Suicidi in carcere, il Dap vara le linee guida per un intervento continuo di prevenzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2022 Una circolare, firmata dal capo Dap Carlo Renoldi, è stata trasmessa ieri ai Provveditori e ai direttori degli istituti. Contrastare il dramma dei suicidi in carcere, rafforzando il carattere permanente delle attività di prevenzione. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vara linee guida per un ‘intervento continuo’, attraverso il quale - si legge nella circolare - “il Dipartimento, i Provveditorati regionali e gli Istituti penitenziari siano tutti coinvolti, in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. La circolare, firmata dal capo Dap Carlo Renoldi, è stata trasmessa oggi ai Provveditori e ai direttori degli istituti. L’obiettivo è quello di rinnovare, anche con il coinvolgimento delle Autorità sanitarie locali, gli strumenti di intervento e le modalità per prevenire tale drammatico fenomeno, che in questi mesi sta registrando un sensibile incremento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il provvedimento traccia alcune linee guida - che seguono interventi attuati in passato da parte della Direzione generale dei Detenuti e del Trattamento - individuate in una riunione dedicata al tema della prevenzione dei suicidi alla presenza del Capo Dipartimento Carlo Renoldi, del Vice Carmelo Cantone e alla quale hanno partecipato i Direttori generali del Dap, i Provveditori regionali e numerosi Direttori di istituto. Nella circolare sono definite alcune linee di intervento da implementare in ogni istituto, chiamato altresì a verificare lo stato dei Piani regionali e locali di prevenzione e la loro conformità rispetto al ‘Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti’. Saranno gli staff multidisciplinari - composti da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - a svolgere in ogni istituto l’analisi congiunta delle situazioni a rischio, al fine di individuare dei protocolli operativi in grado di far emergere i cosiddetti ‘eventi sentinella’, quei fatti o quelle specifiche circostanze indicative della condizione di marcato disagio della persona detenuta che - come si legge nella circolare - “possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia Penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti” ed essere rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. Nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico delle persone detenute. Carceri e suicidi, ora si muove il Dap ma le linee guida fanno già discutere di Viviana Daloiso Avvenire, 9 agosto 2022 Ci sono voluti cinque suicidi in sette giorni per rialzare l’asticella dell’attenzione sull’abisso delle carceri italiane. Se non quella della politica - impegnata su ben altri fronti in queste calde giornate d’agosto - almeno quella del Dipartimento di amministrazione penitenziaria che (come preannunciato settimana scorsa sulle pagine di Avvenire dal Garante dei detenuti, Mauro Palma) ieri ha varato le sue “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, appunto, inviando una circolare ai provveditori e ai direttori di tutti gli istituti italiani. Obiettivo, sulla carta almeno: rinnovare, anche con il coinvolgimento delle autorità sanitarie locali, gli strumenti di intervento e le modalità per arrivare prima nelle tragedie che troppo spesso nelle ultime settimane hanno coinvolto le strutture di detenzione. La lista delle cose da fare è lunga e molto complicata considerando i numerosi problemi da gestire nella quotidianità degli istituti, sovraffollati e spesso in condizioni strutturali precarie: per il Dap, in sostanza, saranno gli staff multidisciplinari - composti da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - a svolgere in ogni struttura l’analisi congiunta delle situazioni a rischio, al fine di individuare dei protocolli operativi in grado di far emergere i cosiddetti “eventi sentinella”, quei fatti o quelle specifiche circostanze indicative della condizione di marcato disagio della persona detenuta “che possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti” ed essere rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. Nella circolare, inoltre, il capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale “attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico delle persone detenute”. Misura di ancor più difficile applicazione, considerando l’altro annoso problema degli organici dietro le sbarre. Proprio ieri sul tavolo del capo del Dap era stata recapitata la lettera-appello dell’Unione delle camere penali (Ucpi), scritta sulla spinta delle “drammatiche notizie giunte in questi giorni dagli istituti penitenziari, relative al numero di suicidi e allo stato di enorme sofferenza dei detenuti aggravato dall’incessante caldo”. Gli avvocati penalisti chiedono un incontro urgente con in vertici dell’amministrazione penitenziaria proprio con lo scopo di comprendere “le modalità con cui viene affrontata questa emergenza, che sta rendendo ancor di più la detenzione in Italia contraria alle più elementari regole della vita in un Paese civile” e insistono, citando sempre l’intervista rilasciata dal Garante ad Avvenire, sull’impossibilità di tradurre in pratica “l’approccio multidisciplinare” suggerito dalle stesse Linee guida. Anche perché, e questo lo ha ricordato con un duro intervento il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, David Lazzari, “i presidi sanitari nelle carceri sono sguarniti di professionisti della salute mentale”. “Chi c’è - spiega - fa naturalmente del suo meglio, ma spesso né il numero di ore né gli strumenti forniti sono completamente adeguati. In più gli psicologi esperti ex art. 80 hanno un numero di ore così esiguo che non resta tempo per lavorare sul trattamento oltre che sull’osservazione e spesso nemmeno per lavorare in maniera integrata con i colleghi dei servizi sanitari”. Sarebbe più lungimirante, allora, “rivedere il ruolo dello psicologo nell’ordinamento penitenziario e farne parte integrante dello staff - continua Lazzari. Una figura che lavori su più fronti per contribuire concretamente all’individuazione del trattamento in carcere e lavorare sul benessere della comunità carceraria tutta. La Comunità professionale psicologica, attraverso di noi, da tempo ha avanzato proposte e siamo pronti a collaborare se si vuole fare davvero qualcosa”. Ma ci sono anche interventi di facile attuazione che potrebbero immediatamente alleggerire lo stato di tensione accumulato dietro le sbarre nelle ultime settimane di caldo torrido (con molte carceri in emergenza idrica, oltre che stracolme): favorire i contatti dei detenuti con le famiglie, per esempio, attraverso telefonate e incontri è la strada indicata da Antigone nell’ultimo, choccante rapporto sulle condizioni drammatiche dei detenuti reso pubblico appena un paio di settimane fa, e ribadita dal Garante Mauro Palma. “Per ridurre i suicidi - ha detto su queste pagine - nel carcere bisogna far entrare la speranza”. L’Ucpi chiede incontro a Dap su emergenza suicidi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2022 Dall’inizio dell’anno 47 carcerati si sono tolti la vita. Un incontro urgente con in vertici dell’amministrazione penitenziaria sui suicidi in carcere per conoscere “le modalità con cui viene affrontata questa emergenza, che sta rendendo ancor di più la detenzione in Italia contraria alle più elementari regole della vita in un Paese civile”. A chiederlo al capo del Dap Carlo Renoldi e al suo vice Carmelo Cantone è l’Unione delle camere penali, sulla spinta delle “drammatiche notizie giunte in questi giorni dagli istituti penitenziari, relative al numero di suicidi e allo stato di enorme sofferenza dei detenuti aggravato dall’incessante caldo”. “Nel silenzio di tutti i partiti politici, in queste ore e fino al 25 settembre prossimo impegnati in una campagna elettorale che già si delinea priva di valori e di qualità, ma solo quantitativa, sul numero dei voti che improbabili coalizioni ritengono di accaparrarsi, non possiamo girarci dall’altra parte ed ignorare il trattamento che i detenuti stanno subendo in questi giorni”, scrivono il presidente dell’Ucpi Giandomenico Caiazza e i responsabili dell’Osservatorio Carcere, Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro. “La recente intervista del Garante Nazionale rilasciata all’Avvenire, fa riferimento ad una circolare emessa dal Dipartimento ed inviata alle Direzioni degli istituti, in cui s’invitano i Direttori a perseguire un approccio multidisciplinare per affrontare l’emergenza. In cosa consista questo ‘approccio multidisciplinare’, non è stato chiarito dal Professore Palma, né riusciamo a comprendere come il termine possa trovare applicazione in carcere”, sottolinea tra l’altro l’Ucpi. Spp, oltre 60% suicidi è di tossicodipendenti - Oltre il 60% dei suicidi in carcere ha come vittime tossicodipendenti o detenuti con problemi psichici. Lo sottolinea il segretario generale del Spp (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo, che parla di “strage di Stato” con riferimento a questo fenomeno e prende spunto dall’ultimo detenuto che si è tolto la vita, un giovane tossicodipendente nel carcere di Frosinone, il 47esimo dall’inizio dell’anno. “All’emozione per questa ennesima morte, come per quella della sua coetanea tossicodipendente che si è tolta la vita a Verona, è necessario però far seguire la lucida analisi della situazione” afferma il sindacalista che innanzitutto accende un faro sui numeri: in carcere i tossicodipendenti sono “circa 18mila(poco meno del 30% del totale); il 13% del totale della popolazione detenuta ha una diagnosi psichiatrica grave, in numeri assoluti significo oltre 7 mila persone. Con queste persone particolarmente fragili nel 2021 che nel 2022, la media di assistenza psichiatrica e psicologica si attesta intorno alle 10 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi”. “Il carcere non può diventare il ‘ghetto sociale’ nel quale liberarsi di persone con specifiche problematiche sino a lasciarle morire” sostiene Spp. Se la pandemia ha accentuato in generale “situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid”. “Da tempo” il sindacato ha proposto l’istituzione di Sportelli di sostegno psicologico, così come corsi di formazione ed aggiornamento e il potenziamento degli organici del personale della polizia penitenziaria perché sia “maggiormente preparato ad affrontare casi di autolesionismo e suicidio. “Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti testimonia di aver rinunciato al suoi dovere civico fondamentale: le persone in custodia non devono essere abbandonate a sé stesse”, conclude Di Giacomo. Il caso dei malati psichiatrici detenuti illegalmente in Italia di Manuela D’Alessandro agi.it, 9 agosto 2022 Ad accoglierli dovrebbero essere le Rems, strutture di cura e sicurezza. Ma sono piene con liste di attesa di un anno e c’è chi, come Giacomo si è tolto la vita dietro le sbarre. In Italia ci sono decine di persone detenute in modo illegale alla luce del sole. Giacomo Trimarco, arrestato per furto di un telefonino, era una di queste. Si è tolto la vita il 31 maggio scorso a 21 anni nel carcere di San Vittore dove non doveva stare. Da otto mesi i magistrati lo avevano destinato a una Rems, una di quelle strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari a cui sono destinati gli autori di reato incapaci di intendere e di volere e socialmente pericolosi. Ma per il ragazzo, che soffriva di un disturbo borderline della personalità, non c’era posto. E non c’era nemmeno per F.F., 22 anni, che, racconta all’AGI la sua legale, Federica Liparoti, “è stato allettato e sedato per un mese, anche se non ne aveva bisogno, nel reparto psichiatrico di Melegnano” finché un giudice, in attesa di una Rems, ne ha disposto la liberazione con l’obbligo di firma. Da tre mesi anche O.D.B., 22 anni, si trova nel carcere di Pavia per uno scippo nonostante un giudice lo abbia assegnato alla residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza. Il suo difensore spiega che “è come un bambino, sorride sempre. È stato il fratello a nominarmi come legale, lui non capisce e ogni giorno dietro le sbarre in più è senza ragione e un danno per la sua salute e dignità”. La condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo - Il 7 giugno il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha risposto così a un’istanza di sollecito di Liparoti: “Tutte le strutture del territorio nazionale hanno dichiarato l’indisponibilità”. A definire illegittime questo tipo di detenzioni è stata nel gennaio di quest’anno la Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per la violazione del divieto di trattamenti e pene inumane e degradanti in relazione al caso di un giovane paziente psichiatrico rimasto due anni nel carcere di Rebibbia perché non c’era spazio in una Rems. Sono 33 le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza introdotte dalla legge 81 del 2014 con l’eliminazione degli ospedali psichiatrici giudiziari che erano luoghi molto simili ai manicomi cancellati dalla legge Basaglia nel 1978. Non ce n’è nemmeno una in Valle d’Aosta, Umbria e Molise anche se, osserva Francesco Maisto, il Garante dei detenuti del Comune di Milano, “ce ne dovrebbe essere una per regione”. I numeri al luglio del 2021, ultimo statistica ufficiale disponibile, indicano che i posti letto disponibili sono 652 con circa altrettante persone in lista per un tempo medio di attesa di 304 giorni. Il punto è che durante questo quasi anno alcune di queste persone stanno dove non dovrebbero: in carcere. “Una situazione assurda ma le Rems non sono dei piccoli manicomi” - “E’ una situazione assurda - dice Maisto - uomini e donne che hanno lo status di internati non possono stare dove ci sono imputati e condannati. Le Rems rappresentano però un grande passo avanti perché prevedono cure sul territorio durante soggiorni che hanno un inizio e una fine e non possono andare oltre la pena che va scontata. Non è vero, come sostengono una minoranza di psichiatri e di operatori nel campo della salute mentale, che sono dei piccoli manicomi. La cultura che anima queste residenze è diversa”. Nel corso di una discussione sul caso di un condannato che non trovava posto nelle Rems, il ministero della Giustizia e la Conferenza Stato-regioni hanno scritto una relazione in cui ipotizzano che alla base dell’aumento delle richieste di ricovero che non hanno trovato esecuzione ci sia “l’insufficiente applicazione del principio di extrema ratio della misura di sicurezza detentiva dovuta verosimilmente alla scarsa fiducia nelle misure non detentive e alla debolezza dei servizi e una cultura, precedente alla riforma, che come prima risposta alla malattia mentale immaginava un luogo in cui collocare la persona rinunciando a ogni forma di inclusione sociale del condannato”. La gaffe della Regione Lombardia. La difficoltà della transizione a una nuova mentalità viene testimoniata da una recente gaffe della Regione Lombardia che ha suscitato le proteste degli addetti ai lavori. In un cartello che avvisa della presenza di lavori di riqualificazione in corso, la Rems di Castiglione delle Stiviere viene definita “ospedale psichiatrico giudiziario”. “Lo vogliono sistemare, peccato che le nuove strutture dovrebbero chiamarsi in modo diverso ed essere diverse. Ma restiamo affezionati alle tradizioni” ironizza Antonella Calcaterra, legale che ha assistito il disabile psichico a Strasburgo e che parla di detenzioni “in violazione dell’articolo 13 della Costituzione” secondo cui “non è ammessa alcuna forma di detenzione se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Michele Miravalle che per Antigone si è occupato molto delle Rems allarga la prospettiva al tema del disagio psichiatrico anche per chi è capace di intendere. “Un tempo anche persone che lo erano stavano negli Opg mentre ora restano nelle carceri dove le soluzioni al disagio sono gli psicofarmaci e reparti dedicati spesso non all’altezza, per non dire in condizioni disumane come quelle del carcere ‘Le Vallette’ di Torino in cui abbiamo documentato ‘celle lisce’, contenzione, persone nude, assenza di igiene. Bisogna invece incentivare il passaggio nelle comunità terapeutiche che al momento è molto difficile”. I giudici, spiega, dicono agli avvocati che firmerebbe subito per la libertà vigilata in una comunità terapeutica che però devono trovarsi loro. “Abbiamo segnalazioni di più di 50 comunità interpellate senza un sì. È la prassi non riuscire a trovarle. O hai dei servizi territoriali molto efficienti o un avvocato che si impegna allo spasimo oppure resti in carcere, con le conseguenze che sappiamo, tra cui i suicidi”. La promessa dei genitori di Giacomo - Il giudizio complessivo sulle Rems di Miravelli è comunque “positivo anche se pezzi della magistratura faticano ad accettare che ci siano rei che ‘sfuggono’ alla loro competenza a favore di quella sanitaria. Le persone che, secondo statistiche recenti, aspettano in carcere un posto sono 42, quindi non enfatizzerei più di tanto il problema a livello numerico. L’idea che queste strutture debbano avere al massimo 20 posti è giusta per evitare il sovraffollamento e aprirne altre non sarebbe la soluzione del problema perché più allarghi il ‘recinto’ più persone ci fai entrare”. “Ci impegneremo perché nessun altro, come nostro figlio, muoia da detenuto illegale” hanno promesso in un’intervista al Corriere della Sera i genitori di Giacomo. Vite e morti nelle carceri italiane: il sistema detentivo è tutto da ripensare di Valentina Mercanti globalist.it, 9 agosto 2022 Lo scenario attuale è una sconfitta per tutti, qualcosa che non trova spazio in una società che voglia definirsi moderna e civile né onora il principio che è sancito nella nostra Costituzione. Lo scorso 26 maggio un giovane italiano di nome Abou El Maati, 24 anni, si è suicidato nel carcere di San Vittore. Neppure due settimane dopo, il 7 giugno, si è ucciso nella cella vicina Giacomo Trimarco: 21 anni, dentro per il furto di un cellulare, lui in carcere non avrebbe neppure dovuto esserci; da 8 mesi era stato destinato a una REMS per curare un disturbo di personalità definito incompatibile con la detenzione, ma l’attesa che si liberasse un posto lo ha relegato proprio a San Vittore, dove al terzo tentativo è riuscito a togliersi la vita inalando il gas. Pochi giorni fa, il 1 agosto, una donna di 36 anni con problemi di tossicodipendenza si è impiccata nel carcere di Rebibbia. Qualche ora dopo, Donatella - 27 anni, detenuta per piccoli furti e anche lei in lotta con le dipendenze - si è uccisa con il gas nel carcere di Montorio a Verona, mentre di lì a poco una pratica in esame le avrebbe probabilmente assegnato un’alternativa al carcere. Ancora, il 5 agosto Cossio Cicchiello, 50 anni, si è ucciso nella sua cella ad Arienzo impiccandosi con i brandelli del lenzuolo. È un elenco lungo e straziante: 60 nel 2020, 54 nel 2021 e a 5 mesi dalla fine dell’anno i suicidi accertati nelle carceri italiane sono già 47. C’entrano il sovraffollamento - che annienta gli spazi vitali e rende le celle invivibili - l’insufficienza dell’intervento psichiatrico nelle carceri e, ancor prima, la difficoltà dei servizi territoriali a garantire la continuità terapeutica. Ma c’entrano anche la scarsa accessibilità al lavoro e alla formazione in carcere e una pena che, così com’è, non può assolvere ad alcuna funzione riabilitativa. Per non citare la fatiscenza e l’insalubrità della maggior parte degli istituti penitenziari: logori blocchi di cemento sbattuti nelle periferie 40 o 70 anni fa, troppo lontani da quella società in cui lo Stato avrebbe il dovere di reinserire ogni singolo essere umano che vi detiene. Non da ultimo, le condizioni in cui è costretto a lavorare tutto il personale penitenziario, la cui incolumità è sempre più a rischio: meno di una settimana fa, l’ultima aggressione di una detenuta ai danni di un agente nel carcere di Sollicciano, che recentemente il Garante regionale per i diritti dei detenuti della Toscana ha definito in un intervista a Il Tirreno “una realtà fuori dal tempo e dalla Costituzione” […] “nonostante il personale, dal direttore alla polizia penitenziaria, si diano un gran daffare”. Se mai ci fosse bisogno di aggiungere altro correrebbe in soccorso l’ultimo rapporto di Antigone, che porta alla luce due autentici paradossi: mentre i reati sono diminuiti, la durata delle pene è aumentata; peggio ancora, gli ingressi in prigione sono calati ma la recidiva sta salendo alle stelle. Numeri alla mano, alla fine del 2021 solo il 38% dei detenuti nelle carceri era alla prima detenzione e, del restante 62%, il 18% c’era già stato almeno 5 volte. Sono dati impietosi che certificano l’inadeguatezza di un sistema tutto da ripensare. Dipendenze, disagi psichici, povertà e abusi: da questo proviene la maggior parte delle persone detenute nel nostro Paese; spesso sono dentro per reati minori, scontano la pena nel contesto che conosciamo e tornano appena usciti alle sole cose che conoscono, finché la loro storia non finisce per ripetersi. Il solo modo per rompere questo circolo vizioso è, a mio avviso, imparare a garantire il pieno godimento dei diritti sociali: non si tratta di mitizzare la figura del detenuto ma di riconoscere che trattare chi è dentro perché ha sbagliato come se non meritasse lo status di essere umano è l’esatto opposto di ciò che serve per costruire una società più sicura. Lo scenario attuale è una sconfitta per tutti, qualcosa che non trova spazio in una società che voglia definirsi moderna e civile né onora il principio che è sancito nella nostra Costituzione. È scritto a caratteri cubitali sul muro di contenimento di una terrazza del carcere della Gorgona: articolo 27, comma III, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sta a noi - Stato e società - l’onere di tenere fede a quelle poche e potenti parole. Suicidi in carcere tra indifferenza e imbarazzanti silenzi di Vincenzo Comi* Il Dubbio, 9 agosto 2022 I detenuti muoiono nel totale disinteresse della politica, delle istituzioni e nel silenzio degli organi di stampa. Un ragazzo italiano di 26 anni detenuto nel carcere di Frosinone il 4 agosto 2022 si è tolto la vita. Dall’inizio del 2022 sono 6 i suicidi nelle carceri del Lazio a cui si aggiungo altri 5 i morti per altre cause. Domenica scorsa altro suicidio di una donna detenuta nel carcere femminile di Rebibbia. Nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma qualche giorno fa è morto un uomo detenuto gravemente malato in attesa di un’autorizzazione per poter morire in condizioni umane e circondato dall’affetto dei suoi cari in un hospice. Nel carcere di Viterbo un uomo è stato trovato morto in cella e sono in corso accertamenti per individuare le cause. Il Garante Nazionale dei detenuti ha riscontrato in questi giorni nel carcere di Regina Coeli una cella inagibile con servizi igienici rotti, acqua stagnante nel lavabo, finestre sigillate, materasso ricoperto da fogli di giornale, invasa dalle formiche e con materiale organico alle pareti. Non si hanno notizie di riscontri alla denuncia del Garante. Le notizie ci vengono fornite dal Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, infaticabile nell’impegno, ma con a fianco solo pochi altri, nella totale indifferenza della società degli organi di stampa e della politica. Non servono parole per esprimere lo sdegno e la ferma condanna per una realtà come quella delle condizioni delle carceri che - in spregio ai valori di uno stato di diritto - rendono disumane le condizioni dei reclusi. È un dato oramai incontestabile la quotidiana e costante violazione del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità nell’esecuzione della pena, principio garantito dalla nostra Costituzione. A questo si aggiunga la pervicace visione carcerocentrica della pena di una gran parte dei magistrati italiani che - sia per i detenuti in attesa di giudizio che per i definitivi - trascura che il carcere deve rimanere l’estrema soluzione rispetto a tutte le altre misure restrittive che bilancino la sicurezza con il reinserimento sociale. La politica in questi giorni è impegnata nella campagna elettorale per le elezioni di settembre, ma sulla giustizia nessun partito si vuole sbilanciare. E nessun partito poi si avvicina al tema dell’esecuzione della pena e del carcere, argomento identificato come “rischio perdita voti”. Che vergogna. Eppure sarebbe facile ripartire dai lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione penale abbandonati dal governo Conte in poi. Il livello di uno stato di diritto si misura dalle condizioni degli ultimi. Cosa rispondono i politici ai familiari dei detenuti morti? E ai detenuti che vivono in condizioni disumane? L’indifferenza non è più tollerabile. Eppure constatiamo solo imbarazzanti silenzi dei vari rappresentanti dei partiti. È da tempo che denunciamo le condizioni insostenibili. Così come è da tempo che denunciamo le condizioni insostenibili del tribunale di sorveglianza di Roma competente per tutti i detenuti degli istituti del Lazio privo di una adeguata organizzazione e di un numero di magistrato sufficiente a smaltire il carico di lavoro. In questo periodo l’unico argomento di interesse a livello istituzionale sul tribunale di sorveglianza di Roma è la nomina del nuovo presidente. Eppure è solo di poco tempo fa una protesta dei penalisti di tutto il Lazio conclusa con una giornata di astensione dalle udienze per denunciare le condizioni del tribunale di sorveglianza. Gli stessi magistrati dell’ufficio hanno condiviso le ragioni della protesta con un documento pubblicato e letto dal presidente del tribunale di sorveglianza nell’assemblea dei penalisti laziali. Eppure nessuno si è interessato è tutto è come prima, anzi in questo periodo feriale è peggio. Anche se il detenuto non va in ferie e le sue istanze arrivano anche ad agosto. E in ultimo la stampa che, salvo poche testate, si dimentica di suicidi, di denunce, di tutti i gravi problemi che affliggono il pianeta carcere. Da quanto tempo ai tg Rai, Mediaset o LA7 non vediamo servizi sulle tragedie che affliggono i detenuti o sui suicidi come in questa occasione. Basta silenzi più o meno colpevoli. La società deve sapere che per costruire uno stato di diritto si devono garantire a tutti i diritti sanciti nella costituzione. E come noi penalisti romani abbiamo già denunciato in occasione dell’apertura dell’ultimo anno giudiziario del Distretto e anche in questa occasione il Direttivo della Camera Penale di Roma ha diffuso un duro comunicato e di una richiesta di accertamento di eventuali responsabilità: solo quando nessun uomo subirà in carcere un trattamento disumano la ferita costituzionale potrà dirsi rimarginata. *Presidente della Camera Penale di Roma “Mettete il telefono nelle celle come in Europa”, l’appello del cappellano contro i suicidi in carcere di Rossella Grasso Il Riformista, 9 agosto 2022 “Una telefonata ti può salvare la vita”. Inizia così l’appello di Don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e Carlo Renoldi, Capo del Dipartimento dell’amministrazione delle carceri affinché sia concesso il telefono nelle celle, come in Europa. “Nelle carceri italiane si sono tolte la vita 47 persone, in questo 2022 - scrive il giovane parroco nel post su Facebook - La solitudine, l’abbandono, la disperazione… urgono alla nostra coscienza risposte concrete. Non facili denunce, ma proposte per arginare l’oscurità, che troppo agilmente prende il sopravvento nelle persone recluse”. Per don Riboldi una soluzione potrebbe essere proprio il telefono in cella. E racconta un episodio che gli è accaduto: “Qualche settimana fa ho ricevuto una telefonata, erano le ore 22, da una persona prima reclusa a Busto Arstizio dove faccio il don, oggi recluso in un carcere del Nord Europa - racconta il parroco nel video su Facebook - Gli ho chiesto: ‘ma come mai a quest’ora?’. E lui: ‘Don mi sento un po’ giù. Hai voglia di ascoltarmi un po’?’. Non siamo noi a decidere quando uno ha bisogno di conforto. Ma i ritmi stabiliti dal nostro ordinamento prevedono che uno possa chiamare 10 minuti alla settimana. Con il post Covid qualcosa di più. In alcuni posti dell’Europa hanno il telefono nelle celle. Possono chiamare, si pagano le loro telefonate. Quando hanno bisogno perché il loro cuore è sofferente, possono cercare quella voce amica che il personale della sicurezza non può certo supplire”. Dal carcere in Nord Europa, il detenuto è riuscito a contattare il parroco a tarda sera senza problemi. Non è un caso che negli ultimi drammatici episodi di suicidi in carcere, i detenuti abbiano deciso di togliersi la vita giusto di notte. Magari è quello il momento in cui si ha maggiore bisogno di conforto, di una parola amica. Le ore di maggiore solitudine, quando tutti dormono e il favore del buio rende più semplice anche mettere in pratica gesti estremi. Un telefono in cella potrebbe forse davvero salvare la vita a tanti. “Ministra Cartabia lei in un anno e mezzo ha girato più carceri di tutti i suoi predecessori messi insieme. Lei ‘ha visto’, come ama sempre ricordare citando le parole del Calamandrei. Perché non adeguarci anche noi ai ritmi del resto dell’Europa? - continua l’appello social di don Riboldi - Se non erro era questa una delle proposte della commissione Ruotolo lo scorso dicembre. Perché non dare vita a questa opportunità? Di permettere a una persona di chiamare quando ha bisogno. Se quelle 47 persone che si sono tolte la vita nelle carceri, se avessero potuto fare una telefonata, chissà, magari sarebbero ancora qui con noi. È un rischio che credo valga la pena correre, quello di salvare delle vite. Ministra Cartabia, non passerà un altro Kayròs (un tempo opportuno) se non lei che ‘ha visto’, chi? Se non ora, quando? Chissà siamo anche in tempi di campagna elettorale, magari qualche politico sentirà questo grido di aiuto dal quale non possiamo esimerci”. Ergastolo ostativo, condannato a un destino senza speranza? di Valentina Stella Il Dubbio, 9 agosto 2022 Nulla di fatto nella riunione di maggioranza della commissione Giustizia con la sottosegretaria Macina e la capigruppo si è aggiornata al prossimo sei settembre. Quale sarà il destino della normativa sulla revisione dell’ergastolo ostativo? Approvato alla Camera lo scorso 31 marzo, il provvedimento si è arenato al Senato. In tutto sono stati presentati trentadue emendamenti dai senatori Grasso (Liberi e Uguali), Giarrusso (ItalExit), Balboni e Ciriani (Fratelli d’Italia), Cucca (Italia Viva), Caliendo e Dal Mas (Forza Italia), Pillon, Emanuele Pellegrini, Pepe, Urraro (Lega). Questi non sono mai stati votati. Si è cercato da parte delle forze politiche di superare i nodi più intricati anche attraverso una interlocuzione con il governo, come richiesto dal senatore dem Mirabelli, ma pure questa strada è fallita. Infatti la riunione dello scorso due agosto, in cui erano presenti la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina e i capigruppo dei partiti di maggioranza della commissione Giustizia, non ha risolto la questione delle possibili modifiche da apportare al testo licenziato a Montecitorio. La conferenza dei capigruppo del quattro agosto ha rinviato tutto al sei settembre alle 15: 30, quando si terrà una nuova riunione per decidere se esaminare o meno i vari provvedimenti prima della fine della legislatura, tra cui appunto il fine pena mai. “In assenza di una disciplina chiara e uniforme, rischiamo che boss e condannati per gravissimi reati, senza aver collaborato con le autorità giudiziarie, possono usufruire di benefici. Per noi del Movimento 5 stelle questo è inaccettabile” aveva detto qualche giorno fa il senatore del M5s, Emiliano Fenu, durante le dichiarazioni di voto sul ddl di riforma della giustizia tributaria. Anche il leader Giuseppe Conte aveva scritto su Facebook: “Mentre gli altri partiti sono impegnati a definire ammucchiate elettorali e a spartirsi collegi per le elezioni, noi ci occupiamo di come evitare che boss mafiosi e condannati per reati molto gravi possano uscire dal carcere come se nulla fosse, usufruendo dei benefici penitenziari, se non venisse riformata in tempo l’attuale legge sull’ergastolo ostativo, che rischia di essere dichiarata a tutti gli effetti incostituzionale dalla Consulta”. Peccato, però, non abbia ricordato che la crisi e il conseguente blocco dei lavori parlamentari l’ha aperta proprio lui. Sulla riforma dell’ergastolo ostativo, va ricordato, influisce appunto il termine dell’ 8 novembre concesso dalla Corte costituzionale a maggio: entro quella data il Parlamento dovrà portare a termine la modifica dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. La domanda, che si pongono soprattutto i 1280 detenuti “senza speranza”, è: si giungerà ad approvare una legge? Difficile, se non impossibile che questo avvenga. La discussione dovrebbe riprendere in piena campagna elettorale e, in caso di modifiche in Senato, il testo dovrebbe tornare alla Camera. Se dunque questo Parlamento non riuscirà, il nuovo avrebbe delle chance entro il limite temporale concesso dalla Consulta? Anche qui la partita si fa difficile sempre per una questione di tempi. In teoria, il provvedimento potrebbe essere inserito tra quelli urgenti per il nuovo Parlamento. Ma proprio quest’ultimo potrebbe mandare all’aria tutto il lavoro fatto e riaprire i giochi. Immaginate che vinca Giorgia Meloni a capo del centrodestra. Fratelli d’Italia, ricordiamo, l’8 giugno dello scorso anno ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale volta a modificare l’articolo 27 della Carta. Si prevede che si aggiunga il comma: ‘ La legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. Certo, questo non è legato alla riforma dell’ostativo, in quanto già adesso la concessione dei benefici è possibile a condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. Però quella proposta fa emergere la cultura giuridica di FdI che non si farebbe sfuggire l’occasione di peggiorare ancor di più il testo per ora passato solo alla Camera. Ma mettiamo il caso che arrivi l’ 8 novembre e la legge non c’è: che farebbero i giudici costituzionali? Non c’è due senza tre si potrebbe ipotizzare: un terzo rinvio, visto i precedenti, costituirebbe uno sbocco plausibile. Ma sarebbe opportuno? Sappiamo che la Corte giudica le leggi e non fa politica in un certo senso. Tuttavia, soprattutto con un Parlamento a maggioranza centro- destra la Consulta avrebbe una ragione (interiore) in più per dichiarare finalmente in maniera formale l’incostituzionalità del fine pena mai, per noi rischiare di avere un “nuovo ergastolo ostativo” peggiore di quello ipotizzato dal Movimento Cinque Stelle. Il diritto alla difesa sacrificato sull’altare della semplificazione di Maria Masi* Il Dubbio, 9 agosto 2022 La presidente del Cnf Maria Masi: “I nostri rilievi colpevolmente trascurati, almeno a giudicare dagli schemi dei decreti attuativi appena approvati da Camera e Senato”. Non avremmo immaginato che agli inizi del mese di agosto di una delle estati più calde del secolo, dopo quasi tre anni di stato di emergenza generale che ha coinvolto soprattutto la giustizia, saremmo stati travolti finanche da una crisi di governo con lo scioglimento delle camere, l’indizione di nuove elezioni, una campagna elettorale e la rincorsa allo smaltimento degli “affari urgenti”, tra i quali sono stati inclusi atti e procedimenti caratterizzati da un iter procedimentale avanzato e pertanto ritenuti compatibili con il regime di prorogatio. La rincorsa del Governo è certamente giustificabile per non vanificare il lavoro degli ultimi anni e soprattutto per non correre il serio rischio di perdere i fondi previsti dal Pnrr per la giustizia. Europa, Pnrr, missioni, risorse. Sono stati e sono tuttora lessico quotidiano e agenti attivi della politica del fare presto, che in questo Paese certamente non è cosa da poco, ma vista l’occasione irripetibile l’auspicio è che si faccia anche e soprattutto bene. Nonostante la costante interlocuzione con il ministero della Giustizia e nonostante la non trascurabile attenzione (in ogni caso insufficiente) alle nostre proposte e ai rilievi, si è scelto di intervenire quasi esclusivamente sui riti, sulle regole dei processi. L’avvocatura ha continuato senza sosta a rilevare come non sia questa la soluzione più adeguata e come il problema, serio e non più differibile, era e resta quello delle carenze croniche di personale amministrativo, dei troppo pochi magistrati effettivamente “in ruolo”, della promiscuità di funzioni dei giudici a capo degli uffici giudiziari, costretti ad occuparsi degli aspetti organizzativi senza averne le competenze (le poche ore di formazione non sono certo sufficienti a trasferire conoscenza e esperienza manageriale a chi dovrebbe occuparsi solo della qualità della giurisdizione). Crea sconcerto che in alcuni distretti di corte di appello, appena pochi giorni fa, l’avvocatura sia stata costretta a proclamare lo stato agitazione per denunciare carenze e disfunzioni note e trasversali al Nord, al Centro e al Sud. I nostri rilievi sulle riforme sono stati colpevolmente trascurati, almeno a giudicare dalle scelte e dalle priorità individuate dagli schemi dei decreti attuativi appena approvati da Camera e Senato. Semplificazione, celerità e razionalizzazione: sono le sole direttrici che - in verità più nei proclami che nelle soluzioni concrete - informano lo schema e il contenuto dei decreti legislativi delle riforme della giustizia civile e penale. Avremo modo di rappresentare, ancora una volta, le nostre perplessità su molti aspetti, sia per il processo civile che per quello penale, ma già ora, dopo una prima lettura non troppo superficiale dei decreti, sembra che i timori dell’avvocatura fossero e siano reali. Il timore è che il prezzo da pagare, in nome della semplificazione, celerità e razionalizzazione delle procedure sia, ancora una volta, il sacrificio dell’esercizio del diritto alla difesa e l’equilibrio tra funzioni e poteri nel processo. In quello civile, per esempio, la contrazione dei termini processuali solo ed esclusivamente per la difesa mentre al magistrato è consentito riservare il deposito finanche della c.d. sentenza a verbale, ovvero liberarsi dell’impugnazione a suo giudizio “non chiara” come pure spogliarsi della responsabilità dell’interpretazione delle questioni più complesse, delegandola alla Corte di Cassazione mentre il processo è sospeso e con esso l’istanza di tutela del cittadino che attende giustizia, lasciano molto amaro in bocca. Come lo lascia, nel processo penale, la reintroduzione dei filtri in appello sotto le (s)mentite spoglie dell’inammissibilità. Ed è un’amarezza acuita dal dubbio che l’ansia da prestazione delle forze politiche (che evidentemente anima chi oggi è più preoccupato di avere tempo e spazio per la definizione di liste, candidati e campagna elettorale) abbia definitivamente compromesso la lucida e attenta analisi dei testi a cui il Parlamento è tenuto, in ossequio alla propria funzione e al mandato dei suoi componenti. Non si comprende altrimenti l’inusitato silenzio delle commissioni Giustizia di Montecitorio e Palazzo Madama sullo schema dei decreti attuativi. E allora, complice la stanchezza acuita dall’afa, ci si chiede se sia valsa la pena concentrarsi e impegnare tempo prezioso sui progetti di riforma, dedicare spazio alle audizioni, cura alle osservazioni, disponibilità a continuare a studiare soluzioni anche quando abbiamo avuto la conferma che difficilmente si sarebbe potuta realizzare una piena convergenza almeno su alcuni dei tanti aspetti critici delle riforme. In ogni caso, il senso di responsabilità e la consapevolezza di quel che la nostra professione necessita hanno impedito che trascurassimo il perseguimento di altri obiettivi, certamente utili e funzionali alla salvaguardia della nostra categoria, all’esercizio della nostra funzione e all’attività professionale. Come, tra tante altre cose, i nostri contributi in tema di monocommittenza, esame di stato, crisi d’impresa, natura giuridica degli ordini degli avvocati, equo compenso e modifica dei parametri. Su quest’ultima proposta, in particolare, oggettivamente buona che non trascura nessun aspetto, nemmeno quello, non scontato, dell’indicizzazione, abbiamo dovuto ottimizzare e accelerare i tempi necessari di consultazione e condivisione con gli ordini e le associazioni, per rispettare le indicazioni imposte dalle varie cabine di regia. Ma nonostante la proposta rientri sicuramente tra gli atti e i procedimenti che hanno concluso l’iter prodromico alla pubblicazione, non vi è traccia di approvazione definitiva. Come non vi è traccia di calendarizzazione della proposta di riforma dell’equo compenso, che probabilmente esigerà maggiore rigore nel rispetto della procedura, trattandosi di materia d’interesse solo per i professionisti. Ed un rispetto che noi vorremmo si applicasse con la medesima cura nel consentire alla commissione ministeriale, incaricata di elaborare le linee guida per i corsi di formazione funzionali alle specializzazioni, di svolgere le funzioni per cui è stata nominata e concepita. Anche il regolamento sulle specializzazioni ha abbondantemente, e non senza ostacoli, esaurito il suo percorso, al punto che sono già evidenti i necessari correttivi da apportare, perché non siano vanificate premessa e scopo. Qualche settimana fa il Cnf, insieme al Consiglio nazionale dei commercialisti, aveva ritenuto giusto fare un appello al senso di responsabilità di tutte le forze politiche per garantire la stabilità, necessaria in questo preciso momento storico, oltre che opportuna per alcune attività non differibili, legate anche alle riforme in corso. Oggi, con l’auspicio di avere maggiore fortuna, l’appello dell’Avvocatura è rivolto sempre e ancora a tutte le forze politiche, affinché si concentrino solo su ciò che possono fare, ma con responsabilità e non trascuratezza, con consapevolezza e non approssimazione. Anche perché non saranno esonerati dal darne conto e ragione nelle occasioni prossime di confronto. *Presidente del Consiglio nazionale forense Stato mafia, altro che presunta: la trattativa fu un vero e proprio bluff di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2022 La Corte d’appello di Palermo nella motivazione della sentenza smonta il teorema: Cosa nostra non ebbe alcun favore, ma bastona anche i Ros per aver agito da soli e senza badare agli errori di calcolo. C’è chi, come il magistrato Nino Di Matteo, esige delle scuse per come fu criticato quando imbastì il processo trattativa Stato-mafia. Oppure, al lato opposto, c’è chi esulta perché l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, dimostra la completa disfatta del teorema. Non è esattamente così. Le motivazioni della sentenza trattativa, a seconda di come la si legge, può far felici o scontentare tutti nel contempo. Ma c’è un dato chiaro, senza alcun errore di interpretazione, dal quale nessuno può fuggire e, quello sì, che smonta l’intera tesi accusatoria: non c’è stato alcun input da parte della politica o pezzi infedeli dello Stato a trattare, ma fu una iniziativa degli ex Ros del tutto autonoma. Parliamo del loro approccio con don Vito Ciancimino per raggiungere un solo ed unico scopo: quello di porre fine alle violenze mafiose. Nemmeno dopo fu coinvolta la politica o un governo in particolare, visto che - e questo viene ben specificato nelle motivazioni - nessuno allentò assolutamente la lotta alla mafia. Anzi, la esacerbò e ciò viene dimostrato con le numerose leggi varate nel corso degli anni. Non solo. La pseudo trattativa (ora possiamo togliere “presunta”, perché parliamo di un bluff che non portò ad alcun beneficio per i corleonesi) non ha nemmeno determinato l’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Se c’è stata - e i giudici qui non la danno per certo - il motivo è da ritrovarsi nell’interessamento di Borsellino sul dossier mafia-appalti. Nessun patto tra Stato e mafia, ma una iniziativa di Mori e De Donno - Quindi nessun patto tra lo Stato e la mafia, ma una pseudo trattativa (ricordiamo che tra l’altro non esiste il reato di trattare) intrapresa personalmente da Mori e De Donno. Ed è qui che arriva la prima forte bacchettata nei confronti dei carabinieri: le trattative sono lecite, ma hanno un senso se intraprese legittimamente dal governo, l’unico corpo deputato a fare determinate scelte. In più la Corte d’Appello di Palermo contesta - e non è ovviamente un dettaglio -che i Ros non intrapresero una semplice operazione di polizia giudiziaria, sia pure con una marcata connotazione info-investigativa. Per i giudici si spinsero oltre le loro prerogative e ciò comportò un errore di calcolo. Le motivazioni smentiscono i sostenitori della trattativa - Cade quindi un pilastro importantissimo del teorema. E sorprende che Marco Travaglio, il direttore de Il Fatto Quotidiano, scriva un editoriale per dire che le motivazioni confermano quello che hanno sempre detto. Casomai l’esatto contrario. L’ex ministro Calogero Mannino non ha dato avvio ad alcuna trattativa per poter salvare la propria pelle. Non è poco, perché - secondo i giudici stessi - ciò ha una rilevanza decisiva stabilire se il loro unico fine fosse quello di far cessare le stragi, oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici cui erano legati da rapporti di reciproco interesse e convenienza, o con cui avevano legami non del tutto trasparenti. Ed ha una rilevanza decisiva non soltanto per la possibile immediata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, almeno per la posizione degli intermediari istituzionali, ma pure perché può discenderne una diversa ricostruzione dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri attraverso i contatti con Ciancimino. È così infatti è stato. I governi non hanno rispettato i punti del presunto papello - Altra narrazione decostruita, ma che Travaglio ha sempre portato avanti assieme ai pm che imbastirono il processo, è quella dei governi che avrebbero rispettato i punti del presunto papello. Altra sciocchezza ben decostruita. Il teorema narra della sostituzione dell’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti con uno più morbido, ovvero Nicola Mancino. Parliamo di una lettura “trattativistica” degli eventi della politica italiana. In realtà la delegazione democristiana nel nuovo governo fu interamente rinnovata, nella sua composizione, rispetto alla precedente compagine, in conformità ad una precisa indicazione strategica (vennero confermati, dei ministri uscenti, sia pure per essere destinati a incarichi diversi, Maria Rosa Russo Jervolino e, appunto, lo stesso Scotti), che aveva motivazioni squisitamente politiche: furono esclusi dalla lista dei democristiani designati dal partito a far parte del nuovo governo coloro che (come Paolo Cirino Pomicino) si erano rifiutati fino all’ultimo di sottostare alla regola dell’incompatibilità tra lo status di parlamentare e gli incarichi di governo, ad eccezione di Scotti, per il quale tuttavia il segretario nazionale confidava che avrebbe rassegnato le dimissioni da parlamentare, una volta accettata la sua designazione a ministro degli Esteri. Così accadde. Per i giudici il ministro Mancino “la guerra alla mafia la fece davvero” - A quel punto, la lotta alla mafia si ammorbidì? Nemmeno per sogno. I giudici osservano che anche per quanto concerne l’attività concretamente dispiegata dalle forze dell’ordine e dagli apparati repressivi dello Stato, con particolare riguardo agli organismi specializzati nell’attività investigativa e di contrasto alla criminalità mafiosa, non si registrò, nelle settimane e nei mesi successivi all’insediamento del nuovo governo - e del nuovo ministro degli Interni, alcun segno che potesse far pensare a un diverso orientamento, o a un mutamento di direttive strategiche od operative del Viminale. “Né si può affermare che il ministro Mancino, nelle sue pubbliche esternazioni, come nella concreta azione a capo del Viminale, abbia minimamente fatto rimpiangere l’intransigenza del suo predecessore nel sostenere la linea della fermezza nella lotta alla mafia e alle organizzazioni criminali in genere”, scrivono nelle motivazioni. Anzi, i giudici sottolineano che, come ministro dell’interno e per quanto di competenza del suo dicastero, il ministro Mancino “la guerra a Cosa nostra la fece davvero”. Per i giudici gli ex Ros agirono da soli e in “maniera improvvida e sciagurata” - Gli ex Ros, quindi, agirono da soli e - secondo i giudici - lo fecero in maniera improvvida e sciagurata. Non accolgono la ricostruzione della difesa e addirittura prendono per assodato che la mancata perquisizione del covo di Riina (anche se in realtà non era il covo, ma l’abitazione della famiglia) fosse un segnale nei confronti dell’ala moderata rappresentata da Provenzano. Perfino quest’ultimo fu - sempre secondo i giudici - agevolato in maniera soft nella latitanza. In realtà sono passaggi fortemente opinabili anche perché sono aspetti che gli ex Ros hanno affrontato nei processi specifici dai quali sono usciti pienamente assolti. Diversi passaggi della motivazione sulla pseudo trattativa restano abbastanza contraddittori e si comprende visto che comunque sia, i giudici ritengono il contatto tra i Ros e Ciancimino una iniziativa improvvida. Gli scontri in procura sono evidenziati dalle sentenze del Borsellino quater - Così come destano stupore alcuni passaggi dove sembra che Borsellino non avesse avuto alcuno scontro in procura. Anzi, sembrerebbe che la colpa fosse dei giornali dell’epoca con l’uscita dello scandalo dei diari di Falcone. In realtà non è esattamente così. Manca nelle motivazioni - ma è solo uno dei tanti elementi non evidenziati -, la citazione del verbale al Csm della sorella di Giovanni Falcone. Quella testimonianza, messa insieme alle altre, fa comprendere che qualcosa di poco chiaro è accaduto in quell’ambiente definito, da Borsellino stesso, il “nido di vipere”. Ma questo approfondimento è di competenza della procura di Caltanissetta, anche perché le sentenze del Borsellino quater danno una descrizione completamente diversa, evidenziando - tra le altre cose - cosa disse il giudice alla moglie Agnese il giorno prima della strage: “Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò accada”. La rivincita del generale Mori di Tiziana Maiolo Il Riformista, 9 agosto 2022 Più chiari di così i giudici che hanno assolto Subranni, Mori, De Donno e Dell’Utri non potrebbero essere. Dicono inoltre che l’accelerazione dell’uccisione di Borsellino fu determinata dall’interesse per il dossier mafia-appalti, mostrata anche da Falcone. La Trattativa, quella con la “T” maiuscola tra i boss e corpi deviati dello Stato, destinata a favorire la mafia fino a far assassinare il giudice Paolo Borsellino, non ci fu. Anzi, le attività che pubblici ministeri come Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, e insieme a loro i giudici che emisero la sentenza di condanna di primo grado, avevano interpretato come aiuti alla mafia, al contrario erano gesti di grande umanità e generosità finalizzati a fermare le stragi e salvare vite umane. Più chiare di così le motivazioni della sentenza che il 23 settembre di un anno fa aveva mandati assolti gli uomini del Ros e il senatore Marcello Dell’Utri non potrebbero essere. Se ne facciano una ragione anche Marco Travaglio e i suoi ragazzi-spazzola di redazione. Anzi, è probabile che, scrivono i giudici dell’appello in sentenza, l’accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino sia stata determinata dall’interesse che il magistrato aveva mostrato, e prima di lui Giovanni Falcone e anche Tonino Di Pietro, per quel dossier mafia-appalti che fu archiviato dalla procura di Palermo. Poi naturalmente, sgomberato il campo dal teorema “Trattativa”, possiamo qualificare come meglio ci aggrada, il tentativo del generale del Ros Antonio Subranni, del colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, di scardinare dall’interno Cosa Nostra e fermare le bombe stragiste attraverso il contatto con Vito Ciancimino. Possiamo anche chiamarlo “trattativa”, quel rapporto, ma le intenzioni e le finalità opposte a quel che ipotizzavano i pubblici ministeri restano. E anche la qualificazione delle azioni dei carabinieri: non erano mafiose ma anti-mafiose, nessuna complicità con i boss quindi. Basta saper leggere, del resto. “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa, e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, furono mossi piuttosto da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato”. Nessuna complicità, ma anche nessuna “zona grigia”, come pare alludere, ancora oggi, il consigliere del Csm Nino Di Matteo, uno di coloro che da pm hanno creduto di più al fatto che negli anni 1992-1993 lo Stato abbia chinato il capo davanti a Totò Riina per salvare, con la complicità di carabinieri amici della mafia, la vita a qualche ministro. Assoluzione totale quindi, sul piano penale, agli uomini del Ros, assolti perché il fatto non sussiste. Ed encomio per la finalità generosa delle loro intenzioni. Ma anche vigorosa tirata d’orecchi sul metodo, una vera mozione di tipo moralistico: “Un’iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti al loro ufficio e ai loro compiti istituzionali”. Se si deve giudicare questa frase, e altre di cui sono infarcite le 2.971 pagine della sentenza, la sensazione è che i giudici presieduti da Antonio Pellino abbiano quasi versato un tributo a quella parte dell’opinione pubblica interpretata ancora ieri dall’ex pm Di Matteo, che ha recriminato il fatto che molte vittime di mafia abbiano anche pagato la durezza dello Stato. Forse dimenticando che nei confronti dei “pentiti”, anche i più sanguinari, lo Stato è stato invece morbidissimo, e nessun magistrato si è permesso, a ogni loro scarcerazione, di rinfacciare il sangue versato. Discorso analogo potremmo fare sul trattamento, veramente ingeneroso, riservato dalle motivazioni della sentenza, al senatore Marcello Dell’Utri. Trattato come amico di mafiosi sulla sola base del suo rapporto con Vittorio Mangano, quasi per dovere dopo la sua condanna per “concorso esterno”. Dopo ventiquattro anni una sentenza è costretta a escludere da qualunque orizzonte la figura di Silvio Berlusconi, che in questo processo avrebbe dovuto svolgere un doppio ruolo. Quello del Presidente del consiglio vittima di un ricatto della mafia, ma la sentenza lo esclude perché Dell’Utri non avrebbe percorso quell’”ultimo miglio” mettendolo a conoscenza delle pressioni di Totò Riina. Ma anche quello del premier che avrebbe avuto il ruolo di agevolare i boss con provvedimenti clementi del suo governo. Cosa che non fece. Non, come sostengono i ragazzi-spazzola di Travaglio, solo perché quel governo durò poco, ma perché non ne aveva alcuna intenzione, tanto che prolungò immediatamente il 41-bis che, nelle previsioni del legislatore del 1992, avrebbe dovuto, in quanto provvedimento emergenziale, avere una durata limitata. La sentenza distrugge anche la credibilità del personaggio più amato dal Fatto quotidiano, un mafioso assassino di nome Giuseppe Graviano. Il quale ogni tanto, dopo essersi scolato una birra nel carcere speciale (è ironico, caro Marco Lillo, rilassati), racconta favole e barzellette sul nonno (che opportunamente non c’è più) che avrebpi be dato soldi a Berlusconi per partecipare ai suoi primi investimenti a Milano. E si porta in giro per l’Italia i pm di Firenze, i quai ritengono che queste farneticazioni siano ottimi indizi per addossare al presidente di Forza Italia la responsabilità di aver commissionato le stragi. Ecco come trattano queste “testimonianze” i giudici del processo d’appello “Trattativa”: dichiarazioni “di dubbia valenza”, perché rese da un “soggetto enigmatico” che “non ha intrapreso alcun percorso di collaborazione né ha fornito corretti segni di dissociazione”. Ma intanto, forse anche grazie all’iniziativa degli uomini del Ros, già dall’inizio del 1993 era stato arrestato Totò Riina e, dopo gli ultimi coldi coda delle bombe di Milano e Firenze, le stragi erano cessate. Ma è rimasta la legislazione speciale, e insieme la parte più controversa, anche dal punto di vista storico, di quel che accadde in quei giorni, mentre si susseguivano gli ultimi governi della prima repubblica, sull’oggetto dell’inesistente “Trattativa”. Cioè la decisione del ministro guardasigilli Giovanni Conso di riportare al trattamento ordinario una serie di detenuti al 41-bis che non erano certo boss mafiosi di prima fila. Chi c’era ricorda bene come le più forti sollecitazioni venissero da una serie di giudici di sorveglianza così come dal mondo dei cappellani di vari istituti di pena. L’esigenza di rallentare con i provvedimenti emergenziali non era il contenuto dell’inesistente “papello” con le richieste di Riina inventato dal farlocco Massimo Ciancimino, ma il bisogno del mondo carcerario di voltare pagina dall’emergenza. Ed è inutile continuare a rovistare, spesso con la complicità degli stessi protagonisti, tra ministri “duri” e “molli”, tra capi del Dap repressivi o permissivi. Nicolò Amato era un garantista, e Francesco Di Maggio che divenne il vice del suo successore Capriotti, non era affatto un “trattativista”, ma un magistrato abile che aveva il compito, attraverso i colloqui investigativi, di indurre la maggior parte possibile di mafiosi alla collaborazione. Anche questa era una forma di lotta alla mafia, colpendola dall’interno. “Ingeneroso e fuorviante”, dice la sentenza, aver tentato di coinvolgere, da parte dei pubblici ministeri, il ministro Conso e il presidente della repubblica Oscar Maria Scalfaro nel teorema della “Trattativa”. Anche loro hanno contribuito nella lotta “contro” la mafia, non “per” la mafia. Chissà se la procura generale, non più guidata dall’ormai pensionato Roberto Scarpinato, se ne farà una ragione, o se ricorrerà anche in cassazione. “Ho subito 34 processi, mi hanno assolto 34 volte. Si chiama persecuzione” di Irene Testa Il Dubbio, 9 agosto 2022 La vicenda giudiziaria kafkiana del sindaco di Alassio (Savona) indagato anche per la carta usata dalla sua assistente. Oggi parliamo di Alassio, paese in cui il sindaco, Marco Melgrati, ha vissuto una vicenda giudiziaria importante... Più che una ne ho vissute tante, sono entrato in amministrazione nel 1993, ho ricoperto due mandati come assessore all’urbanistica, ai lavori pubblici e edilizia privata. Sono un architetto. Poi è uscita una legge che mi impediva di svolgere la professione sul territorio. Ho quindi preso la delega al turismo. Successivamente sono stato eletto sindaco per due mandati consecutivi, e la seconda volta con il 70 percento dei consensi degli elettori. Ho poi fatto il consigliere regionale e adesso sono di nuovo sindaco. Come è possibile che un cittadino venga perseguitato dalla giustizia, nel merito della sua vicenda? La procura di Savona all’epoca era fortemente politicizzata, e noi siamo una giunta civica senza colori politici. Il problema vero è che in questi anni io ho subito 34 processi, di cui almeno 24 per la mia attività amministrativa e 10 per la mia attività professionale. Al contrario, nessun altro mio collega ha avuto avviso di garanzia e rinvio a giudizio per le stesse problematiche. Comunque sono stato sempre assolto. La cosa che mi ha creato più difficoltà è stato il coinvolgimento nelle spese cosiddette “pazze” della regione Liguria dove sono stato indagato e processato. Sono stato condannato in primo grado per 2800 euro, di cui 1500 legati alla carta che usava la mia assistente, dopo aver chiesto l’autorizzazione al dirigente della regione. Io ho subito 7 anni di logoramento psicologico che per me è stato un dramma, perché non ho mai rubato neanche una merendina alla Standa. Faccio beneficenze a molti dei miei cittadini. Tanto per dirne una, pago da dieci anni la casa popolare a una signora disabile, sono 100 euro al mese. Diciamo che i 2000 euro che prendo da sindaco li devolvo tutti i mesi in beneficenza perché c’è sempre quel cittadino che non ha i soldi per pagare il gas, la luce, l’acqua, piuttosto che una scadenza diversa. E quindi il fatto di essere indagato e condannato per 2800 euro per me è stato veramente uno shock. Ho sempre avuto fiducia nella giustizia, perché su 34 processi sono stato assolto 34 volte, e la giuria della corte d’appello ha avuto davvero un coraggio incredibile ad assolvermi per non aver commesso il fatto. Riguardo gli altri 1.300 euro erano stati spesi in rappresentanza, così come previsto dalla legge regionale. Quindi credo che questa vicenda sia veramente scandalosa. Io ricordo che, prima di andare all’udienza per il verdetto della corte d’appello, sono salito sulla macchina, ho fatto 100 metri e mi sono fermato a vomitare, perché lo stress che ho accumulato in questi anni è stato veramente terribile. Per non parlare della legge Severino, una legge incostituzionale, perché un cittadino è innocente fino al terzo grado di giudizio e questa legge di fatto impone una limitazione che è una condanna. Impedire ad un sindaco di svolgere la sua attività per un anno e mezzo, senza sapere se in terzo o in secondo grado di giudizio potrà essere assolto, è una cosa vergognosa. Il dramma è che la procura, nonostante la sentenza di corte d’appello, puntualmente smonta completamente gli assunti e le teorie dei giudici di primo grado e ricorso in Cassazione. Per tutte queste vicende la Cassazione assolve anche chi è stato condannato in secondo grado, per fortuna. Infine è il turno del giudice a Berlino. Come può accadere che un giudice decida di perseguire una persona 34 volte? Forse sono un sindaco scomodo, perché dico le cose che devono essere dette e le dico in maniera forte. Ricordo che abbiamo fatto un bando per ristrutturare il Grand Hotel di Alassio che è in centro, era chiuso da 40 anni e rappresentava una struttura fatiscente. La società che aveva vinto il bando ha fatto delle varianti nel parcheggio sotterraneo alla piazza, e io sono stato indagato per concorso morale in abuso d’ufficio. Appena mi è arrivato questo avviso di garanzia, ho fatto un comunicato stampa con il titolo “la procura di Savona ha più fantasia di Walt Disney”, non mi faccio certo prendere in giro. Ho sofferto psicologicamente 7 anni questo dramma, nonostante avessi seguito una legge regionale molto chiara che consentiva sia le spese di rappresentanza, sia i rimborsi delle spese alle assistenti in varie forme. C’è chi le prendeva come rimborsi chilometrici, chi le prendeva come biglietto del treno. La mia segretaria era andata a chiedere al Dirigente se poteva usare la mia Viacard, mentre io usavo il telepass, per venire nel mio ufficio di Alassio a preparare le interrogazioni, gli ordini del giorno e le proposte di legge che io avevo abbozzato la sera prima. Immagino anche la sua famiglia sia stata toccata emotivamente e psicologicamente dalla vicenda... Sì, i miei figli, mia madre, mio padre. A me hanno insegnato i quattro valori nella vita: la fede in Dio, l’onestà, il lavoro e l’amore per la patria. Finché non si arriverà a una divisione delle carriere non ci sarà molto da fare. Perché è impossibile che un PM da un giorno all’altro possa diventare giudice e perseguire la persona che aveva in qualche modo indagato quando era PM. È un problema grave che il presidente Berlusconi aveva cercato di risolvere. Sappiamo tutti com’è finita. Mi viene spontaneo chiederle se a questo punto non c’è che da sperare nei Referendum sulla giustizia indetti dal Partito Radicale e dalla Lega, sostenuti anche da Forza Italia... Io ho firmato questo Referendum. La verità è che in Italia ci sono due caste intoccabili: i Pubblici Ministeri che cercano la notorietà e fanno i PM d’assalto, per poi trovarsi con un pugno di mosche. L’altra è la sovrintendenza, che ha un potere spaventoso anche su cose che non sono proprio di loro competenza e che dovrebbero essere di competenza dei comuni. Il problema vero è che nel momento in cui qualcuno propone un referendum, o una legge sulla giustizia, viene perseguitato immediatamente proprio da quella giustizia che dovrebbe essere migliorata. I prefetti sono succubi della giustizia. Se il procuratore generale di una provincia o di una regione decide che un comune è da sciogliere, il prefetto aderisce, senza approfondire, alla delibera del giudice. Io sto aspettando il giudizio finale della corte di Cassazione, nel momento in cui avrò l’assoluzione piena anche della corte di Cassazione sarà mia premura denunciare la procura di Genova. Anche perché per un anno e mezzo sono stato sospeso dall’incarico di sindaco. Sarà mia premura fare causa per danni morali e materiali. Sardegna. Dopo 20 anni arrivano i nuovi direttori delle carceri castedduonline.it, 9 agosto 2022 È stata approvata la graduatoria definitiva dei candidati che hanno superato il concorso pubblico indetto a maggio 2020, la cui prima prova scritta è stata svolta dopo 5 mesi. Tra un anno o poco più quindi saranno rimpinguati i vertici degli istituti penitenziari. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, referente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “Primo importante passo nella soluzione del grave problema della carenza di direttori nelle carceri sarde dove sono in servizio tre titolari stabili, seppure con incarico su più Istituti, e due che operano in Sardegna ma anche a Busto Arsizio e Roma, con evidenti criticità per la gestione delle singole carceri. È stata infatti approvata la graduatoria definitiva dei candidati che hanno superato il concorso pubblico indetto a maggio 2020, la cui prima prova scritta è stata svolta dopo 5 mesi. Si tratta 57 idonei. Tra un anno o poco più quindi saranno rimpinguati i vertici degli Istituti Penitenziari”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, referente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando che “si tratta di un evento epocale considerato che il precedente concorso è stato indetto 20 anni fa e che i previsti 45 posti a tempo indeterminato sono stati elevati a 57”. “Le carenze di Direttori - ricorda Caligaris - riguardano in Italia 147 Istituti su 190 (77,3%). In Sardegna però la situazione è ancora più grave perché a fronte di 10 Istituti ci sono solo 3 Direttori e nessun Vice Direttore. Occorre inoltre sottolineare, per quanto riguarda l’isola, la distanza che intercorre tra gli Istituti, le caratteristiche della rete viaria di collegamento e la tipologia. Le Colonie Penali infatti hanno necessità di una costante presenza anche per gli aspetti economico-aziendali. A Onanì-Mamone, per fare un esempio, durante l’inverno in seguito alle piogge o alle nevicate non è raro che la Casa di Reclusione all’aperto resti del tutto isolata. Nelle Colonie inoltre ci sono le coltivazioni, le produzioni agro-pastorali, suinicole e il taglio del sughero. Insomma sono aree particolarmente importanti”. “I candidati che hanno superato le prove, tutti laureati in discipline giuridiche o in scienze della pubblica amministrazione e/o economico-aziendali, saranno ora nominati - sottolinea l’esponente di SDR - Consiglieri penitenziari e ammessi a frequentare un corso di formazione iniziale, come precisa il comunicato del Ministero della Giustizia, della durata di 12 mesi, che si svolgerà nella Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella” di Roma. Insomma tra circa un anno finalmente la Sardegna potrà vedere colmato il vuoto d’organico dei Direttori nel frattempo occorre fare di necessità virtù: arrangiarsi”. Verona. A 27 anni suicida in carcere, la lettera del giudice: “Ho fallito, potevo fare di più” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 9 agosto 2022 L’ultimo saluto a Donatella, il dolore del fidanzato Leo e della famiglia. Un’amica legge un messaggio del giudice di Sorveglianza che aveva seguito il caso della ragazza: “Provo sgomento e dolore, il sistema ha fallito. Capisco chi sta provando rabbia”. “Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente...”. Quando dall’altare Micaela, una delle migliori amiche della 27enne che una settimana fa si è tolta la vita in carcere a Verona, ha letto tutto d’un fiato la lettera del giudice di Sorveglianza Vincenzo Semeraro, dentro la chiesa di Castel d’Azzano è calato il silenzio. Il messaggio del giudice che aveva seguito il caso di Donatella - Nessuno dei tanti presenti alla cerimonia voleva perdere un solo passaggio del toccante messaggio: “Conoscevo Donatella dal 2016, avevo lavorato con lei e per lei in tante occasioni - ha esordito il magistrato del Tribunale di Verona nella sua missiva intrisa di commozione e umanità - ultima delle quali nel marzo scorso, allorché la inviai in comunità a Conegliano. Inutile dire che la sensazione che provo - rivela Semeraro - è quella di sgomento e dolore... So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più!”. Parole uscite direttamente dal cuore, quelle del giudice scaligero che nella sua email chiede all’amica di Donatella, Micaela, di “portare le mie condoglianze ai familiari, anche se in questo momento ho pudore, perché è ragionevole che chi era vicino a Donatella possa provare rabbia nei confronti delle istituzioni e di chi, più o meno degnamente, le rappresenta”. Andrea Mirenda, anch’egli magistrato di Sorveglianza veronese, ha voluto essere presente con il cuore ai funerali inviando un messaggio alla famiglia per “esprimere la mia più dolorosa vicenda in questo tristissimo momento”. In chiesa c’era il fidanzato Leo - Alle commosse e sincere frasi giunte dai due giudici scaligeri, Micaela a nome degli amici di Donatella reagisce così: “Sicuramente la Sorveglianza sbaglia, ritarda, ma non in questo caso. La conoscevano, conoscevano la sua fragilità, oserei dire ci tenevano. Entrambi i magistrati hanno trovato il modo di fare arrivare le loro condoglianze, il loro dolore”. In chiesa alla straziante funzione c’era Leo, il fidanzato che aspettava l’imminente scarcerazione della 27enne per convivere nella casa che avevano da poco preso in affitto per stare insieme: “Perdonami, sei la cosa più bella che mi poteva capitare. Scusami se me ne vado così amore”, gli ha scritto Donatella nella solitudine della sua cella a Montorio prima di lasciarsi morire martedì notte inalando gas dal fornelletto. Il dolore della famiglia della ragazza - “Perché mi hai lasciato solo? Ti avrei aspettata per sempre, come faccio ora senza di te?”, le ha poi risposto Leo “incredulo e sotto choc per averla persa per sempre”. Nel corso dei funerali, però, era talmente “devastato dal dolore” da chiudersi nel silenzio senza riuscire a pronunciare una sola parola. “Una sofferenza lacerante” anche per il padre di Donatella, anch’egli presente in chiesa: non ha parlato dall’altare, ma non nasconde la sua tristezza per “alcuni commenti sulla vicenda di mia figlia, c’è chi non ha avuto pietà”. Per il genitore, “non c’è bisogno di commentare il passato di una persona che ha avuto i problemi con la droga dopo che si è suicidata, sappiamo tutti quello che ha fatto per assumere la droga. Se è possibile servono belle parole per non fare male ancora alla famiglia”. Da alcuni mesi Donatella si stava disintossicando, lottava con tutte le sue forze per uscire dalla dipendenza e dal carcere, dove si trovava dopo qualche furtarello nei negozi commesso proprio per la droga. Il suo legale stava lavorando per farle ottenere una misura alternativa, presto sarebbe tornata tra le braccia del suo Leo. L’estremo gesto di Donatella - Purtroppo, in un momento di sconforto, la fragilità ha preso il sopravvento su questa bella ragazza di 27 anni. Aveva ancora tutto il tempo e le possibilità per rifarsi una vita cambiando il passato, ma è stata colta all’improvviso dal senso di vuoto e di impotenza, come ha scritto al suo Leo nella dedica d’amore che gli ha lasciato in cella: “Ho paura di tutto e ho paura di perderti, ti amo, scusami”. La stessa richiesta di perdono che durante i funerali le hanno rivolto anche i suoi familiari: a nome di tutti i parenti, a salire sull’altare è stata una cugina di Donatella che con voce rotta dall’emozione le ha rivolto frasi commoventi. “Ci sentiamo in colpa - ha ammesso - Noi della famiglia sentiamo di non aver fatto abbastanza, soprattutto quando sei uscita dalla comunità. Perdonaci Dona”. La task force per prevenire i suicidi in cella - Una storia, quella della 27enne, che ha scosso le coscienze e destato sconcerto. Nelle scorse ore il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) ha varato “le linee guida di una task force per prevenire i suicidi in cella” mentre Don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, ha lanciato un appello alla Ministra Cartabia e Carlo Renoldi, Capo del Dap, affinché sia concesso il telefono nelle celle, come in Europa. “Una telefonata ti può salvare la vita, non è un caso che negli ultimi drammatici episodi di suicidi in carcere, i detenuti abbiano deciso di togliersi la vita giusto di notte”. Proprio come accaduto a Donatella: “Magari è quello il momento in cui si ha maggiore bisogno di conforto, una parola amica”. Roma. Sommossa a Rebibbia, solo 11 agenti di guardia per 1.400 reclusi di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 9 agosto 2022 “Si è rischiata la tragedia, il problema ignorato è quello della carenza di organico per la vigilanza del carcere”. Tredici reclusi potrebbero ora essere trasferiti mentre il reparto G6 è stato chiuso perché inagibile. In tredici, guidati da un detenuto con problemi psichici che da tre mesi attende in trasferimento in una struttura adeguata, come una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), hanno messo a ferro e fuoco nella notte di domenica l’intero reparto G6 al pianterreno del carcere di Rebibbia, in via Tiburtina. Al punto che la direttrice Rosella Santoro lo ha dovuto chiudere perché inagibile a causa dei danni provocati dall’incendio appiccato dai reclusi. E solo per un caso fortunato, ma grazie anche agli aeratori fatti installare proprio dalla direttrice nelle celle del reparto lo scorso anno, non ci sono stati intossicati o peggio. Non ci sono stati feriti, né fra i detenuti, allontanati dal luogo nel quale le fiamme avevano ormai avvolto le “camere di pernottamento”, come vengono definite oggi le celle di Rebibbia, nè fra gli agenti della Penitenziaria intervenuti alle quattro di notte, alcuni dei quali dopo essere stati richiamati a casa dai colleghi o negli alloggi di servizio. Di guardia, per 1.400 detenuti, c’erano infatti solo 11 poliziotti. La rivolta dei detenuti del G6, reparto di transito per nuovi giunti occupato ora anche da detenuti problematici e violenti, provenienti anche da altri istituti oppure in attesa di trasferimento, è scoppiata dopo una serie di richieste di assistenza sanitaria che secondo la Penitenziaria sono state anche esaudite dal personale che si trovava nel reparto. Da qui il sospetto che in realtà si sia trattato solo di un pretesto per scatenare la sommossa. Messina. Dall’ex boss appello per strappare i minori alla criminalità: “Aiutiamo coop Overland” di Graziella Lombardo messinatoday.it, 9 agosto 2022 L’Sos per la struttura che si occupa di giovani tossicodipendenti e detenuti riapre il dibattito sul senso della legalità in città. L’ex Garante per i minori Fabio Costantino: “Dovrebbero essere le Istituzioni dello Stato a supportare queste iniziative. Quando abbiamo chiesto un centro di recupero per ragazzi la Regione ci ha chiuso le porte”. “Amici buongiorno, mi rivolgo a voi per una cosa che mi sta molto a cuore, una cooperativa, la Overland, in cui ci stanno ragazzi che gestiscono la cooperativa a spese proprie e sono in difficoltà perché hanno subito un incendio. Si occupano di sostegno ai ragazzi tossicodipendenti e detenuti, per aiutarli a reinserirsi”. Con queste parole si apre il video su you tube per sostenere con una raccolta fondi la cooperativa “Overland” che lavora anche per conto degli uffici della giustizia (compresa quella minorile) per il recupero di persone che hanno commesso reato e che hanno problemi con le droghe. Fin qui niente di strano. Raccolte fondi e appelli alla solidarietà sono all’ordine del giorno. Ma in questo caso l’Sos arriva da un ex boss, collaboratore di giustizia, quel Iano Ferrara pronto a tornare nel suo quartiere, quel Cep che non gli ha mai girato le spalle, che lo ha acclamato come un Dio e che negli anni Novanta non ha esitato a scendere in piazza per difenderlo, un quartiere che gli aveva affidato la sua stessa sopravvivenza. Ferrara, già a giugno, anticipando il suo ritorno dopo tanti anni di carcere, si era lanciato in un discorso controverso, in cui chiede allo Stato di non lasciare i nostri figli in pasto alla criminalità e sollecita forze dell’ordine e giornalisti a non alimentare “falsi miti”, chiamando boss “bulli” o “rubagalline” e dando così “importanza” a persone che invece “non sono nessuno”. Capello rasato, occhiali scuri e tono pacato, Iano Ferrara, torna dunque a far parlare di se facendo riflettere sul senso della legalità in città dove come dice Ferrara “è cambiata l’epoca” ma non è cambia una lezione di sciasciana memoria: che quando lo Stato indietreggia si lascia spazio a nuovi e vecchi leader della mafia che possono anche permettersi il lusso di fare sermoni e dare lezioni sul concetto di giustizia. Come accade nel profilo you tube dell’ex boss “buono” e nella sua seguitissima pagina facebook “Jano Cep”, dove, fra “amici” illustri e foto di famiglia, lancia appelli e proposte compresa quella di realizzare un ippodromo a San Filippo come soluzione alle corse clandestine dei cavalli, mostrando in maniera inequivocabile l’assoluta distanza delle Istituzioni dal tessuto sociale della città. “Se una Coop fatta per lo più di volontari ha bisogno di un ex boss per raccogliere fondi siamo veramente alla frutta”, osserva oggi qualche addetto ai lavori. “Perché non chiedere alle Istituzioni, ai rappresentanti dello Stato, ai simboli della lotta alla mafia?”. Ma la risposta sta forse dietro quell’Antimafia di facciata che vive di commemorazioni o peggio, come documentano certi processi, celano solo cointeressenze imprenditoriali con nomi e cognomi precisi e precise regie politiche. Tutto questo mentre l’apertura di una struttura pubblica a Messina per il recupero di minori chiesta dall’ex Garante per l’infanzia e l’adolescenza di Messina, Fabio Costantino, resta lettera morta. “È stato uno dei momenti più brutti del mio mandato - spiega Costantino - Da Garante, insieme al presidente del Tribunale e al procuratore minorile, ho chiesto all’assessore Ruggero Razza l’apertura di una struttura pubblica a Messina per il recupero di minori con doppia diagnosi, ricevendone un no secco e senza appello, in commissione regionale sanità. Ho ricevuto telefonate di sostegno da operatori di tutta la Sicilia ma nel concreto non è successo nulla. La Sicilia preferisce portare i propri ragazzi fuori regione, a costi altissimi, e con disagi enormi per le famiglie piuttosto che aprire una struttura per provincia. D’altronde se anche il Garante regionale, nominato dal governo regionale, è rimasto in silenzio cosa avrebbe potuto fare il Garante cittadino?”. E sull’appello per la cooperativa Overland? “Conosco la realtà di Overland ed il suo presidente mi ha recentemente contattato per chiedere il mio sostegno per la raccolta fondi per la costruzione di un pozzo utile per le attività della struttura. Quanto al video di sostegno all’iniziativa di Jano Ferrara ho qualche perplessità seppur Ferrara ha pagato il suo debito con la giustizia. Forse si poteva evitare, dovrebbero essere le Istituzioni dello Stato a supportare le iniziative delle strutture che si occupano del recupero dei ragazzi che hanno commesso reato e presentano problemi di droga. Ho la sensazione che lo Stato abbia deciso definitivamente di indietreggiare lasciando soli chi fa reale antimafia in questo paese. A questo punto mi chiedo perché una Coop non dovrebbe chiedere aiuto ad un ex boss? Io non condivido, ma se non siamo consapevoli che questo modo di fare politica non funziona non garantiremo un reale riscatto a nessuno. In città, come in Sicilia - conclude Costantino - non c’è posto per chi vuole dare il suo contributo. Basta guardare il dibattito, o meglio l’assenza di dibattito, nelle segreterie dei partiti, soprattutto nell’area di centrosinistra, in questi giorni. Chi rappresenterà Messina in Parlamento nazionale e siciliano? Chi conosce il territorio ed i suoi bisogni o chi ha garantito un posto di diritto? Il populismo è la faccia della distanza che i politici hanno messo tra se stessi e la gente portatrice di reali bisogni”. Pistoia. La vita nel carcere di Santa Caterina nelle lettere dimenticate di Samantha Ferri La Nazione, 9 agosto 2022 Presentato il libro “Carte custodite. Il carcere di Pistoia e il suo archivio storico”. L’opera di Rosa Cirone offre uno spaccato inedito sulla storia della struttura. Un detenuto del primo dopoguerra scriveva alla moglie partoriente di non vedere l’ora di conoscere suo figlio o sua figlia e sapere quale nome avrebbe scelto la madre. Un padre veniva aggiornato sulle precarie condizioni di salute della figlioletta ricoverata all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Sono lettere scritte e ricevute dai detenuti del carcere di Santa Caterina in Brana cento anni fa. E dopo cento anni erano ancora lì. Chiuse, mai aperte, mai consegnate, mai lette, conservate tra gli scaffali degli uffici del carcere pistoiese che il tempo aveva ricoperto di polvere e destinato all’oblio. Fino a quando Rosa Cirone, impiegata del carcere e dottoressa in archivistica, non ha scoperto questo tesoro inedito fatto di documenti e dati preziosi per la ricostruzione storica della vita in carcere nel secolo scorso ma fatto anche di ricordi, speranze, emozioni. Così grazie a “Carte custodite. Il carcere di Pistoia e il suo Archivio storico (1901-1991)” di Rosa Cirone - presentato nei giorni scorsi in carcere alla presenza dell’autrice, della direttrice Loredana Stefanelli e delle autorità cittadine - veniamo a sapere di più sulla vita nell’istituto pistoiese: gli operatori, i detenuti, gli aspetti della vita comune dei ristretti, le visite, le ispezioni, le perquisizioni, i colloqui del direttore, ma anche piccoli dettagli, come la prima vasca da bagno installata e la prima volta che l’acqua calda ha cominciato a sgorgare. Un lavoro di ricerca svolto con “specifica attenzione alle attestazioni archivistiche”, sottolineando che “lo stesso ritrovamento dei materiali ha richiesto impegno e fatica”, si legge nella prefazione firmata da Ricardo Turrini Vita. Il lavoro è stato curato da Rosa Cirone nell’ambito della tesi di laurea in Scienze archivistiche e biblioteconomiche conseguita a Firenze e ha richiesto un anno e mezzo di lavoro che ha valso il plauso della ministra Marta Cartabia per “l’encomiabile impegno profuso nel lavoro di ricerca nella documentazione storica certa che la sua lodevole iniziativa otterrà il meritato generale riconoscimento”. “Un lavoro molto complesso a causa della dislocazione dei molti archivi e dall’assenza di una organizzazione archivistica che comprende un arco temporale di cento anni e che per la prima volta è stato svolto internamente a un carcere e non dall’archivio di Stato - ha sottolineato Cirone -. Le notizie, le informazioni, le curiosità non soltanto riguardano il carcere di Pistoia ma anche il suo territorio e come le vicende delle due grandi guerre hanno portato notevoli cambiamenti negli uomini e nella struttura di Santa Caterina”. Il volume pubblicato da Settegiorni Editore con il contributo della Fondazione Caript, Misericordia di Pistoia, Fondazione S. Maria Nuova di Firenze e Conservatorio di S. Giovanni in Pistoia, è acquistabile in libreria. Marcinelle. Se neanche i morti si salvano dalle risse della politica di Marco Revelli La Stampa, 9 agosto 2022 Il disastro del 1956 dovrebbe spingere tutti a farsi carico di una domanda di giustizia sociale. Anziché alimentare paragoni tra le “nostre” vittime di ieri e le disperazioni dei migranti di oggi. “Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”. Questa frase, amarissima, di Walter Benjamin nella sesta delle sue celebri tesi “Sul concetto di storia”, mi è tornata in mente ieri nel leggere la lunga lettera che Giorgia Meloni ha indirizzato al “Corriere della Sera”, nel giorno della tragedia di Marcinelle. Quella consumatasi la mattina dell’8 agosto del 1956 nella miniera di Bois du Cazier, in Belgio, è una delle più terribili tragedie del lavoro e dell’emigrazione. Nel rogo sprigionatosi nel “Pozzo I”, il più vecchio (era entrato in funzione nel 1830) e per questo interamente rivestito in legno, morirono 262 persone sulle 275 presenti. Di queste 136, più della metà, erano italiani. Altri 95 erano belgi, 8 i polacchi e poi greci, ungheresi, algerini, russi… L’articolata e dolente composizione dei lavori umili e pericolosi, verso cui la miseria da sempre spinge l’esercito che non conosce patria né confini perché il bisogno è più forte di ogni appartenenza (è utile, a questo proposito, ricordare che nel 1956, fra i 142.000 minatori impiegati, 63.000 erano stranieri e fra questi 44.000 erano italiani). Ora che quell’avvenimento atroce, che dovrebbe essere rammemorato per invitare tutti, governanti e governati, a farsi carico di una domanda mai sopita di giustizia sociale e di tutela delle vite altrimenti considerate “di scarto”, venga al contrario utilizzata, da leader politici senza scrupoli, per aprire una polemica fuori luogo sul tema, lacerante, dell’emigrazione…; e soprattutto per tracciare inappropriate linee di demarcazione tra le “nostre” vittime di ieri e le nuove disperazioni migranti di oggi, ci dice a quale livello di degrado sia giunta la lotta politica. Che a quei morti di ieri sia tolto persino l’orgoglio di rappresentare una causa universale - le ragioni dei sacrificati di tutto il mondo di fronte alla rapacità di chi li ha usati come carne da macello nei processi di lavoro (così, tradizionalmente, il movimento operaio ha ricordato Marcinelle) -, per contrapporli al contrario a quanti oggi ripercorrono strade simili di sacrificio e sofferenza, non è solo indice di spregiudicatezza politica. O di scarsa sensibilità storica. È il segno di una volontà totalizzante di piegare ogni possibile terreno di rilevanza pubblica ai propri obiettivi di potere, senza fermarsi di fronte a nulla. Strumentalizzando qualunque tema e qualunque occasione si presti a conquistare un frammento di visibilità. Introducendo a questo fine - perché, si sa, l’appello alle passioni nazionalistiche genera energia politica potente - persino la contrapposizione tra le vittime “italiane” e gli “altri”, come se le vittime non fossero tutte uguali, e la nazionalità ne nobilitasse alcune e ne svalorizzasse altre: il peggior oltraggio a chi là, in fondo a un pozzo atrocemente multietnico, ha finito la propria vita. Non può sfuggire, nella lunga lettera pubblicata dal Corriere, un’evidente contraddizione tra l’invito a “evitare strumentalizzazioni” rivolto a chi attualizzerebbe la tragedia di Marcinelle in tema di migrazioni, e l’uso che lei stessa fa dell’argomento, come occasione per un’ampia filippica contro chi ha aperto la strada ai flussi (i governi di sinistra) e contro quanti, sotto la comoda qualifica di migrante pretenderebbero di parassitare il nostro Paese. Vecchio, e sperimentato espediente, di imputare agli altri propri vizi e intenzioni. Così i poveri morti di Bois du Cazier hanno fruttato alla leader di Fratelli d’Italia lanciata alla conquista del suo posto al sole qualche decimetro quadrato di pagina di un grande quotidiano nazionale. Poi toccherà ad altri, vivi o morti, diventare materia prima per il suo sequel destinato a durare fino al 25 settembre. “Mai così dura per i braccianti per loro meno lavoro e diritti” di Roberto Rosano Il Manifesto, 9 agosto 2022 Intervista a Yvan Sagnet. Il fondatore camerunense dell’associazione No Cap: la siccità riduce la produzione ma non le ore di chi sta nei campi. Il caporalato non si può sconfiggere con soli 5 mila ispettori del lavoro che devono controllare un milione di imprese agricole. Abbiamo chiesto a Yvan Sagnet, attivista e scrittore camerunense, fondatore e presidente dell’Associazione No Cap, attivo contro lo sfruttamento e il lavoro nero nel settore agroalimentare, come sta trascorrendo l’estate dei braccianti agricoli nel nostro Paese. Dottor Sagnet, in questi giorni si è parlato, sicuramente non abbastanza a livello nazionale, di una associazione per delinquere finalizzata al caporalato, che aveva a capo un cittadino indiano, e che la Finanza di Padova ha disarcionato, mostrando una fitta “metastasi”, con ramificazioni in molte città del centro-nord … In quell’area, stretta principalmente tra l’Emilia-Romagna e la Toscana, il caporalato si organizza intorno alle cooperative spurie, da una parte, e intorno a gruppi di stranieri, che svolgono funzioni di tramite con le aziende agricole. Esse adoperano grossomodo le stesse modalità che riconosciamo nei caporalati del centro-sud Italia. È una modalità, però, molto più subdola, che dà molti più problemi agli organi inquirenti. Spesso la “sede legale” è lontana dal luogo di sfruttamento. Lo scorso 6 luglio è morto un bracciante agricolo di origini calabresi, Antonio Lombisani, stroncato dal caldo. Perché le ordinanze, messe in campo da molte regioni d’Italia allo scopo di rivedere gli orari di lavoro dei braccianti, non riescono ad avere seguito nella realtà? Quest’anno le condizioni climatiche sono davvero drastiche. Noi abbiamo lanciato un allarme molto prima che ciò accadesse, ma siamo rimasti inascoltati. Questo problema sembra apparire come un fantasma ogniqualvolta si verifichi un decesso, per poi sparire senza imporsi davvero mai all’attenzione delle istituzioni. Immagino che la “mancanza di attenzione” che denunciata possa essere letta in termini di una mancanza di controllo … Esattamente. Le ordinanze non mancano, ma queste non servono a nulla se mancano i controlli. Soprattutto nelle zone che vanno dal Metapontino al sud della Puglia, nella zona di Taranto o nella Pianura di Sibari, con grande domanda di manodopera e alta probabilità di violazioni, i controlli devono essere più stringenti. In questo particolare momento in cui le condizioni climatiche non accennano a migliorare ma sembrano invece andare sempre peggiorando, lo stato non può dimenticare questi lavoratori che non devono più giocare in un “campionato di serie b” nel marcato del lavoro italiano. Nelle misure messe in campo dal governo c’è poco per i lavoratori agricoli e mi riferisco agli incentivi e alle misure di assistenza. Questo è un grave errore che incrementerà il lavoro illegale nelle campagne e avrà ripercussioni non facili da gestire. L’inefficacia dei controlli è dovuta ad inadempienza o all’insufficienza degli ispettori? Soprattutto alla seconda. Non è possibile che un paese come l’Italia, col suo alto tasso di irregolarità, abbia soltanto 5 mila ispettori in tutta Italia a fronte di un milione di imprese agricole. Il numero, in questo caso, parla da solo. In Puglia, a fronte di circa 30 mila aziende agricole ci sono solo 99 ispettori. È chiaro che l’attenzione che ci aspettiamo da parte delle istituzioni non possa prescindere dall’assunzione di nuove figure volte ad assicurare il rispetto delle norme. Facciamo un appello affinché una parte dei fondi del Pnrr serva al reclutamento di nuovi ispettori. Ne va della vita dei tantissimi Antonio Lombisano che lavorano nelle serre e nei campi alle temperature che conosciamo. E per migliorare la qualità delle ispezioni, invece? Aumentare soltanto il numero degli ispettori potrebbe non bastare … Certamente, ma occorre partire da lì: dall’assunzione del personale. Poi bisogna porsi il problema della qualità di queste ispezioni, ma se il numero rimane insufficiente, la qualità e il buon coordinamento tra questi ispettori e le forze dell’ordine non può bastare. Molto importante è anche la selezione degli ispettori, perché spesso questi non sono abbastanza edotti sulle dinamiche e le strategie che le aziende agricole hanno messo a punto nel tempo per aggirare le leggi. La formazione è indispensabile per smantellare tutte le aree di sfruttamento. In estrema sintesi: formazione, coordinamento e assunzione del personale. La siccità disastrosa che stiamo vivendo, quanto sta influendo sulle condizioni di lavoro dei braccianti agricoli? Più di quanto si possa pensare. Spesso si pensa soltanto al danno di mercato e in effetti c’è. Quest’anno la produzione del pomodoro sarà molto più bassa rispetto agli anni precedenti. C’è stato un ritardo nella produzione, un regresso nella qualità del prodotto, che non sta maturando nelle condizioni appropriate, ma sta marcendo nei campi. Ma la siccità sta procurando anche un danno sociale. Se c’è poco prodotto in campo, c’è meno lavoro. Molte aziende chiedono ai braccianti di operare anche nelle ore più proibitive per recuperare questo danno. E i braccianti che rimangono senza un’occupazione cosa faranno? Dove lo cercheranno? Ci dia un dato evidente … Noi Cap stimiamo una diminuzione delle giornate lavorative dei braccianti di almeno un quinto. Se questo dato è messo a confronto con la crisi in corso, con l’inflazione e le dure ripercussioni della situazione internazionale sull’Italia, direi che gli ultimi anelli della catena, cioè i lavoratori agricoli pagheranno il prezzo più alto. Cannabis “disonorevole”: Rita Bernardini alla porta di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 agosto 2022 La disobbedienza civile non piace più: sostituita nel Cda della Fondazione Pannella. Lo spirito dell’”onestà onestà” dev’essersi impossessato del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito. Il medium che ha ottenuto la transmutazione degna de L’esorcista potrebbe essere la Lega. Ma la questione è avvolta nel mistero, interrotto soltanto da un lunghissimo e dettagliatissimo post su Facebook della diretta interessata. Fatto sta che Rita Bernardini, fino a ieri clarissa del testamento politico pannelliano di cui è massima espressione soprattutto attraverso la pratica della disobbedienza civile - cosa che nei decenni le è valsa decine di denunce, qualche condanna e soprattutto molte medaglie al valore radicale - è stata sostituita nel Cda (a tre) della Fondazione Marco Pannella. Perché, come scrive lo stesso presidente Maurizio Turco nel verbale con il quale si dà atto della decisione, colei che ha un intero book fotografico a base di piantine di marijuana illegalmente coltivate sul terrazzo e puntigliosamente denunciate alle forze dell’ordine, è stata ritenuta dalla prefettura (giustamente) incompatibile con la carica per “insussistenza dei necessari requisiti di onorabilità”. In sostanza è bastato un “indirizzo” della prefettura perché Rita Bernardini, che a quel punto si è dimessa pure dalla Lista Pannella, fosse mollata col suo carico di precedenti penali e denunce collezionate come pratica politica radicale. Tutto cambia: via la nonviolenza, ora ci vogliono “regole e legalità”. Arabia Saudita. I sogni folli di mr. Everything, l’uomo dei golpe che sta cambiando l’Arabia di Viviana Mazza Corriere della Sera, 9 agosto 2022 Mohammed Bin Salman, che ha iniziato la guerra nello Yemen e secondo la Cia ha fatto uccidere il giornalista Jamal Khashoggi, ha ricevuto la visita di Joe Biden ed è stato ospite di Macron all’Eliseo. E sta progettando di costruire la Mirror Line, un grattacielo di specchi nel deserto alto 380 metri e lungo 120 chilometri. Per capire come ragiona il principe ereditario e leader de facto dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman (detto Mbs), diamo uno sguardo al suo ultimo progetto: la Mirror Line, un grattacielo di specchi nel deserto, alto quanto l’Empire State Building e lungo 120 chilometri, con una sua linea ferroviaria, uno stadio e boschi verticali coltivati da robot. Mbs, 36 anni, dice che la tecnologia è la seconda più importante influenza sulla sua vita. La prima è l’essere cresciuto nella Casa reale saudita. Luce e delitti - Architetti, futuristi e designer hollywoodiani assoldati dal principe hanno paura a dirgli che certi desideri sono irrealizzabili. Come biasimarli? Mbs, il riformatore che ha ampliato i diritti delle donne e le opportunità di intrattenimento in un Paese dove anche i cinema erano proibiti, è la stessa persona che, secondo la Cia, ha ordinato l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, la stessa che ha rinchiuso al Ritz-Carlton di Riad 400 principi e imprenditori in quella che è nota come “la notte delle bastonate”. Fonti americane dicono che per anni avrebbe vietato alla madre di vedere il padre 86enne e malato, re Salman: il figlio temeva che ostacolasse la sua ascesa perché contraria a creare spaccature incolmabili nella famiglia. Gestire un regime è vantaggioso, spiegò Mbs durante un viaggio nella Silicon Valley: “Le decisioni sono veloci, un sovrano assoluto può fare, in un passo solo, cambiamenti che in una democrazia tradizionale ne richiederebbero dieci”. Visite di cortesia - Emmanuel Macron, anche dopo l’omicidio Khashoggi, ha sempre detto che il Regno è troppo importante per ignorarlo e ha appena ospitato il principe a cena all’Eliseo. E Joe Biden, ansioso di stabilizzare il prezzo del petrolio, a luglio gli ha fatto visita, salutandolo con il pugno: se voleva negargli la stretta di mano e segnalare distanza, ha invece avuto l’effetto opposto, sembrava un gesto informale tra amici. A differenza di molti rampolli reali, Mbs - primo dei sei figli della terza e ultima moglie di re Salman - non ha studiato all’estero ma in patria. A 24 anni è diventato l’ombra del padre, allora governatore di Riad, che è uno dei 45 figli del fondatore della dinastia al Saud. Quando, nel gennaio 2015, morto re Abdallah, Salman salì al trono, i diplomatici iniziarono a chiamare suo figlio Mr. Everything perché pian piano fu responsabile di tutto, dal ministero della Difesa (fu lui a iniziare la guerra in Yemen) alle riforme economiche. Fino ad allora i sovrani che si erano susseguiti sul trono saudita erano tra loro fratelli (i figli del fondatore, re Abdulaziz) e c’era un inviolabile senso di riverenza nei confronti degli anziani. Nell’aprile 2015, re Salman tolse il fratellastro Muqrin dalla successione (nato da una concubina, era impopolare in famiglia) e nominò al suo posto il nipote, Mohammed bin Nayaf (Mbn), mentre Mbs diventò vice-erede al trono. Nuova generazione, vecchie speranze - Entrava in gioco la nuova generazione e molti all’estero sperarono che potesse trasformare questo Paese ultraconservatore, storico alleato degli Stati Uniti, ma anche patria di Osama bin Laden e di 15 dei 19 attentatori dell’11 settembre. Mbn, 57 anni, era un decennale alleato nella guerra al terrorismo, sopravvissuto a un attentato di Al Qaeda. Ma sottovalutò il cugino. Nel giugno 2017, Mbs, che aveva ormai assunto il controllo di tutte le istituzioni chiave, inclusi il settore petrolifero e la sicurezza, con uno straordinario golpe di palazzo costrinse Mbn a dimettersi. All’erede al trono fu detto che il re voleva vederlo a mezzanotte, invece fu messo sotto pressione dalla Corte, accusato di dipendenza da oppioidi (probabilmente vero) e di simpatie per il Qatar. Nella notte il Consiglio di fedeltà (composto da rappresentanti delle 34 casate dei figli del fondatore del Regno e responsabile di decidere la successione) certificò le dimissioni. Poi a novembre - secondo alcuni avvertito da Jared Kushner, genero del presidente Trump, sulle mosse dei suoi rivali - Mbs rinchiuse al Ritz molti familiari, accusandoli di corruzione e costringendoli a cedere i propri beni: obiettivo principale era il principe Mutaib, figlio di re Abdallah, e il suo ramo della famiglia. Ai giovani sauditi (tre quarti della popolazione ha meno di 30 anni) Mbs piace. Ma si è inimicato i principi, i religiosi wahhabiti più conservatori, imprenditori e tribù, imponendo un controllo ancor più rigido di quello di suo nonno Abdulaziz al consenso cercato dai più recenti predecessori. Circondato da “yes men”, Mbs sogna di specchiarsi nella Mirror Line. Ma vedrà cosa ribolle sotto la superficie? Egitto. Cure mediche negate e torture: da una prigione egiziana il racconto dell’orrore di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2022 Il 30 luglio Ahmed Samir Santawy, lo studente egiziano dell’Università centrale europea di Vienna, è tornato in libertà a seguito di una grazia presidenziale: dopo un anno e mezzo di carcere, uno sciopero della fame di un mese, due processi e altrettante condanne per il solito reato fasullo di “diffusione di notizie false”. Negli ultimi giorni sono emersi dalla prigione di massima sicurezza di Tora, la più famigerata d’Egitto, dettagli su cosa ha rischiato Santawy una decina di giorni prima della scarcerazione e sulle rappresaglie ordinate contro un compagno di prigionia che aveva cercato di aiutarlo. A Tora, a luglio, c’è un nuovo focolaio di Covid-19. Nel reparto di Santawy vengono spruzzate quantità industriali di cloro per disinfettare corridoi e celle. Lo studente di Vienna, che già presenta sintomi di contagio in una cella d’isolamento di due metri per due metri e mezzo, mostra i primi segni di soffocamento. A Tora non esiste una procedura di pronto intervento in caso di emergenze sanitarie. Ne hanno fatto le spese in molti, come Shady Habash, direttore dei video del cantante in esilio Ramy Essam. Shady Habash, Procura egiziana: “Il regista 22enne è morto dopo aver bevuto per sbaglio un sorso di alcol disinfettante” La cella di Santawy viene aperta solo un’ora dopo e il detenuto, non prima di aver avuto una discussione col direttore della prigione al termine della quale sviene, riceve finalmente i soccorsi. Durante quei 60 minuti un prigioniero si prodiga per richiamare l’attenzione e sollecitare le cure mediche. È Ahmed Douma, che sta scontando il nono di 15 anni di carcere cui è stato condannato per reati di opinione. Dopo Alaa Abd el-Fattah è il più famoso prigioniero di coscienza egiziano. Quando Santawy viene portato via, scatta la rappresaglia: Douma viene ammanettato, insultato, aggredito e torturato da uno dei funzionari della prigione, Ahmed Zain, nel suo ufficio. La direzione di Tora, ovviamente, ha rifiutato di aprire un’inchiesta sul diniego di cure mediche a Santawy e sul pestaggio di Douma. *Portavoce di Amnesty International Italia Guatemala. “Quattro anni in carcere per aver difeso i diritti dei popoli nativi” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 agosto 2022 Oggi è la Giornata internazionale dei popoli nativi. Per questo, ospito una lunga e commovente riflessione di Bernardo Caal Xol, difensore dei diritti umani ed ex prigioniero di coscienza del Guatemala. “I popoli nativi subiscono razzismo e discriminazione nella maggior parte degli stati. Veniamo privati delle nostre terre ed espulsi da esse. I potenti implementano politiche che ci rendono poveri e ostacolano ogni nostra opportunità di sviluppo umano, sociale e professionale. Sono pochi i governi che investono nell’educazione, nella salute e nelle infrastrutture all’interno delle comunità in cui i popoli nativi sono la maggioranza. Si vede, invece, la totale assenza dello stato. I governi e le potenze economiche continuano a ridurre a folklore i nostri costumi e il nostro modo di vivere, sfruttando, quando fa loro comodo, parti della cultura nativa per attrarre i turisti. Gli stati e le imprese estrattive agiscono in modo razzista ed escludente quando sviluppano progetti o megaprogetti che colpiscono le nostre comunità, senza rispettare le leggi nazionali e gli standard internazionali sull’informazione e consultazione preventiva. La saggezza ancestrale e i principi e i valori che guidano le nostre comunità native non ci fanno autorizzare megaprogetti o piantagioni monoculturali che si vogliono realizzare nei nostri territori. Da generazioni e generazioni, nelle nostre culture ci è stato insegnato che dobbiamo provare amore e rispetto per le colline, le valli, i fiumi, le montagne, le foreste, l’aria che respiriamo, la pioggia e gli altri elementi di madre Terra. Ogni danno che permettiamo venga fatto a loro è un danno che viene fatto a noi stessi. Ecco perché siamo custodi e guardiani di madre Natura nei nostri territori. Consideriamo un’offesa e una mancanza di rispetto l’arrivo delle imprese che saccheggiano e trafugano le risorse naturali che cerchiamo in tutti i modi di proteggere. Quando esprimiamo il nostro scontento per i danni che queste compagnie fanno a madre Natura o all’ambiente, lo stato reprime le nostre proteste, ci processa e manipola le procedure di legge per imprigionare i rappresentanti dei popoli nativi solo per aver difeso i diritti umani. Molte persone sono in carcere a causa di tattiche che ritardano i tempi del processo e in questo modo vengono punite attraverso la tortura psicologica. Io, Bernardo Caal Xol, del popolo q’eqchi’ maya del Guatemala, sono un guardiano contro l’impresa elettrica Oxec S.A. che sta deviando il fiume Cahabón prendendosi le sue acque e lasciando migliaia di famiglie e di esseri viventi senza accesso a una risorsa di quel fiume sacro che hanno usato per secoli. Insieme alle comunità di Cahabón e Alta Verapaz, ho denunciato le violazioni del diritto all’informazione e alla consultazione del popolo q’eqchi’ riguardo alla fornitura delle licenze ambientali e delle concessioni per i progetti Oxec e Oxec 2. Ho denunciato il crimine ambientale del disboscamento illegale di 15 ettari di foresta naturale e sappiamo bene quanto le foreste abbiano un ruolo fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico. Ho anche denunciato la costruzione delle centrali idroelettriche, l’appropriazione illegale dei terreni nazionali e la privazione dell’accesso all’acqua ai danni degli abitanti q’eqchi’ delle rive dei fiumi Oxec e Cahabón. Sono stato indagato e trattato come un criminale per aver sporto queste denunce in nome della mia gente. Il 24 marzo, dopo aver terminato di scontare una pena basata su reati inventati dalle imprese e dallo stato, sono stato scarcerato. Sono stato, dunque, testimone diretto del modo in cui le grandi imprese cooptano le strutture dello stato del Guatemala. Lo stato ha risposto alle nostre denunce e alle nostre richieste imprigionando e torturando i rappresentanti dei popoli nativi in modo che non potessimo pretendere i nostri diritti, soprattutto riguardo all’attuazione di megaprogetti da cui la maggioranza delle persone non trae alcun beneficio. L’elettricità prodotta dalle imprese che operano nella mia comunità non è per le famiglie q’eqchi’, bensì per uso commerciale in altri stati. Nel frattempo, le nostre comunità non hanno corrente elettrica. Usiamo ancora le lampade. Ecco come le imprese ci privano delle nostre risorse naturali. Amnesty International ha condotto un’ampia indagine sulla mia vicenda e nel 2020 mi ha dichiarato prigioniero di coscienza, essendo giunta alla conclusione che stavo solo difendendo i diritti collettivi del mio territorio in modo pacifico. Ciò nonostante, sono stato erroneamente imprigionato per quattro anni e due mesi. Questo 9 agosto, Giornata internazionale dei popoli nativi, chiedo ai governi del mondo di non continuare a criminalizzare le nostre sorelle native e i nostri fratelli nativi, di rispettare i territori in cui viviamo, di rispettare le risorse naturali che noi proteggiamo come ci hanno insegnato a fare i nostri antenati. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli e il diritto a una consultazione libera, preventiva e informata restano i pilastri fondamentali della nostra esistenza e dell’edificazione della democrazia in ogni stato del mondo. Per questo, chiedo che il lavoro di coloro che difendono i diritti umani sia rispettato e protetto. Chiedo inoltre ai governi di applicare e rispettare le leggi e gli accordi internazionali, in modo che le imprese possano essere chiamate a rispondere dei danni causati a madre Terra, all’ambiente e alla biodiversità, soprattutto ora che il cambiamento climatico produce gravi effetti. Come popoli nativi, ci troviamo in una situazione estremamente difficile: stiamo ancora lottando contro il Covid-19, siamo le persone più vulnerabili all’impatto del cambiamento climatico, continuiamo a difendere i nostri territori dal disboscamento e dal saccheggio delle risorse, proteggiamo ogni giorno l’acqua, i nostri fiumi e le nostre foreste. Continuiamo a subire il razzismo strutturale, il patriarcato e la colonizzazione imposti da ogni stato in cui viviamo. Per tutte queste ragioni, ogni governo dell’America latina e dei Caraibi è chiamato ad approvare e firmare l’Accordo di Escazú, un trattato regionale senza precedenti, per garantire il diritto a un ambiente salubre e per proteggere il lavoro di chi, come noi, difende le nostre terre, i nostri territori e il nostro ambiente. È davvero una questione urgente”.