Giustizia, sotto elezioni trionfa la politica dello struzzo: nessuna proposta all’orizzonte di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 agosto 2022 Il Governo Draghi e la Ministra Cartabia stanno conducendo in porto la riforma del processo penale disegnato dalla già approvata legge-delega. I decreti attuativi, molto complessi ed articolati, sono stati appena resi pubblici, e ci sarà bisogno ancora di qualche giorno per formulare su di essi un giudizio compiuto (come d’altronde dovranno ora fare le Camere). Mi limito ad azzardare, ad una prima sommaria lettura, che nel complesso essi non sembrerebbero aver tradito le deleghe, salvo alcune deludenti soluzioni che recano in sé le impronte di qualche manina intervenuta a contenere se non a vanificare i concreti e felici effetti riformatori di alcune importanti novità introdotte dalla legge delega. Ne riparleremo meglio nei prossimi giorni, “cognita causa”, per dirla in latinorum. Il fatto è però che nel frattempo noi tutti siamo già di fronte ad un quadro politico totalmente terremotato da una fulminea crisi di governo, e da un appuntamento elettorale imprevisto ed imminente. Quale che sia il punto di vista politico di ciascuno di noi, due grandi novità ci attendono, l’una auspicabile, l’altra pressoché certa. Quella auspicabile è che il prossimo Parlamento sappia esprimere una maggioranza politica, quale che essa sia, almeno teoricamente compatta intorno ad un programma di Governo. Quella certa è che l’incubo di questi anni, e cioè il populismo giustizialista becero ed analfabeta al governo del Paese, azionista di maggioranza (ancora oggi si stenta a crederlo) del Parlamento repubblicano, sarà solo -almeno nelle dimensioni appena conosciute- null’altro che un angoscioso e lontano ricordo. Deo gratias. Questa radicale, imminente mutazione del quadro politico non potrà non modificare le prospettive della politica giudiziaria, ed in qualche modo inesorabilmente attenuare il peso condizionante di questa riforma appena varata. La quale, sarà bene non dimenticarlo mai, ha dovuto fare i conti - non poco costosi- con la necessità di mediare con le querule bandierine giustizialiste di quell’azionista di maggioranza parlamentare. E ripeto quello che noi penalisti abbiamo detto e ribadito in questo percorso riformatore: si è trattato di un risultato, dato il desolante quadro parlamentare, buono e per qualche aspetto addirittura sorprendente. Ma nessuna autentica riforma può nascere da questa asfissiante necessità di quadrare un cerchio. Un esempio valga per tutti: la riforma della prescrizione. Per far salva solo formalmente (perché nemmeno hanno compreso di avere ottenuto semmai l’effetto esattamente opposto a quello da loro auspicato) la bandierina della “epocale riforma Bonafede”, gli azionisti pentastellati di maggioranza hanno preteso ed ottenuto un pasticcio (la improcedibilità in grado di appello) che nessun altro -a cominciare dalla stessa Commissione Lattanzi- aveva mai nemmeno lontanamente immaginato. È ben probabile che su questo, e su qualche altro importante istituto -più tecnico ma non meno rilevante per i diritti dei cittadini- della riforma appena varata, occorrerà ritornare senza indugio. E qui, però, casca l’asino. Perché, come avrete certamente notato, la già furibonda e disordinata campagna elettorale ha da subito messo il silenziatore sui grandi temi della giustizia penale e dell’ordinamento giudiziario. Il tema scotta, fa paura, crea imbarazzi all’interno delle già incerte coalizioni, dove albergano idee diverse, non di rado antitetiche tra di loro. Separazione delle carriere mediante riforma costituzionale; divieto dei distacchi dei magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo; recupero e riaffermazione dei principi liberali fondativi del processo penale accusatorio, progressivamente erosi e vanificati da un trentennio di ostile giurisprudenza creativa; rilancio del patrimonio riformista degli stati generali della esecuzione penale, indecorosamente rinnegati pochi mesi prima della fine della scorsa legislatura per miopi calcoli di convenienza elettorale; riforma dell’ergastolo ostativo (necessariamente conforme al comando inequivoco formulato dalla Corte Costituzionale, non certo ad esso ostile come qualcuno vaneggia!); sono solo alcuni degli esempi più chiari. Assistiamo a prese di posizioni estemporanee di questo o quel leader politico su questo o quello tra quei temi che più vellica le aspettative (vere o presunte che siano) del proprio elettorato, ma ancora più diffusamente ad imbarazzati silenzi; da nessuno, ad oggi, una chiara scelta di campo, coerente e complessiva, che proponga ai cittadini una precisa idea di politica giudiziaria per i prossimi cinque anni. Noi penalisti ci impegneremo in queste settimane, per quanto nelle nostre forze, a sollecitare scelte chiare e coraggiose, che consentano ai cittadini di orientarsi e scegliere con cognizione di causa. La politica dello struzzo, della non scelta, della pavida indeterminatezza programmatica, crea solo danni per tutti, e mortifica nel sentimento dei cittadini il valore e la qualità della politica. Non disperiamo che, finalmente, tutti sappiano comprenderlo. Partiti politici, diteci cosa farete per la giustizia di Riccardo Polidoro* ledicoladelsud.it, 8 agosto 2022 L’agosto 2022 passerà alla storia per la caccia alle poltrone. Non più lettini o sdraio. Nonostante il caldo eccezionale, c’è una guerra in atto per conservare il posto in Parlamento ovvero per accedervi per la prima volta. Una lotta senza esclusione di colpi, soprattutto di quelli di pura fantascienza politica, che vedono tripli salti mortali da uno schieramento all’altro. Tutto ciò, è stato detto a sinistra, in difesa della Costituzione, cioè per evitare che la destra la modifichi. Dall’altra parte la destra resta unita per altre ragioni di opportunità. Pallottoliere alla mano, dunque, si fanno i conti guardando i sondaggi, valutando il numero di elettori su cui ciascun partito può contare. Uno squallore che offende i cittadini, ritenuti privi di pensiero politico e di capacità per valutare i programmi elettorali. Un vero e proprio mercato, dove ogni schieramento è pronto a calpestare i propri valori pur di giungere al potere. Di programmi, infatti, si parla poco e su gli stessi principi costituzionali, che si vorrebbero salvare, il silenzio è totale. L’argomento più ignorato è la giustizia e, in particolare, il tema del carcere. Una politica incompetente quanto opportunista, che sfrutta l’ignoranza dei cittadini e non perde occasione per alimentarla. Al “buttiamo la chiave” detto esplicitamente a destra, non si ha il coraggio di controbattere che tutto ciò non solo è incostituzionale, ma non migliora affatto la sicurezza. Così, mentre giorno dopo giorno aumentano i suicidi e i morti in carcere, i segretari dei partiti restano con il pallottoliere a fare i loro conti, senza dirci come intendono arginare la mattanza di Stato che si sta verificando nel nostro Paese. In Puglia la situazione è particolarmente grave. Nel carcere di Foggia, dall’inizio dell’anno, ci sono stati quattro suicidi. Nel carcere di Bari un uomo di trent’anni si è tolto la vita. Aveva gravi problemi psichiatrici ed era rinchiuso con altri in un reparto-lager, senza poter accedere ad alcun programma di trattamento specifico: un piccolo manicomio all’interno dell’istituto, in palese violazione di legge. Altro suicidio a Taranto, dove un detenuto si è impiccato pur dovendo scontare solo altri due anni. Nello stesso istituto, pochi giorni prima, un uomo aveva dato fuoco alla stanza barricandosi in bagno. Suicidi ci sono stati anche a Brindisi. Un bollettino di guerra che attraversa l’intera Puglia, dove il sovraffollamento ha un tasso medio del 134,5%, ben oltre la media nazionale che si attesta sul 107,7%. Sarebbe il caso di abbandonare il pallottoliere, le cui palline dopo il voto inizieranno a impazzire, e chiarire agli elettori quale futuro li attende. In tema di carcere, per esempio, si vorranno finalmente rispettare i principi costituzionali del 1948? Si vorrà dare seguito a quanto ci chiede il Consiglio d’Europa, dopo la condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013? In tema di egastolo ostativo si vorranno rispettare - e non aggirare - le precise indicazioni della Corte Costituzionale? Si vorrà dare seguito ai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale, alla legge delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, al lavoro delle numerose Commissioni ministeriali? Si vorrà spiegare ai cittadini che le misure alternative al carcere sono comunque delle pene che limitano la libertà e, allo stesso tempo, garantiscono il recupero sociale del condannato? E che per “certezza della pena” non s’intende “certezza del carcere”, ma che la condanna può essere scontata anche con altre modalità? Risposte chiare su questi temi ci potrebbero far comprendere da che parte stare. Dopo tutto siamo persone, non numeri. *Responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi Per evitare processi inutili una legge c’è, manca la mentalità di Fabio Pinelli Il Riformista, 8 agosto 2022 La cd. legge Cartabia di settembre dello scorso anno, tra i tanti ambiti di intervento finalizzati a migliorare l’efficienza del processo penale, ne attinge uno che si mostra particolarmente significativo: il Pm non potrà più chiedere la celebrazione del processo, e il giudice non la potrà più disporre, se gli atti d’indagine non rendono probabile una successiva condanna. Il precedente criterio di valutazione, quello della semplice utilità del dibattimento, è stato infatti eliminato. Quest’apprezzabile svolta riformista, che mira a ricondurre a ragionevolezza i dati impietosi sulle assoluzioni pronunziate all’esito dei giudizi di I grado (tra il 40% e il 50% nel biennio 2020-2021), pur innovativa nella sua incisività, non è certo la prima della quale si fa carico il legislatore. Vi erano stati, infatti, precedenti interventi, che non erano riusciti a porre un freno alla distorsione, dalle gravi ricadute sociali, dei tanti, troppi processi, conclusi poi con la certificazione dell’assenza di responsabilità dell’imputato. Una nuova disciplina, dunque, finalmente c’è. Essa descrive un rinnovato quadro normativo, che risponde positivamente all’esigenza sociale che i processi vengano celebrati solo al cospetto di elementi di prova veramente solidi. Tuttavia, non possiamo commettere l’errore di affidarci all’idea salvifica che il solo cambiamento delle regole del processo possa essere sufficiente. Se a questo non segue un radicale mutamento di approccio, culturale, tecnico-professionale e formativo dei suoi protagonisti, le riforme rischiano di ridursi a mera (e potenzialmente dannosa) proliferazione normativa. S’impone, dunque, una seria riflessione circa il significativo cambio di ruolo dei protagonisti della giurisdizione (nella fase di transito dalle indagini al giudizio), che la legge di riforma esige; e come esso vada affrontato. Infatti, il Pm, il giudice e i difensori delle parti private risultano oggi investiti di un importante incremento di responsabilità e discrezionalità di azione, decisoria e difensiva. Il Pm non potrà più richiedere il processo, facendo affidamento sul futuro dibattimento per colmare le lacune delle prove raccolte in fase d’indagini. Il giudice competente per la fase antecedente al giudizio non potrà più essere mero certificatore notarile, un “passacarte” delle ipotesi di reato ricostruite dal Pm in fase d’indagini, da vagliare eventualmente in sede dibattimentale. Egli sarà gravato di un rinnovato ruolo decisorio di merito, sulla probabilità o meno di giungere a una sentenza di condanna. Alla stessa stregua, anche i difensori delle parti private, siano esse imputate o persone offese, saranno costretti a cambiare prospettiva. Da soggetti estranei alla fase prettamente investigativa del Pm e protagonisti con le prove a difesa del solo (inevitabile) dibattimento, gli avvocati dovranno diventare incisivi, attraverso un uso sistematico degli strumenti processuali a loro disposizione (primo fra tutti le indagini difensive), nelle fasi precedenti del procedimento: per cercare di evitare, o propiziare (a seconda del ruolo) lo sviluppo del successivo giudizio. È necessario, dunque, un cambio netto di mentalità, che porti con sé un importante incremento di responsabilità, per pubblici ministeri, giudici e avvocati, che dovranno essere all’altezza di una così alta ambizione riformista. Entrano in gioco nuovi doveri professionali, che incombono su tutti gli operatori del processo. La strada da percorrere richiede certamente anche un adeguato parallelo percorso di formazione, che coinvolga in termini analoghi, se non comuni, magistratura e avvocatura. L’interesse da perseguire è unitario e non attinge, in prospettiva di contrapposizione dialettica, i diritti di categoria. In definitiva la legge delega di riforma del processo penale ha bisogno, per produrre i suoi effetti, di un nuovo approccio culturale al processo e di un rinnovato percorso di formazione condivisa, che coinvolga tutti i protagonisti tecnici della giurisdizione. Anche il Csm prepara le sue elezioni e spera di archiviare per sempre l’era Palamara di Giulia Merlo Il Domani, 8 agosto 2022 La legge elettorale appena approvata porta da 16 a 20 i magistrati eletti per il quadriennio 2022-2026 e il sistema è misto: prevalentemente maggioritario (14 eletti) ma con correttivo proporzionale (6 eletti), con l’obiettivo di limitare il peso dei gruppi associativi. Il nuovo Consiglio sarà diverso dall’uscente anche perché anche lo scenario tra i gruppi associativi è cambiato. Magistratura indipendente ha proposto le sue candidature di gruppo, tuttavia alcuni iscritti eccellenti (come la toga di Cassazione Stefano Guizzi) hanno scelto di candidarsi autonomamente, correndo quindi senza le insegne del gruppo ma facendogli, nei fatti, concorrenza. Dopo l’elezione dei togati, per settembre era prevista anche la riunione del parlamento in seduta comune per eleggere i 10 consiglieri laici. La crisi di governo, però, ha congelato tutto: l’attuale Csm in carica agirà in regime di prorogatio fino all’insediamento del nuovo, a fine anno. Settembre sarà il mese delle sfide elettorali. Se la politica ha cerchiato di rosso la data delle elezioni politiche del 25, nella magistratura sono già da settimane in corso le grandi manovre per l’elezione dei nuovi consiglieri togati del Consiglio superiore della magistratura, il 18 e 19 settembre. La contesa per le toghe è complicatissima perché si svolge con un nuovo meccanismo elettorale, approvato in extremis dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, all’interno della riforma dell’ordinamento giudiziario. La legge elettorale appena approvata porta da 16 a 20 i magistrati eletti per il quadriennio 2022-2026 e il sistema è misto: prevalentemente maggioritario (14 eletti) ma con correttivo proporzionale (6 eletti), con l’obiettivo di limitare il peso dei gruppi associativi. Non solo: la legge ha previsto anche il sorteggio di candidati per completare le liste, qualora quelle composte con le candidature non rispettino l’equilibrio di genere. Infine, i candidati si possono presentare coordinati in una lista, come fanno da sempre i gruppi associativi, oppure come indipendenti, con la possibilità poi di dichiarare il loro coordinamento prima che si chiuda la campagna elettorale. Il risultato è che a queste elezioni i candidati sono moltissimi: 87 nomi di cui 40 donne, pubblicati sul sito della Cassazione. Di questi 44 sono indipendenti, suddivisi tra candidati autonomi in modo spontaneo, sorteggiati per legge e sorteggiati davanti a un notaio dal comitato Altra proposta. Tra gli “autocandidati” spiccano nomi noti: il pm Henry John Woodcock; il procuratore di Tempio Pausania del caso Grillo jr., Gregorio Capasso; il difensore di Luca Palamara davanti al Csm, Stefano Guizzi; il pm che indagò sul caso Marta Russo, Carlo Lasperanza, solo per citarne alcuni. Sarà, dunque, una contesa senza risultati scontati per il connubio di due fattori: la legge elettorale e l’imponderabile effetto sul voto dei circa 9000 magistrati elettori degli scandali che hanno investito l’ultimo Csm, da quello Palamara alla loggia Ungheria. Gli scontri interni - La nuova legge è stata scritta con un obiettivo esplicito: ridurre la pervasività dei gruppi associativi, che pure dal 2019 hanno avviato un percorso di autocritica e riforma interna per mettere fine al fenomeno del cosiddetto “correntismo”, ovvero la gestione spartitoria delle nomine negli uffici giudiziari attraverso il Csm. L’effetto sembra raggiunto, ma il nuovo Consiglio sarà diverso dall’uscente anche perché anche lo scenario tra i gruppi associativi è cambiato. Sul fronte progressista, per la prima volta da più di un decennio Magistratura democratica non correrà insieme ad Area, il gruppo che aveva concorso a formare pur senza mai sciogliersi. Md non ha candidato nomi in tutti i collegi, ma spera di poter sfruttare il correttivo proporzionale della legge. Il gruppo centrista di Unicost è rimasto compatto e anche Autonomia & Indipendenza torna a presentarsi, anche se peserà l’assenza del suo fondatore, Piercamillo Davigo, primo per numero di preferenze nel 2018 con oltre 2500 voti. La situazione in Mi - La situazione più complicata, però, è nel campo delle toghe conservatrici di Magistratura indipendente. Il gruppo - dopo un percorso di riforma interna in seguito al caso Palamara (che ha riguardato anche l’ex uomo forte di Mi, il deputato Cosimo Ferri) ha ottenuto ottimi risultati alle suppletive post-scandali - ha individuato i candidati attraverso le sue assemblee territoriali. Tuttavia, alcuni iscritti eccellenti (come, appunto, la toga di Cassazione Guizzi) hanno scelto di candidarsi autonomamente grazie al meccanismo della nuova legge, correndo quindi senza le insegne del gruppo ma facendogli, nei fatti, concorrenza. Dentro la magistratura si parla di candidati “ferriani”, in quanto vicini all’ex capocorrente, ma i diretti interessati hanno negato ogni collegamento con il politico. Il segretario nazionale, Angelo Piraino, non ha nascosto la delusione, ma ha spiegato a Domani che nessuno verrà espulso: “Non esiste che le persone vengano punite per il fatto di pensarla diversamente dal gruppo. Però è ovvio che ci aspettiamo un confronto. Mi non farà nulla per penalizzarli, ma loro dovranno fare chiarezza nei confronti degli elettori e del gruppo a cui appartengono”. Gli eletti congelati - A giocare un tiro mancino alla magistratura, però, ci si è messa la politica. Dopo l’elezione dei togati, per settembre era prevista anche la riunione del parlamento in seduta comune per eleggere i 10 consiglieri laici e le ambizioni erano molte, soprattutto tra i gruppi più numerosi nelle camere attuali e condannati al ridimensionamento. Tra i nomi papabili, quello dell’ex ministro Cinque stelle, Alfonso Bonafede; della responsabile giustizia del Pd, Anna Rossomando e del professor Mauro Paladini. La crisi di governo, però, ha congelato tutto: con ogni probabilità, i laici verranno eletti non prima di dicembre e dal parlamento rinnovato che uscirà dalle urne del 25 settembre. Con un risultato: i togati eletti il 19 settembre rimarranno congelati fino a quando non verranno nominati i laici. Dunque l’attuale Csm in carica agirà in regime di prorogatio fino all’insediamento del nuovo, a fine anno. Antonio Mumolo: “Così lotto nei tribunali per ridare ai clochard i diritti perduti” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 8 agosto 2022 Intervista al legale che ha fondato l’associazione Avvocato di strada, che aiuta i senzatetto. “Un esercito di invisibili che vaga tra mense e dormitori. Precipitare nel baratro è facile: un licenziamento, rate non pagate, un divorzio e da una vita dignitosa si finisce in strada. Si perde la residenza e si diventa fantasmi. Siamo partiti in due, vent’anni fa, oggi siamo in mille volontari. I miei maestri: Enrico Berlinguer e Gino Strada”. L’avvocato Antonio Mumolo dice che la fortuna va restituita. “I miei nonni erano migranti del Sud espatriati in America per povertà. Tornati in Puglia hanno comprato la terra e fatto i contadini. Mio padre è stato il primo della nostra famiglia a poter studiare, è diventato medico e ci ha insegnato a prenderci cura, sempre, di chi aveva meno di noi”. Per questo lei si occupa di persone senza dimora, di clochard e di cause (apparentemente) perse? “Per dimostrare, al contrario che non esistono cause perse, nemmeno per gli ultimi degli ultimi. Dietro ogni senzatetto, dietro chi dorme su un cartone o in un ostello, c’è un essere umano che ha perduto i propri diritti. Noi in tribunale cerchiamo di riannodare i fili di queste vite”. Arriva in giacca e cravatta in via dei Malcontenti numero 4, Antonio Mumolo, 59 anni, avvocato giuslavorista, nato e cresciuto a Brindisi, “emigrato” a Bologna a 19 anni per fare Giurisprudenza, presidente dell’associazione “Avvocato di strada”, consigliere regionale del Pd, “per me la sinistra è la passione politica di Enrico Berlinguer e Sandro Pertini, il volontariato la lezione di don Gallo e Gino Strada”. “Siamo lo studio legale più grande d’Italia e il più povero: mille soci volontari e fatturato zero euro. Da noi non paga nessuno. Il nostro “cliente” clochard numero uno si chiamava Antonio. Come me. Con lui abbiamo vinto la prima causa per la residenza. Era gennaio del 2001. Ne sono seguite altre 40mila di cause, in gran parte vinte”. Due stanze, una segreteria, una sala d’aspetto in un vecchio e consunto palazzo nel cuore storico di Bologna, i codici di diritto penale e civile e le magliette per l’autofinanziamento, con lo slogan “Non esistono cause perse”. In questo posto semplice e disadorno gli avvocati di strada cuciono una tela che riannoda affetti, patrimoni, dignità. Sulla parete d’ingresso una graphic novel ricorda Mariano Tuccella, senzatetto che morì nel 2007 per le botte disumane di tre ragazzini che volevano rubargli 5 euro. “Era un nostro amico, da allora la strada fittizia dei senza dimora si chiama via Tuccella”. Com’è diventato un avvocato di strada? “Da volontario dell’associazione Piazza Grande incontravo i clochard nelle notti fredde di Bologna, portavamo tè caldo, coperte. Nel tam tam dei diseredati e invisibili si era però sparsa la voce che il mio vero mestiere fosse il diritto. Così, ogni notte, appena arrivavo c’era qualcuno che mi chiedeva aiuto legale. “Avvocato, ho perso la residenza”. “Avvocato, mi hanno portato via la casa”. “Avvocato, non posso più vedere i miei figli”. Anche lei come i suoi nonni aveva lasciato il Sud... “A Brindisi torno sempre, in particolare l’estate, ma Bologna è la mia casa. All’università ho incontrato Paola, che sarebbe diventata mia moglie, senza la quale non avrei realizzato tutto questo. Anche lei pugliese, anche lei studiava legge, tutti e due un po’ emigranti. Abbiamo due figli, di 25 e 23 anni, Giovanna e Carlo. Viviamo in periferia e condividiamo tutto: famiglia, impegno sociale. Io sono ateo, lei cattolica, ma ci siamo sposati in chiesa. Il Sud è sempre Sud, lei ci teneva, anche i parenti, però chiedemmo al prete di celebrare con il rito misto che si usa tra credenti e non credenti”. Il primo caso? “Antonio. Quarant’anni. Veniva da Napoli, dopo la separazione dalla moglie aveva perso la casa, poi il lavoro ed era diventato alcolizzato. A Bologna dormiva, quando era possibile, al dormitorio Sabatucci. A fatica era riuscito ad uscire dall’alcol e avrebbe voluto ricominciare, onestamente, il suo mestiere di pranoterapeuta. Ma senza residenza non poteva riaprire una partita Iva. E il comune continuava a negargliela, perché era un senzatetto”. Una trappola. Non hai un indirizzo e non ti do la residenza. Lo spartiacque tra l’essere cittadini o clandestini... “Abbiamo fatto causa al comune di Bologna e abbiamo vinto. Antonio è rinato. Ha ritrovato i legami familiari. Ha di nuovo stima di sé. Tutto ruota in Italia attorno alla residenza. Esistere o diventare fantasmi”. I fantasmi avvolti nei cartoni sulle griglie del metrò, con il tetra pack di vino accanto? “Tra i sessantamila senza tetto che vivono in Italia, una piccolissima parte dorme effettivamente all’aperto e passa la giornata sul marciapiede. Quell’iconografia appartiene al passato. Gli altri sono invisibili”. Perché? Come si finisce sulla strada oggi? “Trent’anni fa i clochard erano in gran parte alcolisti, tossicodipendenti, persone con problemi psichici e soprattutto stranieri. Oggi sono poveri e italiani. È facilissimo precipitare nel baratro. Un licenziamento, le rate di mutuo non pagate, uno sfratto, un divorzio, un soffio e da una vita dignitosa ci si ritrova nei dormitori, alle docce pubbliche, alle mense della Caritas, con i vestiti di qualcun altro indosso”. Lei diceva invisibili... “Camminano accanto a noi bussando ad ogni porta, ad ogni centro per il lavoro, sono vestiti in modo decente, ma tutto ciò che gli resta è in una busta di plastica sottobraccio. Chi c’è sulla strada? Operai licenziati, padri e madri separati, pensionati al minimo ridotti alla fame, imprenditori falliti, lavoratori di 50 anni non più collocabili. Quando arriva lo sfratto è finita”. I parenti, gli amici? “Si diventa clochard quando oltre alla povertà si polverizzano i legami. Anziani senza più nessuno, genitori che si vergognano di farsi vedere dai figli, famiglie disgregate, parenti di cui non si sa più nulla”. Gli avvocati di strada ricostruiscono questi legami? “Noi ricostruiamo soprattutto diritti. Il primo è la residenza. Senza non puoi avere una carta di identità, non puoi lavorare, non puoi avere una casa, non puoi avere il medico di base, non puoi votare. Non siamo come in America dove l’identità è garantita da un codice fiscale. Noi partiamo da qui, dalla residenza. Tremila cause ogni anno. Portiamo in tribunale comuni e datori di lavoro, enti previdenziali e familiari disonesti”. Emergere dal mondo di sotto al mondo di sopra. Le storie più belle? “Giuseppe. Lo vado a trovare ogni anno, siamo grandi amici. Operaio specializzato era finito in strada perché la sua azienda, dopo una lunga malattia lo aveva licenziato. Il suo matrimonio era in frantumi, le figlie non volevano più vederlo, aveva dovuto lasciare la casa. Sembrava non avesse più nulla, invece aveva lavorato tutta la vita. Dopo avergli fatto ottenere la residenza presso il dormitorio, abbiamo ricostruito i suoi contributi, ha ottenuto la pensione, poi una casa popolare e adesso dopo il divorzio ha una nuova compagna”. Una nuova vita... “Un giorno è arrivato allo studio: “Io voglio pagarvi”, ci ha detto. Abbiamo naturalmente rifiutato, allora Giuseppe è andato alla Metro e ci ha regalato il computer della segreteria”. Ci sono molte donne che vivono in strada? “Poche, quasi sempre con problemi di droga. Due di loro, due mamme, Giulia e Alessandra, giovanissime, mi sono rimaste nel cuore. Vivevano tra un dormitorio e l’altro, i figli di entrambe erano stati portati in casa famiglia e sarebbero andati in adozione. Con grande fatica, ascoltandole, abbiamo rintracciato i genitori di Giulia, che non sapevano di essere nonni, e il fratello di Alessandra. Siamo riusciti a bloccare i decreti di adottabilità, i bambini sono stati affidati ai nonni e allo zio, sia Giulia che Alessandra oggi sono fuori dalla droga”. Dietro ogni successo legale c’è un ricongiungimento affettivo... “Ricordo Francesca. Italiana, 40 anni, ex commessa di supermercato, viveva in auto, dopo una separazione, la perdita dell’impiego e le figlie affidate ai nonni paterni. Era passata dalla dignità di una vita semplice al buio della povertà. Grazie alla residenza fittizia ha potuto ritrovare un’occupazione, ha avuto una casa popolare e sta ricostruendo il rapporto con le sue bambine”. Una rinascita. Lei ha ottenuto in Emilia Romagna la legge regionale che prevede il medico di base anche per i senza dimora... “Sapete come li ho convinti? Ricordando i focolai di Covid nei dormitori pubblici. E spiegando che un clochard con il medico di base costa assai meno di un senza tetto che si presenta al pronto soccorso per ogni necessità. Ottanta euro l’anno contro i 700 euro al giorno di un posto letto in ospedale”. Certo non si guadagna facendo l’avvocato dei più poveri dei poveri... “Naturalmente no, infatti ognuno di noi mille avvocati volontari ha anche la propria professione. Io sono il legale della Cgil, oggi anche consigliere regionale”. Berlinguer, Pertini, don Gallo, Gino Strada... “I miei riferimenti. Passione politica e impegno per gli emarginati, gli esclusi, gli ultimi”. Cosa fa quando non lavora? Mumolo ride. “Giro tutta l’Italia per aprire sportelli di avvocato di strada. Siamo già a 56. Suono la chitarra e l’armonica. E se devo distrarmi leggo “Il trono di spade”. La mia citazione preferita è da John Grisham: Prima di tutto sono un essere umano. Poi un avvocato. È possibile essere entrambe le cose”. Stato-mafia, la trattativa ci fu: ecco chi la negava di Stefano Baudino Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2022 Ieri, all’indomani dell’uscita delle motivazioni della sentenza di Appello al processo “Trattativa”, in cui i giudici, pur assolvendo i vertici del Ros e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, hanno espresso giudizi impietosi sulle loro condotte, il quotidiano La Stampa non ha dedicato nemmeno una riga all’analisi del verdetto. Su Repubblica, sebbene Salvo Palazzolo compia una disamina puntigliosa dei punti nevralgici della sentenza, nessun richiamo in prima pagina. Molto soft, invece, l’analisi di Giovanni Bianconi sul Corriere, che dedica poche righe alle zone d’ombra evidenziate dalla Corte. La Verità, che ha passato anni a negarne l’esistenza, titola invece “La trattativa Stato-mafia c’è stata, ma solo per far terminare le stragi”. Contraddicendo all’osso il contenuto delle motivazioni, Il Giornale ha il coraggio di titolare “Sconfessata la Procura, la trattativa Stato-mafia è soltanto una bufala”. Secondo Luca Fazzo, “il teorema che incastrava Berlusconi e Dell’Utri” sarebbe stato “abbattuto”. Libero delega direttamente a Basilio Milio, avvocato dell’ex Ros Mario Mori, l’analisi della sentenza: il legale parla di uno Stato che “non solo non si è piegato, ma ha reagito con determinazione, arrestando i mandanti delle stragi, ad iniziare da Totò Riina”. Gli esponenti delle istituzioni implicati nella trattativa, trattati sin dall’apertura delle indagini con i “guanti di velluto” da parte integrante del giornalismo mainstream, il 21 aprile 2018 furono condannati insieme ai mafiosi a pene molto ingenti in primo grado. All’indomani della sentenza, alcuni quotidiani decisero addirittura di omettere la notizia dalle loro prime pagine, come nel caso di Libero. E chi scelse di dar conto dell’argomento non relegandolo ad un semplice trafiletto, riuscì a fare addirittura peggio: “Il teorema della trattativa: condannati Berlusconi e Dell’Utri”, titolava Il Giornale, in un grande afflato di generosità verso B. e la sua cricca; “Sentenza grillina sulla Trattativa”, gli faceva eco Il Foglio; Con il titolo “Onore a Mori” apriva invece Il Tempo, “abbracciando” spiritualmente un uomo appena condannato a 12 anni di carcere per “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”. Se Repubblica la promosse a notizia principale della sua edizione quotidiana, Il Messaggero, accanto al dato di cronaca, inserì in prima pagina un virgolettato dell’ex ministro Martelli: “Chi arrestò Riina è trattato da boss”, tanto per fare l’ennesima carezza al Ros. Il 24 settembre, il giorno successivo alla pronuncia della sentenza di Appello in cui furono assolti gli uomini dello Stato, le colonne dei principali giornali dello stivale costituirono il più efficiente lavacro purificatore delle loro condotte. “Via il fango resta l’onore”, l’apertura del Tempo; “La trattativa Stato-mafia non esiste”, secondo La Verità (evidentemente, non secondo i giudici). “Imputati tutti assolti, anche Dell’Utri, smascherata la bufala di Berlusconi mafioso”; “Travaglio & Co., sconfitto chi voleva riscrivere la storia”, i titoli di Libero. “Demoliti i pm, Dell’Utri: 10 anni di fango”, titolava invece Il Giornale: non male come difesa per un condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa. La Trattativa venne definita una “farsa” e un “teorema” dal quotidiano diretto da Minzolini, che diede spazio alla reazione ecumenica di Marcello Dell’Utri (“Ancora non ci credo, mi hanno infangato ma posso perdonare”), cercando di mettere alla berlina presunti “forcaioli” come il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio e l’ex magistrato Antonio Ingroia: “giustizialisti” che avrebbero “alimentato teoremi di cartapesta”, ledendo “non solo Berlusconi ma l’onore dell’intera repubblica”. L’apertura del Riformista, poi, fu leggendaria: “Assolti, assolti, assolti, finita la caccia alle streghe”. Ad accompagnarla, un articolo di giubilo di Sansonetti dal titolo “Sconfitti i talebani, bentornata giustizia”. Anche La Stampa intervistò Dell’Utri, offrendo ampio spazio all’analisi di Francesco La Licata (“qualche contatto tra guardie e ladri ci fu, ma non si trattò di una vera trattativa”) e alle parole di Claudio Martelli, secondo cui “non ci fu una vera trattativa”. Il Corriere, nel frattempo, offriva spazio al professor Giovanni Fiandaca, che dichiarava che il processo aveva prodotto “un danno d’immagine all’arma e all’intero Paese”, dedicando un’intera pagina alle reazioni degli imputati e dei loro legali, soddisfatti per la “verità ritrovata”. Per Giuseppe Sottile, sul Foglio, “La trattativa” era “una boiata”. Sul Messaggero, titolo folgorante: “Assolti lo Stato e Dell’Utri, ‘con la mafia non si trattò’”. Lo stesso giornale arrivò addirittura a mettere nero su bianco che Dell’Utri era stato assolto “perché il fatto non sussiste”, mentre la formula assolutoria citata nel dispositivo era “per non aver commesso il fatto”. Qualche settimana dopo, Giovanni Terzi del Tempo intervistò Mario Mori, riuscendo ad affermare, restando serio, che il suo interlocutore, grazie al suo lavoro, aveva definitivamente “sconfitto la mafia”. Finalmente uno scoop. Di Matteo: “La trattativa ci fu… ma chi dialogò è legittimato” di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2022 La trattativa ci fu. Ma gli ufficiali dei carabinieri vengono assolti perché, contattando Ciancimino, “non vollero rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato per strappare al Governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, semmai avrebbero voluto tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto”. E fermare le stragi. Dottor Di Matteo, lei che idea s’è fatto? Anche questa corte ha ritenuto che la trattativa ci fu, fu iniziata da esponenti dello Stato, fu accettata da Riina e si svolse a partire dalle settimane successive alla strage di Capaci mentre era ancora caldo il sangue delle vittime. Con buona pace di quanti lo definiscono un teorema o fantomatica trattativa. C’è però un passaggio che mi lascia perplesso e mi suscita, anzi, preoccupazione. Quale? Quello in cui si afferma che la trattativa era volta ad un fine di tutela dello Stato. Nella sentenza ormai definitiva della corte di assise di Firenze si affermava che quella iniziativa del Ros di contattare Vito Ciancimino avesse rafforzato in Riina il convincimento che la strategia di attacco alle istituzioni pagasse inducendolo a fare altre stragi. Mi chiedo con preoccupazione cosa penserebbero oggi di quelle parole le decine di esponenti delle istituzioni, non solo magistrati, ma agenti di polizia, carabinieri, anche politici che nel contrasto alle cosche mafiose per il rifiuto al dialogo e al compromesso hanno perso la vita. Cosa teme in particolare? Temo che la sentenza possa essere letta come una legittimazione a dialogare con la mafia, che faccia passare l’idea che con la mafia si può convivere. Spero che non abbia effetti, noi continueremo a pretendere che gli estorti denuncino i loro estorsori, io continuo a pensare che il comportamento di uno Stato che cerca Riina in nome di una ragione di stato non dichiarata con un atto del potere politico è inaccettabile in una democrazia. Ogni qualvolta lo Stato ha cercato il dialogo con la mafia ne ha accresciuto a dismisura un potere di ricatto notevolissimo. E c’è anche un altro passaggio che leggo con preoccupazione. Prego... L’opportunità, nella strategia del Ros, che prevalesse una fazione moderata su quella stragista. Questo è un passaggio preoccupante, sembra quasi distinguere una mafia con cui si può dialogare e un’altra da sconfiggere. Anche questo concetto rischia di sdoganare il principio che lo Stato può dialogare con la mafia. Sul Ros la Corte ha riconosciuto che la mancata perquisizione del covo di Riina il 15 gennaio 1993 è stato un segnale di incoraggiamento al dialogo per rafforzare il dialogo... È quello che abbiamo sostenuto noi in primo grado. Oggi la sentenza sottolinea la gravità evidente dell’omissione di un atto doveroso da parte di una struttura di polizia giudiziaria. La sentenza conferma che tre governi - Amato, Ciampi e Berlusconi - vennero ricattati dalla mafia. Anche se nell’ultimo caso non c’è prova che fu il senatore Dell’Utri a veicolare la minaccia. Lei che ne pensa? È un problema di valutazione della prova. Anche questa corte riconosce la valenza dei rapporti mafiosi di Dell’Utri anche dopo il ‘92, lo assolve perché non ritiene sufficientemente provata la veicolazione a Berlusconi. E cosa intende rispondere oggi a quanti negli anni hanno ridicolizzato la vostra inchiesta e il processo definendolo una “boiata pazzesca”? Spero che storici e opinionisti abbiano oggi la correttezza di dire che la trattativa ci fu. Sono fiero di avere contribuito con gli altri colleghi a far venire fuori fatti e circostanze che sono stati ritenuti provati e che hanno attraversato la storia d’Italia nel periodo più buio dello stragismo mafioso. Sassari. L’ultimo saluto a Graziano Piana: “Morte ingiusta, ma no all’odio” di Dario Budroni La Nuova Sardegna, 8 agosto 2022 Il funerale del sassarese massacrato in cella. Il ricordo di don Galia. Lo hanno salutato con un canto struggente e una nuvola di palloncini che è volata lenta sopra i tetti delle case. Poco prima, dall’altare di Sant’Antonio Abate, sono stati l’arcivescovo Gian Franco Saba e il cappellano del carcere don Gaetano Galia a dire addio a Graziano Piana, morto lo scorso 27 luglio poche ore dopo essere stato violentemente colpito alla testa con uno sgabello, in una cella di Bancali, da un altro detenuto. Parole di conforto e vicinanza alla famiglia, quelle dell’arcivescovo e del cappellano. Ma anche di profonda riflessione. “La mia preghiera è perché tutti i luoghi dove passano le persone siano di cura e di recupero” ha detto monsignor Saba riferendosi appunto al luogo del carcere, dove Piana è stato invece massacrato. “È stata una morte ingiusta” ha aggiunto poco dopo don Galia, chiedendo anche di mettere da parte i sentimenti di odio e rancore. L’addio Graziano Piana, sassarese, 51 anni, si trovava a letto quando è stato più volte colpito da Giuseppe Pisano, 26enne di Sorgono, rinchiuso nella stessa cella pochi istanti prima. La famiglia Piana chiede giustizia e verità. E anche la mamma di Pisano, accusato di omicidio volontario, nei giorni scorsi ha detto: “La tragedia era evitabile, mio figlio doveva andare in un ospedale per essere curato, invece lo hanno spedito in carcere”. Saranno le indagini a fare luce sull’accaduto. Intanto ieri i familiari e gli amici di Graziano Piana si sono riuniti a Sant’Antonio Abate per dirgli addio. E all’inizio della cerimonia è voluto intervenire anche l’arcivescovo Saba. “Sono qui per portare il conforto della fede e ascoltare il vostro lacerante grido - ha detto -. La morte è sempre un grande dolore e quando è tragica e violenta lo è ancora di più. Non conoscevo Graziano, ma sono qui perché il vescovo è il padre di tutti. La mia presenza vuole portare conforto e consolazione. Ma voglio anche sottolineare una cosa: i luoghi di detenzione devono essere di crescita, recupero e proposta per venirne fuori migliori. Certamente le malattie espongono la nostra fragilità davanti a situazioni che vanno al di là del nostro controllo. Ma la mia preghiera vuole essere questa: tutti luoghi dove passano le persone devono essere di cura e di recupero”. Il ricordo Don Galia, cappellano del carcere di Bancali, conosceva bene Piana. “Non ci sono parole appropriate per rincuorarvi - ha detto il sacerdote -. Però lo dobbiamo fare, perché vivere nel rancore e nel desiderio di vendetta fa male innanzitutto a ciascuno di noi. Dobbiamo chiedere giustizia e capire come sono andate le cose, ma senza odio e senza rancore. Nello stile di Graziano. Io l’ho conosciuto e non ho mai visto in lui una persona rabbiosa, rancorosa, cattiva. Era un ragazzo buono. Ha fatto le sue scelte, anche sbagliate, ma chi non ha commesso errori nella propria vita? Il nostro compito, come dice il vangelo, non è quello di giudicare gli altri ma innanzitutto di esaminare noi stessi”. Don Galia si è poi soffermato sull’accaduto. “Le nostre strutture servono per aiutare - ha detto -. Ma il nostro Stato molto spesso ci lascia soli. E quelle stesse strutture, invece di diventare luoghi che accolgono, purtroppo possono diventare luoghi di morte. Lo dobbiamo dire con chiarezza: è stata una morte ingiusta”. Un addio, quello di ieri, al quale hanno voluto partecipare anche gli altri detenuti di Bancali. Insieme hanno raccolto una somma e l’hanno donata alla famiglia Piana. Verbania. Il “cortilaccio” del carcere rinasce grazie allo sport di Cristina Pastore La Stampa, 8 agosto 2022 Era un “cortilaccio”, ha ricordato la garante dei detenuti di Verbania Silvia Magistrini: con i lavori è diventato un luogo per quanto possibile “bello”, che aiuta chi deve scontare una pena a imboccare il sentiero di una nuova vita. Il campo da basket, pallavolo e calcetto inaugurato l’altro pomeriggio nella casa circondariale di Pallanza dai palleggi tra i giovani atleti della Paffoni Fulgor Omegna e reclusi nel carcere di Verbania è la dimostrazione di come lo sport, con i suoi valori, possa fare molto bene anche in contesti impegnati nella rieducazione e nell’inclusione. L’idea era nata qualche anno fa, avviata con un contributo della Cassa ammende, ma poi si era arenata. La nuova direttrice del carcere verbanese Stefania Mussio l’ha sbloccata grazie al sostegno di Fondazione Comunitaria del Vco,Ordine degli avvocati di Verbania, Rotary club Pallanza Stresa. L’impegno dei volontari - All’inaugurazione del campetto era presente il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Rita Russo, che ha sottolineato come Verbania possa contare su un volontariato di qualità: quello garantito da 25 anni dall’associazione Camminare Insieme, a fianco dei detenuti nella quotidianità. Poter disporre dell’”ora dello sport”, grazie al campetto ricavato nel cortile con il lavoro manuale di alcuni carcerati, cambia le giornate di chi deve trascorre il tempo in limiti di spazio e attività. “Avevamo già sostenuto progetti volti al reinserimento sociali come quelli della Banda Biscotti e della mensa sociale Gattabuia, in questo caso abbiamo voluto sostenere le attività interne alla comunità carceraria” ha detto Maurizio De Paoli, presidente della Fondazione Comunitaria. Marco Marchioni, presidente dell’Ordine degli avvocati, ha sottolineato quanto il progetto sia attinente a una professione volta alla difesa dei diritti. Maurizio Bianchi, presidente del Rotary Pallanza Stresa, ha espresso la disponibilità a dare una mano per la realizzazione di altri interventi nella casa circondariale che ospita una sessantina di detenuti. I nuovi progetti - “Stiamo già lavorando ad altre iniziative: ci ha spronato a farlo Papa Francesco, che abbiamo avuto il dono di incontrare a maggio - ha ricordato Mussio -. Stiamo ristrutturando una sala d’ascolto, con le competenze acquisite dai detenuti grazie a un corso di stucco e decoro, e sulla facciata vorremmo creare un giardino verticale: avremo senz’altro bisogno dell’aiuto della città per completare questo progetto. Intanto sono stati sistemati altri due ambienti adibiti a piccole palestre, che insieme alla biblioteca diventano locali alternativi alla cella, fondamentali per chi non beneficia della semilibertà. Gustavo Zagrebelsky: “Il presidenzialismo, un pericolo per questa Italia” di Simonetta Fiori La Repubblica, 8 agosto 2022 “Il presidenzialismo proposto da Giorgia Meloni potrebbe tradursi in un regime autoritario sul genere di quello di Orbán, dove il presidente della Repubblica perde il ruolo di garante della Costituzione perché non è più una figura super partes. E sotto il suo potere - o sotto il potere del Partito del Presidente - il Parlamento rischierebbe di rimanere schiacciato, in una condizione di ricatto permanente”. Gustavo Zagrebelsky, maestro di diritto costituzionale ed ex presidente della Consulta, ha in mano il testo della proposta di legge costituzionale presentato da Fratelli d’Italia. “Io non sono contrario al modello presidenzialista in sé, ma alle conseguenze che potrebbe avere in Italia. Ogni forma di governo è come un abito che deve essere indossato: bisogna tenere conto delle caratteristiche specifiche del corpo di una nazione, anche dei suoi difetti”. Professor Zagrebelsky, che cosa la preoccupa di più? “Partiamo dal testo introduttivo della proposta di legge. Sembra che la scelta della forma di governo sia qualcosa che si fa in astratto. Come entrare in un bazar delle istituzioni e scegliere dagli scaffali questo e quello senza interrogarsi seriamente sull’ethos pubblico del proprio paese. E allora bisogna ripartire dai classici”. Che cosa dicono i classici? “Dicono che ogni forma di governo, e quindi l’architettura dello Stato, deve essere adatta alla base sociale e politica del Paese in cui deve essere realizzata. Non è come la formina che si mette sulla sabbia per ottenerne le diverse sagome. O forse è più efficace l’analogia sartoriale: non esiste un abito che in astratto va bene per tutti: bisogna tener conto delle caratteristiche e anche delle malformazioni del corpo che deve indossarlo. Solo così puoi cucirgli addosso un abito adatto”. Fuor di metafora, perché il popolo italiano è poco adatto al presidenzialismo? “La risposta ha radici profonde nella nostra storia. Tacito negli Annali parlava di ruere in servitium: si riferiva alla propensione dei romani di accorrere al servizio dell’imperatore Tiberio. Ecco, esiste una nostra attitudine a servire il potente che è ampiamente dimostrata dal consenso plebiscitario a Mussolini sotto il fascismo. Un affrettarsi sul carro del vincitore che può rovesciarsi anche nel suo contrario, ossia nell’abbandonarlo precipitosamente ai primi segni di debolezza. Uno sbandamento tra l’amore acritico e il dileggio estremo che fa parte della storia degli italiani. Vi fa riferimento anche Manzoni quando accenna al “servo encomio” e al “codardo oltraggio”. Noi abbiamo questa pulsione ad adeguarci, che può contagiare i poteri economici o l’informazione: non mancano gli esempi”. Quindi il sistema presidenziale in Francia non corre gli stessi rischi perché abbiamo una storia diversa? “Corre sempre dei rischi, ma di diversa natura: lo spirito pubblico francese è tutt’altro che ruere in servitium. In Francia hanno fatto le rivoluzioni, in Italia non ne abbiamo mai viste. E oggi i francesi sono capaci di promuovere scioperi che paralizzano il Paese per settimane”. Il presidenzialismo fu proposto anche da personalità della cultura democratica. Nel testo che introduce la legge compare un lungo elenco: da Salvemini a Calamandrei, da Valiani a La Pira... “Sì, a dire il vero ci mettono anche il nome di Randolfo Pacciardi, che in fatto di democrazia non ci fa sentire così al sicuro: prima di morire ammise di aver progettato un golpe nel 1974. Il presidenzialismo fu respinto dall’Assemblea Costituente in base a quello che qualche sottile politologo ha chiamato “la paura del tiranno”: venivamo appunto da vent’anni di dittatura fascista. Ma io oggi insisterei di più sul “complesso del servo” che ha radici ancora più antiche nella storia d’Italia. Ed è quello che oggi rende pericoloso il cambiamento dell’assetto di governo. Il presidenzialismo è in fondo una forma di estremismo. C’è uno che vince e uno che perde, o di qua o di là: più estremo di così! Linguaggio bellico. Invece i regimi parlamentari sono quelli affidati all’interlocuzione. Non uso a caso questa parola”. Nel testo della legge viene rivendicato il passaggio da “una democrazia interloquente” a “una democrazia decidente”... “Le parole sono rivelatrici. Ora “interloquire” è sinonimo di “partecipazione”. Quindi ciò che vuole Fratelli d’Italia è un governo forte, che esclude la partecipazione a favore della decisione. Ma la decisione - come ci rivela l’etimologia - è qualcosa che divide. E chi perde resta tagliato fuori da tutto. Ma se questa fosse la visione della democrazia allora avrebbe ragione il bravo Rousseau: gli inglesi credono di essere liberi, ma in realtà lo sono solo quando votano. E per quattro anni restano servi dei vincitori. Noi abbiamo della democrazia un’idea diversa, dove la libertà non si esercita solo al momento del voto ma si incarna in procedure anche conflittuali su ogni problema. È questa “l’interlocuzione” che vorrebbero bandire”. Quindi oggi che cosa rischiamo? “Gli italiani devono scegliere: se vogliono una democrazia con il vincitore - un regime autoritario alla Orbán - o una democrazia senza vincitori e vinti ma dove ogni parte politica, nella misura del consenso che ha ottenuto, lo spende in una dinamica quotidiana nel rispetto della partecipazione di tutti”. Lei dice che rischiamo un regime alla Orbán. Vogliamo spiegare cosa prevede la nuova legge? “La prima incongruenza riguarda la figura del presidente della Repubblica. Se si realizzasse la proposta di Meloni, diventerebbe un soggetto governante e iperpoliticizzato: eletto a suffragio diretto, con il sostegno di una forza politica, nomina il primo ministro, su proposta del premier nomina e revoca i ministri, e presiede il Consiglio dei ministri salva delega al primo ministro. Ora una figura di questo genere è espressione di una sola parte politica, quella che ha vinto, non è più super partes e quindi non si può pretendere che sia garante della Costituzione che è un bene di tutti. Nel nuovo articolo 83 della Costituzione riscritto da Fratelli d’Italia leggo che il presidente della Repubblica vigila sul rispetto della Carta. Ma il vincitore non può essere garante”. È l’unica incongruenza? “No, credo ne emergeranno molte altre. Mi limito a segnalarne una seconda. A un certo punto compare inopinatamente la “sfiducia costruttiva”: il Parlamento può votare la sfiducia al governo ma deve contemporaneamente indicare il nome del nuovo primo ministro. Si tratta di un istituto iperparlamentarista preso dal modello tedesco, che ha senso solo in un sistema parlamentare. Siamo dinnanzi a una clamorosa contraddizione rispetto all’ispirazione presidenzialista della legge. Come se davvero chi l’ha scritta avesse spiluccato di qua e di là, un po’ dal modello francese un po’ dal sistema tedesco, nella speranza che il tutto regga”. Non si può intendere come il tentativo di controbilanciare il potere del presidente? “No, il potere del presidente - e del suo partito - resta schiacciante. Il presidente della Repubblica può disporre lo scioglimento delle Camere: è così anche oggi, ma in un contesto radicalmente diverso. Il presidente attuale non ha un suo partito politico, e non ha la necessità di averlo. Mentre, con l’elezione diretta, il presidente ha necessità di un partito che lo sostenga in campagna elettorale. In questo modo, se non il presidente, il partito del presidente avrebbe un potere di pressione e di ricatto enorme sul Parlamento: che cosa succede se l’assemblea legislativa non si piega alla sua volontà?”. C’è il rischio di una involuzione autoritaria? “Chi non si adegua potrebbe rischiare di essere represso. Pericolo tanto più grave in situazioni come quelle che si prospettano nel futuro, molto calde sul piano della pace sociale. Proprio per questo la democrazia dell’interlocuzione deve essere difesa con le unghie e con i denti”. Come siamo arrivati a questo punto? “Questa proposta di legge è un manifesto che chiama a raccolta chi ha “in gran dispitto” la fatica e le procedure della democrazia parlamentare. Se attira gli elettori è perché è diffusa nel Paese una sorta di frustrazione democratica, tra delusione e rinuncia. Di fronte a questa frustrazione che uscite ci sono? Una è la rassegnazione: allora largo agli autoritarismi. L’altra è l’impegno democratico”. Il suo stato d’animo? “Sono preoccupato, pensando a tutti i cittadini che hanno a cuore la democrazia. Essa non è sinonimo di buon governo, ma è l’unico assetto politico che garantisca la dignità politica di tutti. Gli altri regimi non prevedono cittadini, ma sudditi. E, a proposito, mi ha colpito che nella proposta di legge si parli di italiani, non di cittadini italiani, come sta scritto nella Costituzione del 1948. È una sfumatura, ma significativa. Anche la scelta delle parole restituisce una diversa idea della democrazia e dell’inclusione”. A destra scontro sull’immigrazione. Riproposte idee bocciate dai giudici di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 agosto 2022 Meloni promette il blocco navale, salvo poi fare marcia indietro: ma è contrario al diritto internazionale in mare. Salvini la insegue rilanciando i decreti Sicurezza, smontati da sentenze in sede civile, penale e amministrativa. Se andrà al governo e vorrà davvero provare a fermare i flussi migratori verso l’Italia, il centrodestra dovrà inventarsi qualcosa di nuovo. Perchè, a parte il fatto che in Italia i porti non sono mai stati chiusi neanche in tempo di vigenza dei decreti sicurezza e che non una sola nave umanitara o barcone è stato mai respinto, entrambe le “idee” lanciate da Giorgia Meloni e Matteo Salvini (già abbastanza nervosi per le reciproche fughe in avanti sul tema all’interno della coalizione) sono improponibili. Bocciate da una valanga di norme del diritto internazionale e da provvedimenti dei giudici. Meloni corregge il tiro sul blocco navale - Il blocco navale nel Mediterraneo auspicato dalla Meloni è contrario al diritto internazionale che lo considera “un atto di guerra unilaterale, tanto che ieri la stessa leader di Fratelli d’Italia ha provato a tirarsi d’impiccio chiarendo che “fermare le partenze dei barconi, in accordo con le autorità nordafricane, è l’unica strada per ripristinare il rispetto delle regole e fermare le morti in mare”. Dunque, il blocco navale altro non sarebbe che un accordo con i Paesi di origine dei migranti con i quali è sostanzialmente impossibile persino firmare accordi di rimpatrio, figurarsi impedire le partenze. A eseguire il blocco, per altro, dovrebbero essere le navi della Marina militare italiana che, secondo il diritto internazionale e le convenzioni che il nostro Paese ha firmato, devono invece osservare l’obbligo di soccorso in mare e il divieto di respingimento. I decreti sicurezza già smontati dai giudici - Anche la partita dei decreti Sicurezza che Matteo Salvini promette di voler “riproporre identici tra due mesi” è persa in partenza. Nella sua bulimia di annunci, il leader della Lega (che a costo di far innervosire gli alleati, Forza Italia compresa, parla già come se fosse di nuovo al Viminale) dimentica che i suoi due decreti Sicurezza sono stati smontati pezzo per pezzo da provvedimenti della magistratura, civile, penale e amministrativa che hanno sancito l’obbligo di salvare i naufraghi (e di portarli a terra nel porto più vicino), l’illegittimità del divieto di ingresso in acque italiane alle navi Ong, l’irretroattività dell’abolizione della protezione umanitaria, il diritto di tutti i richiedenti asilo di iscriversi alle anagrafi dei Comuni italiani. Diritto sancito dalla Consulta con la sentenza del luglio 2020 che ha definito “incostituzionale, per la violazione dell’articolo 3, irragionevole e controproducente” il divieto di iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo che dunque hanno diritto a una carta di identità, all’accesso ai servizi sociali, alle cure mediche, ad aprire un conto in banca, al lavoro. E su questo non si torna indietro. Illegittimo il divieto di ingresso per le Ong - Così come non si potrà ignorare, nella stesura di eventuali nuovi decreti sicurezza, la sentenza del Tar del Lazio di agosto 2019 che annullò il divieto di accesso in acque italiane firmato da Salvini e dagli allora ministri Trenta e Toninelli nei confronti della Open Arms. “Eccesso di potere per travisamento dei fatti e violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso”, le motivazioni del provvedimento. Sullo stesso binario del pronunciamento del gip di Agrigento Vella che annullò l’ordine di arresto della comandante della Sea Watch Carola Rackete riconoscendo come prioritario l’obbligo di salvare i naufraghi e portarli a terra. Il no di Mattarella alle multe milionarie per le navi umanitarie - Persino il ricorso all’elemento di dissuasione delle multe milionarie per le navi Ong per la violazione del il divieto di accesso in acque italiane non potrà essere riproposto. Nel firmare il decreto sicurezza bis, ad agosto 2019, il presidente Mattarella espresse “rilevanti perplessità” su quelle sanzioni che definì “irragionevoli” e che infatti poi il Parlamento ridusse ai minimi. E l’inquilino del Quirinale è ancora lo stesso. Se l’Europa rinuncia a governare la guerra tra Usa, Russia e Cina di Massimo Cacciari La Stampa, 8 agosto 2022 I venti di guerra soffiano sempre più forti e coprono ormai l’intero globo. Sul fronte del Pacifico, a differenza che in Europa, non sussiste neppure la possibilità di gestire il conflitto attraverso vittime-intermediario. Per Taiwan Cina e America sono faccia a faccia. È rinviabile ancora la decisione? Una via tipo Hong Kong sembra del tutto irrealistica. Le ragioni degli affari, degli scambi, della finanza prevarranno ancora? Auguriamocelo - ma appare ormai di solare evidenza che esse non bastano a “tenere in forma” questo mondo, non dico a risolverne contraddizioni e lacerazioni, ma a garantire un decente controllo delle crisi che lo stesso processo di globalizzazione ha prodotto e produce. La Tecnica progredisce, l’homo technicus ha conosciuto successi straordinari - nulla di ciò sembra tradursi in capacità politica e di governo. Tecnica e potenza economica non vivono nel mondo delle idee, si incardinano e incarnano in organizzazioni politiche e statuali. Se una nazione che ha dimensioni imperiali (dico nazione o insieme di nazioni, e non Stato, che è un termine che di per sé designa soltanto un apparato amministrativo-funzionale) assume una grande forza tecnico-economica inevitabilmente, prima o poi, vorrà farla valere sul piano geopolitico, determinando radicali trasformazioni nei complessivi equilibri di potenza. E quella forma di razionalità che poteva valere sul piano della gestione degli affari tecnico-economici non avrà più efficacia su quest’altro. Un’arcaica, ma dura a morire ideologia liberista riteneva che il passaggio potesse avvenire senza traumi. Crisi, pandemie, guerre almeno questo è sperabile abbiano prodotto: il definitivo risveglio dai sonni di tale ideologia. Quale razionalità sarebbe stato augurabile prevalesse dopo la fine della “guerra fredda” e la vittoria americana? Quella che riconosceva l’impossibilità di ordinare il nuovo mondo in base a un solo ordine, a un solo sovrano. Non è mai esistito né mai esisterà un Impero globale - la forma dell’Impero può giungere a unificare nazioni diverse, anche con tradizioni, lingue e religioni diverse, ma che si sono in lunghi periodi storici andate incontrando e mescolando fino ad avvertirsi come appartenenti a una civiltà. Così era per l’Impero romano, così era per l’idea di Sacro Romano Impero nel Medioevo. Così per l’Impero cinese. Così per quello russo. Nessun Impero - non dico singoli Stati - potrà mai essere il centro, l’asse intorno a cui ruota l’intero globo. L’Occidente, la sua civiltà, ha rappresentato fuori di ogni dubbio l’agente essenziale della globalizzazione. La sua potenza economica, tecnica e militare ha costretto ogni nazione a entrare a far parte di un unico processo di sviluppo, ha manifestato capacità assimilative straordinarie, ha modificato la struttura sociale e culturale dei popoli che, in un modo o nell’altro, ha incontrato. Ma da questo non era affatto razionale dedurre la presunzione di essere il centro del mondo. Un multiverso non ha centro, non lo avrà mai. O i suoi centri, che sono civiltà, sanno comprendersi, “tradursi”, governare insieme, oppure le contraddizioni saranno risolvibili di volta in volta solo attraverso il bellum nefandum. Nel dopo-guerra fredda si sono sciaguratamente incontrate e scontrate, consumando via via i margini di mediazione, un’astorica idea di universale Ecumenopoli, che avrebbe dovuto essere retta non solo sui “valori” dell’Occidente, ma anche governata con le stesse forme istituzionali e politiche che da noi si erano affermate, con una irrealistica volontà di mantenere il proprio ruolo globale da parte della grande potenza sconfitta e una, assai realistica invece, volontà da parte della Cina di affermarsi con straordinaria rapidità in quanto nuovo e decisivo Impero. O i tre giungono a riconoscere le rispettive ragioni, sul fondamento di ciò che ho detto, e cioè che il mondo globale è un multiverso di potenze e di legittime aspirazioni a diventarlo, multiverso che non tollererà mai il governo di uno solo e tantomeno una Polizia globale che investita da chissà quale divina Auctoritas sia chiamata a mantenerne l’ordine, oppure è inevitabile che le contraddizioni vadano moltiplicandosi fino a un radicale e imprevedibile mutamento di stato. Nello scenario pre-catastrofico attuale si fa ancora più evidente quale grande ruolo l’Europa avrebbe potuto giocare, direi proprio quale missione di pace avrebbe dovuto svolgere: sostenere sulla base della propria unità politica quella visione delle relazioni internazionali che contrasta l’immenso pericolo rappresentato da idee e prassi egemoniche. Solo un’Europa politicamente unita poteva assumere e far valere quella visione delle relazioni internazionali capace di governare le inevitabili tensioni tra i grandi spazi imperiali. Un’Europa profondamente partecipe della storia dell’Occidente, quanto autonoma e forte di idee e fini che appartengono soltanto alle sue diverse culture, avrebbe potuto e dovuto diventare protagonista nello sforzo per mediare e governare i contrasti e le tensioni inevitabili tra i grandi spazi imperiali. Ora è evidente quale grande aiuto la presenza di questa Europa avrebbe rappresentato anche per gli stessi Stati Uniti. Un’Europa in grado, dopo la caduta del Muro, di comprendere non Eltsin o Putin ma il destino della grande Russia, e come esso si intrecci sull’onda lunga della storia dei popoli (che un politico sarebbe sempre tenuto a conoscere) con il nostro, attraverso amori e odi di ogni genere - questa Europa sarebbe stata in grado almeno di comprendere e affrontare le drammatiche situazioni che si andavano determinando all’interno dell’ex-Impero sovietico, prima che le crisi esplodessero e gli Stati Uniti fossero chiamati a intervenire. L’unione europea non nasce forse anche e soprattutto per risolvere da sé i propri drammi? O due guerre mondiali in cui tutta Europa ha perduto non hanno insegnato nulla? Così gli Stati Uniti sono ora chiamati ad affrontare avversari formidabili su due fronti, nello stesso momento. Non sarà un caso, vero?, se la Cina riapre proprio oggi così prepotentemente la questione Taiwan. E la diplomazia americana dà segni sconcertanti di confusione: la mattina implora il grande Impero d’Oriente di abbandonare la Russia, e la sera invia la signora Pelosi nell’isola contesa, garantendo che la sua sovranità verrà difesa fino a…Già, fino a quando potremo reggere senza capacità di governarle le molteplici sfide del nostro ambiente, senza modificare le istituzioni internazionali che dovrebbero definire il nostro ius pacis et belli, continuando a versare vino nuovo in botti decrepite? Non solo Ucraina, la guerra torna ad essere un’abitudine contagiosa di Mario Giro Il Domani, 8 agosto 2022 Sale di nuovo la tensione in Nagorno Karabakh, Bosnia e Kosovo. Se non si concludono paci definitive, i conflitti prima o poi riprendono. La pace oggi sembra soltanto l’equilibrio dei rapporti di forza e non una scelta. Le frontiere si prendono la loro rivincita sulla globalizzazione, ormai in ritirata. Sale nuovamente la tensione nel Nagorno Karabakh, la regione contesa tra Armenia e Azerbaigian: gli azeri hanno attaccato alcune postazioni armene. Quella guerra del Caucaso dura da oltre trent’anni, con lunghe pause e repentine esplosioni, come nel 2020. La caratteristica è che non si giunge mai ad un accordo di pace definitivo. Così accade in questi giorni anche nei Balcani: dalla guerra tra Nato e Serbia del 1999, Belgrado non ha riconosciuto l’esistenza del Kosovo indipendente. Per questo sta salendo di nuovo la tensione attorno alle enclave serbe che vivono come fossero sotto la sovranità di Belgrado. La delicata costruzione bosniaca pare scricchiolare: la repubblica Srbska minaccia la secessione e l’annessione alla Serbia. Molte altre crisi riguardano, com’è noto, le frontiere della federazione Russa, fino all’attuale guerra contro l’Ucraina. L’annessione della Crimea nel 2014 è stata una prima tappa. Prima ancora c’erano stati i conflitti in Georgia per l’Abkhazia e l’Ossezia; la creazione della Transnistria e numerose altre tensioni sparse lungo i vecchi confini dell’Urss, inclusa la questione cecena. Poi vi sono le rivendicazioni turche, sia nell’Egeo che in Siria, basate sull’antica presenza dell’impero Ottomano. Ankara sconfina stabilmente in Iraq, verso Mosul. La frontiera stessa tra Iraq e Siria è rimessa in discussione, e non solo dall’ISIS che la considerava “empia” perché disegnata da infedeli. Una volta cambiare un confine era considerato un tabù: durante la guerra fredda rappresentava una minaccia alla pace globale. Il principio di non ingerenza negli affari interni includeva il divieto di rivendicare territori altrui. C’erano pur sempre i nostalgici, ma nessuno pensava fosse possibile costruirci sopra una seria politica. Gli accordi di Helsinki avevano ribadito l’intangibilità dei confini europei e il principio di non interferenza nelle rispettive sfere. Oggi tutto è rimesso in discussione e ciò accade anche all’interno di paesi democratici: la questione catalana e quella scozzese sono note, così come quella dell’Ulster. Non solo l’Europa e le aree vicine subiscono tale circostanza: la ritroviamo negli altri continenti come in Africa. In questo quadro il fatto più grave è lo sdoganamento della guerra come mezzo per risolvere i contenziosi o sostenere i propri diritti. Nessuno si scompone più se uno Stato decide di utilizzare lo strumento militare e ciò diviene un’abitudine contagiosa. Allo stesso tempo non si crede più tanto che la pace possa derivare da onesti negoziati: l’idea prevalente è che scaturisca dal bilanciamento dei rapporti di forza, cioè una conseguenza e non una scelta. In questo modo di sta sprecando la grande pace del dopo guerra fredda e la scelta del “never again” presa dopo la seconda guerra mondiale. Iraq, la nuova miccia nel mondo in fiamme di Francesca Mannocchi La Stampa, 8 agosto 2022 Si va verso lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di nuove elezioni legislative, sullo sfondo la crisi sociale e l’incubo violenze. Venerdì i sostenitori del leader politico e religioso sciita Muqtad al Sadr, si sono riuniti nella Green Zone, l’area fortificata della capitale Baghdad, sede di palazzi istituzionali e ambasciate, per celebrare lì la preghiera islamica del venerdì. Sadr ha chiamato i suoi ad una nuova manifestazione di presenza e consenso, culmine di una settimana che ha fatto tremare l’Iraq, dopo le proteste iniziate il 27 luglio e l’assalto al Parlamento dei giorni successivi. Per capire come si è arrivati fin qui bisogna risalire alle ultime elezioni e ai vincoli di formazione del governo. Dal 2003 il Paese è gestito dal sistema “Muhasasa” un metodo di spartizione del potere su base settaria, che divide i posti e la rappresentanza su base religiosa, etnica e tribale. Per formare un governo, i partiti in parlamento devono stabilire blocchi per nominare un presidente e poi un primo ministro. Nelle elezioni dell’ottobre 2021 Muqtad al Sadr era emerso di fatto come vincitore e il blocco da lui rappresentato aveva ottenuto 73 seggi. Sadr ha provato a formare un governo di maggioranza in alleanza con sunniti e curdi per escludere i suoi oppositori sostenuti dall’Iran. Da allora però i rivali di Sadr si sono uniti nel “Quadro di Coordinamento” tentando di rafforzare l’unità dei partiti sciiti e mettere fuori gioco i sadristi. Nei mesi successivi le riunioni parlamentari sono state boicottate, e le lotte interne ai blocchi e ai partiti molto aspre. Il Parlamento non ha trovato un accordo sul Presidente - tradizionalmente un curdo- perché i partiti curdi non sono stati in grado di concordare sul nome di un candidato che andasse bene a tutti. Così, dopo mesi di stallo, a giugno Muqtad al Sadr ha ordinato ai suoi eletti di ritirarsi dal Parlamento, lasciando di fatto il Quadro di Coordinamento in una posizione dominante. La situazione si è aggravata dopo la pubblicazione di alcune registrazioni audio in cui l’ex primo ministro Nouri al-Maliki insultava Sadr accusandolo di essere “assetato di sangue”. Le ambizioni dei due politici si scontrano dall’inizio della legislatura. Al-Maliki vuole rivendicare il suo potere e scegliere il primo ministro, ma soprattutto vuole mantenere lo status quo. Proprio quella paralisi di potere clientelare e corruzione che Sadr dice di voler distruggere, spesso strumentalizzando l’insofferenza popolare per raccogliere consenso. Quando nel 2014 il suo mandato come primo ministro è terminato, al-Maliki ha piazzato i suoi uomini come dipendenti pubblici nelle istituzioni chiave, inclusa la magistratura. Nel frattempo, al-Sadr ha creato uno stato parallelo, un apparato ombra, un movimento che per sostenersi ha bisogno di ingenti somme di denaro per essere finanziato. Per questo ha uomini nei ministeri dell’interno e della difesa, nelle compagnie petrolifere ed elettriche statali e nella banca centrale. Avere voce in capitolo sul budget iracheno di 89 miliardi di dollari l’anno consente ai sadristi di indirizzare denaro verso i sostenitori. Negli audio diffusi dalla stampa locale, al-Maliki dice inoltre: “L’Iraq è sull’orlo di una guerra devastante dalla quale nessuno uscirà illeso, a meno che il progetto di Muqtada al-Sadr, Massoud Barzani e Muhammad al-Halbousi non venga sconfitto”. In risposta Sadr ha condannato l’antico nemico chiedendogli di allontanarsi dalla politica perché la sua presenza in Parlamento “significherebbe la distruzione dell’Iraq e della sua gente”. Ma a far precipitare la situazione è stata la nomina, alla fine di luglio, di Mohammed Shia al-Sudani, un politico sciita di 52 anni, come candidato primo ministro da parte del Quadro di coordinamento. Al-Sudani è l’ex governatore della provincia di Maysan, è stato più volte ministro negli ultimi dieci anni e ambisce alla carica di primo ministro da tempo, in quest’ottica ha fondato il partito Dawa durante il movimento di protesta contro il potere dell’ottobre 2019. Sadr, che ha sempre considerato al-Sudani un politico corrotto - ha chiesto alla sua gente di scendere in piazza. E così i suoi sostenitori il 27 luglio hanno assaltato il Parlamento per impedire la formazione del governo. Alla fine di luglio, l’Iraq era senza governo per il periodo più lungo nella sua storia post-2003. Tre giorni dopo i sadristi sono tornati di nuovo nella Green Zone abbattendo i blocchi di cemento e si sono accampati nel Parlamento. Il leader ha esaltato la loro protesta descrivendo in un tweet l’occupazione del palazzo come “un’occasione d’oro per cambiare il sistema politico, eliminare i corrotti e portare il Paese a nuove elezioni”. I suoi sostenitori hanno saccheggiato gli uffici del partito Dawa dell’ex primo ministro Nouri Al-Maliki a Baghdad e i locali della corrente politica Hikma, la formazione di Ammar Al-Hakim, entrambi membri del “Quadro di Coordinamento”, suo avversario. “Chiedo a tutti di sostenere i rivoluzionari, comprese le nostre tribù orgogliose, le nostre forze di sicurezza eroiche, i membri delle Forze di mobilitazione popolare dei Mujahid che rifiutano la sottomissione e tutti i gruppi di persone a sostenere la riforma, uomini e donne, giovani uomini e bambini, non sotto la mia bandiera o guida, ma sotto la bandiera dell’Iraq e la decisione del popolo”, ha scritto Sadr, elogiando la sua più grande arma: la gente in piazza, lanciando un appello amplificato dalla retorica religiosa volta a suscitare il fervore dei fedeli sciiti che si preparano a celebrare l’Ashura, la commemorazione del martirio dell’Imam Hussein, nipote del profeta Maometto. Questo era lo scenario nel giorno in cui l’Iraq ha rischiato di cadere di nuovo in una spirale di violenza: migliaia di sostenitori di Moqtada Al-Sadr a occupare il Parlamento per chiederne lo scioglimento e lo svolgimento di nuove elezioni, centinaia di altri sostenitori mobilitati dal leader e dall’altra parte in un pericoloso faccia a faccia nella zona verde, i rivali del “Quadro di Coordinamento”, che hanno organizzato una contro manifestazione per protestare contro quelle che ritengono le provocazioni di Sadr, e contro quello che ritengono essere un “colpo di Stato” contro le istituzioni statali. La Green Zone si è riempita di posti di blocco per scongiurare un possibile scontro tra i due blocchi, ma fortunatamente la situazione non è precipitata, anche perché due dei più potenti gruppi sostenuti dall’Iran - Kataib Hezbollah e il leader della coalizione di Fatah Hadi al-Amiri - hanno annunciato che non avrebbero preso parte alle manifestazioni. Sadr ha dimostrato, in questi caotici giorni di agosto, che la sua principale arma politica è la piazza. Sadr ha una grande capacità di mobilitare le masse sia nei quartieri disagiati della capitale Baghdad sia nelle zone più depresse del sud. È lo strumento che da anni usa per proporsi come un nazionalista in cerca di riforme, in contrapposizione al blocco sciita filo iraniano. Si fa sempre più concreta, a più di una settimana dall’inizio delle proteste, la possibilità che il Parlamento venga sciolto e vengano convocate nuove elezioni legislative. Di fronte alla paura di uno scontro tra i due blocchi armati, crescono gli appelli alla calma: il primo ministro Mustafa Al-Kadhimi, incaricato di gestire gli affari correnti, ha invitato i blocchi al negoziato invocando le elezioni per uscire dalla crisi. Resta da capire se la coalizione di Sadr “al Sairoon” parteciperà alle consultazioni. Per ora resta lo stallo tra i due blocchi contrapposti che si battono per prendere la guida della rappresentanza sciita. E resta la crisi sociale degli iracheni che osservano il Parlamento indebolito e le istituzioni che non riescono a dare risposte per affrontare la crisi che grava sulle loro spalle. La “guerra alla droga” di Singapore: 10 impiccagioni in quattro mesi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 agosto 2022 Con le due impiccagioni di venerdì, la “guerra alla droga” del governo di Singapore ha raggiunto il macabro record di 10 esecuzioni negli ultimi quattro mesi. Gli ultimi prigionieri messi a morte sono stati Abdul Rahim Shapiee, giudicato colpevole del traffico di poco meno di 40 grammi di eroina, e Ong Seow Ping, trovato in possesso di poco più di 51 grammi della stessa droga. La prima impiccagione, dopo una pausa di circa due anni, aveva avuto luogo il 30 marzo. Ad aprile c’era stata quella di un cittadino della Malesia, Nagaenthran Dharmalingam, con un profondo deficit cognitivo. Quattro esecuzioni c’erano state a luglio, mentre le ultime quattro condanne sono state eseguite questa settimana. Di questo passo, il record negativo di 13 esecuzioni del 2018 potrebbe essere presto superato. A Singapore vige una delle più dure legislazioni antidroga del mondo. L’impiccagione è la pena obbligatoria per il traffico di stupefacenti. Le Nazioni Unite e i gruppi per i diritti umani hanno più volte dichiarato che questa presunta “strategia preventiva” è incompatibile col diritto internazionale dei diritti umani e con gli standard in materia di pena capitale, permessa solo per i reati più gravi come l’omicidio premeditato.