I bambini in carcere con le madri ci sono in tutto il mondo, ma ci restano meno che in Italia di Federica Olivo huffingtonpost.it, 7 agosto 2022 La crisi di governo e lo scioglimento delle Camere hanno fatto naufragare la proposta di Paolo Siani, parlamentare del Pd che ce l’aveva messa tutta per tirare fuori i bambini dal carcere. Ma come funziona nel resto del mondo? Spagna e Uk virtuose, i problemi ci sono in Francia e Polonia. Nel carcere di Bedford Hills c’è la sezione per mamme detenute con figli più longeva degli Stati Uniti. Costituita nel 1901, può ospitare le detenute donne con i loro bambini fino a quando i piccoli non hanno compiuto il primo anno di età, ma se la pena finisce entro sei mesi, i bimbi possono restare fino a un anno e mezzo. Dopo, non sono concesse deroghe. Negli Stati Uniti sono otto le strutture che ospitano anche sezioni nido, staccate dal carcere e dagli altri detenuti. La loro conformazione è simile a quella nostre sezioni nido, con la differenza che in Italia è possibile che un bimbo resti nel penitenziaro con la madre fino a tre anni. Ci sono i giocattoli, ci sono gli educatori, ma restano le sbarre, i vincoli, la polizia penitenziaria. Resta un’infanzia vissuta a metà, perché lo Stato non sa trovare una soluzione diversa per la donna detenuta, che non può lasciare il figlio a nessuno, e il suo bambino. In tutto il mondo è data la possibilità alle madri detenute di tenere i loro bimbi piccoli con sé, se lo si vuole e se ce n’è la necessità. Spesso, però, questa scelta viene fatta dalle donne che non hanno una casa o una famiglia, o che sono in una condizione di difficoltà economia e sociale. Ogni Paese studia soluzioni diverse: alcuni si limitano alle sezioni nido, costruite all’interno delle carceri. Altri, invece, obbligano il giudice a disporre per la mamma che deve scontare la pena un periodo in una casa famiglia protetta. Dove possa stare con il suo bambino, magari con delle regole, ma senza che il piccolo percepisca di essere in prigione. L’Italia stava arrivando a questa soluzione, ma la crisi di governo e lo scioglimento delle Camere hanno fatto naufragare la proposta di Paolo Siani, parlamentare del Pd che ce l’aveva messa tutta per tirare fuori i bambini dal carcere. La legge è stata approvata solo alla Camera, ma non ha ottenuto il via libera definitivo in Senato. Di conseguenza la legge 62 del 2011, che disciplina la questione, non sarà modificata. I bambini fino a tre anni potranno restare con la mamma nelle sezioni nido delle carceri o negli Icam, istituti a custodia attenuata, separate dai penitenziari che però somigliano più a un carcere che a una casa. In queste ultime strutture i piccoli possono essere accolti fino ai sei anni. Al 30 giugno in questa situazione erano 25 bimbi. Le case famiglia sarebbero anche previste, ma per quella legge dovrebbero essere costruite a costo zero. Di conseguenza in 11 anni ne è sorta una sola. Ma, Italia e Stati Uniti a parte, come funziona nel resto del mondo? In Australia, ad esempio, la questione è molto sentita perché le detenute donne sono aumentate negli ultimi anni. Viene data la possibilità alle madri di tenere i bambini con loro fino a quando non compiono 5 anni, ma nella pratica la maggior parte dei piccoli che negli ultimi anni ha vissuto questa esperienza non superava i tre anni. A loro sono dedicate delle strutture, simili a case famiglia, che sorgono vicino alle carceri. Nell’Unione europea la normativa è simile, diverse sono le soluzioni. In Austria, secondo l’European prison observatory, i bambini possono restare nei penitenziari con le mamme fino ai due anni, ma se la donna ha un residuo di pena di non più di un anno si può fare una deroga. Di modo che madre e figlio restino insieme fino a quando il bimbo non compie tre anni. Un Paese virtuoso pare essere la Spagna, dove il limite è sempre quello di tre anni, ma per le mamme detenute con figli al seguito si studiano varie soluzioni. Ad esempio, a seconda dei casi e dell’eventuale necessità di misure di sicurezza per la mamma, donna e bimbo possono essere ospitate in regime di semilibertà in delle casette accanto al carcere, dove ricostituire per quello che è possibile, qualcosa di simile alla quotidianità. Ci sono poi delle unità simili alle nostre Icam, separate dal resto del penitenziario e, infine, delle sezioni nido in cui si consente anche alle famiglie di riunirsi. Se un figlio ha entrambi i genitori detenuti, questi ultimi possono stare entrambi insieme al bambino. In queste strutture sono consentite le visite dei famigliari. Non è esattamente virtuosa la Francia, dove però i bambini restano in carcere con le mamme fino a 18 mesi, al massimo fino ai due anni. Di norma, prima di optare per la reclusione della mamma con figlio al seguito, il giudice ha l’obbligo di capire se può assegnarle una misura alternativa alla detenzione. E questo è un buon elemento. Il problema è per i bambini che invece restano in carcere, perché per loro nella maggior parte dei casi non c’è personale qualificato per seguirlo, né asili nido. Nel Regno Unito, invece, ci sono delle unità che possono ospitare, in tutto il Paese, al massimo 84 bambini, fino al compimento del nono mese. Si può chiedere una proroga per altri nove mesi, ma solo se è nell’interesse del bambino. In queste unità c’è personale formato e la sezione è separata rispetto a quella delle detenute comuni. In Germania, ancora, i bimbi possono rimanere con le mamme detenute fino ai 3 anni. Ci sono delle case famiglia protette che ne possono ospitare circa cento. Come si legge sempre tra i documenti dell’osservatorio sulle prigioni europee, si cerca di fare in modo che i bambini trascorrano quanto più tempo è possibile al di guori delle strutture. In Polonia una madre può portare il figlio con sé solo con il consenso del padre. Ci sono delle sezioni nido in cui le detenute collaborano tra loro. I bimbi possono restare nei penitenziari fino a tre anni. In Portogallo il limite è sempre tre anni, che diventano 5 nel caso in cui viene concesso un permesso speciale. Anche i padri potrebbero chiedere di portare i loro figli con sé, se la madre non li può accudire o per qualsiasi altra ragione, ma nella pratica ciò non accade. Non tutte le strutture hanno ciò che serve per far sentire a suo agio un bambino. Anche in Grecia c’è il limite dei tre anni. In alcune carceri c’è una sezione speciale per mamme detenute con figli al seguito. Le donne possono organizzarsi insieme per la gestione dei bambini. Non ovunque c’è, però, personale specializzato nei bisogni dei più piccoli. Nessuno dei Paesi passati in rassegna è riuscito a portare via definitivamente i bambini dal carcere. C’è, però, chi riesce a rendere il periodo di permanenza il più breve e meno traumatico possibile. Chi, invece, come l’Italia, ci prova ma non ci riesce. “La trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra ci fu. Ma i carabinieri volevano solo fermare le stragi” di Davide varì Il Dubbio, 7 agosto 2022 Depositate le motivazioni con le quali la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha assolto Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. I giudici di secondo grado demoliscono la prima sentenza. Sono state depositate, a quasi un anno dalla sentenza emessa il 23 settembre del 2021, le motivazioni del processo d’appello sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. La Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, aveva assolto al processo gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime. Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà. La sentenza è composta da oltre tremila pagine. “Ben si comprendono le perplessità di Paolo Borsellino a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla Procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo” scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo, i quali ricordano anche le “doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros”. E fanno riferimento a quanto accadde nell’affollata assemblea plenaria che si tenne in Procura con i pm il 14 luglio del 1992, cioè appena cinque giorni prima della strage di via D’Amelio. “Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea”, dicono, come “ben rammenta Luigi Patronaggio”. La proposta di Vito Ciancimino ai carabinieri del Ros - “È pacifico, perché comprovato dalle convergenti allegazioni dei diretti protagonisti della vicenda, che Vito Ciancimino”, l’ex sindaco mafioso di Palermo “intese la proposta inizialmente rivoltagli da Mori e De Donno esattamente nei termini in cui tale proposta era stata formulata, e quindi, così come riassunta, con parole diverse, ma semanticamente equipollenti, dai due ex ufficiali prefetti. E dunque la proposta fu di tentare di stabilire un contatto con i vertici, o comunque con esponenti autorevoli di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad un dialogo finalizzato a trovare un punto di intesa, cioè un accordo, per porre fine alle stragi”. “In sostanza - dicono i giudici - la sollecitazione rivolta a Ciancimino di sondare la possibilità di allacciare un dialogo con “quella gente” voleva essere, nelle intenzioni degli ufficiali del Ros, solo un escamotage per guadagnarsi la sua fiducia e per prendere tempo, portandolo gradatamente dalla loro parte, poiché non si poteva a muso duro intimargli di collaborare se voleva alleviare la sua posizione processuale”. Trattativa Stato-Cosa nostra, “la sentenza di primo grado è incongruente” - La sentenza di primo grado, con la quale i giudici guidati da Alfredo Montalto, condannarono pesantemente i generali Antonio Subranni e Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, “è incongruente”, sostiene il collegio giudicante, presieduto da Angelo Pellino che dunque non risparmia le critiche al collega di primo grado. In appello i tre ufficiali sono stati tutti assolti, così come l’ex senatore Marcello Dell’Utri, tutti accusati di minaccia a corpo politico dello Stato. Pellino parla di “varie incongruenze” della sentenza di primo grado. “Anzitutto - scrivono i giudici d’appello - nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa. E che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa ripristinare un costume di rapporti ispirati a una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia”. La cattura di Totò Riina e lo stop alla trattativa con Ciancimino - “In realtà - dicono ancora in sentenza d’appello - la lettura offerta dalla sentenza non i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino”, l’ex sindaco mafioso di Palermo, il generale Mario Mori e i suoi uomini “si preparavano e si attrezzavano per dare corso a una indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e a catturare il capo di Cosa nostra”. “E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto a un certo punto una brusca interruzione e comunque una drastica svolta”. Stato-mafia, “Nessun patto politico con i mafiosi. La trattativa voleva fermare le stragi” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 agosto 2022 Le motivazioni dell’assoluzione di Dell’Utri e degli ex vertici Ros: “Preservata la libertà di Provenzano”. Scalfaro e Conso estranei. Di “dubbia valenza” le parole di Graviano sui presunti rapporti con Berlusconi. Nonostante le 2.971 pagine impiegate per motivare la sentenza con cui quasi un anno fa, a settembre 2021, la corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto gli ex carabinieri del Ros imputati nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia (condannati in primo grado), il verdetto è racchiuso in poche righe. Dopo aver ricostruito in ogni dettaglio i contatti dell’allora colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, sotto l’egida del generale Antonio Subranni, con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino al tempo delle stragi di mafia del biennio 1992-1993, i giudici scrivono: “Sebbene fosse molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo “politico” con gli stessi autori della minaccia mafiosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nuove stragi ed arrestare l’escalation mafiosa; al contrario, l’obbiettivo era disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa Nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti”. “Interessi convergenti” - Per i giudici si trattò di “una sorta di ibrida alleanza da stringersi senza necessità di stipulare alcun patto, ma solo in ragione di un’obiettiva convergenza di interessi con la componente più moderata di Cosa Nostra”. Ragionamento forse complesso, ma sufficiente chiaro: la trattativa avviata con Ciancimino “non costituisce reato” perché l’intenzione non era di rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato, bensì di evitare altre stragi. Punto. Il reato l’hanno commesso i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (insieme agli altri mafiosi morti o pentiti) che volevano ricattare i governi in carica a suon di bombe. Non invece Marcello Dell’Utri, presunto intermediario della minaccia al governo Berlusconi nel 1994, perché “non vi è prova che vi sia stata un’interlocuzione con Silvio Berlusconi su questa tematica, dovendosi al riguardo ribadire la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al governo della Repubblica”. “Iniziativa improvvida” - Anche le più recenti dichiarazioni del boss stragista Giuseppe Graviano su presunti rapporti con l’ex premier fondatore di Forza Italia sono “di dubbia valenza”, poiché rese da un “soggetto enigmatico” che “non ha intrapreso alcun percorso di collaborazione né ha fornito corretti segni di dissociazione”. Quanto alle revoche del “carcere duro” decise nel ‘93 dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, miravano anch’esse a dividere Cosa nostra, ma i giudici sottolineano che fu “ingeneroso e fuorviante”, nonché “frutto di un errore di sintassi giuridica”, insinuare cedimenti alla mafia da parte dell’ex ministro e dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, come fecero i loro colleghi di primo grado. Detto questo, la sentenza è infarcita di giudizi molto duri sull’azione dei carabinieri imputati: “Un’iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti alloro ufficio e ai loro compiti istituzionali”. Taciuta “senza alcuna valida ragione” persino a Paolo Borsellino negli incontri avvenuti tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio che peraltro, secondo i nuovi giudici, non subì alcuna accelerazione nella sua esecuzione; e tantomeno perché Borsellino fu informato (da altri) della trattativa tra il Ros e Ciancimino. Il dialogo a distanza innescato da carabinieri mirava all’arresto di Totò Riina, poi avvenuto a gennaio 1993, perché era lui a guidare l’ala stragista di Cosa nostra; lasciando così spazio all’altra componente guidata da Bernardo Provenzano: un boss disponibile a privilegiare “la ricerca di complicità e connivenze per un più proficuo esito dei propri affari, aliene o poco inclini ad una linea di contrapposizione violenta”. “Ragioni indicibili” - Una sorta di ritorno alle origini, in modo che tra lo Stato e Cosa nostra si ricostituisse “un clima di non belligeranza, o di conflittualità sostenibile”. Proprio per allontanare nuove “pulsioni stragiste” i Ros scelsero di “preservare la libertà” dell’altro capo corleonese, rimasto latitante fino alla cattura 2006 per mano della polizia: “V’erano indicibili ragioni di “interesse nazionale” a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della “sommersione”. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. Manca però la prova “che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano” per la consegna di Riina in cambio della mancata perquisizione del covo, “dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia”. Tuttavia quella vicenda rimane una ulteriore iniziativa del Ros che “desta profonde perplessità mai chiarite”. Stato mafia, la trattativa non fu reato di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 agosto 2022 Dopo quasi un anno, pubblicate le motivazioni della sentenza di appello che ha assolto gli ufficiali del Ros dei carabinieri e Dell’Utri. Il piano “improvvido” di Mori puntava a favorire l’ala non stragista di Cosa nostra, ma non ci fu minaccia al corpo politico. Né c’è la prova che l’ex senatore trasferì le intimidazioni di Bagarella a Berlusconi Stato mafia, la trattativa non fu reato. La trattativa tra il Ros e la mafia attraverso Vito Ciancimino ci fu e puntava a favorire la parte di Cosa nostra contraria alle stragi. Ci fu anche, proprio per questo obiettivo, la mancata cattura di Bernardo Provenzano, interprete di una linea meno dura di contrapposizione allo stato rispetto a Salvatore Riina. Ma non ci fu la minaccia a un corpo politico dello stato né da parte dei carabinieri, che con la loro comunque “improvvida” iniziativa volevano al contrario “sterilizzare” l’insidia mafiosa, né in definitiva da parte dei mafiosi Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà attraverso Marcello Dell’Utri, perché “non c’è la prova” che quest’ultimo abbia effettivamente veicolato la minaccia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Bagarella, Brusca e Cinà dunque sono colpevoli soltanto di “tentata” minaccia. I tre mafiosi - Bagarella e Cinà in carcere all’ergastolo, Brusca libero in sorveglianza speciale - sono infatti gli unici che si sono visti confermare (ridotta) la condanna, quando a settembre scorso la seconda sezione della Corte d’assise di appello di Palermo aveva rovesciato la sentenza di prima grado sulla trattativa stato mafia. Assolvendo gli alti ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore Dell’Utri. Ieri sono state pubblicate le motivazioni di quella sentenza, quasi tremila pagine per stendere le quali sono state necessarie due proroghe dei termini. A oltre dieci mesi dal dispositivo, dunque, si può adesso leggere nelle motivazioni che il disegno del Ros “era quello di insinuarsi in una spaccatura all’interno di Cosa nostra per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che per quanto sempre criminale appariva tuttavia ed era meno pericoloso per la sicurezza dello stato”. Negoziato che fu perfettamente inteso da Ciancimino “nei termini in cui la proposta era stata formulata”: l’offerta non era a Riina, ma ai suoi nemici interni. E non si può dire, come nella sentenza di primo grado giudicata “incongruente”, che offrire a Cosa nostra la disponibilità dello stato a trattare abbia rafforzato il potere di minaccia dei mafiosi, perché “eventuali concessioni a favore dei mafiosi dovevano accompagnarsi alla decapitazione dell’ala stragista, premessa indispensabile per poter giungere ad un accordo con l’ala moderata, giustamente ritenuta soccombente fino a quando al comando fosse rimasto Salvatore Riina”. Secondo l’appello, dunque, “se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste”. In questo contesto, la Corte inserisce anche la mancata perquisizione del covo di Riina in seguito alla sua cattura. “Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano”, scrive, escludendo così l’ipotesi di favoreggiamento. Ma lasciando ai mafiosi il tempo di ripulire il covo, Mori “intese lanciare un segnale di bona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato”. Quanto al ruolo di Dell’Utri, per l’appello è più che provato che si impegnò per ottenere il sostegno della mafia per Forza Italia alle elezioni del 1994, ma “al di là del pieno coinvolgimento nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita)- sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello, non si ha prova che a questa fase abbia fatto seguito la comunicazione della minaccia a Berlusconi per ottenere l’adempimento, appunto sotto la minaccia mafiosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell’Utri nella precedente campagna elettorale”. In un altro passaggio importante, la Corte nega la tesi originaria della procura di Palermo, accolta in primo grado, per la quale la trattativa accelerò la strage di via D’Amelio. Sostiene invece che, venuto Riina a conoscenza che “uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare”, la notizia “non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani”, semmai è possibile che la strage “possa avere trovato origine nell’interessamento di Borsellino al rapporto mafia e appalti”. Infine le motivazioni definiscono “ingeneroso” e “fuorviante”, frutto di “un errore di sintassi giuridica” l’aver ipotizzato “anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali come il ministro Conso o il presidente Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa”. Stato-mafia, l’ex pm Di Matteo: “Inaccettabile scendere a patti con i boss” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 7 agosto 2022 “Nell’assoluzione di Mori tesi pericolosa, così si legittima la zona grigia”. Il magistrato, oggi al Csm, ha fatto parte del pool che ha condotto l’inchiesta sulla trattativa. “Mi piace ricordare le parole del presidente Mattarella: ‘O si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi, non ci sono alternative’. “Questa sentenza ribadisce che una trattativa fra pezzi dello Stato e Salvatore Riina ci fu”, dice Nino Di Matteo, uno dei pm del processo “Stato-mafia”, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura. “A cercare il capo di Cosa nostra, subito dopo il sangue sparso con la strage di Capaci, furono esponenti dello Stato. Con buona pace di quelli che hanno continuato a parlare di una fantomatica trattativa e di teorema del pubblico ministero”. Come valuta la sentenza depositata dai giudici della corte d’assise d’appello? “Mi lascia molto perplesso e preoccupato l’affermazione di un principio che sembra giustificare la possibilità che si possa trattare con i vertici di Cosa nostra per favorire una fazione piuttosto che un’altra, con il dichiarato intento di far cessare le stragi. Una sorta di ragion di Stato non dichiarata e pertanto inaccettabile in una democrazia”. La procura generale ha annunciato che valuterà il ricorso in Cassazione... “Mi chiedo cosa penserebbero di questa sentenza le centinaia di vittime istituzionali e non della violenza mafiosa che hanno pagato con il sangue l’intransigenza e la scelta di non cercare alcun patto o compromesso con la mafia. Mi piace ricordare le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che l’anno scorso, alla commemorazione per la strage di Capaci, disse: “Nessuna zona grigia, omertà, o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi, non ci sono alternative”. La sentenza sembra riaprire anche un altro capitolo di questa lunga stagione giudiziaria, quello relativo alla mancata perquisizione del covo di Riina... “È ulteriormente inquietante che, come io e i miei colleghi avevamo sostenuto nel processo di primo grado, la mancata perquisizione nel covo di Riina sia stato un segnale per incoraggiare il dialogo a distanza. E quindi per rafforzare la trattativa in corso”. Cosa dice la pronuncia di secondo grado? “Alla luce di questa sentenza, che non condivido, e che spero venga impugnata, sono fiero di avere insieme ai miei colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e prima Antonio Ingroia contribuito a fare emergere fatti storici ritenuti dai giudici provati, fatti che hanno attraversato la storia opaca e ancora in parte da chiarire dello stragismo mafioso nel nostro paese. Ma sulla trattativa non bisogna dimenticare anche un’altra sentenza, ormai definitiva”. I giudici di Firenze scrissero parole pesanti... “La corte d’assise che si è occupata delle stragi del 1993 ha sottolineato come l’iniziativa del Ros di fatto rafforzò in Riina il convincimento che la strategia di attacco allo Stato fosse quella giusta. Un’iniziativa dagli effetti devastanti”. A Civitanova corteo per Alika Ogorchukwu di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 agosto 2022 Sfilano le contraddizioni a Civitanova, otto giorni dopo l’omicidio di Alika Ogorchukwu. Sfila anche la solidarietà. La risposta di piazza all’indifferenza feroce che ha quasi escluso la vittima da ogni dibattito pubblico, alla fine, c’è stata. Oltre cinquecento persone sotto al sole dell’Adriatico appena mitigato da qualche alito di vento si sono mosse dallo stadio alla centrale piazza XX Settembre. Alcuni hanno percorso ancora qualche centinaio di metri per arrivare fino a Corso Umberto I, nel punto esatto in cui Alika è morto a causa delle botte dal 32enne Fabrizio Ferlazzo. “All we are saying is give us justice”, scandiscono i manifestanti sull’aria di Give peace a chance di John Lennon: tutto quello che diciamo è di darci giustizia. E ancora: “Vogliamo giustizia”. “Giustizia per Alika”. Questa parola - justice - è in assoluto quella più ripetuta dallo spezzone di apertura del corteo, il più nutrito, quello della comunità nigeriana: molti indossano magliette in memoria di Ogorchukwu, altri quella bianca del servizio d’ordine a testimoniare che ad andare in scena ieri è stata soprattutto la loro manifestazione e che la voce che deve risuonare più forte di tutte le altre è quella di una comunità spaventosamente ferita dall’omicidio di Civitanova. In mezzo c’è il sindaco di destra Fabrizio Ciarapica, che ha percorso tutto il corteo tra i nigeriani e poi in piazza ha preso la parola per confermare l’impegno della sua amministrazione a fare di più per l’integrazione: “Ribadiamo che Civitanova non è una città razzista e tanto meno indifferente o insensibile e che il gesto di una persona non può essere accomunato alla nostra comunità che è sempre stata accogliente, ospitale e aperta”. Tra i presenti si nota Matteo Orfini - accompagnato dal senatore Francesco Verducci e da un pugno di militanti marchigiani del Pd - che apprezza le parole del sindaco ma ammonisce: “Quello che è successo è figlio del clima avvelenato che viviamo nel paese da tempo, non dobbiamo né possiamo abbassare la guardia”. Il punto, più che altro, è di prospettiva: la complicata situazione che ha reso le Marche una regione “meridionalizzata” (come ha scritto lo Svimez nel suo rapporto dell’anno passato), tra crisi industriali, perdita di posti di lavoro, spopolamento e problemi sociali di una certa consistenza, genera episodi come l’omicidio di Ogorchukwu. Il razzismo, l’indifferenza, la guerra degli ultimi contro i penultimi non sono fenomeni che si manifestano senza preavviso, ma sono sempre il risultato di qualcosa di profondo e, spesso, oscuro. Quando il gruppone di testa è già in piazza da un po’, si affaccia anche lo spezzone dei movimenti e delle associazioni antirazziste. Un centinaio abbondante di persone partite in ritardo rispetto al resto del corteo per aspettare la decina di pullman accorsi da mezza Italia. A metà percorso si trova una sede della Lega: “Stop immigrazione” si legge sui cartelli appesi alle vetrine. Davanti la polizia fa cordone, ma se la comunità nigeriana è passata di lì senza nemmeno degnare di uno sguardo il tutto, il resto del serpentone si è limitato a inneggiare qualche coro contro Salvini e niente di più. Alla fine il corteo si scioglie e tutti tornano a casa. La comunità nigeriana, quantomeno, può dire di aver mostrato a Civitanova la propria consistenza e di aver gridato i propri bisogni (su tutti, quello di giustizia). Per il resto la sensazione è che con questa manifestazione si sia chiusa una settimana complicatissima per la città. Resta da vedere se la presa di coscienza collettiva sia avvenuta oppure no. Ma questo solo il tempo saprà dirlo. Lazio. Carceri, sesto suicidio nella Regione da inizio anno di Laura Martellini Corriere della Sera, 7 agosto 2022 Gli avvocati: “Non si può morire nelle mani dello Stato”. A togliersi la vita nell’istituto penale di Frosinone, il 4 agosto, un italiano di 26 anni. Un dramma nazionale: nella notte analogo episodio nel carcere di Arienzo, in Campania. Un altro suicidio in carcere, stavolta nell’istituto penale di Frosinone: a togliersi la vita, il 4 agosto, un italiano di appena 26 anni. Salgono così a sei i suicidi nelle carceri del Lazio, cui si aggiungono cinque morti per altre cause. Domenica scorsa una donna ha trovato il modo di farla finita a Rebibbia penale. Stanotte, il terzo suicidio in Campania dall’inizio dell’anno (in Italia si è arrivati alla cifra di 45), nel carcere di Arienzo, in provincia di Caserta. Proveniva da Poggioreale. E ha commosso la storia di Donatella, che la notte di lunedì primo agosto, nel penitenziario veronese di Montorio si è rannicchiata sul letto fingendo di dormire e ha inalato dal fornelletto il gas. Perché? Se lo domanda il fidanzato, cui ha lasciato una lettera drammatica: “Perdonami Leo amore mio, sii forte, ti amo e scusami”. Uno stillicidio su cui ora riporta l’attenzione la Camera penale di Roma, all’indomani della visita di una delegazione del garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, nel carcere di Regina Coeli, dove ha trovato una “cella liscia” (vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto) in condizioni disastrose: colonie di formiche, materiale organico sulle pareti, lavabo con acqua stagnante, letto ricoperto di fogli di giornale e fetido. Gli inviati del garante hanno chiesto se la condizione sia stata segnalata al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e siano stati presi provvedimenti. Così gli avvocati romani mettono nero su bianco la loro preoccupazione per gli interventi mancati, sottolineando come “una campagna elettorale e una politica degne dovrebbero mettere in primo piano la difesa dei più deboli”. Parole che richiamano alla mente quelle più volte ascoltate al processo per la morte di Stefano Cucchi: “Solo quando saranno tutelati i diritti degli ultimi si potrà parlare di Stato di diritto - affermano i legali. Un essere umano non può morire nelle mani dello Stato che lo deve custodire”. Un problema sollevato oggi anche all’Ordine degli psicologi. “Le nostre carceri non riescono in tempi utili a intercettare il rischio e a mettere in atto tempestivamente azioni di prevenzione e cura. I presidi sanitari sono sguarniti di professionisti della salute mentale” interviene il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari. Precisa: “C’è chi fa del suo meglio, ma spesso né il numero di ore né gli strumenti forniti sono completamente adeguati. In più gli psicologi esperti ex articolo 80 hanno un numero di ore così esiguo che non resta tempo per lavorare sul trattamento oltre che sull’osservazione, e spesso nemmeno per collaborare in maniera integrata con i colleghi dei servizi sanitari”. “Sarebbe più lungimirante - la conclusione - rivedere il ruolo dello psicologo nell’ordinamento penitenziario e farne parte integrante dello staff. Una figura che lavori su più fronti per contribuire all’individuazione del trattamento e spingere per il benessere della comunità carceraria tutta”. Vigevano (Pv). In carcere nemmeno il cappellano. I reclusi: “Abbandonati a noi stessi” di Manuela Marziani Il Giorno, 7 agosto 2022 Soli, senza il conforto del cappellano e persino con acqua dall’odore nauseabondo che sgorga dai rubinetti. I detenuti e le detenute del carcere di Vigevano vivono in queste condizioni. Una situazione in cui il sovraffollamento (377 detenuti rispetto a una capienza di 242) risulta quasi un problema secondario, anche se non di rado le difficoltà esplodono e sfociano in risse o azioni violente nei confronti degli agenti penitenziari che sono sotto organico (203 rispetto ai 240 previsti). Stanchi di vivere in condizioni difficili, le persone che si trovano recluse ai Piccolini hanno inviato una lettera al garante nazionale e regionale dei detenuti, al sindaco di Vigevano e alla curia vescovile. “Intendiamo far conoscere le condizioni degradanti in cui versiamo - hanno scritto i detenuti -, oltre al pericolo e al rischio che comporta un carcere abbandonato a se stesso. Non ci sono infatti opportunità trattamentali e strumenti per rendere il tempo detentivo un tempo utile. Occorre creare condizioni di sistema che consentano finalmente di considerare la risposta di giustizia come tesa a responsabilizzare in vista del futuro, più che porre rimedio al passato”. Invece in carcere a Vigevano non viene celebrata la messa e alcun culto. La chiesa è adibita alle videochiamate di whatsapp. “Il cappellano è pressoché assente - hanno aggiunto i detenuti - non celebra la messa, non visita i detenuti; viene preclusa anche la carità cristiana. Il cappellano svolge un ruolo da ponte con il mondo esterno, non è soltanto un conforto”. Non solo, chi è recluso non può effettuare colloqui visivi con i familiari nell’area verde esistente, ma non accessibile, nemmeno con il Covid ancora in ampia circolazione. “Manca la vigilanza diretta, da parte dei magistrati di sorveglianza di Pavia, volta ad assicurare che l’esecuzione della custodia dei reclusi sia attivata in conformità delle leggi e dei regolamenti - hanno proseguito - e la fornitura per la pulizia delle camere detentive e per l’igiene personale è scarsa: ci vengono consegnati solamente 3 rotoli di carta igienica al mese ciascuno”. Relativamente all’alimentazione poi, “dai rubinetti esce un liquido di varie colorazioni, scure o bianche come il latte, e dall’odore nauseabondo e fastidioso. Questo non vuole essere un lamento collettivo, ma una richiesta di aiuto e di applicazione dell’ordinamento e del regolamento penitenziario, così come previsto dalla legge”. Vicenza. Ex detenuti curano una dimora storica della curia vescovile Corriere del Veneto, 7 agosto 2022 Ex detenuti e persone in misura alternativa al carcere si prendono cura di una dimora storica e cioè di “Villa Vescova”. Sì perché la rinascita in società di chi ha passato l’esperienza della reclusione in cella passa dal lavoro. Nel caso specifico dalla cura che quotidianamente dedicano alla struttura di proprietà della curia vescovile di Vicenza. L’iniziativa, realizzata grazie al sostegno dei fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica, è promossa dalla Caritas diocesana che opera tramite l’associazione Diakonia onlus, braccio operativo dell’organismo pastorale diocesano. Ed è un’esperienza documentata. Le testimonianze di don Enrico Pajarin, direttore della Caritas e degli ospiti del progetto “Villa Vescova” sono infatti al centro di un nuovo filmato della serie “Firmato da te”, progetto televisivo di TV2000. “Questo progetto nasce dalla volontà di predisporre uno spazio per accogliere persone in situazione di marginalità - spiega don Enrico - La prima tappa del progetto è stata significativa: abbiamo accolto sei persone in misura alternativa al carcere e le abbiamo inserite a livello lavorativo. Fondamentale il supporto dei fondi dell’8xmille e della diocesi”. Gli ospiti, ospitati nell’appartamento del custode, curano ogni aspetto dello storico immobile che è soprattutto uno spazio di inclusione sociale: si occupano di manutenzione e guardiania della villa e del parco, di produzioni agricole (in primis olio e miele). In questo modo, la struttura diventa anche un presidio di legalità, un luogo di testimonianza e di educazione per la cittadinanza e anche per le scolaresche in visita. Lo spiega Bechir Bin Mohamed Khadi, uno dei primi ospiti della struttura e ormai giunto al termine del proprio percorso di reinserimento sociale: “Vengo dalla Tunisia e ho lavorato a Villa Vescova come aiuto cuoco, ma prima ho vissuto un tempo terribile in galera, un’esperienza soffocante”. Volterra (Pi). “Cene galeotte”, detenuti-chef cucinano per 150 ospiti nel carcere a scopo benefico di Marco Vassallo Corriere della Sera, 7 agosto 2022 Una brigata di trenta detenuti del carcere di Volterra agli ordini della cuoca Luisanna Messeri. Insieme hanno preparato un menu di cinque portate per 150 persone. Cocktail, aperitivi, primi, secondi e tavolata dei dolci. Serviti non in un ristorante qualsiasi ma all’interno della casa di reclusione a scopo benefico. Sì perché i 4.200 euro raccolti durante la cena serviranno, ora, per la realizzazione di un’area verde nel comune toscano. L’appuntamento, andato in scena il 5 agosto nel carcere di Volterra, fa parte di un progetto chiamato “Cene Galeotte”. Ideato dalla direzione della stessa casa di reclusione e realizzato in collaborazione con “Unicoop Firenze” e la “Fondazione Il Cuore si scioglie”, ha portato dal 2006 ben 16 mila persone nella struttura che hanno gustato i piatti cucinati dai detenuti e da chef di rilievo. Questa era la prima cena del 2022, organizzata anche grazie al supporto logistico del Teatro Puccini. “Ripartiamo con slancio e con un appuntamento dagli orizzonti decisamente ampi. La prima cena galeotta del 2022 vuole contribuire alla salvaguardia del pianeta e della nostra casa. Assistiamo ad un grande entusiasmo da parte di tutta la struttura e dei detenuti coinvolti: le “cene galeotte” hanno sempre avuto questo valore forte di aprire le porte del carcere per farlo diventare un luogo di inclusione, in questo caso anche di riflessione su cosa ognuno può fare per un futuro sostenibile e per migliorare l’ambiente in cui si troveranno gli ospiti del carcere alla fine del periodo di detenzione”, ha commentato Maria Grazia Giampiccolo, direttore della casa di reclusione. I percorsi di apprendimento in cucina, avviati in sinergia con l’istituito alberghiero locale, hanno portato oltre 40 detenuti a trovare un impiego in ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o attraverso l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. E pare che uno di loro abbia addirittura aperto un suo ristorante, come ha detto durante la cena il direttore. “Per i detenuti, cucinare rappresenta la possibilità di rimettersi in gioco e una opportunità di condivisione, fra loro e con gli ospiti della cena - ha commentato invece Luisanna Messeri, autrice di ricettari e volto noto di cooking show televisivi-. Stare insieme nello spazio della cucina è anche in famiglia il miglior modo per “ricostruirsi” ed è proprio davanti ai fornelli che ci si può ripensare, anche reinventandosi come hanno fatto decine di persone che dopo il carcere hanno trovato un lavoro nei ristoranti della zona”. Grazie alla raccolta fondi verranno piantati degli alberi proprio a Volterra. “Questo è un segnale per la nostra comunità e vuole essere un atto da “copiare” per tutti - ha spiegato il sindaco Giacomo Santi -. Assistiamo giorno dopo giorno ai danni causati dal cambiamento climatico e ringraziamo Unicoop Firenze e la direzione della Casa di Reclusione di Volterra per aver promosso questo appuntamento che sensibilizza sull’importanza del rispetto dell’ambiente”. Molto soddisfatto dell’iniziativa anche l’altro ospite della serata, Stefano Mancuso, direttore del laboratorio di Neurobiologia Vegetale all’Università di Firenze. “I cambiamenti climatici sono la vera emergenza sociale di questo momento - ha commentato lo studioso -, come stiamo vedendo in questa caldissima estate, con danni che colpiscono i più deboli. Gli alberi sono i nostri principali alleati, poiché assorbono grandi quantità di CO2 e sono in grado di contrastare le isole di calore che si sviluppano intorno alle città. Per questo sono importanti iniziative come queste, per riempire di alberi tutte le zone possibili e per portare all’attenzione dei decisori il tema del riscaldamento globale”. Questo il menu della cena che i detenuti hanno iniziato a preparare già dal giorno prima: cocktail e piccoli antipasti da gustare in piedi, “a chiacchiera”. Poi due primi: zuppetta di fagioli freschi farro e bisque e orecchiette con pesto di zucchine, pinoli e salicornia. Per secondo, filetti di orata dell’isola di Capraia con verdure prima dei dolci finali. Gli ingredienti sono stati forniti da Unicoop Firenze, ma alcuni venivano proprio dall’orto del carcere, curato dai detenuti. “Siamo una squadra, ognuno ha mansioni diverse ma remiamo tutti dalla stessa parte”, è il coro unanime della brigata. E i vini? Quelli, della Cantina Podere la Regola di Riparbella in Val di Cecina. Sono stati scelti dalla Fisar (Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori) di Volterra che dal 2007 collabora al progetto. “Il ruolo della Federazione - ha spiegato il delegato Flavio Nuti- è stato quello di insegnare ad alcuni detenuti l’arte del sommelier e di scegliere le cantine, principalmente toscane, che desideravano contribuire al progetto fornendo le loro etichette per accompagnare i piatti cucinati da chef stellati e brigata di cucina galeotta”. Pescara. Progetto “Seconda chance”, ristoratore assume un detenuto di Cinzia Cordesco Il Centro, 7 agosto 2022 Lorenzo Lemme, della Playa, racconta la sua esperienza con una persona reclusa a San Donato Il progetto “Seconda chance” prevede sgravi fiscali per gli imprenditori che danno occupazione. Come compiere una buona azione e, nello stesso tempo, ottenere sgravi fiscali e contributivi assumendo un detenuto nella propria azienda. È la filosofia del progetto “Seconda chance”, ideato e promosso dalla giornalista del TgLa7, Flavia Filippi, che lo ha trasformato in una associazione no profit insieme alla documentarista Alessandra Ventimiglia Pieri e all’imprenditrice di Ethicatering, Beatrice Busi Deriu, che hanno creduto nell’idea che coinvolge il mondo dell’imprenditoria e i penitenziari italiani. “Il progetto, in Italia”, dice Filippi, “sta dando opportunità di lavoro e reinserimento sociale a decine e decine di persone in regime carcerario”. L’iniziativa è arrivata fino a Pescara grazie alla collaborazione con la casa circondariale di San Donato, diretta da Lucia Di Feliciantonio e Lorenzo Lemme, che col padre Sandro, è alla guida del ristorante e stabilimento La Playa di piazza Le Laudi. I due imprenditori, già da un mese, hanno inserito nel loro organico di 18 dipendenti, anche un detenuto del carcere pescarese. “Questo progetto è una grande opportunità per le imprese”, spiega il fondatore di “Seconda chance”, “che possono ottenere vantaggi economici e, contemporaneamente, fare una buona azione aiutando persone che così potranno ridisegnare il loro futuro. Io lo definisco “lavoro penitenziario chiavi in mano”, perché accompagniamo l’imprenditore in tutto il percorso e non lo abbandoniamo mai, neppure quando il detenuto comincia a lavorare” uscendo la mattina dal carcere e rientrando la sera. Una opportunità “in costante crescita” con i detenuti che, grazie alla legge Smuraglia 139/2000, lavorano per cooperative sociali e imprese esterne che “possono richiedere incentivi fiscali e contributivi con i quali si abbatte il costo del lavoro”. La straordinarietà del progetto è che “anche gli imprenditori abruzzesi”, prosegue Filippi, “possono recarsi nei vari penitenziari della regione e scegliere il detenuto. E se trovano la persona giusta per la loro azienda, possono offrire un periodo di prova”. Lorenzo Lemme è l’imprenditore pescarese che ha fatto questo percorso e che oggi racconta la sua esperienza: “Ne abbiamo già vissuta una simile più di 10 anni fa e ci siamo trovati benissimo: uno dei due ragazzi, in semilibertà, che hanno lavorato con noi, ha aperto un bar a Pescara. Ma siamo molto contenti anche di questa collaborazione con “Seconda chance” che ci ha permesso di dare lavoro come aiuto cuoco a questo giovane marocchino, padre di due figli, che abbiamo contrattualizzato dal 7 luglio scorso”. “Ha una notevole esperienza nella preparazione dei cibi”, prosegue il titolare del lido, “ha voglia di fare”. I datori di lavoro hanno dotato il giovane detenuto di una bicicletta con la quale raggiunge il posto di lavoro alle 10 e va via prima delle 17, ora in cui deve rientrare in carcere. E conclude, Lemme: “Al di là delle agevolazioni economiche, il nostro premio è vedere una persona che vuole imparare e vuole ricostruirsi una vita”. La direttrice del penitenziario, Di Feliciantonio: “Ha una bella valenza rieducativa e ci auguriamo che si possa espandere. Auspichiamo che anche altri imprenditori, che spesso lamentano di non trovare personale, si facciano avanti e sappiano cogliere l’essenza di questa iniziativa”. Per saperne di più: info@secondachance.net. Milano. Il “progetto carcere” dell’Università Statale di Luca Parena radiopopolare.it, 7 agosto 2022 Università degli Studi di Milano, sede di via Festa del Perdono. Intorno ai chiostri della Cà Granda è uno dei pomeriggi più caldi di questa estate e il professor Stefano Simonetta comincia a raccontare la nascita del “progetto carcere” all’università Statale. Simonetta è il referente di ateneo del progetto. L’ultima conferenza nazionale dei poli universitari penitenziari ha messo nero su bianco un dato: uno studente ristretto su dieci, in Italia, è iscritto alla Statale di Milano. In tutto il Paese, nessun altro ateneo contribuisce tanto all’effettivo esercizio del diritto allo studio per i detenuti. Il “progetto carcere”, a partire dal 2015, ha attivato collaborazioni con le case di reclusione di Bollate, di Opera, di Vigevano e le case circondariali di Monza e Pavia. È aperto a tutti i corsi di studio dell’ateneo. Da economia a lettere, da scienze politiche a relazioni internazionali fino alle discipline di area scientifica. Filosofia, storia, legge sono comunque tra gli indirizzi più scelti dagli studenti, anche per ragioni pratiche. Studiando queste discipline, chi non ha permessi per seguire in presenza lezioni e laboratori ha più possibilità di riuscire a restare ugualmente al passo con i corsi e con gli esami, senza dover fare sacrifici supplementari. Fino a sette anni fa, invece, prima dell’inizio del “progetto carcere”, i pochi detenuti che sceglievano di studiare erano sempre costretti a destreggiarsi tra mille inconvenienti. Il professor Simonetta ricorda così com’è nato il progetto e la persona che più di altre lo ha convinto a dedicarsi a questo lavoro: I tutor sono studenti e laureati che scelgono di accompagnare i detenuti nel loro percorso di studi. Alla Statale di Milano sono più di cento. In pratica ce n’è quasi uno per ogni studente ristretto. Secondo Simonetta, questa condivisione, questo sforzo di aprire all’esterno il mondo chiuso e spesso impermeabile del carcere è quel che davvero offre una possibilità di reinserimento sociale ai detenuti. Un percorso che si muove grazie al lavoro di tante persone e alla presenza di spazi. L’Università degli Studi di Milano è l’unico ateneo in Italia ad avere un ufficio dedicato al progetto carcere. Si trova proprio all’ingresso della sede principale. Chiara Dell’Oca è una delle responsabili dell’ufficio: Per capire come l’incontro e il confronto tra tutor e studenti possano generare benefici basta ascoltare i dialoghi e i racconti che fanno alcuni di loro. Ambrogio è uno studente a cui mancano pochi esami prima della tesi in filosofia. Quando si comincia, non si sa quale tutor ti possa venire assegnato, spiega Ambrogio. Un ragazzo o una ragazza, giovane o meno giovane, laureato o ancora alle prese con i primi esami. Secondo lui però una cosa li accomuna tutti e tutte: All’inizio però gli studenti possono anche non sapere da che parte cominciare. In questi casi, i tutor offrono un aiuto prezioso a livello molto pratico. Lo racconta Rocco, un altro studente. La sua testimonianza parte proprio dall’esperienza che ha vissuto: “Io non avevo strumenti di nessun tipo per avvicinarmi allo studio. All’inizio ero molto preoccupato di avere un metodo, ma ho avuto la fortuna di avere una tutor molto “smart”. Mi ha detto “non ti preoccupare, tu comincia poi strada facendo troveremo un modo che funzioni per te”. Io ho cominciato a farmi i miei riassunti, le mie sottolineature e piano piano i miei 27-28 agli esami sono riuscito a prenderli”. Domandare ai tutor che cosa li abbia spinti a impegnarsi nel progetto carcere ottiene una risposta prevalente: la curiosità. Avvicinare il mondo della detenzione significa entrare in contatto con questioni che toccano tasti profondi della vita sociale e individuale. Se da lì parte la scintilla, quello che però tiene viva nel tempo la voglia di continuare è qualcosa di diverso, spiega Elisa, una studentessa che da anni fa da tutor: Insieme ai libri, al sapere, anche le relazioni personali hanno un’importanza fondamentale. Nel caso di Rocco poi il “progetto carcere” dell’Università Statale ha inciso sulla sua condizione di detenuto anche sul piano materiale. Ha ottenuto la semilibertà per motivi di studio. Un riconoscimento piuttosto raro, anche quando si parla di lavoro. Da qui prende energia in più per guardare con fiducia a quel che promette il futuro. Se si chiede al professor Simonetta dove il progetto carcere può e deve ancora migliorare, le risposte non mancano. Si concentrano sulla carenza di spazi, sulla lotta quotidiana per scalfire la rigidità dei pregiudizi e delle consuetudini. “L’obiettivo è rendere il carcere un po’ più trasparente” dice il professore. Umanizzare il luogo dell’inaccessibile per definizione, quello dove più spesso si sente dire che le chiavi bisognerebbe buttarle. Lo studio sembra una risposta a queste chiusure, lo strumento capace di aprire le menti e le porte. Un’agenda della democrazia da presentare al Parlamento di Franco Corleone L’Espresso, 7 agosto 2022 Il 14 luglio è la data che Eugenio Scalfari amava e che per coincidenza ha segnato la fine del governo Draghi e di una legislatura dominata da personaggi capaci di tutto e buoni a nulla. Non si è compiuta una rivoluzione civile, ma si è trattato di un mediocre 25 luglio in attesa di un patetico 8 settembre. La legislatura è finita sotto il segno di scambi di accuse legate ai taxi, alle licenze degli stabilimenti balneari e al termovalorizzatore di Roma, un quadro davvero desolante. Doveva proprio andare così? Lasciamo stare le liti da comare e guardiamo in controluce. Giuliano Amato si è assunto la responsabilità di non ammettere il referendum sull’eutanasia e quello sulla canapa, che avevano mobilitato in maniera straordinaria vaste sensibilità, comprese centinaia di migliaia di giovani disillusi da una politica lontana da bisogni e stili di vita. Se non lo avesse fatto, senza dubbio il 12 giugno una valanga di Sì avrebbe cancellato norme da stato etico del Codice fascista Rocco e una legge proibizionista che dal 1990 ha intasato i tribunali e riempito le carceri. È stata una responsabilità fondata su errori di diritto inconcepibili, se non per l’obbedienza al più vieto politicismo. Un delitto che non è certo sanato da un concerto contro la guerra e la violenza. Sarebbe così cominciata un’altra storia, perché il Parlamento non avrebbe più potuto tergiversare sullo ius scholae e sul fine vita. La centralità dell’agenda della politica sarebbe stata assunta dai diritti civili e umani. Un’occasione perduta per la democrazia. Dopo quella ferita istituzionale, la Società della Ragione, con il particolare impegno del costituzionalista Andrea Pugiotto, immaginò di dedicare il suo tradizionale seminario annuale alla Krìsis politico istituzionale: del Referendum, del Parlamento, dei partiti e della partecipazione politica. Un appuntamento che si rivela ora ancora più indilazionabile nel nuovo scenario. Occorre mettere in campo energie e idee perché il risultato delle elezioni del 25 settembre non si riveli un incubo: una vittoria della mujera fascista farebbe precipitare l’Italia in un pozzo nero di restringimento delle libertà ancora superstiti da una grande stagione di liberazione collettiva. D’altronde, in quello sciagurato caso, il 28 ottobre si potrebbero immaginare celebrazioni del centenario della marcia su Roma di mussoliniana memoria. La risposta non potrà che essere quella di alzare la bandiera di Piero Gobetti dell’intransigenza, con la consapevolezza che i sondaggi confermano che il fascismo rappresenta davvero l’autobiografia della nazione. Soprattutto occorre comprendere ciò che è in gioco: la giustizia, lo stato di diritto, una democrazia non nominalistica. La riforma del carcere, spesso evocata e mai realizzata - e nessuno è esente da colpe o omissioni, da Orlando a Cartabia - cederà il passo alla reazione con addirittura il rischio di una modifica dell’art. 27 della Costituzione. Il seminario, promosso da SdR con l’adesione del Centro Riforma Stato e della Associazione Luca Coscioni, si snoderà a Treppo Carnico dal 16 al 18 settembre sull’analisi della Krìsis a tutto campo per domandarsi se esistono spazi, o come crearli, di agibilità politica per battaglie civili antiche e meno: per il diritto penale minimo e mite, le misure di clemenza come l’amnistia e l’indulto, la legalizzazione delle droghe, la valorizzazione delle soggettività politiche, specie dei gruppi sociali più emarginati e vulnerabili. L’obiettivo ambizioso è di costruire una “agenda della democrazia” da presentare al nuovo Parlamento. È una sfida per chi non vuole vivere solo di rimpianti o avere rimorsi per non essersi messo in gioco. Ecco perché il reddito di cittadinanza serve contro la povertà di Chiara Saraceno L’Espresso, 7 agosto 2022 I dati smentiscono che sia un disincentivo al lavoro: sottrae al ricatto dello sfruttamento. Il dibattito sul Reddito di cittadinanza (Rdc) è caratterizzato, oltre che da un eccessivo grado di politicizzazione, da una diffusa mancanza di conoscenza di come funziona e di che cosa succede veramente ai beneficiari di una misura che non solo è analoga ad altre che esistono da tempo in Europa, ma, come ha da ultimo documentato anche l’Istat, negli anni della pandemia è stata essenziale per evitare la caduta in povertà assoluta di oltre un milione di persone. E che continuerà ad essere essenziale nella situazione di grave incertezza sul piano economico. Contrariamente a quanto sembra ritenere qualcuno, infatti, la povertà non aumenta perché il Rdc incoraggia a uscire dal mercato del lavoro per vivere nell’ozio, ma perché la situazione economica e del mercato del lavoro, unita a bassi tassi di occupazione femminile, specie tra le madri a bassa istruzione e che vivono nel Mezzogiorno, ha allargato l’area della vulnerabilità. Il Rdc copre solo una parte, circa la metà, della vasta area di poveri assoluti individuata dall’Istat. Per questo sarebbe opportuno migliorare le regole di accesso. Per compensare i costi di questo allargamento si potrebbe abbassare di un poco l’importo massimo che può prendere attualmente un adulto che vive da solo, 500 euro: comparativamente un importo tra i più generosi in Europa (mentre quello che può prendere una mamma sola con figli minorenni è comparativamente tra i meno generosi). Come è noto, nessuna di queste due proposte, come delle altre del Comitato, è stata presa in considerazione, trovando resistenza anche tra i M5S. Mentre le diseguaglianze tra poveri create dai requisiti di accesso non scaldano gli animi, tutta l’attenzione e il dibattito politico sono concentrati sul rapporto tra percepimento del Rdc e occupazione. È opportuno fare un po’ di chiarezza. Il Rdc non si rivolge solo a chi è teoricamente occupabile. Si rivolge a chi si trova in condizioni di povertà così come definite dai requisiti economici. La parte di politica attiva del lavoro, sotto forma di patto per il lavoro, che integra il sostegno economico riguarda solo chi viene valutato come in linea di principio occupabile. Si tratta grosso modo della metà di tutti i percettori. Ma anche tra chi è definito occupabile la situazione non è facile, al netto di uno scarso attivismo del Centri per l’impiego (Cpi) e di una domanda di lavoro (regolare e con una remunerazione decente) spesso carente. Secondo gli ultimi dati Anpal (riferiti al 30 settembre 2021), tra chi era tenuto al patto per il lavoro, circa 878 mila (meno della metà) era definibile come “vicino al mercato del lavoro”. La stragrande maggioranza - 724.494 - aveva avuto una qualche esperienza lavorativa in costanza di recezione del Rdc. Di questi, 546.598 avevano trovato lavoro dopo aver ottenuto il Rdc, anche se non sempre come esito del patto per il lavoro sottoscritto e della presa in carico da parte di un Centro per l’impiego; 178.000, invece, avevano già un’occupazione al momento dell’entrata nel beneficio, a testimonianza del fatto che non sempre avere un lavoro è sufficiente a uscire dalla povertà. Ciò in parte era dovuto alle basse qualifiche, in parte alla grande prevalenza di contratti a termine, spesso brevissimi: quasi il 69 per cento non superava i 3 mesi e più di un terzo durava meno di 1 mese. Il Rapporto annuale Inps di quest’anno, confermando questi dati, ha aggiunto ulteriori elementi a smentita della vulgata corrente sui beneficiari nullafacenti che rifiutano occupazioni regolari decentemente pagate. Segnala che nel 40 per cento circa dei nuclei beneficiari che hanno ricevuto il Rdc per almeno 11 mesi vi è almeno un lavoratore “certificato”, con una posizione aperta presso l’Inps. In secondo luogo, lavora oltre il 30 per cento dei beneficiari stabili tra i 18 e 49 anni, a fronte del 18 per cento tra i cinquantenni, sfatando l’idea che la pigrizia alligni particolarmente tra i giovani. Si tratta. per lo più di occupazioni di lavoro dipendente, con contratti spesso a termine e/o a tempo parziale e un imponibile retributivo medio annuo di 6 mila euro. Avere un salario minimo legale sarebbe certo utile, ma non sufficiente a garantire loro un reddito tale da non aver più bisogno di ricevere il Rdc, se l’occupazione è a tempo parziale e/o precaria. Infine, la percentuale di lavoratori è molto più alta tra gli extracomunitari rispetto agli italiani e tra gli uomini rispetto alle donne. Questi dati suggeriscono che la fruizione del Rdc di per sé non disincentiva dal tenere, cercare e accettare una occupazione, anche molto temporanea, anche se può consentire di rifiutare condizioni lavorative fortemente sfruttatorie. Ciò non è sorprendente se si considera che l’importo medio di cui beneficia una famiglia (non una persona sola) è di 570 euro al mese circa, certo non competitivo con un salario modesto, ma decente. In questo contesto, la norma che prevede che venga detratto dal Rdc l’80 per cento del reddito che si ottiene da un’occupazione regolare, e che il 100 per cento venga conteggiato successivamente nel calcolo dell’Isee, costituisce un effettivo scoraggiamento dall’accettare una occupazione regolare che non offra un reddito sufficientemente più elevato del Rdc e per un periodo lungo. Trasformare, per chi è occupato o trova una occupazione, il Rdc in una forma di integrazione “premiale” di un reddito da lavoro insufficiente, riducendo sostanziosamente l’aliquota marginale implicita attualmente in vigore, è una delle proposte del Comitato scientifico. Dopo averla ignorata, sembrava che il governo ci avesse ripensato e progettasse di consentire ai beneficiari di trattenere una quota maggiore di reddito da lavoro, ma solo a chi viene occupato in lavori stagionali. Come se l’obiettivo fosse quello di aiutare le imprese turistiche e non di incoraggiare chi si dà da fare senza introdurre iniqui criteri categoriali. In ogni caso sembra che anche questo progetto sia sparito dal tavolo. Vi è entrata, invece, un’arma di ricatto regalata ai datori di lavoro, che in base ad una norma introdotta surrettiziamente nel decreto aiuti poi trasformato in legge, potranno denunciare direttamente ai Cpi i beneficiari che non accettano un’offerta di lavoro “congrua”, senza per altro essere obbligati a documentare l’effettiva congruità. Anche questa norma è figlia della narrazione negativa sui beneficiari del RdC. In realtà non esistono numeri affidabili su chi rifiuterebbe un’occupazione “congrua” per due diversi motivi. Il primo è che gran parte della domanda di lavoro non passa dai centri per l’Impiego che sarebbero responsabili di effettuare i controlli. Il secondo motivo è che, anche nei rari casi in cui i datori di lavoro si rivolgono ai Cpi, questi possono solo segnalare ai beneficiari le offerte di lavoro. Ma è solo il primo passo di un processo che poi avviene al di fuori della intermediazione dei Cpi e su cui questi non hanno alcun controllo né documentazione. Dare ai datori di lavoro il diritto e la responsabilità di denunciare i beneficiari che rifiutano un’offerta di lavoro mette nelle loro mani un potere di ricatto inaccettabile. È stupefacente che il Pd sia stato favorevole a questa norma e che i sindacati non abbiano fiatato. Sarebbe invece utile se i Cpi fossero messi nelle condizioni di valutare effettivamente, e rafforzare, l’impegno dei beneficiari (occupabili) nella ricerca di una occupazione e di sostenerne con formazione adeguata l’occupabilità. È ciò che dovrebbe fare il nuovo programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori). Via per sempre tutte le armi nucleari di António Guterres* Corriere della Sera, 7 agosto 2022 Il messaggio del Segretario Generale dell’Onu nell’anniversario di Hiroshima: nel mondo ci sono già 13 mila bombe atomiche, è inaccettabile che sia partita una nuova corsa agli armamenti. Sabato 6 agosto ero con orgoglio accanto al Primo ministro del Giappone, Fumio Kishida, e alla popolazione di Hiroshima in memoria di una catastrofe senza precedenti. Settantasette anni fa, armi nucleari vennero utilizzate contro le popolazioni di Hiroshima e Nagasaki. Decine di migliaia di donne, bambini e uomini furono uccisi in un istante, inceneriti da un fuoco infernale. Gli edifici ridotti in polvere. I placidi fiumi cittadini inondati di sangue. I sopravvissuti furono condannati a un lascito di radioattività, assediati da problemi di salute e soggetti a un’esistenza di stigmatizzazione a causa dei bombardamenti nucleari. Ho avuto il grande onore di incontrare un gruppo di sopravvissuti, gli hibakusha, il cui numero diminuisce di anno in anno. Mi hanno raccontato con risoluto coraggio ciò che vissero in quel terrificante giorno del 1945. È ora che i leader mondiali abbiano la stessa chiarezza degli hibakusha e vedano le armi nucleari per ciò che realmente sono. Gli armamenti nucleari non hanno alcun senso. Essi non sono in grado di creare sicurezza o protezione. Per loro natura, portano solamente morte e distruzione. Sono trascorsi tre quarti di secolo dal fungo atomico sopra Hiroshima e Nagasaki. Da allora, l’umanità è passata attraverso una Guerra Fredda, decenni di assurda politica del rischio calcolato e diversi terrificanti situazioni limite che hanno portato l’umanità a un passo dalla distruzione totale. Tuttavia, perfino nelle fasi più buie della Guerra Fredda, le potenze nucleari hanno ridotto in maniera significativa i propri arsenali nucleari. C’era, allora, un’ampia accettazione dei principi contro l’utilizzo, la proliferazione e i test di armi nucleari. Oggi rischiamo di dimenticare le lezioni del 1945. Si è scatenata una nuova corsa agli armamenti, con governi pronti a spendere centinaia di miliardi di dollari per ammodernare i propri arsenali nucleari. Negli arsenali di tutto il mondo ci sono quasi 13.000 armi nucleari. Crisi geopolitiche con serie sfumature nucleari si diffondono velocemente, dal Medio Oriente alla penisola coreana all’invasione russa dell’Ucraina. Ancora una volta, il genere umano gioca con una pistola carica. Siamo a un errore, un malinteso,un errore di calcolo di distanza dall’apocalisse. I governanti mondiali devono smettere di provocare il destino e devono rimuovere per sempre l’opzione nucleare dal tavolo negoziale. È inaccettabile che gli Stati che possiedono l’opzione nucleare ammettano la possibilità di un conflitto nucleare che condannerebbe a morte il genere umano. Al tempo stesso, questi Paesi devono impegnarsi a non essere i primi a farne uso e devono garantire agli Stati privi di armi nucleari che non le useranno, né ne minacceranno l’utilizzo contro di loro, e che il loro approccio sarà sempre improntato alla trasparenza. Le prove di forza nucleari devono finire. In fondo, esiste soltanto una soluzione alla minaccia nucleare: non avere affatto armamenti nucleari. Questo significa aprire ogni possibile spazio di dialogo, diplomazia e negoziato per alleggerire le tensioni e eliminare queste armi letali di distruzione di massa. In questo senso assistiamo a nuovi segnali di speranza a New York, dove il mondo si è riunito per la X Conferenza di revisione sul Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari. Il Trattato rappresenta una delle ragioni principali per cui non si sono usate armi nucleari dal 1945. Esso contiene impegni giuridicamente vincolanti per conseguire il disarmo nucleare, e può costituire un potente catalizzatore per il disarmo, la sola maniera di eliminare queste orribili armi una volta per tutte. Lo scorso giugno, Paesi firmatari del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari si sono incontrati per la prima volta per delineare un percorso verso un mondo libero da questi ordigni mortali. Non possiamo più accettare la presenza di armi che minacciano cosi da vicino il futuro dell’umanità. È ora di ascoltare il messaggio sempre attuale degli hibakusha: “Basta altre Hiroshima! Basta altre Nagasaki!”. È ora di far proliferare la pace. Insieme, passo dopo passo, sgombriamo queste armi dalla faccia della terra. *Segretario Generale dell’Onu Migranti, il blocco navale divide il centrodestra di Carlo Lania Il Manifesto, 7 agosto 2022 Meloni: navi militari per fermare i barconi. La proposta di FdI irrita la Lega: “Noi al governo abbiamo azzerata gli sbarchi”. “Ancora il blocco navale?”. Al ministero della Difesa non sanno come prendere la proposta di Giorgia Meloni di utilizzare le navi militari per fermare i barconi carichi di disperati che attraversano il Mediterraneo. La leader di Fratelli d’Italia ne ha parlato in televisione spiegando che l’utilizzo delle navi dovrebbe essere attuato grazie a “una missione europea, da concordare con le istituzioni europee” e “in accordo con le autorità libiche”. Un’idea che Meloni va ripetendo da anni e sempre caduta nel vuoto ma che oggi, a meno di due mesi dalle elezioni che potrebbero portarla a Palazzo Chigi, assume contorni diversi e rischia di interrompere - ammesso che si sia mai avviato - un processo di normalizzazione e di accreditamento internazionale di Fratelli d’Italia, in particolare con i partner europei. A questo si aggiunga il malumore creato negli alleati dalle parole della Meloni. Reduce da una due giorni a Lampedusa, Matteo Salvini non ha infatti gradito l’uscita che considera quasi un’invasione di campo. “Noi al governo - trapela infatti dalla Lega - abbiamo già azzerato gli sbarchi e dimezzato i morti coi decreti sicurezza, che fra due mesi riproporremo identici. Possiamo quindi vantare risultati concreti, riconosciutici in tutta Europa, e ogni suggerimento degli alleati sarà per noi prezioso”. Il problema per Meloni, però, è che il blocco navale è una proposta la cui realizzazione è a dir poco complicata. “Difficile, se non impossibile”, taglia corto una fonte della Difesa. Che poi spiega: “Il blocco navale è un modo per bloccare l’ingresso di navi, e non l’uscita, dai porti di un Paese nemico. Detto questo i barconi dei migranti non partono certo dai porti, ma da punti di imbarco che si trovano lungo le coste libiche. L’unico modo per intercettarli sarebbe quindi controllare il limite delle acque territoriali. Per farlo, però, sa quante navi e quanti uomini servirebbero?”. Come se non bastasse, poi, bisogna tener contro che se anche una nave militare incrociasse un barcone non potrebbe consegnarlo alle motovedette libiche né rimandarlo indietro. “Si tratterebbe di un respingimento vietato dal diritto internazionale”, spiega ancora il funzionario. “E poi non dimentichiamoci che stiamo parlando di imbarcazioni a dir poco precarie con a bordo dei civili che necessitano di assistenza e che nel caso di naufragio avremmo l’obbligo di soccorrere”. Anche l’altra proposta avanzata dalle leader di Fratelli d’Italia - e condivisa questa volta da Matteo Salvini - appare irrealizzabile. Vale a dire l’apertura in Africa di hotspot dove effettuare “la valutazione di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi rispedendo indietro gli altri”. “Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa - ha concluso Meloni - è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”. Anche in questo caso a fare da ostacolo è quanto previsto dalle normative internazionali. Il diritto europeo, a partire dal regolamento di Dublino, prevede infatti che una persona possa fare richiesta di asilo a un Paese dell’Unione solo si trova all’interno di uno Stato membro. Quindi non dalla Libia o da un altro Stato non europeo. Pur di sostenere la sua proposta, rispondendo così anche a quanti l’hanno criticata, ieri Meloni ha rispolverato un vecchio titolo di giornale che diceva: “Ue: blocco navale in Libia contro le morti in mare”. “Così titolava l’Unità il 26 gennaio 2017 per sintetizzare proposte Commissione europea per ‘fermare i flussi migratori’ - ha spiegato. Il #BloccoNavale europeo in accordo con le autorità del nord Africa che propone Fdi è l’attuazione di quanto proposto dall’Ue già nel 2017 e ribadito più volte”. In realtà da Bruxelles non sono arrivate indicazioni in questo senso, almeno non così esplicite e non in quegli anni. Il primo intervento nel Mediterraneo per contrastare i trafficanti di uomini è stato con la missione Sophia che certo prevedeva azioni militari (come la possibilità entrare nei proti libici per affondare i barconi dei trafficanti), ma solo con un mandato Onu e con il via libera delle autorità libiche. Alla fine, però, è prevalso fortunatamente l’aspetto umanitario, con il salvataggio di 49 mila uomini, donne e bambini salvati in tre anni (2015-2018). Accoglienza garantita anche a chi abbia commesso reati di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 7 agosto 2022 Anche al richiedente protezione internazionale che abbia commesso reati debbono essere garantite le condizioni materiali di accoglienza (alloggio, vitto, vestiario e un sussidio per le spese giornaliere). Lo affermano i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Anche al richiedente protezione internazionale che abbia commesso reati debbono essere garantite le condizioni materiali di accoglienza (alloggio, vitto, vestiario e un sussidio per le spese giornaliere). Lo affermano i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza emessa nella causa n. 422-2022 depositata il giorno 1/8/2022. Il caso di specie, trae origine dall’azione intentata da parte di un richiedente protezione internazionale ospite di un centro di accoglienza temporanea nei confronti dello Stato italiano. Allo straniero infatti erano state revocate le condizioni materiali di accoglienza che gli spettavano in seguito alla sua richiesta di protezione internazionale, sulla base della contestazione di precedenti condotte realizzate sul suolo italiano che lo avevano visto come protagonista di atti violenti nei confronti di pubblici ufficiali. Il giudice amministrativo di primo grado, innanzi al quale era stata portata la questione sospendeva la decisione dell’amministrazione. Ad avviso dei giudici amministrativi di primo grado in nessun caso poteva essere riconosciuto all’amministrazione il potere di privare lo straniero delle risorse minime per la propria vita. Tuttavia il procedimento faceva ulteriore corso innanzi al Consiglio di Stato a seguito del ricorso dell’amministrazione ed in tale sede veniva effettuato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea al fine di chiarire la compatibilità tra una norma nazionale che consenta di limitare il godimento delle condizioni materiali di accoglienza ed i principi posti dall’ordinamento comunitario. Tale facoltà nell’ordinamento italiano è consentita dall’art. 23 del dl n. 142/2015 che consente al Prefetto di revocare le condizioni materiali di accoglienza in precedenza riconosciute allo straniero richiedente protezione internazionale qualora egli si sia reso protagonista di condotte antisociali. La questione viene risolta da parte dei giudici europei sulla base dell’esame di due disposizioni contenute nella direttiva n.33/2013/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 luglio 2013. La predetta direttiva contiene infatti due specifiche norme necessarie a contemperare le opposte esigenze nel caso di permanenza nel territorio nazionale di uno straniero che abbia richiesto la protezione internazionale che abbia realizzato condotte delittuose. Osservano sul punto i giudici europei come l’art. 20 par. 4 prevede la facoltà di revoca delle condizioni di accoglienza nel caso di condotte illecite od atti violenti da parte di chi abbia fatto richiesta della protezione internazionale. Tuttavia tale facoltà non può essere esercitata in maniera illimitata trovando una limitazione da quanto previsto nel successivo par. 5 del medesimo articolo della direttiva che a propria volta contiene un principio volto in questo caso alla tutela della dignità del richiedente protezione internazionale. Quest’ultimo infatti anche nel caso in cui si sia reso responsabile di atti violenti non potrà in ogni caso essere privato delle risorse necessarie che gli consentano il soddisfacimento dei bisogni più elementari. Una norma nazionale diretta a prevedere la facoltà per l’amministrazione di revocare senza alcun limite i benefici minimi concessi al richiedente protezione internazionale, precisano i giudici europei, certamente contrasterebbe con l’ordinamento comunitario e con i suoi principi che vogliono che in ogni caso venga tutelata la dignità della persona umana indipendentemente dalla sua nazionalità. Se l’Occidente usa due pesi e due misure di Piergiorgio Odifreddi La Stampa, 7 agosto 2022 Le beghe estive dei partiti italiani per le elezioni autunnali hanno ormai relegato le notizie sugli squilibri mondiali in secondo piano, e la crisi di Taiwan ha comunque distolto l’attenzione dalla guerra in Ucraina, che aveva tenuto banco nelle settimane primaverili. I venti di guerra in Oriente non hanno però provocato una levata di scudi mediatica e popolare analoga a quella sollevata dai venti che hanno soffiato in Occidente. Le motivazioni sono ovvie, ma vale la pena di esplicitarle. La prima l’aveva già espressa Adam Smith nel 1759, nella sua Teoria dei sentimenti morali: il libro, per inciso, nel quale egli introdusse per la prima volta l’erronea ma fortunata metafora della “mano invisibile”, che guiderebbe automaticamente i mercati verso l’equilibrio. Prendendo come esempio proprio l’Oriente, Smith scriveva: “Supponiamo che il grande impero cinese, con tutte le sue miriadi di abitanti, fosse all’improvviso inghiottito da un terremoto, e pensiamo a come rimarrebbe colpito un europeo sensibile, che non avesse alcun legame con quella parte del mondo, nel venire a sapere di questa terribile calamità”. La sconsolante risposta del filosofo fu che, “dopo aver espresso tutti i buoni sentimenti d’umanità, l’europeo tornerebbe ai suoi affari e ai suoi divertimenti, e riprenderebbe il suo riposo o il suo svago con lo stesso agio e la stessa tranquillità di prima, come se nessuna catastrofe fosse accaduta”. Ed è proprio questo che è successo a noi: ci spiace molto per coloro che stanno sotto le bombe in Ucraina, o rischiano di finirci a Taiwan, ma ormai è tempo di vacanze, e non possiamo più permettere che le notizie dai fronti ci distraggano dai bagni al mare o dalle passeggiate in montagna, soprattutto dopo due anni di pandemia. Smith notava, dunque, che in generale gli eventi catastrofici ci interessano in maniera inversamente proporzionale alla loro distanza da noi: più sono lontani, e meno ci coinvolgono emotivamente. Ma qualche settimana fa, intervenendo al Forum Globsec 2022 di Bratislava, l’arguto e argomentativo ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar ha aggiunto un’interessante osservazione specifica a proposito degli Europei, dicendo che “l’Europa deve cambiare la propria mentalità, secondo la quale i problemi del mondo non sono problemi dell’Europa, ma i problemi dell’Europa sono problemi del mondo”. In altre parole gli Europei, e più in generale gli Occidentali, tendono sì a disinteressarsi dei problemi dei popoli lontani, come tutti, ma pretendono che gli altri non facciano lo stesso con loro, e si interessino invece dei problemi europei e occidentali. L’esempio portato da Jaishankar è l’acquisto del gas e del petrolio russi: dopo l’inizio della guerra in Ucraina l’India ha subìto forti pressioni dall’Occidente per aderire all’embargo delle importazioni di questi prodotti dalla Russia, nonostante le importazioni indiane siano una minima frazione rispetto di quelle europee, che però continuano imperterrite nonostante l’embargo dichiarato dalla Comunità Europea stessa! Jaishankar ha facile gioco ad accusare gli Europei di usare due pesi e due misure: una per sé, e l’altra per il resto del mondo. D’altronde, l’India ha subìto a partire dal 1600 il giogo coloniale europeo (inglese, olandese, portoghese, francese, danese e svedese), e dal 1858 quello imperiale inglese, riuscendo a liberarsene soltanto nel 1947. E molte delle nazioni occidentali che oggi si ergono a paladine della democrazia nel resto del mondo, continuano a mantenere colonie e possedimenti dovunque: gli Stati Uniti da Porto Rico alle Marianne (per non parlare di Guantanamo), l’Inghilterra da Gibilterra alle Falkland (oltre ai reami inglese dal Canada all’Australia), la Francia da Tahiti alla Caledonia, l’Olanda da St. Marteen a Curacao, eccetera. Tutte queste nazioni sono oggi schierate a favore dell’autodeterminazione dei popoli del mondo intero, dagli ucraini ai taiwanesi, eccetto quelle che ricadono sotto il loro dominio diretto o indiretto. Forse, senza scomodare Smith e Jaishankar, si potrebbe semplicemente invitare queste nazioni a rileggere il Vangelo di Matteo: “Perché osservate le pagliuzze negli occhi dei vostri fratelli, mentre non vi accorgete delle travi che avete nei vostri occhi? Come potete dire ai vostri fratelli di togliere le pagliuzze dai loro occhi, mentre nei vostri ci sono delle travi? Ipocrite, prima togliete le travi dai vostri occhi, e poi ci vedrete bene per togliere le pagliuzze dagli occhi dei vostri fratelli”. Cecenia. Così vengono perseguitate le persone Lgbt di Simone Alliva L’Espresso, 7 agosto 2022 La polizia controlla i contenuti del cellulare di Rizvan, le chat e conversazioni con altri omosessuali. Poi si stringe l’accordo: “Dagli un appuntamento e portali qui”. Ecco cosa accade agli uomini gay nel paese che calpesta i diritti umani: torturati, costretti a fare nomi di altri e poi fatti scomparire. “Nome e cognome” chiede una voce fuori campo. “Dadaev Rizvan Salambekovich”. Le mani sono dietro la schiena, lo sguardo basso, il volto è sudato e la voce impaurita, sembra uscire dal mutismo solo dopo aver pesato le parole. “Perché sei stato fermato?”, chiede un poliziotto in ceceno. “Perché volevo incontrare un ragazzo”. “Perché?”. Silenzio. “Perché cazzo volevi incontrarlo?!” insiste un’altra voce fuori campo. “Perché volevo fare sesso con lui”. “Ci dirai i nomi di altri uomini gay e ce li porterai qui?” “Sì”. Una testimonianza viva che risale al 25 luglio. La prima documentata con un video (sfuggito di mano dalla polizia cecena che lo ha fatto rimbalzare sui gruppi Telegram come un vanto da esibire), di quello che accade agli uomini gay in Cecenia dal 2017. Perseguitati, torturati, “misteriosamente” scomparsi - il che vuol dire morti ammazzati. È solo una storia ordinaria di quello che è la Cecenia per le persone Lgbt, una goccia in un mare di sangue e omotransfobia. Di Rizvan, che nel video trema di fronte alla polizia, non si hanno più notizie. Con lui sono scomparsi pochi giorni dopo altri due conoscenti. Le persone Lgbt vengono attirate nelle prigioni segrete, rinchiuse, torturate. Un inferno di unghie strappate, percosse, scosse sui genitali, sedie elettriche fino a che non fanno altri nomi di altre persone Lgbt. Quando qualcuno confessa, parte la “zaciska” che in russo vuol dire “pulizia”, il termine viene usato dalle truppe russe per definire le loro spedizioni punitive e i sequestri di persone. I video son due. Il primo è stato ripreso dall’attivista per i diritti umani Igor Kochetkov, diffuso su Facebook. Dopo la sua pubblicazione è sbucato un altro video che vede la polizia controllare i contenuti del cellulare di Rizvan, il suo profilo VK (il social network russo) che riporta chat e conversazioni con altri omosessuali. Poi si stringe l’accordo: darai appuntamento ai tuoi amici omosessuali e li porterai qui. Quello che è successo dopo non lo sappiamo. Ma la Cecenia dei diritti violati sceglie da anni “la tranquilla indifferenza e si chiude in uno spazio illusorio”, come scriveva Anna Politkosvkaja. “Rizvan non ha una famiglia che lo cerca, perché in Cecenia nessuno dei familiari vuole sapere dove si trova il proprio figlio se gay”. Spiega Miron Rozanov, addetto stampa di Crisis Group “NC SOS”, organizzazione che dal 2017 aiuta la comunità Lgbt+ del Caucaso del Nord (tra queste la Cecenia) a lasciare il paese e salvarsi da una sorte certa. “Nel 2022 (solo in sette mesi) abbiamo ricevuto 43 richieste di aiuto da persone che erano in pericolo di vita. Le abbiamo aiutate, portate fuori dalla Russia e dato loro aiuto psicologico e finanziario”. Il modus operandi della polizia cecena ha un copione rigido: dopo averli sequestrati e massacrati, li costringe a organizzare finti incontri che si rivelano trappole per altri omosessuali. Chi si rifiuta viene ucciso, oppure, spiega Rozanov: “Vengono prodotti dei falsi reati che portano queste persone all’ergastolo. Molti sono stati restituiti alle proprie famiglie affidandosi all’arma classica, antica e brutale del delitto d’onore. Ai genitori la polizia cecena chiede di firmare un modulo: “Mio figlio / fratello (nome) ha lasciato la repubblica di lavorare a Mosca alla fine di febbraio. Reclami alla polizia cecena non ha”. Un salvacondotto”. L’attivista più importante per i diritti delle persone Lgbt in Russia, Igor Kochetkov ha denunciato la sparizione di Rizvan al Comitato Investigativo russo: “Dopo questa denuncia abbiamo ricevuto molti messaggi di sparizioni che stiamo ancora verificando, la polizia russa non ci aiuta, dal 2017 nessuna indagine è stata portata avanti sulla persecuzione delle persone Lgbt in Cecenia. Ma possiamo dire che almeno due persone sono state imprigionate dopo Rizvan. Persone che lo conoscevano e lo avevano frequentato in precedenza”. “NC SOS” in solitudine e dal 2017 ha registrato 614 richieste di aiuto, salvato 343 persone Lgbt dalla Cecenia e di questi solo 274 hanno ottenuto asilo politico: “Speriamo che la politica internazionale e le organizzazioni possano indagare su questo inferno, perché certo non possiamo contare sulla Russia. Almeno potrebbero aiutarci a rendere più facili le evacuazioni delle persone Lgbt dalla Cecenia”. Su questo “inferno”, come lo chiama Miron, pesa la guerra in Ucraina: “Ha ridotto la possibilità per noi di aiutarli. Moltissimi paesi rifiutano le nostre richieste per il visto per queste persone e naturalmente i luoghi (che noi usavamo per fa fuggire le vittime) sono stati chiusi. Al momento le persone Lgbt che vivono in Cecenia rischiano di essere imprigionate e poi trasportate in Ucraina per combattere. Anche su questo stiamo lavorando”. Argentina. Giustizia contro l’oblio. Le nonne di Plaza de Mayo in lotta da 45 anni di Sabrina Pisu L’Espresso, 7 agosto 2022 Le guida Estela de Carlotto che ha potuto abbracciare suo nipote, uno degli oltre 400 figli di desaparecidos sterminati dagli uomini di Videla e i cui bambini vennero adottati dalle famiglie vicine al regime. “Con mio nipote è tornato anche il sangue di mia figlia, è tornata Laura. Mi ha illuminato la vita. Oggi siamo una famiglia. Mi dice “nonna ti voglio bene” e mi ha ridato la felicità”. Estela Barnes de Carlotto non ha mai smesso di amare e combattere. Dal 1989 è la presidente delle “Abuelas de Plaza de Mayo”, le nonne che in Argentina, insieme alle “Madres”, portano avanti da quarantacinque anni la marcia su “Plaza de Mayo” a Buenos Aires, davanti alla Casa Rosada, sede presidenziale. Al grido “Nunca más”, “Mai più”, continuano a chiedere giustizia e cercare i loro nipoti, i bambini che portavano in grembo le loro figlie sequestrate tra il 1976 e il 1983, gli anni della dittatura iniziata dopo il golpe del generale Jorge Rafael Videla che il 24 marzo del 1976 ha destituito Isabelita, la seconda moglie di Juan Domingo Perón. Nonne, madri, che si battono per quei figli che tengono con loro, in quel simbolico “pañuelo blanco”, il fazzoletto bianco avvolto sulla testa come il pannolino di tela dei figli. Figli che continuano a vivere negli ideali che loro portano avanti e in una foto sbiadita, e stretta al petto. “La nostra è un’associazione umanitaria, è un lavoro di amore e incontro. Non importa se siamo ricche o povere, colte o meno, siamo nonne che soffrono ancora e cercano altri nipoti. Le nostre figlie sono state uccise dopo aver partorito e i militari si sono distribuiti fra loro i neonati, o li hanno dati a civili, quasi sempre complici, per farli crescere secondo le loro idee, una dinamica totalmente perversa”, racconta Estela de Carlotto, 91 anni, occhi azzurri liquidi, profondi come l’abisso che ha visto e dal quale ha saputo risalire per non permettere che sua figlia Laura, che tutti i desaparecidos, venissero cancellati dalla Storia, e che i loro nipoti non conoscessero la verità. Durante la dittatura, i militari hanno messo in atto una “riorganizzazione nazionale”, con l’eliminazione fisica, e segreta, degli oppositori politici. “Ragazzi “colpevoli” di appartenere a una generazione che aveva creduto negli ideali del ‘68. La Lotta armata era stata, di fatto, debellata già prima del marzo del ‘76, con la decapitazione dei vertici militari e di intere colonne operative dei gruppi armati dell’Erp, “Esercito rivoluzionario del popolo”, di fede trotskista-guevarista, e dei “Montoneros”, di orientamento peronista”: dice Francesco Caporale, che è stato pubblico ministero dei tre processi per otto desaparecidos, tra cui la figlia di Estela de Carlotto, Laura con suo figlio Guido, celebrati in Italia, per volontà di Sandro Pertini, ma solo tra il 1999 ed il 2010, secondo l’articolo 8 del codice penale, che consente di giudicare in Italia delitti politici commessi all’estero in danno di cittadini italiani. Sono circa 30 mila i desaparecidos, soprattutto giovani tra i venti e i venticinque anni, sequestrati nelle loro case, spesso di notte, bendati, incappucciati, caricati su vecchie Ford Falcon verdi senza targa e fagocitati negli oltre 350 “centri clandestini di detenzione” tenuti invisibili agli occhi della gente e della cui esistenza si sarebbe saputo solo nel 1983 quando in Argentina è tornata la democrazia, con le rivelazioni della Conadep, “Comisiòn nacionàl sobre la desapariciòn de personas”, commissione d’inchiesta istituita dall’appena eletto presidente Raúl Alfonsín per indagare sulla scomparsa degli oppositori. “Luoghi peggiori dei lager e sparsi ovunque in cui i detenuti erano costantemente incatenati e subivano torture inenarrabili”, racconta l’ex pm Francesco Caporale che ha chiesto e ottenuto la pena dell’ergastolo per gli imputati, tra cui il generale Suárez Mason, “il padrone assoluto della vita e della morte di migliaia di giovani”. Condanne fondamentali anche se, come spiega, “rimaste solo simboliche, nessuno di quei condannati, di cui l’Argentina non ha inteso concedere l’estradizione, ha mai scontato un solo giorno di carcere nel nostro Paese”. Torture come le scariche elettriche della “picana”, strumento usato nella Pampa argentina per controllare il bestiame, elettrodi messi nelle parti intime del corpo, in bocca, sugli occhi, spesso fino a far fermare il cuore. Come il supplizio del “submarino”, con il quale si immergeva ripetutamente il detenuto in una vasca e lo si tirava fuori, prima che affogasse. Le giovani donne subivano violenze sessuali. Giovani spogliati, legati, narcotizzati con il Pentothal, caricati su aerei militari venivano gettati, ancora vivi, nelle acque del Rio de la Plata o nell’Atlantico Sur dai “voli della morte” praticati in centri come l’Esma, la Scuola di meccanica della Marina, o il Campo de Mayo. Le “abuelas” sono state odiate, torturate, alcune uccise, definite “las locas”, “le pazze”, dai militari, perché non sono rimaste in silenzio, si sono opposte al disegno di “riconciliazione nazionale” di Raùl Alfonsìn che nel 1987 con la legge dell’”Obediencia debìda”, ritenuta incostituzionale nel 2005 sotto il governo di Néstor Kirchner, ha tentato di far cadere l’oblio, scagionando da ogni responsabilità gli ufficiali di minor grado. Hanno gridato contro gli indulti concessi dal presidente Carlos Menem che hanno portato, tra il 1989 e il 1990, alla liberazione dei maggiori responsabili come l’ex dittatore Jorge Rafael Videla e l’ex ammiraglio della Marina Emilio Eduardo Massera, condannati nel 1985 durante i processi ai militari celebrati in Argentina. Loro non hanno permesso oblio e impunità: “Io faccio tutto quello che posso anche fuori dall’Argentina. Spero di avere ancora abbastanza tempo per aiutare altre nonne, perché quello che è successo non venga mai dimenticato e non succeda altrove. La verità è sempre stata nascosta, deformata. Per molto tempo abbiamo pagato tutto di tasca nostra ma, quando la democrazia è tornata, lo Stato si è fatto carico delle spese, oggi abbiamo undici team di esperti con avvocati, psicologi, antropologi”, continua Estela de Carlotto. La sua vita è cambiata il primo agosto del 1977 quando suo marito Guido Carlotto, nato ad Arzignano, in provincia di Vicenza, e trasferitosi in Argentina dove aveva aperto una piccola fabbrica di vernici, viene sequestrato perché rivelasse dove si trovava sua figlia Laura, studentessa universitaria di Storia e militante nella “Juventud Peronista”. Estela de Carlotto, maestra di una scuola elementare a La Plata, città a 60 chilometri da Buenos Aires dove vive ancora, cerca suo marito tra i corpi senza vita che a volte riaffioravano sulle rive del fiume, paga qualcuno che dice che lo avrebbe fatto liberare. Il 25 agosto viene liberato, è dimagrito 14 chili e le racconta le torture subite con la “picana” nel centro di detenzione in cui aveva assistito all’uccisione di molti giovani. “Il suo corpo era talmente martoriato che rimase infermo per tutta la vita e, probabilmente, la sua morte nel 2001 è stata dovuta anche a questo”. Il 26 novembre 1977 sua figlia Laura è stata sequestrata con il suo compagno in una pasticceria di Buenos Aires, Estela de Carlotto non aveva sue notizie da dieci giorni quando le aveva scritto una lettera per dirle che aspettava un bambino e che avrebbe voluto chiamarlo Guido, come suo padre: “Era in clandestinità con il suo compagno e mi mandava delle lettere tramite una persona, mio marito l’andava a trovare periodicamente”, ricorda Estela de Carlotto che per riavere sua figlia accetta di pagare un riscatto. Dopo settimane senza notizie, si rivolge a una collega, che era la sorella del generale Reynaldo Brignone, esponente della giunta militare, a cui chiede la liberazione. O almeno di avere il corpo. Laura era stata internata nel campo di concentramento clandestino “La Cacha”: “L’hanno torturata mentre era incinta, le dicevano sempre che il giorno dopo l’avrebbero liberata e che avrebbe potuto far nascere il figlio circondata dall’affetto dei suoi cari, ma lei aveva capito che l’avrebbero uccisa. E infatti è stata assassinata il 25 agosto del 1978, e il suo corpo martoriato”. Estela de Carlotto riceve dalla Polizia l’invito a recarsi al commissariato del paesino di Isidro Casanova, a circa 60 chilometri da La Plata: “Ci restituirono il corpo, così avevamo il “privilegio” di poter portare un fiore sulla tomba, anche se non eravamo certi che fosse il suo. Ne avemmo la certezza solo quando il corpo fu riesumato ed esaminato da un gruppo di antropologi forensi di fama mondiale”. Suo marito e suo fratello non le consentirono di vedere Laura. I militari avevano simulato un finto conflitto a fuoco, sua figlia aveva il volto sfigurato da colpi di arma esplosi a brevissima distanza, anche sul ventre per eliminare le prove della recente maternità. La sua ultima immagine di Laura è la mano che usciva dalla bara, che lei ha accarezzato. Estela de Carlotto non si fa piegare dal dolore, cerca suo nipote per trentasei anni, fino a quando nel 2014 trova Guido Montoya Carlotto, che ha il nome di Ignacio Hurban. Era nato nell’Hospital Militar di Buenos Aires la notte del 26 giugno del 1978: mentre Laura piangeva dando la vita a suo figlio, sapendo che avrebbe perso la sua, Buenos Aires esultava per i suoi Mondiali di calcio, appena vinti battendo l’Olanda. “Avevo preparato una culla per mio nipote”, ricorda Estela de Carlotto: “Ho abbracciato fortissimo la giudice quando mi disse che potevo incontrarlo, perché aveva accettato. Quando la notizia divenne pubblica a Buenos Aires e in tutta l’Argentina c’è stata una grande festa perché la mia storia era nota, lui era il nipote di tutti gli argentini”. Grazie al “Banco nacional de datos genéticos” le “abuleas” sono riuscite a identificare 130 nipoti, ne mancano 300: “È la prima banca dati genetica del mondo, dove ci sono i campioni di sangue delle nonne e di tutti quelli che hanno dubbi sulla propria identità, serve a identificare il Dna dei figli delle persone scomparse. Ora è un’istituzione universale, usata in tutto il mondo”. Il nipote è cresciuto nella Colonia San Miguel, non lontano da Olavarría, nella provincia di Buenos Aires, dove Clemente Hubron, il padre adottivo, era contadino in una fattoria. “Sono stata così felice di abbracciarlo, mi piacerebbe farlo sempre. Sono felice ogni volta che un nipote viene identificato e incontra la sua vera nonna, è come se fossero tutti un po’ nipoti miei. Noi nonne ci sosteniamo, dividiamo la gioia, e la sofferenza quando un nipote non vuole incontrare la vera nonna perché difende la sua vita, ormai instradata. È fondamentale rispettare la loro volontà”. Questa è la storia della dignità di queste donne che si sono battute fino a vedere riaperti dopo il 2005 una serie di processi che stanno facendo piena giustizia. Loro non hai mai smesso di credere nelle istituzioni democratiche: “Chi ha commesso queste atrocità deve ancora ricevere le condanne che merita e che non devono venire da noi ma dai tribunali”. La battaglia di queste madri e nonne continua convinte che, come grida il loro slogan che è una frase di Che Guevara: “La única lucha que se pierde es la que se abandona”, “L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona”. La Colombia si libera da sola di Paul-Emile Dupret* Il Manifesto, 7 agosto 2022 Dopo 200 anni di regimi paramilitari sostenuti da Usa e Ue, oggi a Bogotà si insedia il primo governo di sinistra della storia. Una vittoria di giovani, ambientalisti e movimenti sociali. Oggi, 7 agosto, si insedia in Colombia il nuovo governo di sinistra e, anche se tutto si svolgerà nel massimo rispetto della democrazia, possiamo davvero parlare di un cambio di regime, perché il popolo colombiano ha appena rovesciato un vero e proprio regime narco-paramilitare. Ma tutto questo sembra avvenire nella più totale indifferenza internazionale. Quando Gabriel García Márquez parlava della solitudine dell’America latina, probabilmente aveva in mente soprattutto la solitudine della Colombia, il suo paese, negletto e abbandonato agli appetiti del grande vicino settentrionale. Scoprii la Colombia un po’ per caso, quando interruppi i miei studi di giurisprudenza per un viaggio dal nord al sud dell’America latina, motivato dai miei incontri con i rifugiati latinoamericani, soprattutto cileni, che arrivavano a Lovanio e scompigliavano le categorie nelle quali la nostra sinistra europea era un po’ confinata. In gran parte, erano allo stesso tempo membri di movimenti sociali, artisti e attivisti politici. Trovai la Colombia così appassionante che non continuai il mio viaggio più a sud come avevo programmato. E partecipando a diversi progetti accanto ai colombiani, potei osservare e soffrire, con la perdita di molti amici assassinati o vittime di sparizioni forzate, la terribile solitudine vissuta da questo popolo. In particolare, mi colpiva la grande complicità delle autorità europee in questa tragedia. Mi espulsero dalla Colombia nel 1988, ma continuai a lavorare da Bruxelles per la difesa dei diritti umani. Ho potuto vedere da vicino la complicità delle istituzioni europee con quel regime assassino: ho lavorato al Parlamento europeo come assistente di Luciana Castellina e poi come consigliere politico. Le istituzioni europee barattavano il silenzio sulla tragedia colombiana con i vantaggi per le multinazionali. Uno dei principali artefici di questo macabro e sinistro baratto fu Manuel Marín, commissario per le relazioni internazionali, appartenente al Partito socialista spagnolo. Così, nonostante l’aumento esponenziale delle violazioni dei diritti umani, le relazioni economiche si rafforzarono fino alla firma di un accordo di libero scambio, i cui negoziati vennero avviati con Álvaro Uribe, mentre in Colombia morivano assassinati più sindacalisti che in tutto il resto del mondo. Con l’aiuto di Luciana Castellina e grazie alla tenacia del movimento contadino colombiano nonché alla solidarietà di tanti gruppi di base europei, nel 1997 riuscimmo a far espellere da Bruxelles Carlos Arturo Marulanda, ambasciatore colombiano presso l’Unione europea, che utilizzava gli squadroni della morte per allargare la sua hacienda massacrando i contadini confinanti. Si nascose, ma venne catturato a Madrid e imprigionato per due anni. L’11 febbraio 2004 organizzammo una spettacolare protesta di parlamentari a Strasburgo in occasione della visita del presidente Álvaro Uribe, che aveva instaurato la sua “sicurezza democratica”, consistente nell’incitare i militari a uccidere i guerriglieri o, in mancanza di questi, civili innocenti. Un mese dopo, il mio nome e quello della mia compagna colombiana venivano indicati come “nemici della Colombia” sul sito web di un gruppo paramilitare colombiano e nei documenti dei servizi segreti colombiani che operavano anche a Bruxelles. Quattro mesi dopo, gli Stati uniti mi inserivano nella loro “No-fly-list” antiterrorismo, tanto che, sorprendentemente, un aereo Air France da Parigi a Città del Messico fu dirottato a causa della mia presenza a bordo perché “non era autorizzato a sorvolare le acque territoriali statunitensi”. Sono rimasto nella lista Usa per il resto della mia vita, ma questo conta ben poco di fronte all’enorme felicità di arrivare adesso a Bogotá su invito del nuovo governo colombiano per l’insediamento di Gustavo Petro e Francia Márquez. Il loro arrivo al potere è il culmine di un’incredibile lotta del popolo della Colombia per abbattere un regime criminale sostenuto dagli Stati uniti e dall’Unione europea: lo consideravano il loro migliore alleato in America latina e il primo alleato fuori dalla Nato. Il precedente regime “democratico”, che cadrà il 7 agosto a Bogotá, è responsabile, secondo la Commissione per la verità, di oltre 125mila sparizioni forzate, un numero di gran lunga superiore a quelli registrati nell’intero cono Sud, con le sue dittature criminali. Questa vittoria della sinistra, dei movimenti sociali e ambientalisti e dei diritti umani - perché è di questo che stiamo parlando - è dovuta essenzialmente alla mobilitazione dei giovani e delle popolazioni che vivono nelle regioni più remote, nonché all’impegno degli abitanti di Bogotá che hanno già conosciuto Petro come sindaco della capitale. Quelli delle regioni più lontane, i territori dove vivono i popoli indigeni, i neri, le comunità contadine, hanno votato per la pace perché hanno vissuto la guerra in prima persona e non credono alla narrazione dei mass media che distorcono totalmente la realtà. I giovani, con l’aiuto dei popoli indigeni organizzati e dei sindacati, hanno guidato il grande movimento insurrezionale del 2021, represso nel sangue. La causa scatenante erano stati gli scandalosi regali fiscali agli ultra-ricchi, proprio mentre la popolazione soffriva la fame durante la crisi dovuta al Covid-19 e i servizi sanitari e pensionistici pubblici erano stati svenduti. La vittoria della sinistra, dopo 214 anni di governi di destra in Colombia, è dovuta anche alla decisione della guerriglia delle Farc di impegnarsi negli accordi di pace firmati nel 2016. Il nuovo governo vuole fare della Colombia una potenza di pace, sia all’interno, negoziando la pace con il movimento guerrigliero Eln e altri gruppi, sia a livello internazionale. Il nuovo governo è, come dice Jean-Luc Mélenchon, il più avanzato nella lotta ai cambiamenti climatici, perché metterà al bando il gas fracking, l’uso del glifosato per sradicare le coltivazioni di coca, gli allevamenti estensivi, limiterà le attività minerarie e pianificherà l’uscita dai combustibili fossili. L’Unione europea e i governi europei hanno ora un’opportunità unica di cambiare la loro politica nei confronti di questo paese, di pensare in termini decolonizzati, di emanciparsi dagli Stati uniti e di sostenere un popolo che può diventare un partner prospero scuotendosi da un giogo durato 200 anni e liberando magnifiche forze di pace, cultura e sviluppo sostenibile. Speriamo che questa opportunità unica non vada perduta. Dipende anche da tutti noi. *A Contre-Courant, Bruxelles