte, assieme a Cosimo Ferri, alla riunione con la Guardasigilli. Per il deputato di Leu, Federico Conte “L’accordo raggiunto oggi tra la maggioranza e la Ministra Cartabia è il punto di equilibrio più avanzato. Nessuno si può assumere il rischio di farlo saltare. Sarebbe da irresponsabili”. Intanto il Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, in una intervista rilasciata ieri a Repubblica non esclude lo sciopero delle toghe: “Mi auguro fortemente che la magistratura non sia costretta a indirne uno come non succedeva dai tempi del governo Berlusconi”. E ha aggiunto: “Un sistema democratico ha bisogno di una magistratura libera e non impaurita. Spero ci sia ancora tempo per correggere le storture di questa riforma”. Il parlamentino del Csm si riunirà il 19 aprile. Vedremo se quel giorno anche la riforma arriverà nell’aula della Camera. Le riforme della giustizia non devono essere una forma di rivincita sulla magistratura di Glauco Giostra Il Domani, 10 aprile 2022 Una gestazione travagliata quella delle riforme in materia di giustizia. Non poteva essere altrimenti nelle condizioni date. Un governo che si avvale del sostegno di forze con opposte idealità non può non incontrare insormontabili difficoltà a promuovere un rinnovamento in grado di restituire alla giustizia razionalità e credibilità. La necessità di provvedere comunque per ottenere i finanziamenti dell’Europa può aver funzionato da collante, costretto al compromesso. Tuttavia per la giustizia in genere, e penale in ispecie, non basta - come spesso avviene per le scelte in materia economica o sociale - trovare una linea mediana tra posizioni divaricate, concedendo qualcosa sia all’una sia all’altra delle opposte pretese. La prescrizione - Così facendo il sistema giustizia rischia di perdere coerenza e funzionalità. O, peggio ancora, di sommare gli errori di entrambi i poli dialettici, come talvolta è infatti accaduto. Pensiamo, ad esempio, all’intervenuta riforma della prescrizione, che resta un’offesa alla retina del giurista: i Cinque stelle volevano che la prescrizione si arrestasse al primo grado? Accontentati! Gli altri partiti della maggioranza pretendevano che rimanesse comunque una dead line temporale per i gradi successivi del processo? Accontentati! È bastato estrarre dal cilindro l’improcedibilità, che, come saracinesca temporale, è una sorta di prescrizione mutato nomine. Lo scontro politico è superato, ma si è lasciato alle spalle - per l’implausibile giustapposizione sequenziale di due istituti di natura e implicazioni diverse - un sistema in difficoltà di senso, che non tarderà a produrre inaccettabili disparità di conseguenze. Smania normalizzatrice - L’altro piano inclinato, su cui rischia di scivolare la pur necessaria e urgente azione riformatrice, è quello costituito dalla malcelata tendenza revanscista di certa politica. Questa smania normalizzatrice, pur se nei confronti di un potere che tanto ha mancato, è foriera di soluzioni emotive che poi, trascorso il tempo dell’indignazione, restano a sfregiare il sistema. Trent’anni fa, quando la politica era investita da un diffuso discredito e aleggiava l’idea che soltanto la magistratura potesse garantire al paese magnifiche sorti e progressive, a furor di popolo - un popolo “giudiziarizzato” - venne tolto ai parlamentari l’abusato scudo dell’autorizzazione a procedere e venne umiliata la Costituzione inserendo, a mo’ di parziale compensazione, la “giuridicolaggine” dell’autorizzazione a intercettare: un’autorizzazione che l’autorità giudiziaria deve richiedere a centinaia di colleghi del parlamentare prima di sottoporlo al controllo “occulto” delle sue conversazioni. Un atto “segreto con preavviso”. Rimedi peggiori del male - Sarebbe importante, invece, che nel mettere mano a un settore vitale e sensibilissimo, quale è la funzione giurisdizionale, il legislatore avesse per questa funzione il rispetto che alcuni dei suoi rappresentanti non hanno mostrato di avere. Altrimenti, si rischia di introdurre, pur sulla scia di una fondata indignazione, rimedi peggiori del male da curare. È, ad esempio, una politica che intende maramaldeggiare con una magistratura fortemente screditata nell’immaginario collettivo, quella che vorrebbe imporre il sorteggio per designare i componenti togati del Csm. Un’umiliazione gratuita, disfunzionale e di assai dubbia costituzionalità. Di più: un inquietante precedente. Ove dovessimo rinunciare alle regole tutte le volte che ne viene fatto cattivo uso, la stessa democrazia vacillerebbe. Persino i nostri vertici istituzionali risultano talvolta nominati a seguito di mercanteggiamenti degni di un suk, ma a nessuno è ancora venuto in mente di demandare alla sorte la loro scelta. Non accetteremmo di affidare al caso neppure la nomina del sindaco di un piccolo comune. Soltanto se si saprà intervenire con fermezza e con misura, la magistratura potrà gradualmente recuperare quella credibilità sociale di cui non solo essa, ma la democrazia ha urgente bisogno. Vi è infatti, nell’attuale congiuntura, un’insidia poco avvertita, e per questo pericolosa. Quando trent’anni fa spirava un vento iconoclasta in qualche modo somigliante all’attuale, sia pure con diverso bersaglio, la magistratura rappresentava, sia pure del tutto impropriamente, l’unica darsena per un paese eticamente alla deriva. Oggi, il discredito in cui questa è sprofondata non è compensato da un recupero di fiducia nella politica. Orfano di una affidabile bussola istituzionale, il paese potrebbe essere tentato di affidare il timone a qualche spavaldo nocchiero, determinato ad allontanarsi dagli sfrangiati lidi della democrazia. Rossomando (Pd): “Obiettivo a un passo, non accetteremo alcuna ambiguità sulla riforma” di Conchita Sannino La Repubblica, 10 aprile 2022 La senatrice dem: “Buona la mediazione sulla separazione delle funzioni dei magistrati. Si eviteranno nuovi casi Maresca”. “È stato faticoso ma necessario. Ora sarebbe da irresponsabili mandare all’aria un lungo lavoro comune”, avverte la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, responsabile Giustizia del Pd. Senatrice, l’accordo già sembrava fatto in Consiglio dei ministri a febbraio. Poi, due mesi di stillicidio. Ora è vera svolta? “Il Pd ha lavorato con convinzione per una riforma necessaria e molto attesa. C’è l’accordo sui contenuti con significativi passi avanti da parte di tutti per giungere a un testo condiviso. Ma ora c’è anche la condizione precisa per centrare l’obiettivo: che siano ritirati gli emendamenti non concordati in maggioranza prima che inizino i lavori della commissione Giustizia alla Camera, e che non si voti contro i pareri di governo e relatori”. Ma la Lega non vi ha dato questa garanzia. Cosa accade lunedì, se restano fermi su questa posizione? “Non si comincia, senza questa garanzia, almeno per noi”. Potrebbe saltare tutto, ancora? “Riterrei illogico, e inaccettabile, che la Lega votasse contro gli accordi raggiunti in maggioranza o a favore di emendamenti su cui il governo si dichiara contrario. Sarebbe clamoroso veder naufragare una riforma per la quale era arrivata anche la calda esortazione del Presidente Mattarella, tanto applaudita da tutti”. Salvini userà la riforma del Csm come “ricatto” sul tema fisco? “Noi ci opporremo a qualunque tipo di strumentalizzazione. Basta usare la giustizia come strumento di offesa nella trattativa politica” Conti aperti anche con Italia Viva. Ferri, deputato renziano sotto procedimento Csm, vi accusa di farvi dettare la linea da Area... “Noi, a differenza di altri, non siamo appassionati alle dinamiche delle correnti. Ci interessano le innovazioni della riforma”. Quali, in poche parole? “Non solo la legge elettorale, che da sola non è comunque risolutiva, ma lo stop alle nomine a pacchetto, la separazione tra disciplinare e nomine, il voto degli avvocati nei consigli giudiziari e l’articolazione dei criteri di valutazione sulla professionalità. Sono alcuni degli elementi innovativi su cui il Pd puntava e che sono nel testo”. Ma questa riforma chiude la disinvolta gestione delle carriere politiche delle toghe: è una vittoria della destra o solo il frutto della crisi della magistratura? “Nessuna delle due, è responsabilità della politica evitare nuovi casi Maresca. La soluzione trovata è articolata ed equilibrata, in grado di accompagnare il necessario processo di rigenerazione della magistratura”. Avete tenuto il punto sul no al sorteggio e mantenimento del proporzionale, perché? “Il sorteggio era incostituzionale, punitivo e non ostacolava, di fatto, gli accordi di potere. Ci siamo battuti per il pluralismo delle idee: l’antidoto alle degenerazioni del correntismo. E la quota proporzionale serve”. Avete ceduto sulla separazione delle funzioni: un solo passaggio. Era anacronistico come baluardo? “A noi piaceva la soluzione Cartabia con due passaggi. La sintesi finale fa salvo comunque un congruo periodo, ovvero dieci anni dopo la prima assegnazione, per scegliere e maturare esperienza. Non è poi previsto nessun limite temporale per i passaggi tra il civile e il penale”. L’Anm è sul piede di guerra: le toghe minacciano lo sciopero, vedono pericolose storture, come la “pagella” del magistrato... “Non parlerei di pagella. E, comunque, credo in generale sia un giudizio ingeneroso. A tutela delle libertà del cittadino vanno garantite autonomia e indipendenza della magistratura, ma non si può partire dalla conservazione dell’esistente”. Anche sul decreto Presunzione di innocenza vince la linea dura. Non le sembra un bavaglio alle Procure? “No, ma vigileremo. Anche qui abbiamo un’importante sfida: contrastare la spettacolarizzazione del processo senza limitare il diritto di informazione”. Bongiorno (Lega): “Sistema giudiziario al collasso, questa riforma è insufficiente” di Liana Milella La Repubblica, 10 aprile 2022 La responsabile giustizia del Carroccio: “Uno sciopero delle toghe sarebbe inconcepibile per i cittadini, già sfiduciati”. “La riforma Cartabia non affronta i punti cruciali che stanno a cuore alla Lega per cambiare un sistema al collasso”. Così l’avvocato di Salvini, nonché responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno, spiega il sì al testo Cartabia e le mani libere sui referendum. Perché Salvini ha cambiato idea sull’appuntamento con Draghi? “Ero con lui a Palermo per il processo Open Arms e Salvini non ha mai bloccato la trattativa sulla giustizia che stavo conducendo io stessa”. Tredici anni fa, ai tempi di Berlusconi, lei era con i magistrati contro i bavagli. Ora che effetto le fa sentire il presidente dell’Anm Santalucia parlare di sciopero? “In un sistema paralizzato uno sciopero sarebbe solo un danno ulteriore per il sistema giustizia. Inconcepibile per i cittadini, già disorientati e sfiduciati”. Lei è una nota penalista, non teme che, dopo il fascicolo su ogni toga, avrà di fronte pm e giudici che penseranno più alla carriera che a decisioni giuste? “Il fascicolo altro non è che uno storico della carriera di ogni magistrato. Un registro delle decisioni assunte, quelle giuste e quelle che hanno comportato errori giudiziari. Si tratta perciò di uno strumento meritocratico e più oggettivo rispetto alle esasperate logiche correntizie che sinora, talvolta, hanno determinato promozioni e avanzamenti di carriera altrimenti inspiegabili”. Riforma con tanti distinguo della Lega, tant’è che chiedete mani libere sugli emendamenti simili alle proposte referendarie... “La visione della Lega e di tutto il centrodestra della giustizia è molto distante da quella del centrosinistra e da quella dei 5Stelle; questa è una certezza. Cartabia sta cercando di trovare un punto di equilibrio, e noi la sosteniamo. Deve essere chiaro però che la sua è una riforma circoscritta ad alcuni temi e che non affronta punti cruciali che stanno a cuore alla Lega per imprimere un autentico e profondo cambiamento di un sistema al collasso”. E sarebbe? “Stiamo affrontando il sistema elettorale, ma per me è ancora più importante capire chi vogliamo mandare al Csm. Il cambiamento epocale sarebbe affidarlo ad esponenti più autorevoli che, per il percorso eccelso già raggiunto in carriera, non nutrono alcuna mira ulteriore. L’obiettivo è sfuggire dalla logica clientelare dello scambio di favori tra toghe elette al Csm e gli elettori. Perciò è necessario ricostruire da zero il Csm”. È stata sua l’idea del sorteggio dei distretti del voto. Sarà la fine degli accordi tra le correnti? “Noi siamo sempre costruttivi. Se si può fare un passo avanti lo facciamo. La nostra prima proposta resta il sorteggio dei candidati. Ma non c’è accordo. Allora abbiamo proposto di creare un effetto sorpresa per le elezioni del Csm, individuando un sistema che sorteggi i distretti elettorali. Ma ribadisco che i cambiamenti radicali richiedono ben altri interventi”. Un solo passaggio di carriera tra pm e giudice, neppure questo vi basta? “La parola d’ordine è la terzietà del giudice rispetto alle parti del processo. Ma fino a quando un pm esponente di una corrente può condizionare la carriera del giudice, questa terzietà non c’è”. La legge di Cartabia è acqua fresca? “Glielo ripeto, è necessario separare le carriere di pm e giudici e prevedere due distinti Csm. È uno degli obiettivi del referendum; una spinta dei cittadini renderebbe ineludibile e non procrastinabile questa svolta epocale”. Non è anomalo che la Lega voti per conto suo? “Non precorriamo i tempi. Vedremo le proposte sul tavolo e le valuteremo”. Cambio di padrone per 35 mila aziende. Gli affari della mafia con la pandemia di Floriana Bulfon La Repubblica, 10 aprile 2022 Il rapporto Cerved. Attività turistiche e ristoranti: nel 2021 molte imprese sono state cedute. C’è un’Italia a due velocità: quella che ancora soffre per i colpi del Covid e quella che cresce sull’onda del Recovery. Entrambe però sono una preda ghiotta per i professionisti dell’investimento criminale. Magistrati e investigatori continuano a ripeterlo: le mafie stanno trasformando la pandemia in un affare senza precedenti. E i dati elaborati da Cerved in esclusiva per Repubblica offrono la prima indicazione statistica dei settori dove è più forte il sospetto che i clan stiano investendo. Il primo termometro sono i cambi di proprietà, diventati sempre più frequenti nella stagione dei lockdown: nel 2021 hanno riguardato ben 35 mila società di capitali. Guarda caso, il picco si registra nell’edilizia: lo scorso anno 3.477 imprese sono passate di mano, a cui ne vanno aggiunte altre 922 dedicate all’impiantistica. Si tratta di oltre il 6 per cento, contro una media che supera di poco l’uno per cento, proprio dove, tra incentivi per le facciate, superbonus, ristrutturazioni e nuovi edifici finanziati dal Pnrr, è scattata la corsa all’oro. Il Cerved non ha solo la più grande banca dati sulle società italiane, ma è soprattutto un’agenzia specializzata nell’analisi dei rischi. Di fronte all’irruzione del virus nell’economia italiana, un anno fa ha definito la “zona rossa” del contagio malavitoso: più di 140 mila aziende ed esercizi erano a rischio usura e riciclaggio. Adesso la diagnosi si è fatta ancora più preoccupante, con segnali forti dell’attivismo di cosche che non giocano più a bastoni ma puntano a denari. L’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia nel 2021 ha registrato oltre il 23 per cento in più di segnalazioni di operazioni sospette: sono 139mila, metà delle quali “rilevanti” secondo l’esame della Guardia di Finanza. Come avvoltoi, gli emissari dei boss si lanciano sui comparti che hanno sofferto di più per le chiusure: la ristorazione, gli alberghi e più in generale le attività legate al turismo. Ma con intuito imprenditoriale, hanno saputo cogliere pure le opportunità create dall’epidemia e tra i business su cui Cerved ha acceso un faro ci sono pure la logistica, in crescita per lo shopping online, e la produzione di cereali, sempre più remunerativa. Non sorprende invece l’interesse per le sale scommesse e la gestione dei rifiuti, passioni antiche delle cosche. Sul territorio, Lazio e Campania sono le regioni con i passaggi di società più significativi: solo nella provincia di Roma si contano ben 4.594 attività; altre 2.108 in quella di Napoli. Ma la crisi è diffusa ovunque nella Penisola: tra le prime dieci province in cui sono cambiati i titolari ci sono Milano, Brescia, Torino e Padova. Cerved elabora anche uno strumento di analisi del pericolo di riciclaggio con un’incidenza più forte nella produzione di energia elettrica (12,2%), nell’industria discografica (7,9%) e nei club sportivi (6,4%): il primo è un settore dove la domanda sta esplodendo; l’ultimo è tra i più provati della crisi. “I nostri dati sulla diffusione dei fenomeni di riciclaggio indicano come primo settore l’edilizia con una crescita anomala influenzata dagli incentivi pubblici”, spiega l’amministratore delegato di Cerved, Andrea Mignanelli che avverte: “Con il Pnrr sarà iniettato un flusso senza precedenti di risorse pubbliche che, senza un utilizzo intelligente della tecnologia, può scatenare appetiti illeciti”. Nell’edilizia l’aumento senza precedenti dei cambi di titolare si accompagna al boom di nuove società: il 56 per cento in più. Con una doppia occasione: lavorare nei cantieri e manovrare la partita dei crediti di imposta, molto promettente per frodare lo Stato. Il meccanismo è quello dei crediti inesistenti che diventano un guadagno: finti lavori e veri finanziamenti. Una truffa che, secondo le Fiamme Gialle e l’Agenzia delle Entrate, può costare allo Stato ben 4 miliardi e ha spinto il governo Draghi a modificare le regole dei bonus per arginare l’assalto dei mariuoli. Che spesso operano per conto dei mafiosi. “Dopo il decreto liquidità abbiamo assistito a un fiorire di nuove società mentre altre inattive sono state rilevate per poter accedere ai finanziamenti” constata Alessandra Dolci, a capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano: “A fronte di migliaia di nuovi imprenditori onesti che vogliono immettersi nel mercato per beneficiare degli incentivi, registriamo delle vere e proprie associazione a delinquere che per portare a termine queste operazioni moltiplicano il ricorso ai prestanome forniti da professionisti”. La questione chiave resta la prevenzione. La magistratura interviene quando ci sono i reati: il danno è già stato fatto e l’azione penale rischia persino di diventare una beffa, bloccando con i sequestri cantieri o attività commerciali. “Di fronte alle capacità di infiltrarsi nel tessuto economico e al rischio potenziale che le mafie possano assorbire una grossa fetta dei fondi” - sottolinea Vittorio Rizzi, vice capo della polizia e coordinatore dell’Organismo permanente di monitoraggio sul rischio di infiltrazione nell’economia - “dobbiamo anticipare la minaccia. Se arriviamo tardi potremo anche raccontarci di aver fatto un bel lavoro di polizia ma avremo perduto la scommessa”. Calabria. Liberi di studiare: 57 detenuti “in attesa” di laurea di Antonella Scalzi icalabresi.it, 10 aprile 2022 La cultura è di casa in molti penitenziari calabresi. Il caso Catanzaro e le altre buone pratiche. Tra libri e università c’è pure chi trova il modo per diventare un pasticciere sopraffino. Cinquantasette detenuti che sognano di laurearsi dal carcere in Calabria. Sono i numeri che nell’anno accademico in corso delineano i tratti della parte meno nota del sistema di istruzione universitario calabrese: quella di chi si è rimesso a studiare con l’obiettivo di trovare sui libri un riscatto che galere troppo spesso sovraffollate non riescono a garantire. A fare da traino è il penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro, che, sulla scorta di una collaborazione ormai consolidata con l’Università Magna Græcia, conta ben 26 aspiranti dottori. Altri quattro che scontano la pena lì risultano iscritti all’Unical. L’ateneo rendese martedì ha festeggiato la prima laurea specialistica in Sociologia di un detenuto a Rossano, penitenziario nel quale a sognare il titolo sono in 12. Sei gli studenti Unical rinchiusi a Paola, tre - uno per carcere - quelli a Lauretana di Borrello, Vibo Valentia e Castrovillari. La scommessa del penitenziario di Catanzaro - Due dei 29 detenuti che si sono laureati nelle patrie galere nel corso del 2021 hanno conseguito il titolo nel “Caridi”: Salvatore Curatolo a luglio, Sergio Ferraro a ottobre. Ma dietro le sbarre c’è anche chi non si limita a studiare e fa da tutor a quelli che per portare a termine il proprio percorso formativo hanno bisogno di una spinta in più. La collaborazione tra Magna Græcia e Unical in carcere a Catanzaro passa anche da una serie di seminari per gli studenti detenuti in Alta sicurezza. I corsi sono di Sociologia giuridica e della devianza e Sociologia della sopravvivenza. I temi spaziano dal populismo penale alla giustizia riparativa, passando da violenza e diritto, prostituzione e pornografia, police brutality e tortura, terrorismo, lotta armata, resistenza e molto altro. È un’iniziativa mai sperimentata prima in Italia e tra i relatori ha visto anche il calabrese Giuseppe Spadaro, oggi presidente del Tribunale dei minori di Trento. La Dad dietro le sbarre - Tutto si svolge in carcere, con i 16 detenuti coinvolti che diventano protagonisti di lezioni che poi arrivano in streaming ai cosiddetti “studenti normali”, tra cui quelli dell’Università di Bologna e di un liceo di Palermo. La Magna Græcia e il “Caridi” hanno così trasformato il freno della Dad imposta dalla pandemia in un’occasione per rendere fruibile all’esterno lezioni che i detenuti hanno svolto in presenza. Tutto nella massima attenzione alla tutela della sicurezza: i detenuti non possono interagire con gli altri studenti. Quello di Catanzaro è comunque l’unico polo universitario penitenziario d’Italia nel quale i corsi rivestono carattere di ufficialità. Qui i docenti non sono più volontari del sapere, una delibera recentemente approvata dal dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia consente loro di sfruttare il tempo compreso nel proprio monte ore personale esattamente come quando insegnano in facoltà. Non mancano le richieste di trasferirsi in questo carcere per soli uomini diretto da una donna, avanzate da detenuti che nel capoluogo calabrese vedono lo sbocco naturale del loro percorso formativo. Tra i 588 ospiti del “Caridi”, in effetti, la cultura è di casa. A puntarci è la direttrice Angela Paravati, a stimolarla il coordinatore del corso di laurea in Giurisprudenza, Andrea Porciello, e il delegato del rettore nella Rete per i poli universitari penitenziari, Charlie Barnao. Dolci evasioni - Neppure il regime di Alta sicurezza 1 fa da freno. Anzi, chi esce dal 41 bis cede spesso al fascino dei libri e a Catanzaro trova gli stimoli giusti. Ma tra quelle mura c’è spazio pure per le ghiottonerie di chi, nonostante l’ergastolo ostativo, il suo riscatto l’ha cercato nei dolci. È il caso di Fabio Valenti, che nel profumo dei suoi dolci trova golosissimi momenti di evasione apprezzati dentro e fuori il carcere. È il pasticcere del penitenziario di Catanzaro e coi suoi manicaretti ha attirato pure l’attenzione del maestro della pasticceria Luca Montersino. Per iniziare gli sono bastate due pentole capovolte, il suo forno l’ha creato così. Nelle 280 pagine del libro Dolci (c)reati, curato da Ilaria Tirinato ed edito da Città del Sole, c’è tutto il buono delle pratiche educative che aiutano anche chi ha trascorso in carcere 27 dei suoi 50 anni e sa che di avere dinnanzi il “fine pena mai”. La sua è un’altra storia di passioni assecondate e sostenute. Arriva anche da qui la scelta di dare i nomi alle sue ricette associando a ogni dolce un articolo del codice penale. Perché in fondo dietro le sbarre resta sempre la consapevolezza che ogni azione ha una conseguenza. Trento. “In carcere troppi detenuti con problemi psichiatrici. Pochi 10 posti nella Rems” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 10 aprile 2022 Procura e avvocati penalisti interpellano la Provincia Ruscitti: sono sufficienti. Fedrizzi: serve una struttura intermedia. Lo sforzo di chiudere la porta su un passato poco nobile è importante, ma le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) devono fare i conti con i numeri e con un errore di fondo: “Si pensa che tutto sia curabile, ma non è così”, osservano gli esperti. Franco Corleone, l’aveva definita la “rivoluzione gentile”. Era il 27 gennaio 2017. Il commissario governativo per il superamento degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) aveva parlato della chiusura dei sei ex manicomi criminali - avvenuta dopo 150 anni per effetto della legge 81 del 2014- a Trieste, città che ricorda Franco Basaglia con il suo ripensamento del trattamento della malattia mentale e dei concetti di diversità e pericolosità che riportò la psichiatria in ambito sanitario. Le Rems avrebbero dovuto trasformare il mondo della riabilitazione psichiatrica per chi ha commesso un reato ed è stato prosciolto perché giudicato incapace al momento del fatto, ma, a detta degli stessi giudici costituzionalisti restano delle criticità. Poi c’è il nodo dei numeri. “Abbiamo in carcere una popolazione vastissima di detenuti con disturbi psichiatrici e il paradosso è che molti malati psichici non possono andare nella Rems perché non c’è posto, tutto questo crea enormi tensioni all’interno della casa circondariale”, spiega il presidente della Camera penale, Filippo Fedrizzi. Il tema è complesso e Procura, Provincia e Azienda sanitaria hanno avviato un dialogo, per decidere cosa fare. Una spinta arriva anche da una recentissima sentenza della Consulta, del gennaio scorso, che di fatto sostiene la necessità di cambiare la legge. Secondo la Corte Costituzionale “l’attuale sistema non tutela in modo efficace né i diritti fondamentali delle persone potenziali vittime di aggressioni - scrive la Corte - né colui che sia affetto da patologie psichiche, il quale ben potrebbe nuovamente porre in essere episodi di violenza, e nemmeno il diritto alla salute del malato”. In questo quadro si inserisce il ragionamento avviato da Procura e Provincia che dovrebbe porre un rimedio anche al nodo della capienza. “Il problema esiste, siamo in contatto con l’assessorato e il Dipartimento della prevenzione e salute per valutare la situazione e trovare una soluzione, faremo un incontro”, spiega il procuratore Sandro Raimondi. “Il numero dei posti nelle Rems viene calcolato in base alla popolazione ed è l’autorità giudiziaria che chiede l’assegnazione e stabilisce il periodo di permanenza”, sottolinea Giancarlo Ruscitti, dirigente generale del Dipartimento salute. La Rems di Pergine ha aperto nel 2015 allora c’erano solo tre trentini in Opg pertanto era stato fatto un lavoro di rete ed era stato deciso, considerate le necessità del territorio trentino, di creare una struttura con 5 posti per il Trentino (la legge a livello nazionale prevede un massimo di 20) e visto che l’Alto Adige non aveva previsto strutture sue, vengono creati altri cinque posti per gli altoatesini. “Numeri sufficienti”, secondo Ruscitti. Sono di altro avviso la Procura e gli avvocati. La Camera penale sottolinea “la mancanza di tutela, non solo per i pazienti che andrebbero curati, ma anche per il sistema carcere. Non a caso - sintetizza Fedrizzi - dall’ultima relazione sui tentativi di suicidio in carcere emerge che molti sono commessi da detenuti psichiatrici”. Poi c’è “il tema del reinserimento sociale che è alla base delle Rems - continua Fedrizzi -, uno degli obiettivi dell’abolizione degli Opg era quello di arrivare a una maggiore inclusione ma si fatica a trovare gli attori che consentano un graduale inserimento nella società, il sistema della Rems è detentivo e sarebbe importante un regime misto, spesso una volta usciti dalle Residenze i malati sono abbandonati alle famiglie. Bisognerebbe aumentare i posti e investire su strutture diverse che agevolino il ritorno nella società”. Il tema s’interseca con quello della territorialità. Il malato psichico ospite nella Residenza per la misura di sicurezza deve appartenere a quel territorio, altrimenti il reinserimento diventerebbe più difficile. Alla Rems di Pergine si tiene un registro che attesta la situazione effettiva relativa alla capienza, in sette anni è quasi sempre stata piena (arrivano richieste da tutta Italia ma non sono mai state accettate), tra il 2020 e il 2021 non ci sono state persone in lista d’attesa. Nel 2019 erano due i trentini che aspettavano di essere accolti nella struttura. Attualmente tra le persone ospiti della Residenza creata all’interno dell’ex ospedale psichiatrico non c’è nessuno che abbia commesso un omicidio o reati particolarmente gravi. In sette anni complessivamente ci sono stati 50 pazienti ospitati e la permanenza in media dura dai 3 giorni ai 3 anni. È il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) a sorvegliare, mentre il periodo di permanenza è deciso dal giudice. Il paziente ha la possibilità di uscire per lavorare, “si fanno progetti molto interessanti, ma serve uno sforzo in più in termini di investimenti”, sottolinea Fedrizzi. Potenza. Il Cpr di San Gervasio e la disumanizzazione dei suoi detenuti di Sofia Margiotta ultimavoce.it, 10 aprile 2022 Il CPR di San Gervasio, centro di permanenza per il rimpatrio, si trova al confine tra Puglia e Basilicata. Cancello tutt’altro che dorato preludio di un incerto e problematico futuro. Dove la giustizia, allo sventolare di diverse bandiere, dimentica tristemente il suo dovere di uguaglianza. Il centro con i suoi alti edifici di scarsa fattura è oramai noto per le vicende che arricchiscono la triste pagina nazionale sui migranti. Inaugurato più di dieci anni fa in tutta fretta, come le altre strutture esistenti e dislocate sul territorio, ospita transitoriamente soggetti stranieri sprovvisti di regolare permesso di soggiorno. I quali attendono qui il dispiego delle pratiche necessarie per il rimpatrio. Ad essere contestato è un illecito amministrativo che giustifica la detenzione, ma questo non dovrebbe consentire un decremento della disciplina applicata nei casi di privazione della libertà personale. Questo non toglie che il diritto di difesa sancito in Costituzione dovrebbe essere poi anche effettivamente garantito. Il condizionale è d’obbligo considerati i trascorsi che hanno visto come protagonista proprio il CPR di San Gervasio. Numerose sono state infatti le inchieste giornalistiche che si sono svolte attorno ad una gestione a più riprese criticata e contestata. Il centro per l’immigrazione della Basilicata aveva inoltrato varie preoccupate segnalazioni, a seguito degli appelli dei famigliari dei migranti detenuti. Completamente all’oscuro delle sorti toccate ai loro cari. Le informazioni emerse grazie anche agli attivisti e ai difensori dei soggetti coinvolti hanno portato alla chiusura del Cpr di San Gervasio fino allo scorso febbraio. Il diritto di difesa - Nonostante la sua centralità nella grande famiglia dei diritti fondamentali, quello di difesa è posto ripetutamente in isolamento all’interno della struttura lucana. I ritardi nei primi contatti con i difensori d’ufficio o di fiducia e l’impossibilità quasi assoluta di comunicazione con l’esterno sono solo alcune delle pratiche, tutt’altro che lecite, portate ancora oggi avanti sotto l’occhio complice dello Stato. Le testimonianze diffuse rivelano una negligenza nel trattamento dei detenuti che va oltre ciò che è legge per finire in un preoccupante disinteresse per ciò che è umanità. Alcuni esempi sono il divieto assoluto di portare con sé telefoni cellulari dotati di fotocamera per evitare riprese e testimonianze delle reiterate angherie subite. E, ove queste fossero presenti, vengono inesorabilmente frantumate per prevenire ogni rischio. O ancora le repentine decisioni di rimpatrio senza alcuna forma di ausilio nella fase esecutiva. Pratiche che somigliano molto a quelle di un centro di smistamento Amazon con reso di merce non gradita al mittente. Con la sola, ma certo non trascurabile differenza, che non si tratta di difettosi suppellettili per la casa. Vengono abbandonati a destreggiarsi nel labirinto dei trasporti regionali di una Terra che speravano di conoscere verso un Paese dalla cui miseria tentavano di fuggire. Spesso sono le sedi della Caritas del luogo ad accogliere questi “profughi” affaticati e provati dalla mareggiata burocratica dalla gestione sbrigativa e superficiale del Cpr. Lacune nella gestione del Cpr di San Gervasio - Pesante è poi l’assenza di un garante per il controllo del rispetto dei diritti. Questa figura è presente solo in veste nazionale a seguito della direttiva Europea del 2008 che ne esortava l’istituzione; per quanto questa sia stata tardiva in Italia rispetto ad altri Paesi nei quali è, già da tempo, particolarmente rilevante. Mentre questa figura non è prevista in tutte le regioni. La Basilicata è una di quelle in cui difetterebbe il nesso Stato-ente locale necessario per un operato coordinato ed effettivo. A mancare è quindi una figura istituzionale locale che controlli il rispetto dei valori imprescindibili di chi è persona prima che pratica da smistare. Che fine ha fatto il diritto alla salute? Come se tutto questo non bastasse la lista dei diritti umani sacrificati non è ancora conclusa. Anche alla salute non sembra essere riservato un trattamento migliore. Con la pandemia la situazione non è certo migliorata, con la quasi totale assenza di ogni precauzione contro un virus che si è dimostrato fin troppo democratico con le sue vittime. Nutriti anche con cibo avariato e fisicamente provati dalla permanenza in un luogo inadatto ad una detenzione anche solo temporanea che possa dirsi soddisfacente, non ricevono l’assistenza medica di cui necessitano. Viene così mortificata la civiltà a colpi di indifferenza da un apparato che omertosamente zittisce le grida di coloro che perdono ogni giorno di più la propria dignità. Rinnegati ed emarginati da un sistema che incapace ad accoglierli non sembra neanche in grado di rispettarli. Spoleto (Pg). Progetto “Fuori dalle gabbie” di Nicoletta Di Cicco Pucci comune.spoleto.pg.it, 10 aprile 2022 Proseguono quindi le attività del progetto “Fuori dalle gabbie”, avviato nel 2019 grazie alla sinergica collaborazione tra il Comune di Spoleto, la Fondazione Cave Canem e la Casa di Reclusione di Spoleto. Nella mattinata di venerdì 8 aprile 2022 alle ore 12.00 Michele Calai e Daniele Anderlini, in rappresentanza del Rotaract, hanno consegnato al Direttore della Casa di Reclusione di Maiano, Chiara Pellegrini e agli operatori coinvolti nel progetto, alla presenza degli addestratori ed educatori cinofili della Fondazione Cave Canem, materiali utili all’addestramento dei cani ospitati, acquistati con i proventi della raccolta fondi organizzata dal Rotaract in occasione dell’anniversario della realizzazione dell’area di sgambamento cani di viale Giacomo Matteotti. Sono stati inoltre trasferiti, nei quattro box del centro, otto giovani cuccioli che, al termine di un percorso di educazione alla relazione con l’uomo, potranno essere affidati alle famiglie che ne faranno richiesta. “La consegna dei materiali da parte del Rotaract - ha dichiarato Agnese Protasi, Assessore alla Transizione ecologica ed energetica, economia circolare, biodiversità e paesaggio - testimonia l’interesse, il coinvolgimento e la partecipazione attiva dei soggetti che ormai da tre anni collaborano in maniera sinergica per supportare l’Amministrazione nelle attività svolte per garantire il benessere dei randagi spoletini. Un gesto importante, quello del Rotaract, che continua il suo impegno nella sensibilizzazione dei cittadini verso una maggiore consapevolezza nella cura dei nostri amici a quattro zampe”. Il progetto è nato con l’intento di essere uno strumento per garantire un servizio qualitativamente elevato di accudimento dei cani senza famiglia affidati al Comune di Spoleto e per offrire una seconda opportunità ai detenuti cui è stato affidato il compito di garantire l’operatività, il coordinamento e la gestione del centro di accoglienza e addestramento allestito nella Casa di Reclusione di Spoleto. Dopo una prima fase in cui i detenuti sono stati impegnati nell’allestimento e nella manutenzione del canile ospitato nell’area verde della Casa di Reclusione di Spoleto, il progetto ha offerto loro la possibilità di seguire un corso per acquisire le competenze di base in materia di corretta interazione con cani senza famiglia, grazie anche alla collaborazione di professionisti selezionati dalla Fondazione Cave Canem. Il progetto “Fuori dalle gabbie” ha anche permesso di attivare una proficua collaborazione con l’Associazione “Antonietta Bruno”, che ha avviato una campagna di supporto con raccolta alimentare per i cuccioli e con l’Associazione Rotaract Club di Spoleto, che continuerà a garantire il supporto per la promozione delle adozioni anche rispetto alle attività realizzate e in programma presso l’area sgambamento cani. Benevento. Dal carcere minorile di Airola messaggi di umanità e di pace beneventonews24.it, 10 aprile 2022 I 29 ragazzi detenuti presso l’Istituto penitenziario, alla presenza di Osservatorio carcere Regione Campania e Camera penale di Benevento, hanno ripercorso il doloroso cammino delle loro vite nel corso della Via Crucis svoltasi ieri, lanciando un messaggio di Pace affinché si ponga fine al conflitto in Ucraina. Un messaggio di speranza e di pace, affinché abbia fine la Guerra in Ucraina, quello lanciato da 29 ragazzi detenuti presso il carcere minorile di Airola. Un momento di preghiera, di riflessione e di cammino penitenziale, con la partecipazione di tutti i ragazzi, di tutto il personale (docenti, educatori etc.) con la guida spirituale del Parroco, Don Liberato Magliano, la costante presenza del direttore dell’istituto, dott.ssa Marianna Adanti e la partecipazione dell’avvocato Giovanna Perna, dell’Osservatorio Carcere Regione Campania e dell’avvocato Nico Salomone, segretario della Camera Penale di Benevento, quello svoltosi ieri nell’ambito della Via Crucis tenutasi all’interno dell’Istituto penitenziario. I ragazzi hanno ripercorso il doloroso cammino delle loro vite segnate dal momento dell’arresto vissuto con grande dolore, dalla lunga meditazione avvenuta in carcere, dalla voglia di vendetta e dai momenti di scoraggiamento, dai ripensamenti, dalla riscoperta dei valori dell’amicizia e della condivisione degli spazi, della gioia e dei dolori, dal desiderio di essere una persona migliore, dalla privazione dei diritti civili, dal coraggio necessario per credere in se stessi e per rialzarsi dopo essere caduti, dalla negazione delle libertà, dal percorso di rinascita dopo gli errori, dal valore della vita che va amata pensando alle sofferenze quotidiane delle madri, proprio come le 14 Stazioni che hanno ripercorso il doloroso cammino di Gesù, culminato con la Crocifissione sul Golgota. Emozionante il messaggio da parte della direttrice dell’Istituto, la quale ha rivolto un augurio speciale di una Pasqua di Resurrezione alle famiglie, ai figli ed ai nipoti dei 29 ragazzi giovanissimi, i cui volti, dichiara, non sono “anonimi”, ma sono lo specchio di una Resurrezione che insegna a valorizzare tutto ciò che si ha ed in particolare la libertà. Significativo il momento conclusivo della cerimonia, rappresentato dal lancio dei palloncini dai colori della Nazione ucraina nel cortile dell’istituto, affinché l’umanità continui e regnare nel mondo, l’Osservatorio Carcere Regione Campania e la delegazione della Camera penale di Benevento erano presenti. In Italia 5,6 milioni di poveri: “Un reddito alimentare dagli sprechi della Grande distribuzione” di Giovanna Casadio La Repubblica, 10 aprile 2022 Un comitato nato tre settimane fa ha già raccolto 70 mila firme. Leonardo Cecchi, coordinatore dell’iniziativa: “Basterebbero 10-15 milioni di euro in finanziaria per coprire le spese logistiche”. Lo Stato dovrebbe individuare la platea degli aventi diritto attraverso l’Inps. È nato appena tre settimane fa il comitato per il reddito alimentare. Ha già raccolto 70 mila firme. Perché la fame e la povertà alimentare anche in Italia sono in aumento e una misura di sostegno, al di là del reddito di cittadinanza, ci vuole. Spiega Leonardo Cecchi, il coordinatore dell’iniziativa, militante e social influencer del Pd, che basta coordinarsi e avere la volontà politica per farlo. È sufficiente un emendamento alla prossima finanziaria, con un costo non particolarmente oneroso - 10 o 15 milioni di euro - che serve a coprire le cosiddette spese logistiche, e le 200 mila tonnellate di sprechi alimentari solo nella Grande distribuzione, possono essere indirizzate a sfamare chi ne ha bisogno. E ad averne bisogno - in anni critici prima per la pandemia, poi per l’aumento dei prezzi che la guerra della Russia all’Ucraina provoca - sono milioni di famiglie. Il comitato fornisce alcuni dati: 5 milioni e 600 mila persone in povertà, 220 mila tonnellate di generi alimentari buttati via ogni anno solo nei supermercati e negli ipermercati. E quindi - rilancia Cecchi - riordinando il rapporto tra Terzo settore e istituzioni si potrebbero risolvere non pochi problemi. In concreto lo Stato dovrebbe individuare la platea tramite Inps di tutti quei cittadini e famiglie fragili, i quali potranno aderire al piano del reddito alimentare registrandosi sulla app che consentirà loro di prenotare pacchi alimentari, ovviamente ci saranno cittadini a cui la spesa va consegnata a casa. Sono le associazioni o lo Stato con il servizio civile, i Comuni a farsene carico. I partner logistici vanno individuati. Però mettere insieme i tasselli di questo cambio di passo sia dal punto di vista dello spreco che dell’inclusione, è un obiettivo a breve. Il contatore della fame del resto andrebbe aggiornato continuamente. Una stima delle 2021, parla di una persona su quattro, tra chi si rivolge alla Caritas, come nuovo povero e il 6% della popolazione adulta ha difficoltà a garantirsi un pasto (dato della Coldiretti). Sempre Cecchi: “Il reddito alimentare è uno strumento di inclusione sociale, non una elemosina. Se do a un cassintegrato un grosso pacco alimentare, faccio in modo che possa liberare una piccola parte del suo reddito”. Alcuni esperimenti locali si stanno mettendo in movimento, ad esempio in Umbria con una mozione ad hoc presentata dal segretario del Pd, Tommaso Bori. La questione della povertà alimentare non si può ignorare. “Se i prezzi della la spesa per il cibo aumenteranno in una famiglia fino a 300 o 400 euro in più all’anno, non si può non affrontare il problema”, spiega Susanna Cenni, la responsabile Agricoltura dem. Per il Pd in programma anche un coordinamento con il Banco Alimentare da parte dei circoli. Sarà il responsabile organizzazione, Stefano Vaccari a occuparsene. “La rete dei nostri circoli potrebbe periodicamente collaborare con le associazioni impegnate nella raccolta alimentare, creando rapporti con i gruppi di realtà impegnate nelle mense pubbliche e negli aiuti alimentari”, annuncia Cenni. La guerra, le menzogne e il diritto alla verità di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 10 aprile 2022 Fra i tanti danni del conflitto c’è anche l’indebolimento della capacità critica nell’uso dell’informazione, che può diventare il primo passo in direzione della democrazia illiberale. Datemi un po’ di verità: così cantava John Lennon nel 1971, nella fase più tetra della guerra in Vietnam. Le atrocità di quel conflitto avevano smosso l’opinione pubblica americana. Registrazioni e documenti inediti stavano rivelando le menzogne di Richard Nixon, che due anni dopo fu costretto a dimettersi per lo scandalo Watergate. Le democrazie non sono sempre innocenti: ma, come diceva Norberto Bobbio, sono case di vetro, i cittadini hanno gli strumenti per chiedere conto ai governanti delle proprie azioni. A volte i vetri si appannano, ma quando ce ne accorgiamo possiamo ripulirli. Le guerre producono una nebbia che rende particolarmente difficile stabilire come siano andate le cose. Non per questo dobbiamo rinunciare alla verità. Gli eventi “in sé” - come il recente massacro di Bucha - evaporano dalla realtà nel momento in cui accadono. Ma lasciano tracce accessibili (macerie, cadaveri, foto, video, testimonianze, documenti) che sono indipendenti dal nostro pensiero e ci costringono a usarlo. Il che significa innanzitutto non negare l’evidenza, e men che meno nasconderla. Una guerra non può essere chiamata “operazione speciale”. Confutare l’esistenza di perdite e massacri, celare o distorcere le informazioni che arrivano all’opinione pubblica russa non è solo propaganda: è creare ad arte una barriera che impedisce l’uso dello stesso concetto di verità. Si tratta di una caratteristica tipica di tutti i regimi autoritari, che funzionano come macchine di falsità: si reggono su censura, repressione, indottrinamento di massa. Non è un caso che nelle manifestazioni di piazza che accompagnarono la caduta dei regimi socialisti dell’ex blocco sovietico la gente mostrasse cartelli con la scritta “verità”, come era già successo in Argentina, Cile o Sudafrica nei processi di transizione alla democrazia. Le tracce lasciate dagli eventi ucraini (l’ultimo, terribile, è stato il bombardamento della stazione di Kramatorsk) possono non essere sufficienti per stabilire con indubitabile certezza “chi è stato”. Del resto lo stesso Zelensky ha promesso indagini volte ad appurare eventuali responsabilità del proprio esercito. Per ora possiamo solo esprimere opinioni. Che però non sono tutte uguali. Alcune sono fondate, esprimono un sincero collegamento - per quanto imperfetto - fra ciò che si sostiene e la realtà. Dico che il massacro di Bucha sia stato perpetrato dai russi perché ho letto il racconto di un testimone diretto. Altre opinioni si limitano a esporre un punto di vista privo di riscontri. Altre ancora partono dal presupposto che non si possa parlare di verità, oppure che ce ne siano tante e tutte valide. E infine ci sono le menzogne belle e buone. Come quelle di un recente video russo apparso su YouTube che mostra, niente meno, un cadavere di Bucha che si alza trenta secondi dopo il passaggio di un’auto. Un’analisi della Bbc ha stabilito che si tratta di un effetto ottico: il cadavere “resuscita” solo nello specchietto retrovisore dell’auto, in una immagine riflessa dove anche gli edifici si piegano di lato. Una ricostruzione seria e affidabile dei crimini commessi in Ucraina sarà possibile solo dopo la fine della guerra, in base alle procedure del diritto internazionale. Accertare ciò che è accaduto “secondo verità” è importante non solo a fini di conoscenza, ma anche di giustizia. Il filosofo Michael Walzer ha giustamente detto che le società umane non possono sopravvivere senza una “moralità minima” del vero, ossia un impegno condiviso e incomprimibile a mantenere ben saldo il nesso fra ciò che ci comunichiamo l’un l’altro e il mondo esterno (anche se fosse solo in una quota “minima”). Franca D’Agostini (una delle più note studiose di teoria della verità) ha proposto di istituire un vero e proprio sistema di diritti “aletici”, che tutelino il bisogno fortemente sentito di non essere ingannati. La democrazia è una condizione necessaria, ma non sufficiente per salvaguardare la moralità minima del vero. L’abbiamo visto in queste ultime settimane in Italia, dove il dibattito pubblico, a volte, sembra smarrire il senso della distinzione fra vero e falso. Ascoltando i talk show, si rimane sconcertati dalle evidenti falsità dei giornalisti russi (i massacri come messinscene, il diniego delle perdite subite) ma anche dall’equidistanza “di principio” di alcuni partecipanti italiani, dalla partigianeria di altri. La verità è un bene politico fondamentale, che va difeso non solo contro gli autocrati, ma anche contro la democrazia ingenua del “secondo me”. E naturalmente dall’assedio delle fake news e dall’esplosione della cosiddetta post-verità, soprattutto nella sfera dei social media. La libertà di espressione è sacra in una società liberale. Secondo i classici del liberalismo (a cominciare da Stuart Mill) questa libertà è un anticorpo fondamentale per combattere l’oppressione e difendere la verità: il libero gioco delle opinioni consente infatti di scartare gradualmente ciò che è falso. Perché questo sia possibile è però necessario un contesto culturale che dia valore sia al pluralismo sia al concetto di verità. Purtroppo, fra i tanti danni della guerra c’è anche l’indebolimento della capacità critica nell’uso dell’informazione, che può diventare il primo passo in direzione della cosiddetta democrazia illiberale. Uno scenario che piacerebbe tanto a Putin e che è già in corso di realizzazione nell’Ungheria di Orbán. Caro Draghi, voglio la pace ma anche il fresco di Natalia Aspesi La Repubblica, 10 aprile 2022 Dopo le parole del presidente sull’invasione russa dell’Ucraina e sulle sanzioni. A Mario Draghi, il mio premier di riferimento, sono venute le occhiaie, il viso si è smagrito, la voce elegantemente sexy e priva delle inflessioni dialettali di chi lo infastidisce, ha avuto il primo stridio, pronunciando la frase epocale “Preferite la pace o il condizionatore?”. Ad ogni estate i medici ci informano che il caldo uccide i vecchi, e quindi si cerca di evitarlo come si può, con un soggiorno in collina (montagna no, il cuore stanco non ambisce l’altitudine), con un ventilatore, passando il pomeriggio al supermercato o appunto col condizionatore almeno in camera da letto. Quindi grande smarrimento tra chi vuole ovviamente la pace però vorrebbe anche il fresco. Insomma la scelta è crudelissima, anzi impossibile e nessuno di noi riesce a immaginare se stesso così egoista da mettersi ad agosto persino un golfino, mentre altrove, qualunque sia la temperatura, i vecchi come noi, ma anche i bambini e tutti gli umani (chiedo scusa se aggiungo gli animali) vengono massacrati. Immolarci per la pace, tanto noi di tempo nostro ne abbiamo ancora poco, però ne abbiamo avuto tanto? Non facile, ma poi resta il problema che tutti non vogliono il caldo, tanto che in certi luoghi tipo grandi magazzini o ristoranti, a luglio muori di freddo. Non so a quale scopo, qualcuno ha cambiato la minaccia draghiana in “Preferite la democrazia o il condizionatore?”. In questo caso il condizionatore, temo, vincerebbe alla grande, perché a ricordare cosa era da noi la dittatura siamo rimasti in pochi, e la democrazia o non pare mai abbastanza, oppure troppa. Quindi torniamo alla pace che, per fortuna, la vogliono tutti, ma ognuno a modo suo, come ci viene costantemente illustrato dai provvisori nostri sapienti di Nato, ex Urss, Russia e persino Ucraina, di cui sino a febbraio non eravamo certi di dove fosse e ancora adesso dobbiamo riguardare la cartina per vederne i confini assediati da Russia, Bielorussia, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Moldavia: spuntano a centinaia anche gli eruditi di Putin, Zelensky, Biden, Orbàn, di atomica, di potenze asiatiche, di petrolio, del costo della vita ecc. Si sa che ormai, ancora prima della pandemia, ci eravamo abituati a pretendere, e a ricevere, solo notizie di disastri, stragi, femminicidi, giusto per essere sempre più incavolati e spaventati e aver materia per i social. Adesso un tripudio di nefandezze e crimini, distruzioni e fughe, i cadaveri, i bambini, le torture, gli immigrati, i peluche, le donazioni, l’ospitalità: soprattutto la propaganda, il rimbalzo delle colpe, le menzogne, l’indifferenza. Mi auguro che il volto affranto e le parole (“la nostra umanità è distrutta”) della signora Ursula von der Leyen a Bucha, davanti ai sacchi neri con i resti di gente qualsiasi che potremmo essere noi, zittiscano almeno i negazionisti che trionfano in tv. Riassumendo: c’è chi, conoscendo la Storia, vuole raggiungere la pace con la guerra, cioè inviando armi al Paese vittima affinché almeno si difenda (visto che non aggredisce il Paese nemico), e chi (buonista, putinista, idealista, furbacchione, salvinista, addirittura lepenista) chiede che sia la diplomazia, quella misteriosa entità che non aveva previsto l’invasione, non aveva saputo evitarla e non pare che adesso l’invasore voglia ascoltarla. I nostri Otelma, temo, avranno ancora spazio e tempo per le loro negromanzie televisive e social perché si comincia a dare alla parola “pace” un significato di lontananza, di fantasia, di sogno. E intanto noi prenotiamo per l’estate la pensioncina di mezza montagna dove si andava da bambini, esorcizzando un futuro di pane di carrube, quello disgustoso che però ci ha tenuto in vita nella nostra guerra mondiale. E alla fine siamo ancora qui. Crescono le vendite delle armi italiane nel 2021. E il primo cliente è il Qatar di Carlo Tecce L’Espresso, 10 aprile 2022 Roma ha esportato materiale bellico per 4,6 miliardi di euro l’anno scorso e sui conti bancari ci sono stati movimenti in entrate e in uscita per 14 miliardi (il doppio del 2020). Dai nuovi rapporti con l’Arabia Saudita alle commesse in Svizzera, ecco in anteprima tutti i dettagli nel documento del governo. Le brutte notizie sono buoni affari per l’industria delle armi. E già prima della guerra in Ucraina, lo scorso anno, l’industria italiana delle armi ha ripreso la crescita lievemente intaccata dalla pandemia. Il governo italiano ha autorizzato nel 2021 l’esportazione e l’importazione di materiale bellico per un totale di 5,340 miliardi di euro (4,821 nel 2020) di cui 4,661 miliardi in uscita (4,647 nel 2020) e 679 milioni in entrata (174 nel 2020). È il picco dal 2017. Ogni annotazione e ogni dettaglio sono disseminati nella voluminosa relazione che il governo di Mario Draghi ha appena trasmesso alle Camere per l’approvazione e che L’Espresso ha consultato in anteprima. Acquistare una nave da guerra è ben diverso che acquistare un’utilitaria. I contratti si attuano con gradualità. Gli effetti si vedono nel lungo periodo. Perciò il dato più significativo lo si ricava dalle verifiche del ministero del Tesoro. “Nel corso del 2021 sono state effettuate dagli operatori bancari - si legge nel documento - 17.931 comunicazioni inerenti a transazioni bancarie per operazioni di esportazione, importazione e transito di materiali di armamento per un importo complessivamente movimentato pari a oltre 14 miliardi di euro”. Nel 2020 erano 7,8 miliardi. Circa la metà delle esportazioni - dunque il 52 per cento dei 4,666 miliardi citati in precedenza - è verso paesi aderenti all’alleanza militare Nato. Il resto va a rinforzare eserciti potenziali amici o nemici proprio della Nato. L’italiana Leonardo è padrona del mercato con una quota del 43,35 per cento. Quest’anno va fuori dal podio Fincantieri, altra multinazionale a controllo statale. Al secondo posto con il 23,48 per cento troviamo la Iveco Defence Vehicles che fa riferimento a Exor della famiglia Agnelli/Elkann (proprietaria anche del gruppo editoriale Gedi). I numeri delle importazioni sono parziali, non esaustivi, perché non contemplano i rapporti con i paesi dell’Unione europea. I 679 milioni di euro registrati nel 2021 sono una cifra molta alta, in parte composta dai 271 milioni spesi in Gran Bretagna, oggi annoverata nella lista perché ex membro Ue. Degne di menzione anche le compere militari in Svizzera per 65 milioni di euro. Il fatturato italiano delle armi spiega come va l’industria bellica, ma anche dove va la geopolitica, difatti l’Autorità preposta alle autorizzazioni (in sigla Uama) è ubicata al ministero degli Esteri. Adesso il primo cliente di Roma è il Qatar con 813,5 milioni di euro. La monarchia assoluta ricca di metano e petrolio ha scalzato il regime militare dell’Egitto, precipitato in 18esima posizione dopo gli oltre 1,5 miliardi di euro investiti in Italia nell’ultimo biennio. Nella classifica del 2021, seguono Stati Uniti (762 milioni), Francia (305), Germania (262), Pakistan (203). Rilevanti le commesse di Malesia e Filippine. Oggi il Qatar per il gas è un interlocutore necessario di Roma che ha l’esigenza di sottrarsi ai ricatti della Russia. Però la famiglia dei sovrani Al Thani ha relazioni complicate con i vicini della penisola del Golfo, con gli Emirati Arabi Uniti e soprattutto con l’Arabia Saudita. Stare con gli uni e con gli altri è opera complessa pure per l’Italia. In sintesi: più armi ai qatarini, meno armi ai sauditi. Lo scorso anno, dopo una risoluzione votata dai parlamentari col secondo governo di Giuseppe Conte e ritardi non più tollerabili, l’esecutivo di Draghi ha annullato l’esportazione negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita di missili e bombe utilizzate nel conflitto civile nello Yemen. Il nullaosta fu concesso tra il 2016 e il 2018 dai governi di Paolo Gentiloni e Matteo Renzi e riguardava la filiale sarda dell’azienda tedesca Rwm. Draghi ha cancellato forniture di Rwm per 328 milioni di euro, ma di recente emiratini e sauditi hanno sottoscritto nuovi accordi per nuove 52 licenze dal valore di oltre 100 milioni di euro nel solo 2021. Si fa sempre in tempo a rimediare. I diritti umani per sfidare le autocrazie di Maurizio Molinari La Repubblica, 10 aprile 2022 La sospensione decisa dall’Onu per la Russia dal Consiglio dei Diritti Umani è un risveglio dopo 20 anni di realpolitik. Con il voto dell’Onu sulla sospensione della Russia dal Consiglio dei Diritti Umani il tema del rispetto delle libertà fondamentali degli individui è tornato al centro delle relazioni internazionali dopo oltre venti anni di quasi totale oblio, dovuto alla scelta delle democrazie di far prevalere la più gelida realpolitik nei rapporti con autocrazie e dispotismi di ogni colore e Continente. A tre anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1948, fu la terza sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu, riunitasi a Parigi, ad approvare la Dichiarazione universale sui Diritti Umani per sancire nella forma più solenne che gli immani crimini commessi dai nazifascisti non sarebbero più stati tollerati. Fondata sui principi del Bill of Rights della rivoluzione americana e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della rivoluzione francese, la Dichiarazione universale dei Diritti Umani - che ebbe come paladina Eleanor Roosevelt, moglie del presidente americano Franklin D. Roosevelt scomparso pochi anni prima - prevede nel suo primo articolo che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti, sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Venne approvata con il voto di 48 dei 58 Paesi dell’Onu di allora con l’astensione del Sudafrica dell’apartheid, dell’Arabia Saudita degli sceicchi e di una pattuglia di Paesi comunisti guidati dall’Unione Sovietica (mentre la Cina votò a favore). Da quel momento i diritti umani divennero il più importante tassello dell’arsenale delle democrazie nella sfida al comunismo sovietico durante la Guerra Fredda perché consentirono all’Occidente di diventare il difensore delle libertà individuali dei cittadini dei Paesi dell’Est, sistematicamente violate dal Cremlino e dai suoi leader vassalli. Da qui l’importanza degli accordi di Helsinki del 1975 quando la distensione Est-Ovest ebbe inizio grazie ad un’intesa che affiancava il riconoscimento dei confini esistenti in Europa - frutto della realpolitik - all’articolo VII sul “rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Fu quello scambio, concordato fra il presidente Usa Gerald Ford e il leader sovietico Leonid Breznev, che consentì alle democrazie di aprire un primo varco nella fortezza sovietica, ottenendo sulla carta un impegno a proteggere le libertà individuali che diede ossigeno al dissenso sovietico, generò la stagione dei samizdat (le pubblicazioni illegali) e i manifesti degli oppositori nell’Est, fu determinante per la mobilitazione popolare che portò alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e all’implosione dell’Urss due anni dopo. Se non ci sono dubbi sul fatto che la Strategic Defense Initiative di Ronald Reagan dimostrò all’Urss di Mikhail Gorbaciov l’irraggiungibile vantaggio americano nella corsa alle armi, non ve ne possono essere anche sul fatto che fu l’impegno delle democrazie sui diritti umani a gettare un ponte verso i popoli dell’Est, spingendoli a ribellarsi al comunismo sovietico. Nelle parole dell’ex dissidente Natan Sharansky “quando eravamo nel buio nei gulag sapevamo che vi battevate per noi e questo ci diede la forza di resistere”. Per lo stesso motivo Giovanni Paolo II si recava spesso in viaggio in Polonia: attestando con la sua presenza quei diritti alla libertà di fede che il comunismo negava. Il punto è che, dissolta l’Urss, l’impegno delle democrazie sui diritti umani è durato - fra molte esitazioni - poco più di un decennio, passando attraverso un tardivo intervento contro il genocidio in Ruanda e le operazioni militari nei Balcani per proteggere bosniaci e kosovari dalla pulizia etnica perseguita dal nazionalismo serbo di Slobodan Milosevic. Ma dall’inizio del nuovo secolo l’avvento della globalizzazione ha progressivamente ridotto l’attenzione delle democrazie sui diritti umani. Governi, Parlamenti e opinioni pubbliche - su entrambi i lati dell’Atlantico - hanno fatto prevalere sempre più le ragioni della realpolitik nei rapporti con despoti, tiranni ed autocrati. L’idea di una crescita globale capace di progredire nell’interesse di tutti ha fatto precipitare l’attenzione per quei diritti che le democrazie avevano spinto l’Onu a garantire dopo la sconfitta di Hitler ed avevano poi sostenuto durante la Guerra Fredda. Il risultato è stato chiudere gli occhi per oltre venti anni sulle estese violazioni dei diritti umani in nazioni come Cina e Russia, Iran e Nord Corea, Venezuela e Cuba, Siria ed Arabia Saudita. Consentendo ad ogni despota e autocrate di irridere l’impegno dell’Occidente sui diritti, facendo maturare l’immagine di democrazie talmente attirate dai profitti economici da essere incerte e deboli sui valori, dunque più vulnerabili. La Russia di Vladimir Putin è forse la nazione che più ha tratto vantaggio dalla miopia delle democrazie sui diritti: il leader del Cremlino ha usato la violenza più feroce in Cecenia; ha aggredito con le armi Georgia, Crimea e Donbass; ha avvelenato oppositori e dissidenti in patria e all’estero; ha gettato in prigione i rivali politici; ha varato leggi contro i diritti Lgbt; ha inviato legioni di mercenari a fare guerre contro civili in Siria, Libia e Sahel; ed ha consentito a bande di pirati cybernetici di operare liberamente sul web. Il tutto nel continuo, assordante, silenzio di leader americani ed europei che affascinati dalla possibilità di “reset con Mosca” hanno continuato ad offrire concessioni politiche ed accordi economici. Fino agli ultimi giorni precedenti l’invasione dell’Ucraina, quando Joe Biden ed Emmanuel Macron chiamarono Putin per proporgli un negoziato sulla “nuova architettura di sicurezza europea” che lui aveva oramai deciso di perseguire con la forza militare. È stata dunque la ritirata delle democrazie sui diritti umani a far percepire a Putin che erano oramai talmente flaccide da poter essere umiliate su un campo di battaglia europeo. Ma la resistenza degli ucraini è stato l’imprevisto che ha rovesciato gli esiti dell’invasione russa ed i crimini di guerra commessi dalle truppe di Putin hanno riproposto, in maniera lampante e indiscutibile, la necessità per le democrazie di riprendere la battaglia di Eleanor Roosevelt e riportare la difesa delle libertà individuali al centro degli interessi nazionali e della propria visione del mondo. Perché in ultima istanza ciò che distingue le democrazie dai despoti di ogni colore e stagione è il rispetto degli individui. Tornare su questo terreno oggi può essere decisivo, come lo fu dopo gli accordi di Helsinki, per gettare un ponte verso tutti quei cittadini russi che amano i propri diritti e desiderano vivere in un Paese capace di rispettarli. Russia via dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu... ma la presidenza resta all’Arabia saudita di Domenico Quirico La Stampa, 10 aprile 2022 Questa è una guerra assoluta in cui sono in gioco destini preziosi e definitivi. Abbiamo negli occhi un popolo che si allunga per le strade, e non è una marcia, una ritirata e neppure un vero esodo. È una decomposizione, spettacolo spaventoso prossimo al caos. È obbligatorio prima di tutto che l’Occidente lasci totalmente, assolutamente, minuziosamente il monopolio della bugia, della ipocrisia e perfino delle mezze verità alla Russia, l’aggressore. Non è la quantità di armi che mettiamo in campo e quanto gas risparmiamo che ci darà la vittoria, quella vera, sul tiranno. Sarà il coraggio con cui rifiutiamo qualsiasi sotterfugio e complicità in nome della “realpolitik”. Tutto ciò che in qualche modo metta in discussione il comandamento che ci deve distinguere, che cioè l’Uomo merita sempre di restare lo scopo dell’Uomo. L’odio e la pulsione cieca che l’etichetta “occidentale” suscita in diversi fanatismi contemporanei dimostra quanto l’Europa rimanga irrecuperabile per i totalitarismi. Ma questo soltanto se sa annullare le piccole bassezze e le grandi viltà di cui è lastricata la sua tranquillità. Altrimenti gli altri diranno: fiuto in voi il mio stesso odore, siamo uguali. Come osate rimproverami? Perché dire questo? Perché vorrei parlare delle Nazioni Unite e della esclusione della Russia dal Consiglio che si occupa dei diritti umani. Non certo per dire che la Russia non l’abbia meritato per quello che fa in Ucraina, ma per aggiungere un particolare a cui nessuno ha prestato molta attenzione. Preso dalla furia di esultare perché l’Onu improvvisamente sembra risorto, con quel voto largamente maggioritario, dal vergognoso letargo in cui i suoi dirigenti e il segretario generale innanzitutto, con l’inerzia amministrativa sembravano caduti da quaranta giorni a questa parte. No. Il mio scopo non è discutere quello che è stato detto dagli occidentali, tra cui l’Italia, per condannare la Russia meritatamente, ma ciò che è stato taciuto. Ovvero sono andato a leggere i nomi delle nazioni che fanno parte del Consiglio che si occupa appunto delle violazioni dei diritti umani. Vedo inarcarsi sopracciglia. Dove si va a parare? Semino il disordine? Rispondo: ne ho bisogno. Scuoto la saldezza della grande coalizione costruita contro le prepotenze del signore del Cremlino? Indebolisco il meccanismo messo in piedi con pazienza che permetterà di mettere all’angolo il nuovo Hitler? Comincio a esser stufo di questi appelli al realismo, a esser furbi “altrimenti non si vince”. L’uomo occidentale è definito da ciò che lo inquieta, non da ciò che lo rassicura. E per questa guerra abbiamo bisogno di ripartire da zero. È una precauzione strategica non tacere. Sono certo che questa meschina realpolitik a un certo punto sarà utilizzata dal nemico per indebolire la nostra causa. Meglio anticiparlo. Spegnergli ogni mistificazione con l’unica acqua efficace a disposizione, quella del coraggio della verità. Deve esser nostro. Allora leggo i nomi di alcuni dei componenti del consiglio dei diritti umani: Cina, Libia, Eritrea, Pakistan, Qatar, Venezuela... Per esser chiari: il problema non è se questi Paesi si siano astenuti o abbiano votato contro la risoluzione che cacciava la Russia. Il problema è: perché stanno lì, in quel Consiglio? Con che diritto? In nome di che cosa? Il Consiglio è stato creato sedici anni fa. Un solo Paese era stato finora espulso: la Libia di Gheddafi, nel 2011, per la repressione sanguinaria della rivolta di Bengasi. Poi è stata riammessa dopo la liquidazione del Colonnello. E anche qui nasce qualche dubbio. Se pensiamo ai centri di accoglienza per i migranti... Non si poteva per questi Paesi canaglia di cui si conoscono a menadito le pratiche illegali usar subito il meccanismo utilizzato con sacrosanta rapidità per la Russia? In sedici anni mai nessuno dei rappresentanti delle democrazie ha provato un sussulto di decenza e di imbarazzo per il sedersi accanto a quei Paesi quando si discute di diritti umani? Allora prendiamo un Paese a caso che è stato ripetutamente eletto in questo Consiglio: l’Arabia Saudita. Evito di citare come prova a carico il massacro del giornalista oppositore con truculenti particolari dello squartamento con sega a motore e trasporto dei brani del cadavere in sacchi e valigie. Conosco la risposta dei prudenti, dei filosofi dell’astuzia: caso isolato, quello, potrebbe essere l’iniziativa criminale di qualche sgherro troppo zelante che ha voluto ingraziarsi il principe padrone. Scavalco anche le ottanta recenti esecuzioni, tutte in una volta e le delizie di un sistema penalistico che si chiama sharia. Quando lo applicano i talebani afgani è definito uno sconcio vergognoso, quando lo mettono in pratica i riveriti signori dei luoghi santi, beh, è la tradizione religiosa, non si discute di queste cose delicate. Raccolgo prove più legate al caso russo, voglio andare subito al reato grosso. Che si chiama dal 2014 Yemen. È lì che il bel principe tenebroso, per spazzar via gli sciiti che hanno preso il potere violando lo “spazio vitale” della monarchia saudita, ha usato gli stessi metodi criminali di Putin in Ucraina. Ovvero bombardamenti indiscriminati, popolazione civile come bersaglio deliberato, violazione di ogni regola di guerra, massacri. Esagero nel paragone? Ci sono anche qui foto e testimonianze dettagliate e indipendenti: ospedali, scuole, città colpite a tappeto dai bombardieri made in Usa di Riad, si dice decine di migliaia di civili morti. Anche lì come in Ucraina, da anni, vediamo bambini condannati a non invecchiare mai. E una strategia criminale che a Putin, per ora, non si può imputare: l’assedio per fame, con il blocco feroce che non lascia passare cibo, medicine, aiuti. Le conseguenze si possono leggere nei dettagliati documenti di accusa delle Nazioni unite e delle sue agenzie. Si dirà: l’Arabia Saudita è un alleato contro i terroristi (che ha finanziato abbondantemente), fornisce il petrolio, non aggredisce l’Europa come ha fatto Putin. E gli houthi dello Yemen? E i bambini e i civili sepolti sotto le macerie, morti per mancanza di medicine e di cibo? I morti bisogna guardarli, guardarli ancora per placarli e scongiurarli. Ovunque. Se siamo quello che diciamo di essere, ovvero la sentinella dei diritti umani, non abbiamo il diritto di voltare le spalle a nessuno. Dobbiamo porre alle sentinelle che dovrebbero vegliare sempre nel Consiglio per i diritti umani la aspra domanda: a che punto è la notte? Singapore. Un uomo con disabilità intellettiva finirà al patibolo: a chi serve questo omicidio? di Marco Maurizio Gobbo Il Fato Quotidiano, 10 aprile 2022 Nagaenthran K Dharmalingam, un uomo malese con capacità intellettuale definite deficienti o borderline, fu arrestato nel 2009 per l’importazione illegale di 42 gr di diamorfina (eroina), all’età di 21 anni. Nel 2010 fu condannato a morte. Durante la sua valutazione psichiatrica forense, Nagaenthran è stata valutato avere un QI di 69 - un livello riconosciuto a livello internazionale come disabilità intellettiva, funzionamento esecutivo compromesso e Adhd. Contagiato dal Covid a novembre 2021, la sentenza di morte di Nagaenthran è stata sospesa per cinque mesi; è attesa la nuova data in cui il governo di Singapore porterà l’esecuzione a compimento. In tribunale Nagaenthran ha testimoniato di essere stato costretto a portare l’eroina a Singapore da un uomo che lo ha aggredito e ha minacciato di uccidere la sua ragazza. Dr. Ung Eng Khean, psichiatra, presentò un rapporto al tribunale che testimoniava come Nagaenthran stava soffrendo di “incapacità di intendere o volere al momento del suo arresto”. Secondo la legge di Singapore, ciò avrebbe dovuto essere sufficiente per rilasciarlo e far cadere le accuse. L’esecuzione di una persona malata di mente è vietata dal diritto internazionale sui diritti umani, nonché nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (Uncrpd). A che serve versare il sangue di Nagaenthran K Dharmalingam sull’ara di una legge che non è giustizia? A chi serve l’omicidio di un uomo mentalmente disabile, probabilmente istigato nel fare qualcosa della quale non capiva le conseguenze? Aggiungo: la pena di morte per il tentativo di contrabbandare 42 gr di eroina? È una pena proporzionata? Su Change.org la petizione per salvare la vita di Nagaenthran K Dharmalingam: #SaveNagaenthran - Petition for President Halimah Yacob to pardon an intellectually disabled man, who has been sentenced to death for a non-violent drug offence.