Senza aria di Vincenzo Spagnolo Avvenire, 6 agosto 2022 Altri 5 detenuti suicidi in 7 giorni. Il Garante: dobbiamo arrivare prima. Nelle celle dei penitenziari pesano il caldo eccezionale, il sovraffollamento ma anche lo “stigma”. Fino a ieri già 47 i casi in Italia, l’anno scorso, nello stesso periodo, ce ne furono 32. Mauro Palma: serve un urgente approccio multidisciplinare, la sorveglianza fissa con basta. Donatella si è tolta la vita il 2 agosto, nel carcere di Verona, a 27 anni. “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere, ma ho paura di tutto” hanno trovato scritto sul foglio lasciato vicino al fornelletto del gas acceso. La ragazza aveva problemi con la droga, era passata di comunità in comunità fino a una fuga, accompagnata da qualche furto, che le era costata la reclusione. La sua famiglia non sa spiegarsi cosa l’abbia spinta a quel gesto: sono distrutti. Non è l’ultimo caso di suicidio nelle nostre carceri, anzi. Nell’ultima settimana soltanto sono stati 5, e di chi non c’è più ignoriamo le storie: c’è stata una donna a Rebibbia, un uomo a Brescia, uno ad Ascoli Piceno, ieri un altro ad Arienzo, in Campania. C’è stato anche un tentativo di suicidio, ad Augusta: stavolta si trattava di una guardia penitenziaria. Perché le carceri italiane sono diventate un inferno per tutti, i detenuti e chi i detenuti deve controllare. Appena settimana scorsa Antigone aveva lanciato l’allarme: troppe persone (un tasso di sovraffollamento al 112%), troppo caldo, troppi problemi invisibili e irrisolti, come quelli legati allo stato di salute mentale di chi finisce in cella e che oltre a scontare una pena avrebbe diritto a cure sanitarie specifiche, spesso assenti. E poi troppa violenza ed esasperazione: perché i diritti calpestati innescano spirali di rabbia e ribellione, oppure chiudono le persone nel silenzio e nella disperazione. Come quella di Donatella, che aveva paura di tutto, oltre che di se stessa. “Dall’inizio dell’anno fino al 5 agosto, la triste conta dei suicidi in carcere in Italia è giunta a quota 47. Lo scorso anno, nel medesimo periodo temporale, era a 32. Un aumento (+47%) che deve farci riflettere, tanto più se teniamo conto del fatto che quest’anno si contano pure una quindicina di morti per cause da accertare, all’interno delle quali è possibile che ci sia anche qualche altro suicidio. Penso ai casi di decesso per aver inalato il gas della bombola, non sempre sono modi di “sballarsi”, a volte possono essere tentativi di porre fine alla propria vita”. Secondo Mauro Palma, Garante dei detenuti e delle persone private di libertà, l’aumento dei suicidi in carcere, denunciato nei giorni scorsi anche dal rapporto di Antigone, è la spia sul cruscotto di un malessere che non può e non deve essere ignorato. “So che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta già muovendosi per favorire un maggior controllo che possa cogliere elementi, sintomi o segnali indicativi di un rischio - dice Palma ad Avvenire -. Ma non può farlo da solo, perché a volte è davvero difficile “leggere” quei piccoli elementi. Comunque il Dap ha elaborato una circolare che dovrebbe essere arrivata negli istituti penitenziari fra ieri e oggi”. Cosa prevede la circolare? Da quel che so, indica di perseguire un approccio multidisciplinare. Occorre urgenza, perché non basta la sorveglianza fissa, non è sufficiente mettere un agente penitenziario davanti a ogni cella, perché non puoi vigilare su tutto e tutti. Cosa si può fare allora, Garante Palma? Intanto, dietro ogni suicidio ci sono drammi esistenziali personali ed è semplicistico pensare che situazioni così si possano prevenire totalmente. Se si guarda la tipologia delle persone decedute, si vede che spesso sono o persone appena entrate e con anni da scontare a causa di una sentenza oppure anche detenuti a cui manca poco per scontare la pena… Perché chi è appena entrato o chi sta per uscire decide di togliersi la vita? Perché spesso il suicidio è un “prodotto” di una cultura, chiamiamola così, che fuori dal carcere tende ancora a giudicare gli ex detenuti come irredimibili, che appioppa loro lo stigma del “tanto quello è un ex carcerato, un delinquente, non può cambiare” e quindi “non lo riassumo o non lo prendo a lavorare con me”. Un modo di pensare con cui ogni ex detenuto si scontra. E così, anche chi sta per uscire può essere colto dall’angoscia di doversi confrontare con una società che potrebbe respingerlo e cade in depressione, fino al suicidio. Cosa deve cambiare nella società? Questo modo di pensare. Finché il carcere viene percepito come un luogo che segna le persone in questo modo, un luogo di “non speranza”, finché la cultura esterna al carcere è centrata sul castigo e sullo stigma, allora determinerà per chi entra un penitenziario il senso di essere caduto in baratro e per chi sta per uscire l’ansia di non poter riavere una vita degna. E dentro il carcere, invece? Ci sono, nella situazione attuale degli istituti, cause che possano incidere sui drammi personali, come il sovraffollamento ad esempio? Certamente le celle piene, il caldo hanno un rilievo: tutti gli anni, in estate il numero dei suicidi ha un picco verso l’alto. Ma io non sono molto convinto che il sovraffollamento abbia un peso decisivo. Come ho detto, credo che invece pesi molto il macigno della “irredimibilità” caricato sulle spalle di chi è stato dentro e che si è accentuato non tanto nella cultura dell’amministrazione penitenziaria, che è più accorta di prima, quanto nella cultura della società. Noi dobbiamo interrogarci molto all’esterno, sui suicidi dietro le sbarre, e invece facciamo le solite quattro urla sul fatto che il carcere non funziona. Questo in buona parte è vero, ma non concordo sul fatto di attribuire al malfunzionamento del sistema detentivo la sola ragione dei suicidi. La responsabilità, in parte, è anche di noi che stiamo fuori, del modo di pensare comune. Voi effettuate visite nei penitenziari. Oltre ai suicidi, quali sono le altre emergenze? Le violenze sui detenuti denunciate in diverse carceri in questi anni sono cessate? In generale, attualmente in carcere il clima è molto violento, anche fra gli stessi detenuti, con episodi gravissimi come l’uccisione di un recluso a sgabellate, a Sassari. Credo che nel post-Covid sia cresciuto il tasso di aggressività, anche all’esterno. E nel carcere, il caldo e la vicinanza eccessiva fanno da amplificatore. Inoltre, ritengo che si debba anche lavorare per ridurre la circolazione sotterranea di stupefacente in carcere: ho la sensazione che ne giri ancora molto. Come si può far scendere quel tasso di malessere e di aggressività latente? Gli interventi possibili sarebbero molti. Uno può essere quello di favorire di più i contatti dei detenuti con le famiglie, coi loro cari, con quei legami esterni per i quali provano affetto. Perché è vero che, vedendo la famiglia, si ha il rimpianto di non essere fuori, ma cresce anche la speranza di poter tornare fra persone amate. Ecco, per ridurre il dramma dei suicidi, nel carcere bisogna far entrare la speranza, bisogna alimentarla. Indipendentemente dall’idea che si ha della pena, dovremmo fare in modo che la persona detenuta non si senta un vuoto a perdere, che percepisca di essere ancora parte della collettività. Samuele Ciambriello: “Il carcere è un luogo senza senso, bisogna riflettere” di Rossella Grasso Il Riformista, 6 agosto 2022 Sossio, 50 anni, di Frattamaggiore, ha deciso di togliersi la vita impiccandosi. Lo ha fatto mentre era in carcere ad Arienzo, in una notte di mezza estate, solo nella sua cella. La sua morte si aggiunge a quella di altri 44 detenuti che dall’inizio del 2022 hanno deciso di togliersi la vita. Una vera strage che sta avvenendo dietro le sbarre: in soli sette mesi sono già 46 le persone che hanno deciso di farla finita nelle carceri italiane. E potrebbero essere ancora di più se si contano anche le morti in carcere su cui sono ancora in corso le indagini. Ancora un suicidio in queste calde carceri italiane. In mattinata si è tolto la vita un giovane di 26 anni recluso nell’istituto penitenziario di Frosinone. Lo riferisce l’associazione Antigone che ricorda come quello di oggi sia il quarantaseiesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Il ragazzo era in attesa di essere trasferito nel carcere romano di Rebibbia. La morte di Sossio è avvolta nel mistero. A darne notizia è Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. “È il terzo suicidio in Campania dall’inizio dell’anno, in Italia si è arrivati a 46 - ha detto il garante dei detenuti della Campania - Ci potremmo domandare il perchè il detenuto Sossio di 50 anni ha deciso di togliersi la vita in un carcere piccolo di dimensioni, in una cella singola. Qui era arrivato il 9 luglio da Poggioreale. Ci potremmo fermare alle responsabilità di singoli o responsabilità collettive, ma occorre andare oltre. Il carcere, luogo senza senso e a volte senza elementi relazionali per riprendersi la vita, subisce i rumori populisti delle persone e il populismo politico, alla rincorsa del consenso. E se ci aggiungiamo che non sono evidenti nemmeno i timidissimi provvedimenti deflattivi disposti dal Governo, allora la frittata è fatta”. Un suicidio avvolto nel mistero perché il carcere di Arienzo è più piccolo, meno affollato e lì ci sono tante attività. “Sossio doveva scontare un reato piccolo, su di lui c’era attenzione. Ma forse la sua fragilità ha prevalso”. La salma, posta sotto sequestro, su disposizione dell’autorità giudiziaria è stata oggi trasportata all’obitorio dell’ospedale di Caserta, dove lunedì prossimo avverrà l’autopsia. In Italia, dall’inizio dell’anno ad oggi, sono 79 i decessi all’interno delle carceri; 8 di questi sono avvenuti in Campania e per due di questi la magistratura ha aperto un’inchiesta per accertarne le cause. “Non sappiamo cosa sia successo e perchè Sossio abbia deciso di togliersi la vita - dice Emanuela Belcuore, garante dei detenuti di Caserta - Potrebbe aver avuto dei problemi personali. Poi il caldo toglie l’aria. Certo è che d’estate i suicidi in carcere aumentano”. Altri 2 suicidi in cella in un solo giorno. Le chiamate carceri, ma sono patiboli di Piero Sansonetti Il Riformista, 6 agosto 2022 Nelle galere italiane 47 morti suicidi nel solo 2022, più o meno il numero delle esecuzioni capitali in un anno in tutti gli Stati Uniti. Non conosco il suo nome, so che aveva 26 anni. Era un ragazzino. Stava in cella in un carcere di Frosinone e aspettava che lo trasferissero a Rebibbia. Tra la prigione e la morte ha scelto la morte, non ce la faceva più di stare rinchiuso. S’è ucciso. Come pochi giorni fa si era uccisa, nella prigione di Verona, una sua coetanea, accusata di piccoli furti e tossicodipendente. È una strage quella dei tossicodipendenti. Che sono un terzo dei prigionieri. Li acciuffano e li sbattono dentro. Lo sanno che sono soggetti debolissimi? Le conoscono le loro sofferenze? Sono al corrente della fragilità, della possibilità che non reggano dietro le sbarre? Chissà. Del resto la legge è legge e non puoi farci niente. Se hai sbagliato paghi. Anzi, paghi anche se non hai sbagliato ma il Pm pensa che tu sia colpevole. Magari, invece, potresti anche farci qualcosa, ma nel clima politico instaurato negli ultimi quindici anni in Italia, tra partito dei Pm e Cinque Stelle e giornali alla coda di Travaglio, è meglio che non ci provi nemmeno a far prevalere ragione e coscienza, sennò ti mettono nel tritacarne. Qualche giudice di sorveglianza onesto e coraggioso ha provato qualche volta a ragionare, gli hanno dato del mafioso. Poche ore dopo la morte del ragazzo a Frosinone c’è stato un altro suicidio. Nel carcere di Arienzo, provincia di Caserta. Un uomo di cinquant’anni. Credo che sia addirittura il suicidio numero 47 dall’inizio dell’anno. E noi lo sappiamo solo grazie al lavoro di vigilanza del Garante dei detenuti e di Antigone. Altrimenti il silenzio sarebbe assoluto. 47 morti suicidi, più o meno è il numero delle esecuzioni capitali in un anno in tutti gli Stati Uniti. Chiamatele pure carceri, se volete, prigioni, reclusori. Sono bracci della morte, sono patiboli. Il carcere così non ha nessun senso. È solo uno strumento di vendetta, per dare un po’ di gusto ai “buoni”, alle persone legali, per soddisfare i forcaioli, per mettere al sicuro le pulsioni repressive dei partiti. Ma la civiltà? Il diritto? Si faccia fottere la civiltà. Specie sotto elezioni. Ora bisogna raccogliere voti, non scherziamo, mica si raccolgono voti coi principi di civiltà. Lasciate che si suicidino, che poi se lo fanno ne avranno qualche ragione, no? Propaganda e divisioni. Cosa resta dell’era Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 6 agosto 2022 Un anno e mezzo. Tanto è durata la parentesi Cartabia sulla giustizia. Buoni risultati, qualche forzatura, ma certo un clima mai visto prima. Caduto il governo, siamo al punto di partenza. Come in un lunare gioco dell’oca politico. Siamo stati di nuovo alle prese con la Lega e il Movimento 5 Stelle che si opponevano in coro ai decreti attuativi sul penale in materia di carcere, salvo poi votare insieme al resto della maggioranza. Poi al Senato si è ricreato il sodalizio sulla giustizia fra pentastellati e Pd, unici a chiedere di inserire il durissimo testo sull’ergastolo ostativo fra le leggi da salvare a Camere sciolte. In generale, un clima da liberi tutti, in cui la materia penale torna a essere comodo scivolo da propaganda. Addio al clima che ha consentito di portare a casa tre ddl delega, su civile, penale e Csm. Tutto normale, direte. Sì. Ma anche un po’ deludente. La svolta - non priva di ombre, certo, soprattutto sul processo civile - impressa dall’arrivo di Cartabia a via Arenula è svanita immediatamente. Le sopravvivono poche propaggini, a cominciare dalla presenza di un giudice illuminato come Carlo Renoldi alla direzione delle carceri. O dai ricordati passaggi del testo attuativo sul penale, dalle novità positive su altri versanti, come il diritto di famiglia. Ma intanto, già il decreto che riforma anche l’esecuzione della pena ha richiesto, per ottenere il via libera in Consigli dei ministri, un inedito voto a maggioranza. E la scollatura esecutivo-partiti, in realtà, non nasce con questo regime straordinario da “affari correnti”. Già a inizio legislatura, nell’era gialloverde, l’allora guardasigilli Bonafede si trovò isolato dalla propria maggioranza, quando Salvini gli cestinò in una mattina d’estate il primo, ormai dimenticato, tentativo di riforma della giustizia. Tutto torna alla casella iniziale. Come in un gioco dell’oca, appunto. Con una serie di coincidenze un po’ suggestive ma un po’ anche - anzi soprattutto - avvilenti. Altra obiezione inevitabile: vedrete che se solo riuscirà, nelle urne, ad affermarsi con chiarezza una sola delle due coalizioni principali, avremo un programma sulla giustizia chiaro, più semplice da realizzare di quanto non sia stato, per Cartabia, adeguarsi al Pnrr. Può essere che vada così. Ma pure di questo è legittimo dubitare. Prendete il centrodestra: su cosa concordano? Forza Italia ha idee diverse, sul penale e sul carcere, rispetto a Lega e Fratelli D’Italia. E anche se vincesse l’area Draghi a cui lavora il Pd, siete proprio sicuri che Di Maio e Speranza andranno a braccetto con Calenda e gli ex forzisti? Le bandierine sulla giustizia prevarranno sempre e comunque. Potremmo anche tollerarle. Se non fosse che il sistema del processo e dei diritti avrebbe ben altre priorità: managerialità nei Tribunali, investimenti nella formazione e in generale nelle risorse umane, digitalizzazione estesa a ogni ambito, strutture decenti. Tutti i partiti dicono di essere pronti a garantire anche questo. Ma c’è un problema: sventolare bandierine porta via tempo. Ruba lo spazio e le energie alle riforme, alle leggi e agli interventi amministrativi davvero necessari (e reclamati innanzitutto dall’avvocatura). Fare propaganda sul penale è un’attività intensissima, che richiede impegno, dedizione. Mica è uno scherzo. E voi dite che i partiti, chiunque sia il vincitore alle Politiche di settembre, già impegnati in attività cosi dispendiose, avranno davvero il tempo di occuparsi delle “questioni terra terra” di cui davvero la giustizia avrebbe bisogno? La giravolta di Lega e M5S sul nuovo processo penale: il sì tra silenzi, imbarazzi e strategie di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 agosto 2022 Dopo aver annunciato battaglia, grillini e leghisti hanno approvato la riforma del processo penale, incluse le tanto criticate norme sulle pene alternative al carcere. I telefoni dei responsabili giustizia dei due partiti ora squillano a vuoto. Avevano annunciato battaglia con fucili e bombe a mano (metaforicamente parlando), e invece si sono ritrovati a portare fiori, a esprimere consenso, per poi sparire, sperando di non farsi vedere da nessuno. Il sì dato da Lega e Movimento 5 stelle alla riforma del processo penale nel Consiglio dei ministri di giovedì sera rappresenta un piccolo mistero politico. Nei giorni precedenti all’approdo in Cdm del decreto attuativo della riforma del processo penale, predisposto dalla ministra Marta Cartabia, grillini e leghisti avevano minacciato la rivolta. Non che avessero i numeri per far saltare il banco (i rappresentanti gialloverdi in Cdm sono in minoranza), ma una sollevazione clamorosa contro il provvedimento, alimentata anche da alcuni organi di stampa, avrebbe potuto costringere la Guardasigilli a fare un passo indietro, considerata anche la necessità del governo Draghi di evitare fratture nella fase di “disbrigo degli affari correnti”. “Ci sono norme di attuazione come quelle sulla digitalizzazione del processo che vanno fatte di corsa. Se invece ci provano con le pene sostitutive ed altre schifezze che non servono certo a velocizzare i giudizi daremo battaglia”, dichiarava Giulia Sarti, responsabile giustizia dei 5 stelle, al Fatto quotidiano una settimana fa, invitando il governo a non presentare “norme divisive a Camere sciolte”. Le norme che consentono di accedere alle pene sostitutive al carcere per condanne sotto i quattro anni, alla fine, sono state inserite nel decreto legislativo (in attuazione della delega) e sono pure state approvate dal M5s in Cdm. Da giovedì sera, il cellulare di Sarti squilla a vuoto. Dal Movimento non è giunta nessuna presa di posizione, nessun commento, nessuna dichiarazione. L’imbarazzo è totale (persino dalle parti del Fatto, che non ha neanche pubblicato la notizia dell’approvazione del decreto legislativo). Interpellato dal Foglio, Eugenio Saitta, capogruppo grillino in commissione Giustizia, sembra cadere dalle nuvole: “Magari ci sono delle criticità tecniche che faremo valere nel parere che daremo in commissione”. Ma voi del M5s siete al corrente che i pareri non sono vincolanti? “Sì, ma possiamo comunque sollevare il tema”. La giravolta dei pentastellati sembra poter essere spiegata soltanto con la volontà di non apparire agli occhi dell’opinione pubblica, nel periodo di campagna elettorale, come il partito a cui attribuire la responsabilità della crisi di governo (che Giuseppe Conte ha fin dall’inizio scaricato sullo stesso Draghi e sul centrodestra). Anche Matteo Salvini e i suoi hanno sempre criticato ogni ipotesi di ampliamento delle possibilità di accedere alle misure alternative al carcere, nel nome della certezza della pena. Eppure, anche i rappresentanti del Carroccio giovedì sera hanno votato sì al decreto Cartabia, che va esattamente nella direzione opposta: in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno il giudice potrà applicare una pena pecuniaria sostitutiva; in caso di condanna non superiore a tre anni potrà essere applicato il lavoro di pubblica utilità; in caso di condanna non superiore a quattro anni potranno essere concesse la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare. Anche in questo caso, dopo il sì in Cdm, dai vertici della Lega bocche cucite. Nessun commento di Salvini, né tantomeno della responsabile giustizia del partito, Giulia Bongiorno, pure lei irraggiungibile. Nessuna reazione neanche sulla parte del decreto riguardante la giustizia riparativa, da sempre oggetto di critiche dai leghisti. Ma se la giravolta grillina è da legare anche a un Movimento allo sbando, per la Lega il discorso è diverso. Da queste parti già si guarda a una possibile vittoria del centrodestra alle elezioni politiche, e alla possibilità quindi anche di intervenire per eliminare le parti della riforma Cartabia ritenute inaccettabili. Non sarebbe una novità. Il 17 marzo 2018, subito dopo le elezioni, il governo uscente guidato da Gentiloni varò in Cdm uno schema di decreto legislativo della riforma dell’ordinamento penitenziario che alzava a quattro anni la soglia per la concessione delle pene alternative al carcere, provocando le ire di Salvini: “Vergogna, un governo bocciato dagli italiani approva l’ennesimo salva-ladri! Appena al governo cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!”. Detto fatto. Il primo governo Conte, sostenuto dai gialloverdi, riscrisse le norme in senso giustizialista. Esattamente ciò che potrebbe riaccadere in caso di trionfo alle prossime elezioni dell’asse securitario Lega-Fratelli d’Italia. Perché il tema della giustizia (e della lotta al giustizialismo) dovrebbe essere centrale alle elezioni di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 6 agosto 2022 C’è una clamorosa assenza nell’infuocato dibattito elettorale: la giustizia. La questione assume un valore enorme se si considera che le destre qualora vincessero affosserebbero la riforma Cartabia (perdendo i soldi europei stanziati). E soprattutto cercherebbero, con una legge di riforma costituzionale, di sottrarre l’Italia dagli impegni internazionali. Non è un gran novità, è una materia che solitamente sale alla ribalta solo in funzione strumentale, di polemica politica, e mai di un serio progetto di riforma. Fino ad oggi, almeno, giacché il Pnrr allestito dal governo Draghi ha reso necessario per usufruire dei fondi europei un profondo cambiamento sia dei codici penale e civile che delle stesse strutture giudiziarie. Dopo la riforma nel settore civile il Cdm ha approvato ieri (all’unanimità), oltre al Decreto Aiuti, gli schemi dei decreti legislativi attuativi della legge delega della riforma Cartabia relativi alla informatizzazione del procedimento penale, alla modifica della parte del codice di procedura regolante la fase delle indagini, al regime sanzionatorio e alla introduzione della mediazione sotto forma di “giustizia riparativa” (il confronto tra vittime e responsabili dei reati) che costituisce la novità principale. È questa l’ultima parte del piano Cartabia già approvato in alcune parti, come la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Per l’effettivo varo dei decreti attuativi ci sono da percorrere ulteriori passaggi, come l’approvazione delle commissioni giustizia di Camera e Senato che hanno tempo due mesi, e dunque è possibile che si slitti alla nuova legislatura con le incognite del caso. È forte infatti il timore di un ostruzionismo strisciante di Lega, FDI e Cinquestelle sulle parti della riforma che attengono alla modifica delle sanzioni e dell’esecuzione della pena. Si tratta di un’insieme di misure per ampliare l’area di applicazione delle cosiddette “misure alternative” al carcere (lavori sociali, detenzione domiciliare e così via) con lo scopo di deflazionare l’affollamento delle carceri, alcune delle quali in condizioni disumane. La mancata approvazione della riforma giudiziaria, che come ogni riforma italiana incontra di suo la preconcetta ostilità delle corporazioni colpite (avvocati, funzionari amministrativi e magistrati), comporterebbe la perdita dei finanziamenti concordati con la commissione europea. Stupisce dunque che l’argomento non sia all’ordine del giorno, ma in particolare che nel patto di alleanza elettorale riformista stipulato da Calenda e Letta non se ne faccia la minima menzione. Un silenzio che ha suscitato le forti perplessità di Enrico Costa di Azione, che ha espresso il timore che questi temi vengano sacrificati alle ragioni dell’alleanza anti-destra. Stupisce non tanto l’insensibilità della sinistra (ormai conclamata) verso il diritto e le carenze giudiziarie, ma soprattutto l’incapacità di comprendere la necessità di incalzare la destra proprio su questi temi. Perché oltre al tema della riforma Cartabia vi è un altro punto, segnalato qui da Amedeo La Mattina, che dovrebbe suscitare allarme e spirito polemico a sinistra: il disegno di riforma costituzionale dell’art.117 della Costituzione, con prima firmataria Giorgia Meloni. Per capirsi: è una proposta di due articoli con i quali si sottrae l’Italia all’obbligo di uniformarsi ai trattati ed alle convenzioni europee nonché a quello di dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Corte di Giustizia. Per averci provato sono finiti sotto procedura di infrazione, in tempi diversi, Polonia e Germania, a sottolineare che la questione non può essere sottovalutata. Sono in ballo diritti e garanzie, l’autonomia della magistratura, temi che non dovrebbero essere estranei alla cultura di sinistra ma che per qualche oscuro motivo sembrano messi nel dimenticatoio. Come scrive oggi di nuovo La Mattina, la buona notizia è che la proposta di legge Meloni non è stata inserita nella bozza di programma di governo del centrodestra. Eppure la riforma del codice di procedura penale contiene due punti a stretto indirizzo riformista: l’accelerazione verso l’informatizzazione totale del processo, una visione nuova della funzione della pena più incentrata sulla deflazione del carcere e il recupero dei soggetti più svantaggiati (tali sono nella maggior parte i detenuti nelle nostre carceri, poveri e immigrati). Si tratta non solo di un disegno coerente e con una idea organica dei cambiamenti da apportare ma anche di una inversione di marcia rispetto al giustizialismo dilagante degli ultimi tempi. La novità va ricercata nell’idea di incentivare definizioni anticipate e concordate dei procedimenti penali consentendo in via generale che le pene inferiori ai quattro anni siano scontate con misure alternative al carcere come detenzione domiciliare e destinazione a lavori socialmente utili. Per favorire questo obiettivo si anticipa la decisione sul punto al momento della sentenza di primo grado e non a quello della sua esecutività dopo appello e cassazione. Per contemperare e rispettare i diritti delle vittime viene introdotta una dirompente novità, come l’istituto della giustizia riparativa basato sul tentativo di dialogo tra imputati e parti offese sotto la guida di un mediatore professionale. È l’attuazione di un’esperienza sul campo che viene da lontano ed è nata dal confronto fra condannati per terrorismo e familiari delle loro vittime, raccontata efficacemente in un bel libro di Guido Bertagna, Adolfo Cerreti e Claudia Mazzuccato (Il libro dell’incontro), e nel magnifico reportage di Emanuel Carrere sul processo per la strage del Bataclan. Insomma, il giustizialismo è la diramazione giudiziaria del populismo, per dirla con Francesco Petrelli nel suo bel libro (Critica della retorica giustizialista), il tentativo infantile di fornire risposte semplici a problemi complessi, dunque un’esplosiva miscela politica che va disinnescata e che deve diventare tema della campagna elettorale di un moderno partito innovatore, se è questo che Pd, Azione, +Europa - e anche IV - vogliono essere. Ma vi è un ulteriore problema di cui ha parlato questo giornale e che potrebbe esplodere nel caso di vittoria del centrodestra: la riforma costituzionale dell’art.117 della Carta. La proposta di Giorgia Meloni di togliere l’obbligo per lo Stato italiano di dare esecuzione alle sentenze delle Corti europee della Cedu e di Giustizia, farebbe sprofondare l’Italia al livello di Polonia ed Ungheria, sottoposte a procedura sanzionatoria per i loro tentativi di mettere sotto controllo la magistratura tramite organi disciplinari nelle esclusive mani del governo. Qui il rischio è quello di disattivare sentenze che hanno difeso i diritti umani dei detenuti, delle vittime e dei soggetti vulnerabili, del principio di legalità ma ancora di più di radere al suolo il delicato equilibrio giudiziario che regola i rapporti tra le corti europee e le giurisdizioni nazionali. In base ad esso sono le Corti interne il giudice di ultima istanza che decide della compatibilità tra le sentenze europee e la propria Costituzione, un punto delicato per il quale la stessa Germania è entrata in conflitto con la Commissione europea, prima che la guerra congelasse tutto, anche i contrasti interni del governo dell’Unione Europea. Ma lo scopo ultimo della destra meloniana - è palese - è quello di mettere le mani sull’autonomia della giurisdizione ai più alti livelli. Il prossimo Parlamento, del resto, dovrà nominare ben quattro giudici costituzionali e basta pensare a quanto è avvenuto nella Corte Federale americana per cogliere l’importanza della questione, abbastanza almeno diventi uno dei temi della battaglia elettorale: come il populismo, il giustizialismo è un problema politico che un moderno partito riformatore deve affrontare e non eludere. Rossomando: “Sulla giustizia il Pd è pronto a battersi ancora per tempi certi e diritti” di Liana Milella La Repubblica, 6 agosto 2022 “A settembre è ancora possibile votare anche per l’ergastolo ostativo” dice la vicepresidente del Senato che chiede coerenza a tutti coloro “che hanno votato le riforme”. E al centrodestra che vuole cambiare tutto: “Non avranno il consenso degli italiani”. “Sulla giustizia, come sul fine vita e sull’ergastolo ostativo, c’è stato e ci sarà l’impegno del Pd per garantire i diritti dei cittadini”. Dopo il via libera del consiglio dei ministri, la responsabile Giustizia dei Dem Anna Rossomando attacca la destra: “Gravi responsabilità se non si completeranno le riforme”. C’è troppo poco carcere nella riforma penale della Guardasigilli Marta Cartabia? M5S promette critiche a settembre nelle commissioni di Camera e Senato... “Noi siamo molto soddisfatti dei tre pilastri della riforma, tempi ragionevoli del processo, incremento dei riti alternativi e pene anch’esse alternative al carcere possibili già con il processo. E condividiamo appieno la novità della giustizia riparativa. Tutti obiettivi fondamentali per il Pnrr, per i diritti delle persone, e condizioni indispensabili per accelerare il processo”. Quindi a lei piacciono lo spirito e il contenuto della riforma? “Noi lo avremmo accentuato ancora di più su pene alternative e giustizia riparativa, ma comunque siamo soddisfatti per questo risultato”. Ma cosa succede a settembre se M5S, nelle commissioni, vuole imporre delle modifiche? “Intanto chiariamo subito che quei pareri non sono vincolanti per il governo. Ma qui la questione è politica. Prima dell’irresponsabile crisi che porta la firma di tutti quelli che non hanno votato la fiducia al governo Draghi, possiamo vantarci di aver spostato l’asse politico dei 5stelle anche sulla giustizia, tant’è vero che hanno votato tutte e tre le riforme, mentre altri cercavano di affossarle. Noi continueremo a batterci perché la riforma penale, così com’è oggi, sia approvata entro il 19 ottobre, per rispettare gli step del Pnrr”. Ai 5S non vanno giù proprio gli aspetti che lei invece considera innovativi. Parliamo delle regole sulla “messa alla prova”, troppo ampia per loro fino a 6 anni, sulla giustizia riparativa, sulle pene sostitutive al carcere... “Intanto la messa alla prova è un istituto che già esiste, e funziona bene. Le pene alternative non vanno lette come l’assenza di sanzione, ma addirittura ne anticipano l’esecuzione, considerando il carcere come l’extrema ratio. E poi agli M5S ricordo che tutte queste innovazioni deflative sono la premessa per non far prescrivere i processi”. Lei è una avvocata, e quindi di certo condivide la stretta nella fase delle indagini preliminari in cui il pubblico ministero sarà obiettivamente meno libero di oggi nel gestire l’inizio del processo. Penso, ad esempio, ai tempi stretti per le notizie di reato... “Un pm meno libero? Qui il problema non è la libertà, ma la discrezionalità sui tempi delle indagini. Già nella riforma Orlando sul processo penale avevo presentato un emendamento per garantire all’indagato di non restare a tempo indeterminato nel limbo dell’indagine preliminare. Le norme di Cartabia adesso confermano questa linea”. Dica la verità, tutta questa stretta, come sostiene più di un giurista, serve a far da contraltare alla ben nota regola dell’improcedibilità, cioè la morte del processo dopo il primo grado se i tempi prestabiliti scadono? “Abbiamo sempre detto che l’obiettivo è garantire tempi certi e ragionevoli, proprio come ci chiede l’Europa. Va da sé che la prescrizione non può essere lo strumento per ridurre i tempi”. La Lega, con Giulia Bongiorno, si definisce “costruttiva”. Si stanno preparando, se la destra dovesse vincere le elezioni, a mandare all’aria le riforme Cartabia? “Il rinvio sine die sull’ergastolo ostativo, sul suicidio assistito, sui decreti attuativi del Csm dipingono un quadro fosco proprio per la responsabilità della destra. Ma io sono certa che anche per questo non avranno il consenso degli italiani. Noi del Pd, su queste tre riforme, sentiamo l’obbligo morale di andare avanti”. Significa che a settembre farete una battaglia per votare il nuovo ergastolo ed evitare che sia la Consulta a decidere da sola a novembre? “Noi siamo, ma eravamo, già pronti. E se non fosse caduto il governo saremmo andati avanti”. Sull’ergastolo c’è ancora un margine? “Sì, certo, è uno dei punti dell’ordine del giorno per settembre. Se c’è la volontà politica si può andare avanti. Ma, sia chiaro, che il Pd era pronto a farlo anche adesso”. Il caso di Elena, di Cappato, e il fine vita: siamo ostaggio delle destre che hanno fatto di tutto per ostacolare la legge? “Anche qui eravamo all’ultimo miglio, e se non fosse stato per l’ostruzionismo della destra, avremmo già approvata questa legge dopo l’importante lavoro fatto alla Camera. Questo è un tema che incide sulla pelle viva delle persone e la politica è tenuta a dare delle risposte. Noi siamo vicini a tutti quelli che soffrono, che sono senza colore politico, e che attendono una parola definitiva dal Parlamento”. “Md si impegnerà affinché ci sia sempre un giudice a Berlino” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 agosto 2022 Prosegue la conoscenza dei candidati al Csm. Oggi ospitiamo la dottoressa Domenica Miele, presidente di sezione penale della Corte di Appello di Napoli, candidata per Magistratura Democratica al Collegio 3 di Merito. Si candida al Csm post scandalo Palamara. Sarà quello della rigenerazione etica o il virus del carrierismo è ancora in giro? Sono in magistratura dal 1986 e non ricordo un periodo più buio di quello degli ultimi anni. Mai la perdita di credibilità ed autorevolezza della magistratura ha raggiunto un punto così basso. Dunque la rigenerazione etica è essenziale. È vitale, per la stessa tenuta dello stato democratico, che la magistratura recuperi, e soprattutto pratichi, il modello di magistrato disegnato dal legislatore costituente, soggetto solo alla legge e che si distingue solo per funzioni. Una magistratura orizzontale e non gerarchizzata, a differenza di quella tratteggiata dal legislatore del 2006/ 2008. Profilo che oggi si accentua per effetto delle recenti riforme: aumentano i “poteri” dei capi degli uffici, e, conseguentemente, il rapporto gerarchico tra magistrati, anche negli uffici giudicanti. Per depotenziare ‘ il virus del carrierismo’ i ruoli direttivi e semidirettivi devono essere ridisegnati quale effettivo servizio per l’ufficio in cui si lavora, valorizzando l’indispensabile e soprattutto reale interlocuzione con i colleghi prima di qualsiasi scelta organizzativa, nonché il concreto impegno nella giurisdizione oltre che nell’organizzazione. Il vostro programma per cosa si distingue? Si caratterizza per essere il portato dei valori che da sessant’anni difendiamo. Crediamo in una magistratura capace di auto- rigenerarsi. Crediamo sia necessario ampliare le fonti di conoscenza poste a base delle valutazioni di professionalità, evitando il rischio di autoreferenzialità. La politica giudiziaria deve sempre essere confronto tra plurali sensibilità che si riconoscono pari dignità di interlocuzione. Solo così l’autogoverno potrà recuperare autorevolezza. La parte della riforma sulle valutazioni di professionalità è stata molto criticata... Non c’è dubbio che il sistema delle valutazioni vada rivisitato, affinché rispecchi quanto più possibile la realtà e le peculiarità del lavoro del magistrato. È necessario ampliare le fonti di conoscenza con cui i Consigli giudiziari prima, ed il Csm poi, esprimono il loro parere. Una magistratura chiusa ed autoreferenziale è un danno per se stessa e per la democrazia. Trovo però particolarmente preoccupante l’enfatizzazione della ‘ tenuta della decisione nei successivi gradi di giudizio’. È evidente il rischio di un appiattimento sugli indirizzi maggioritari della Cassazione: ciò porterà ad una maggiore difficoltà a prospettare interpretazioni evolutive, o a raccogliere stimoli intellettuali dell’avvocatura volti a offrire una lettura costituzionalmente orientata, e che tenga conto degli indirizzi delle Corti europee, pur se contrastanti con la giurisprudenza prevalente. Il timore di annullamenti nei successivi gradi di giudizio rischia di mettere in discussione la stessa autonomia della magistratura. Sarà indispensabile fare attenzione alle scelte organizzative, che dovranno favorire un percorso di confronto all’interno dell’ufficio. La valutazione della cosiddetta “performance dell’ufficio” che, a cascata, diventa quella del singolo, con le previste ricadute disciplinari, rischia di incidere negativamente sulla qualità della giurisdizione. Ebbene, non v’è dubbio che le risposte alla domanda di giustizia debbano avvenire in tempi celeri, ma non bisogna mai trascurare il profilo essenziale della loro qualità. Un tema che sta molto a cuore ai nostri lettori è quello dei Consigli giudiziari, perché la riforma prevede il voto del Coa nel momento delle valutazioni... L’ampliamento delle fonti di conoscenza è sempre un valore aggiunto. Il contributo dell’avvocatura è già previsto dal legislatore del 2006/ 2008, che ha introdotto l’interlocuzione obbligatoria con il Coa per i pareri di conferma dei direttivi e dei semidirettivi. Non si tratta quindi di una novità assoluta, ma di un ampliamento di una forma di partecipazione, già in essere per determinate valutazioni. Personalmente in quattro anni di lavoro in Consiglio giudiziario non ho riscontrato alcuna criticità in tale ambito. L’interesse comune di magistratura ed avvocatura è il buon funzionamento del “servizio giustizia”, obiettivo che va perseguito in maniera sinergica e certamente reciproca. Prevedete di ‘dar conto alla collettività degli obiettivi perseguiti, delle risorse impiegate e dei risultati raggiunti’ all’interno degli uffici giudiziari. Una sorta di bilancio sociale? Più che di un bilancio sociale, parlerei di verifica in concreto di ciò che si è fatto e di ciò che si sta facendo. Il Csm deve essere una casa di vetro, le scelte e le decisioni prese devono essere sempre motivate e le motivazioni devono essere pubbliche, nella organizzazione degli uffici e in quella concreta del lavoro giudiziario è necessario che i risultati raggiunti siano sempre verificati e verificabili. Scrivete: ‘La causa di improcedibilità introdotta dalla riforma del processo penale rischia di abbattersi sugli Uffici giudiziari di secondo grado e di travolgerli’. Che fare per non far morire i processi? È indispensabile procedere in tempi brevi alla revisione degli organici delle Corti, non solo con riferimento al numero di magistrati ma anche e soprattutto con riferimento al personale amministrativo. Senza cancellieri che possano garantire l’assistenza alle udienze e gli adempimenti necessari a fare ‘ camminare’ i processi è chiaro che qualsiasi riforma rischia di tradursi in operazione di facciata che non ha alcun ritorno utile per i cittadini, che hanno diritto ad una decisione nel merito. L’improcedibilità certo abbatte i numeri, ossia le pendenze, ma rischia di trasformarsi in un danno per il cittadino. A mio parere tuttavia tali interventi non possono prescindere da interventi strutturali, sostanziali e procedurali, volti a rendere effettiva la risposta giudiziaria, aprendo un tavolo di confronto tra tutti gli operatori del diritto, ivi compresa l’Accademia, anche al fine di verificare l’attualità della rilevanza di alcune norme frutto di una sensibilità giuridica ormai lontana nel tempo. Tra i vostri obiettivi c’è il ‘recupero di un’autentica, autorevole interlocuzione del Csm con il ministero della Giustizia’. Cosa si aspetta dal nuovo Guardasigilli? L’articolo 97 della Costituzione assegna al ministero il compito di provvedere alle risorse necessarie per il funzionamento e l’esercizio della giurisdizione. Auspico che il prossimo ministro attui in concreto il dettato costituzionale, in sinergia e con un costante confronto con il Csm. L’obiettivo comune è il funzionamento della giustizia, nell’esclusivo interesse del cittadino e dello Stato democratico. Una giustizia che funziona, una giustizia realmente indipendente da qualsivoglia potere, è la prima tutela dei cittadini, e baluardo di garanzia delle democrazie occidentali nate dalla rivoluzione francese. E Md si impegnerà affinché ci sia sempre un giudice a Berlino che garantisca in maniera imparziale la tutela dei diritti dei più deboli. Avvocatura e intelligenza artificiale: l’ostruzionismo è una battaglia persa in partenza di Giampaolo Di Marco Il Domani, 6 agosto 2022 L’avvocatura non può essere terrorizzata dal sospetto che, forse, un algoritmo metta fuori mercato molti dei suoi membri. I sistemi di intelligenza artificiale possono essere utilizzati come strumenti di supporto dell’attività professionale e possono accrescere il valore aggiunto della professione, pur nella consapevolezza che vi sono problematiche da affrontare e possibili aree di rischio da prevenire. Quando si parla di innovazione tecnologica, intelligenza artificiale e digitalizzazione ciascuno è attinto da molte reazioni, determinate da fattori diversi. In molti casi, tuttavia, il minimo comune denominatore è un sentimento di smarrimento misto a paura. Proviamo ad arrivare ai giorni nostri partendo da qualche fatto storico significativo. Nella seconda metà del 1800, quando uscirono i primi esemplari di automobile, i cocchieri erano terrorizzati per il rischio di perdere il loro lavoro e protestarono vibratamene contro le automobili, accusate di essere pericolose e di spaventare cavalli e greggi. Il risultato fu che dopo molte pressioni nel 1865 riuscirono a far passare in Inghilterra una legge restrittiva, denominata “Red Flag Act”, che imponeva che ogni automobile in circolazione dovesse essere preceduta da una persona a piedi che sventolasse una bandiera rossa, al fine di segnale il pericolo rappresentato dall’autovettura. Era una misura chiaramente protezionistica e di spirito evidentemente luddista, che nel 1878 fu sostanzialmente abrogata e nell’arco di qualche decennio i cocchieri furono rimpiazzati dai tassisti. Nel 1901, poi, Antonio Cicu scriveva un saggio “Gli automi nel Diritto privato” nel quale si interrogava sul come un distributore automatico potesse rendere possibile l’esecuzione di una prestazione senza l’intervento dell’uomo, ritenendo fosse da approfondire tale utilizzo in ragione delle questioni giuridiche sottese, ma anche rispetto alle questioni economiche. La storia del “Red Flag Act”, o dei distributori automatici, è un esempio di pessima gestione dell’innovazione, che nasce dall’idea di poter fermare il progresso cercando di disconoscerne l’esistenza. L’innovazione va gestita - Venendo ai giorni nostri possiamo affermare che l’intelligenza artificiale è passata da essere un tema futuribile ad argomento di attualità e potrebbe seguirne la questione dell’(ab)uso corrente. In questi ultimi giorni abbiamo tutti assistito ad un “siparietto” mediatico estivo legato alla presentazione pubblica di un nuovo servizio realizzato da un’importante banca dati nazionale ed una multinazionale di marketplace, consistente nella possibilità di consultare la banca dati attraverso un assistente vocale (improvvidamente denominato “avvocato digitale”), rivolgendo anche semplici quesiti giuridici ad un assistente vocale. In questo “siparietto” è visibile, anzi tangibile, la su citata tensione, anche psicologica, fra il desiderio di cogliere le opportunità che l’IA può offrire alla classe forense ed i timori della sua implementazione. Ci si divide, infatti, tra coloro che intendono sfruttarla per migliorare il proprio lavoro e accostarsi a nuove possibilità e chi la teme per i molteplici rischi che il repentino affermarsi della stessa possa portare nel mondo professionale e più ancora nella giurisdizione. Nel caso di specie, tuttavia, si tratta di poco più che una funzione di ricerca sui contenuti della banca dati, mediata da un assistente vocale, ma tanto è bastato per scatenare una ridda di reazioni indignate e vesti stracciate. Il caso di Alexa - Ne emerge, dunque, un quadro sconsolante del sistema delle professioni, spaventate e malsicure, che si arroccano per difendere scampoli di rendite di posizione, incapaci di immaginare e costruire per sé nuovi ambiti di mercato e nuove competenze, investendo sulla crescita, sulla specializzazione, sulle nuove forme di esercizio delle professioni. Sono convinto che la storia delle professioni intellettuali, ed in particolare dell’avvocatura, non possa essere terrorizzata dal sospetto che, forse, un algoritmo metta fuori mercato molti dei suoi membri. I sistemi di intelligenza artificiale possono essere utilizzati come strumenti di supporto dell’attività professionale e possono accrescere il valore aggiunto della professione, pur nella consapevolezza che vi sono problematiche da affrontare e possibili aree di rischio da prevenire. Il “siparietto” di questioni di questi giorni involge, in realtà, un problema di fondo. L’assenza di un convinto orientamento nel sistema delle professioni del terzo millennio: organizzate, aggregate, concorrenziali, ma pur sempre ad alta intensità intellettuale, non degradata o degradabili a mero servizio o futuribili monadi. Sta alle professioni, in primis quella forense, decidere se rimanere cocchieri o provare a essere parte attiva della società in cammino verso i mutevoli confini del presente, disegnati dal futuro, divenendo parte del sistema che scrive le nuove regole e non spettatore passivo. Come spesso ripeto: il futuro non corre innanzi a te, ti viene incontro, sta a te avere la forza e la capacità di accoglierlo rispetto al passato, il quale altro non è che il futuro di allora che hai avuto il coraggio di vivere nel presente di ieri. Cade l’associazione a delinquere, liberi i sei sindacalisti Usb/Si Cobas di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 agosto 2022 Ieri la decisione del tribunale del riesame di Bologna. Revocati i domiciliari, resta l’obbligo di firma. Inizia a perdere pezzi il teorema della procura di Piacenza contro i sindacalisti Usb e Si Cobas arrestati il 19 luglio scorso. Ieri il tribunale del riesame di Bologna ha fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere e revocato i domiciliari per Issa Mohamed Abed, Mohamed Arafat Ali, Aldo Milani, Roberto Montanari, Carlo Pallavicini e Bruno Scagnelli. Per tutti resta l’obbligo di firma tre volte a settimana. Entro 45 giorni il giudice depositerà le motivazioni della decisione. A quel punto sarà possibile il ricorso in Cassazione, con la difesa che potrebbe chiedere la revoca anche dell’obbligo di firma. Nell’inchiesta sono coinvolti anche Fisal Elmoursi Elderdah e Riadh Zaghdane, contro cui non era stato disposto l’arresto. “La lotta paga. Avanti così finché non saranno liberi del tutto”, esultano i Si Cobas. “Esprimiamo soddisfazione per l’esito favorevole del riesame ma manteniamo inalterato il giudizio sul gravissimo operato della procura di Piacenza”, fa eco l’Usb. I sei esponenti dei sindacati di base sono stati protagonisti in questi anni delle lotte nel mondo della logistica che hanno fatto crescere diritti e salari tra i lavoratori del settore. La procura di Piacenza, non nuova a procedimenti contro le organizzazioni conflittuali, li ha accusati di associazione a delinquere, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e interruzione di pubblico servizio. In pratica sono finiti sotto accusa i picchetti davanti ai magazzini per impedire l’ingresso della merce, cioè il principale strumento di lotta dei sindacati di base, e i “troppi” scioperi convocati per migliorare le condizioni dei lavoratori. Per questo subito dopo gli arresti le due organizzazioni avevano denunciato: “Siamo accusati del reato di sindacato”. Alessandro Crisafulli, l’ex boss di Quarto Oggiaro: “Mi sentivo onnipotente, ero schiavo” di Roberta Rampini Il Giorno, 6 agosto 2022 Condannato all’ergastolo, il 58enne ha cambiato vita. “Con mio fratello non parlo. Se tornassi indietro sarei professore”. “Chi si avvicina alla criminalità pensa di essere libero. Si sente onnipotente. Senza regole, senza limiti. In realtà è schiavo di regole non scritte, spesso deve sottostare al volere di altri e a poco a poco perde la sua vita. Io ho quasi 58 anni: cos’ho? Sono stato condannato all’ergastolo, non mi sono potuto creare una famiglia. Da poco ho trovato l’amore e sto facendo la gavetta, il cameriere, come un giovane”. Alessandro Crisafulli, ex boss di Quarto Oggiaro che sta scontando la sua pena da 28 anni (“ora sono semilibero, da 3 anni nel carcere di Bollate”), oggi lancia un messaggio tutto diverso rispetto a quando spadroneggiava nel quartiere “sentendomi invincibile”. Con il mondo della criminalità ha tagliato ogni legame. “Non ho più rapporti neppure con mio fratello Biagio (detenuto, ndr). Non ci parliamo dal 2014”. Il rapporto si è incrinato dopo che Alessandro ha scelto di cambiare strada. “Non come collaboratore di giustizia: non ho avuto nessuno sconto. Sono pentito di quello che ho commesso in passato. Sono un’altra persona”. Negli ultimi mesi a Milano hanno tenuto banco le aggressioni tra rapper, regolamenti di conti, rapine e anche sequestri di persona. Incursioni di folle di giovanissimi che bloccano le strade per girare video e terrorizzano le persone. Tutto poi postato sui social. Un altro mondo rispetto a quello che conosceva... “Esattamente. Parliamo di epoche diverse. Ai miei tempi, negli anni Ottanta, i social non c’erano e l’ascesa era “silenziosa”: si faceva conoscere il proprio valore con azioni criminali eclatanti ma l’obiettivo non era certo quello di sbandierarle al mondo. C’era l’esigenza di mostrarsi, ma a pochi. A chi “doveva sapere”. Agli altri bisognava nascondere il più possibile, perché il rischio era di essere arrestati. Alla base però c’è sempre il sentirsi emarginati e la voglia di emergere. Soprattutto chi vive in periferia e ha poche possibilità rispetto ad altri cerca il riscatto”. Si ricorda il suo primo reato? “Altroché. Avevo 7 anni. Rubavo soldi a una signora anziana che mi apriva la porta di casa sua tutti i pomeriggi per farmi guardare la televisione. Avevo scoperto dove teneva le banconote e ogni giorno facevo sparire un biglietto da mille lire. Quando mi scoprì, mi denunciò a mia madre. Mia madre era l’unica persona perbene della famiglia. Per il resto, eravamo tutti criminali. Mio padre un contrabbandiere. Mio fratello Francesco, ucciso nel 2009, è finito sulla cattiva strada da giovanissimo. Io, il più piccolo, ero il braccio destro di Biagio, il secondogenito (detto dentino, il boss, ndr). Insieme abbiamo comandato lo spaccio di stupefacenti in quartiere. Penso che se fossi cresciuto in un ambiente diverso, oggi sarei un altro. In carcere ho preso il diploma, mi sono appassionato di calcio. Penso mi sarebbe piaciuto diventare un professore di filosofia”. È stato condannato all’ergastolo per due omicidi, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga e altri reati. Cosa ricorda del primo omicidio? “Tutto. Avevo 25 anni quando sparai a Roberto Messina, il 16 dicembre 1989. Spacciava con il nostro benestare ma comprava la droga anche da altri. Quando andai a rimproverarlo mi trattò “come un ragazzino”. Mi pento ogni giorno di ciò che ho fatto. Dopo il fatto mi sentivo onnipotente”. Quando ha iniziato il percorso di rinascita? “Nel 2009 ho iniziato il percorso con il Gruppo della trasgressione, che ha creduto in me. La vera svolta è stata quando ho conosciuto Alima, la mia compagna, che da “libera” ha messo piede in carcere per un tirocinio. Per me, che non posso spostarmi da Milano, sopporta anche il caldo d’agosto”. Arienzo (Ce). Suicidio in carcere: si uccide un cinquantenne edizionecaserta.net, 6 agosto 2022 Un detenuto di 50 anni ha deciso di farla finita impiccandosi nella sua cella. Quando è stato dato allarme era oramai troppo tardi, hanno anche provato a rianimarlo ma non c’è stato nulla da fare. Si tratta di Sossio Cicchiello originario di Frattamaggiore nel Napoletano. Il pm di turno ha disposto autopsia, a breve la salma sarà trasferita presso l’ospedale di Caserta a Medicina Legale, si attende solo di completare l’iter con le autorizzazioni. La salma è stata trasferita a Medicina Legale di Caserta. Per impiccarsi il 50enne ha utilizzato pezzi di lenzuolo, quelli più spessi dalla parte della cucitura. “È il terzo suicidio in Campania dall’inizio dell’anno, in Italia si è arrivati a 47. Ci potremmo domandare il perché il detenuto Sossio di 50 anni ha deciso di togliersi la vita in un carcere piccolo di dimensioni, in una cella singola. Qui era arrivato il 9 luglio da Poggioreale. Ci potremmo fermare alle responsabilità di singoli o responsabilità collettive, ma occorre andare oltre. Il carcere, luogo senza senso e a volte senza elementi relazionali per riprendersi la vita, subisce i rumori populisti delle persone e il populismo politico, alla rincorsa del consenso. E se ci aggiungiamo che non sono evidenti nemmeno i timidissimi provvedimenti deflattivi disposti dal Governo, allora la frittata è fatta!”, così Samuele Ciambriello, Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale commenta il suicidio nel carcere di Arienzo, avvenuto stanotte. La salma, posta sotto sequestro, su disposizione dell’autorità giudiziaria è stata oggi trasportata all’obitorio dell’ospedale di Caserta, dove lunedì prossimo avverrà l’autopsia. In Italia, oltre ai suicidi, dall’inizio dell’anno, sono 79 i decessi all’interno delle carceri; 8 di questi sono avvenuti in Campania e le cause di due di questi sono ancora in corso di accertamento. Conclude così il Garante Ciambriello: “Proprio ad Arienzo, insieme al Garante della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore, abbiamo potuto apprezzare buone prassi trattamentali sia all’interno dell’Istituto che all’esterno, attraverso la possibilità di lavoro per i detenuti. Noi Garanti volgiamo la nostra azione non solo per denunziare quello che non va, le compressioni dei diritti e delle garanzie dei detenuti, ma incoraggiamo e a volte promuoviamo azioni di prevenzione, progetti di solidarietà, di inclusione sociale per una pena costituzionalmente orientata. e per un carcere dove tutti i presenti, compresa la polizia penitenziaria, le direzioni, gli operatori socio- sanitari e i volontari si sentano uniti da un patto di responsabilità”. Verona. Suicida in carcere, le compagne di cella scrivono a Donatella: “Sorelle nell’anima” di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 6 agosto 2022 Si è tolta la vita inalando del gas. Era in carcere per piccoli reati legati alla droga. L’amica Mik: “Scusami se non ti ho saputa capire”. “Cara Donatella, è così che ci lasci... Ma come, non ci eravamo promesse di incontrarci fuori?”. Inizia così la struggente lettera che Ilenia, scarcerata dal penitenziario veronese di Montorio una quindicina di giorni fa, ha scritto a nome anche delle altre detenute in ricordo di Donatella, la 27enne che in preda a un momento di sconforto si è lasciata morire in cella inalando del gas dal fornelletto. Le fragilità - Una tragedia legata alla particolare fragilità di “Dona”, questo era il nomignolo con cui tutti la chiamavano affettuosamente, e purtroppo connessa anche ai problemi di dipendenza contro cui da tempo questa bella ragazza “innamoratissima del suo fidanzato Leo” stava lottando per uscirne del tutto. Purtroppo non ce l’ha fatta, nonostante il suo avvocato stesse lavorando per farle ottenere una misura alternativa al carcere dove si trovava rinchiusa per una serie di furtarelli commessi proprio per la droga: un dramma accaduto lunedì notte e su cui ora sta indagando la Procura che ha disposto l’autopsia, un tragico evento che ha destato sconcerto dentro e fuori dal carcere. “Buona ragazza” - “Sei sempre stata una buona ragazza, una mattacchiona - è la dolcissima lettera dell’ex compagna di cella Ilenia - ma hai tenuto sempre uno spirito allegro e ci hai fatto ridere tanto. Ci siamo conosciute nel 2016, sei stata la persona con la quale ho passato più tempo in quel posto. Ti ricordi la torta che ti preparai il tuo 26esimo compleanno, eri triste e disperata già allora ma tu mi promettesti che ce l’avresti fatta con tutte le tue forze”. “Il sistema ti ha risucchiato” - Secondo le compagne di cella di Donatella, “questo sistema ti ha risucchiato. Quante guerre dentro di te, non c’è niente di più doloroso che pensare ai tuoi occhi e al tuo sorriso, alla tua giovane età e ai tempi trascorsi a lottare per riavere la libertà. Non meritavi per piccole cose tutto questo tempo rinchiusa. All’improvviso hai deciso di salutarci, e noi ora dovremo rassegnarci al fatto che non tornerai più. Ci manchi già tanto, saremo sempre sorelle nell’anima”. Strazianti anche le parole di Mik, amica tra le più affezionate a Dona: “Conosco il male che ti portavi dentro - le ha scritto - Ma così no.. Decidere di andarsene di notte in una cella... Perdonaci.. Per non aver saputo capirti, aiutarti... Saremo in tanti a prenderci cura del tuo Leo, te lo prometto”. Al suo Leo, Donatella ha lasciato in cella una dedica traboccante d’amore: “Sei la cosa più bella che poteva capitarmi, scusami se me ne vado così”. Fidanzato sotto choc - Travolto dal dolore nella casa che avevano preso in affitto per convivere, Leo è sotto choc: “Ti avrei aspettata per sempre, perché mi hai lasciato solo?”. Dolore, incredulità sconcerto ma anche riflessioni: sono quelle della polizia penitenziaria di Verona che punta il dito sulla piaga della droga. “In questa tremenda estate di suicidi in carcere, questo a Montorio rileva una verità che in tanti vorrebbero occultare: le droghe sono la causa del 35% dell’ingresso in carcere”. Lo afferma il segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo: “La presenza di detenuti definiti “tossicodipendenti” resta ai livelli più alti degli ultimi 15 anni, sono circa 18mila, poco meno del 30% del totale. Quanto alla prevenzione suicidi - ha aggiunto l’esponente sindacale della polizia penitenziaria -, l’altissimo numero raggiunto sinora (44 dall’inizio dell’anno, due nelle ultime 48 ore) deve passare dai “bla bla bla” ad un piano nazionale in tutti gli istituti”. Roma. Una cella da terzo mondo a Regina Coeli: esposto del Garante in Procura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2022 L’unica finestra è sigillata, il materasso è lercio e ricoperto di fogli di giornale, ci sono colonie di formiche e gravissime condizioni igieniche: ecco cosa hanno scoperto le garanti Daniela de Robert ed Emilia Rossi. Al carcere di Regina Coeli c’è una cosiddetta cella liscia ridotta in una situazione di grave degrado. L’unica finestra presente è sigillata, creando, soprattutto in questo periodo caldo, una temperatura a dir poco insopportabile. Il lavabo colmo di acqua sporca che non scende, così come lo scarico del water non funziona creando problemi ovvi alle condizioni igieniche. Il materasso è lercio e ricoperto con fogli di giornale. Ci sono delle colonie di formiche e le pareti sono sporche di materiale organico. Queste le condizioni rivelate il 18 luglio scorso dalla delegazione del Garante nazionale, composta da Daniela de Robert ed Emilia Rossi, componenti del Collegio dell’Autorità di garanzia, che ha effettuato una visita ad hoc alla Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma per verificare le condizioni della Sezione VIII. Nel corso della visita, la delegazione ha verificato che la stanza numero 1 si presentava in condizioni di totale degrado strutturale, mancanza di igiene e insalubrità assoluta. Uno stato tale, così sottolinea il rapporto appena reso pubblico dal Garante nazionale delle persone private della libertà, da non consentire la permanenza di una persona senza violarne gravemente la dignità e la salute. Un detenuto, dopo un tentativo di suicidio, vi soggiornava da tre giorni - Il rapporto rende così noto che nella stanza era presente il signor (omissis] che vi soggiornava da tre giorni, da quando cioè era stato trasferito da un’altra camera priva di suppellettili della sezione VII a seguito di un tentativo di suicidio. A tale proposito, il Garante osserva nel rapporto che desta perplessità la catalogazione nell’Applicativo degli Eventi critici di quanto avvenuto come tentativo di suicidio dato che - come scritto nell’evento (codice n. 976624) il signor si stringeva al collo un lenzuolo “in presenza del Comandante di Reparto e di un Commissario”. Più che un tentativo di suicidio, secondo il Garante, l’episodio appare un gesto di protesta. Ma quale sarebbe la finalità di questa cella? Secondo quanto riferito dalla Direzione della Casa circondariale, la stanza numero 1 comunemente chiamata dal personale “cella liscia”, è destinata alle persone sottoposte ad alta o grande sorveglianza: persone in stato di acuzie psichica o a rischio di suicidio o con comportamenti di difficile gestione per problemi di disturbi del comportamento o di disagio psico-sociale. L’assegnazione a tale stanza, non limitata ai tempi necessari alla riduzione di un episodio di acuzie, ma protratta per tutti i giorni prescritti per la sorveglianza speciale, viene disposta - secondo quanto riferito dalla Direzione - dagli psichiatri dell’Area sanitaria. “A voler anche prescindere dal rilievo che una stanza senza suppellettili possa essere adibita a collocazioni più lunghe di quelle - contenute nel massimo di poche ore - destinate a trattare casi di acuzie, le finalità di prevenzione del rischio suicidario e la prescrizione dell’assegnazione a essa proveniente da un sanitario, risultano oggettivamente e gravemente in contrasto con lo stato della stanza rilevato dalla delegazione in visita”, viene osservato nel rapporto. Il Garante ha rilevato gravi criticità igienico-sanitarie - Sotto il profilo delle condizioni materiali e igienico-sanitarie, il Garante nazionale ha constatato diverse gravi criticità. La sigillatura dell’unica finestra presente, con conseguente mancanza di passaggio di aria, che nell’attuale stagione calda, determina una temperatura oggettivamente insopportabile, nonostante l’apertura della porta blindata; il non funzionamento dello scarico del water, perdurante da giorni, che, oltre alle intuibili conseguenze igieniche, comporta la necessità per la persona che occupa la stanza di utilizzare l’acqua del lavabo per il necessario scarico del water, versandola - secondo quanto ha riferito alla delegazione - con i piatti di plastica usati dei pasti; - il malfunzionamento anche dello scarico del lavabo che si presentava, infatti, colmo di acqua sporca. A ciò si aggiunge il materasso della branda fissata al pavimento - che costituisce l’unico elemento di arredo della stanza, priva anche di un tavolino e di uno sgabello per consumare i pasti - che si presentava lacero, consunto e sporco; la mancanza di corredo del letto, sia pure nel materiale antilesivo del tessuto-non tessuto (di cui era stato consegnato in dotazione un solo telo, ormai consunto): per procurarsi un minimo di protezione dalla sporcizia e dall’insalubrità del materasso, la persona detenuta aveva parzialmente coperto il materasso con dei fogli di giornale. Non solo. La delegazione ha rivelato la presenza di una colonna di formiche che si allungava lungo sopra il water e di formiche sparse nella stanza; le pareti imbrattate per tutta la loro estensione di macchie di varia natura, anche organica. Per la direzione c’è la necessità di utilizzarla in funzione anti suicidaria - La delegazione ha constatato anche che i pavimenti del servizio igienico e della stanza, su cui, tra il resto, erano appoggiati - in assenza di appoggi di alcun tipo - i piatti del pasto consumato, erano ricoperti di sporcizia accumulata, evidentemente, da tempo. Nel rapporto, il Garante osserva che alle condizioni materiali osservate, poste all’immediata attenzione del personale di Polizia penitenziaria perché si attivassero almeno gli interventi di immediata necessità come la riparazione degli scarichi dei servizi igienici e la rimozione del formicaio, e a quelle ambientali e igieniche, si aggiungono le criticità della vita detentiva riportate dalla persona che occupava la stanza: nessuna uscita ai passeggi, nessun accesso alle docce nei tre giorni di permanenza trascorsi in tale stanza dalla persona al momento della visita. Nell’incontro che è seguito con la Direzione, la stessa direttrice Claudia Clementi insieme alle vicedirettrici Ida Passaretti, che aveva raggiunto la delegazione in sezione nel corso della visita, e Alessandra Bormioli, hanno espresso consapevolezza della situazione riscontrata. Hanno tuttavia affermato la necessità di utilizzare tale stanza e le altre analoghe (presenti nella sezione VII) per la mancanza di altri locali disponibili in funzione della finalità anti suicidaria cui essa è destinata e di contenimento di persone che per il loro comportamento siano incompatibili con le altre persone detenute. Il Dap dopo la segnalazione del Garante ha disposto subito una bonifica - Il Garante nazionale, scrive nero su bianco nel rapporto, ritiene inaccettabile tale affermazione che è in contrasto con il principio n. 4 delle Regole penitenziarie europee, che stabilisce che “Le condizioni detentive che violano i diritti umani del detenuto non possono essere giustificate dalla mancanza di risorse”. Esprime profonda perplessità sull’uso sistematico - a quanto riferito - di tale stanza per affrontare situazioni di fragilità psico-sociale. “Considerata la violazione di tutti i parametri di vivibilità delle stanze di pernottamento, dettati dalle norme nazionali e sovranazionali anche a tutela della dignità della persona, nel quadro degli obblighi inderogabili dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu), Il Garante nazionale ha ritenuto opportuno informare la Procura della Repubblica di Roma”. Il Dap, appena ha ricevuto la segnalazione dal Garante, ha disposto subito una bonifica della cella. Milano. Ex detenuto crea “41Bus” per accompagnare i parenti a trovare i carcerati di Simone Giancristofaro fanpage.it, 6 agosto 2022 Bruno Palamara è stato arrestato per droga a 23 anni. Dopo quattro anni in carcere ha cambiato la sua vita: ha fondato 41Bus, un servizio per i familiari dei detenuti che hanno difficoltà a raggiungere le carceri. Bruno Palamara ha passato quasi quattro anni in carcere, dopo essere stato arrestato per droga a 23 anni. Nel carcere di Voghera ha iniziato un percorso personale di crescita che lo ha portato a interrogarsi su come cambiare la sua vita. Da qui nasce 41Bus, un servizio per i familiari dei detenuti che hanno difficoltà a raggiungere le carceri dove sono rinchiusi i loro cari. Per ora il servizio è attivo su Opera e sul carcere di Voghera, dove Bruno ha scontato l’ultimo periodo di detenzione. Da 41Bis a 41Bus - “Mi sono accorto che il problema principale per detenuti e familiari sono i colloqui. Il colloquio è un evento, la cosa più importante, da lì ho avuto un’idea perché non tutte le carceri sono bel collegate con i mezzi pubblici”, racconta Bruno a Fanpage e arrivare anche solo con cinque minuti di ritardo può mettere a rischio un colloquio atteso da un mese. Aiutato dai suoi legali, Bruno ha creato la piattaforma 41Bus che spera crescerà fino a servire altre carceri. Proprio confrontandosi con loro è nato il nome del progetto, che strappa un sorriso cambiando la vocale di 41Bis, il regime carcerario rivolto soprattutto agli appartenenti delle organizzazioni mafiose. “Non volevo mettere un nome pesante, quindi parlando con le persone che hanno collaborato al progetto perché non 41Bus? Sono proprio 41 le carceri che abbiamo studiato” spiega Bruno, “voglio creare leggerezza per tutti quei bambini figli dei detenuti e per le donne che devono ogni volta entrare in carcere”. “Ho trasformato un fallimento in una vittoria” - Gli anni passati dentro sono stati per Bruno un’occasione di crescita, iniziando a leggere - “Non leggevo dalla prima media o forse nemmeno allora” scherza sugli anni scolastici - studiare, dimagrire - “Pesavo 110 kg” - e smettere di fumare. “Mi sono messo in discussione, ho colto questo tempo che avevo a a disposizione, l’ho sfruttato, non mi sono arreso, non ho passato il tempo su un letto a guardare magari la televisione. Mi è stata data una seconda possibilità, possono nascere belle cose” come 41Bus. Dopo essere uscito da Voghera, Bruno ha deciso di fare qualcosa per facilitare la vita dei familiari dei detenuti ma anche per se stesso, scommettendo sulle sue capacità di fare impresa, rimanendo però legato al posto che l’ha fatto maturare: “Per questo non voglio dimenticare il carcere” dove Bruno ha piantato il suo seme. Modena. Sant’Anna è un inferno: “Detenuti in cella a oltre 40 gradi, alcuni senz’acqua” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 6 agosto 2022 Se I cittadini faticano quasi a camminare per strada, attendendo le ore più fresche per uscire pare sia invece scattata l’emergenza all’interno del carcere Sant’Anna. Infatti il caldo, nelle celle, sarebbe insopportabile e nelle ore più a rischio le temperature supererebbero i quaranta gradi. Non solo: in alcune celle saltuariamente mancherebbe anche l’acqua. A lanciare l’allarme è in primis l’associazione Antigone che, nel rapporto di fine anno, fa il punto sulle condizioni di detenzione in Italia sottolineando proprio la situazione divenuta insostenibile in diverse carceri italiane proprio a causa di temperature record. I detenuti faticherebbero anche a dormire la notte e la difficile e forzata convivenza nel penitenziario, con temperature al limite appunto, sarebbe causa di frequenti liti e dissidi. ‘Tensioni’ che si trovano poi a dover smorzare gli agenti della polizia penitenziaria che, notoriamente, lamentano a loro volta la difficile situazione che si vive all’interno del carcere. Nelle scorse settimane, infatti, su iniziativa del garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna e dell’Assemblea legislativa, due avvocati delle camere penali e la consigliera Francesca Maletti avevano effettuato un sopralluogo nel penitenziario, riscontrando sovraffollamento dei detenuti e carenza di organico del personale. A complicare ulteriormente la ‘bollente’ vita carceraria quindi c’è anche il noto problema del sovraffollamento: dopo la nota rivolta di due anni fa, via via il numero di carcerati è risalito tornando nuovamente al limite. Una situazione, insomma, ‘esplosiva’ tenendo presente inoltre come, viste le finestre quasi blindate dalle grate, all’interno della struttura e nelle celle il passaggio d’aria sia praticamente assente. Un avvocato, nel confermare come anche le visite ai detenuti da parte dei legali siano rese difficoltose dalle temperature proibitive, lamenta poi l’ennesimo caso di ritardo da parte dell’ufficio esecuzioni penali esterne. “L’Uepe è sotto organico - spiega il legale - e soprattutto in questo periodo di ferie è un problema. Il mio cliente aveva diritto agli arresti domiciliari: ho presentato istanza il trenta giugno e ancora non è arrivato nulla. In sostanza resta in cella pur avendo diritto ad ottenere i domiciliari”. Il caldo, fanno presente dal Sappe, “colpisce anche la popolazione detenuta, come tutti gli anni. Il perimetro è contenuto e ovviamente avvertono maggiormente il calore. I problemi sono i soliti: la struttura è in cemento, quindi in inverno c’è freddissimo e in estate c’è caldissimo. Ma il problema maggiore resta quello del sovraffollamento”. Bolzano. La Garante dei detenuti: “Che senso ha tenere le persone così?” di Elisa Brunelli salto.bz, 6 agosto 2022 Con il caldo delle ultime settimane le condizioni del carcere sono al limite: i medici sono costretti a elemosinare i ventilatori che i detenuti non possono neanche avere. L’ondata di caldo delle ultime settimane ha fatto boccheggiare l’intera Europa. Quando si tratta di carcere tuttavia la situazione si fa ancora più difficile. Le condizioni dei penitenziari italiani durante il periodo estivo hanno attirato l’attenzione degli osservatori indipendenti, in particolare Antigone che dal 1991, si occupa di tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario e che ha monitorato nell’ultimo periodo la situazione delle principali strutture italiane: “Alle ondate di caldo sempre più forti prodotte dai cambiamenti climatici non sono immuni neanche le carceri che, sempre di più, dovranno far fronte anche a questa variabile che può mettere a rischio la salute e la dignità delle persone detenute e degli operatori”. Lo ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto “La calda estate delle carceri” dell’associazione. In carcere non esiste l’aria condizionata e le finestre, spesso schermate, non consentono il corretto passaggio di aria. In molti istituti le celle non dispongono di docce, in altri addirittura manca addirittura l’acqua in alcune ore della giornata. A peggiorare il tutto c’è il sovraffollamento che in Italia è tra i peggiori d’Europa, dopo Cipro e Romania. La situazione della Casa circondariale di Bolzano a causa delle precarie condizioni strutturali in cui versa si fa drammatica. A riferirlo è la Garante dei Detenuti per il Comune di Bolzano Elena Dondio che ha effettuato ieri (4 agosto) un sopralluogo all’interno della struttura di Via Dante. Con l’eterna attesa di un carcere nuovo ancora da finanziare, la Provincia non porta avanti nessuna miglioria, nemmeno la più basilare. I medici del carcere hanno dovuto bussare in prima persona alle porte dell’Azienda Sanitaria per chiedere alcuni ventilatori da posizionare all’interno della minuscola infermeria, ricevuti solo recentemente. Per i detenuti niente da fare, da un lato perché non esiste un collegamento della corrente all’interno delle celle dall’altra a causa del regolamento interno dello stesso carcere che ne vieta l’acquisto a differenza di altre carceri italiane che hanno dato la possibilità di acquistare, a prezzi elevati, ventilatori a batteria. “L’aria nel carcere è irrespirabile. Le temperature sono altissime, l’umidità elevata. I muri sono spessi e non passa un filo d’aria - riporta Dondio. L’unico sollievo che possono avere sono le docce, ma le condizioni restano difficili sia per i detenuti sia per tutto il personale impiegato all’interno delle mura della casa circondariale, costretto a lavorare in condizioni inenarrabili. La costruzione del nuovo carcere è urgente più che mai, ma nel frattempo si potrebbero comunque portare avanti alcuni piccoli lavori di manutenzione. Che senso ha tenere le persone così?”. Piacenza. Carcere “senza barriere” grazie alle note degli Ottoni della Cherubini liberta.it, 6 agosto 2022 Quando le note si alzano sul cortile interno e dalle alte mura del carcere delle Novate, la sera si è già impadronita del giorno. A lasciarsi trasportare dalla musica ci sono un centinaio di persone sedute. Nel rettangolo di cielo che va scurendosi sopra le loro teste appaiono e scompaiono gli uccelli migratori. Chissà se anche a loro è giunto qualcosa del concerto “Gli Ottoni della Cherubini”, iniziativa che fa parte del progetto “La musica senza barriere” che intende portare la musica a chi non può varcare la soglia di un teatro, tenuto ieri sera in carcere dall’Orchestra Giovanile Cherubini fondata dal maestro Riccardo Muti nel 2004. Davanti ai musicisti ci sono una cinquantina di detenuti, gli agenti della polizia penitenziaria, che proprio due notti fa hanno perso il collega Gioachino Gino Grillo a causa di un incidente stradale - ricordato come “un uomo dal grande cuore” e anche da un sentito applauso - ci sono i rappresentanti del volontariato e del terzo settore e quelli delle istituzioni: dal prefetto Daniela Lupo alla presidente del consiglio comunale Paola Gazzolo, all’assessore alla Cultura Christian Fiazza. In apertura Maria Gabriella Lusi, direttrice della Casa circondariale, ha ribadito di “credere davvero che momenti come questo, in sinergia con il territorio, rappresentino una fonte di ricchezza perché la musica e la bellezza aiutano al reinserimento e sono un’occasione di rigenerazione, come sottolineato dal maestro Muti, di cui tutti abbiamo bisogno”. Il concerto di ieri sera è stato presentato come un momento in cui la cultura e la bellezza diventano cura dell’anima, come una tappa del percorso rieducativo dei detenuti, ma anche di crescita per tutti coloro che vi hanno assistito. C’è di più. È difficile infatti immaginare il sollievo che avrà provato un detenuto per la routine spezzata, quella del carcere (che pure organizza diverse attività), mentre per una volta grazie alla musica il muro di cinta che divide la casa circondariale dalla città ben si conforma al termine “con-fine”, perché pur designando un limite, grazie al prefisso “con” fa sì che quello stesso limite sia condiviso, rendendolo poroso e ricordando a tutti che il carcere è un luogo di vita, difficile e aspra, ma pur sempre di vita. Dallo Schiaccianoci di Tchaikovsky alla Ceremonial Fanfare di Copland, dall’adattamento del celebre Larghetto dal Concerto per violino RV 230 di Vivaldi al tema di Jurassic Park (dal film cult con musiche di John Williams), ma anche Cantica Luciorum, un adattamento di canzoni di Lucio Dalla: le note emozionano in un luogo dove il silenzio è usuale e rotto spesso solo dalle grida da una cella all’altra; la musica si diffonde e raggiunge anche chi, in cella, non può assistere direttamente all’evento. Quando il concerto finisce metà della platea si alza, esce dall’istituto e fa ritorno a casa, l’altra metà torna nelle celle. Per più di un’ora chi sta scontando la sua pena e i liberi cittadini si sono sentiti uguali grazie alle trombe suonate da Pietro Sciutto, Matteo Novello e Marco Vita, i corni di Federico Fantozzi, Mattia Botto e Luca Carrano, i tromboni di Salvatore Veraldi, Demetrio Bonvecchio e Cosimo Iacoviello, la tuba di Alessandro Rocco Iezzi e le percussioni Federico Moscano. Mio padre vittima di mafia, io del lato oscuro dell’antimafia: la mia storia “A testa alta” di Desirè Vasta Il Riformista, 6 agosto 2022 La vicenda di un’imprenditrice in Sicilia raccontata in un libro. Ho voluto raccontare in un romanzo la mia vita e quella della mia famiglia per liberarmi da un peso, riscattarmi dal passato e, chissà, magari scuotere le coscienze di persone, come i magistrati, che hanno un potere eccezionale: quello di riparare al torto e decidere di compiere un atto di giustizia. Sì, perché io credo fortemente nella Giustizia; d’altronde se non ci avessi creduto fino in fondo, oggi, farei un altro lavoro. Con questo mio libro, che si intitola A testa alta, voglio anche trasmettere un messaggio di forza, di coraggio e di speranza a tutti quegli imprenditori che si trovano ad affrontare una situazione simile alla mia. La mia esperienza può servire anche a loro. Mettere nero su bianco ciò che mi è accaduto nella vita mi ha aiutato a comprendere meglio e ad affrontare le mie paure. Con questo libro ho avviato un percorso introspettivo che per me è stato fondamentale anche per superare i drammi che ho vissuto e gettarmi il dolore alle spalle. Non ho nulla contro la magistratura. Penso semplicemente che sia il sistema a essere sbagliato. Un sistema che su molti imprenditori ha avuto pesanti conseguenze, non solo per le loro aziende, ma anche, soprattutto, nella loro vita privata e familiare. Parliamo di persone che con sacrificio e impegno si sono totalmente dedicate alla loro impresa e, dopo esserci riuscite, hanno fatto di essa l’orgoglio della propria vita. Perché fare attività economica è un gesto eroico, soprattutto in Sicilia. Ed è una grande soddisfazione quando si riesce a garantire un futuro diverso ai propri figli e un impiego solido ai propri dipendenti che a loro volta sono padri di famiglia. Ho deciso, non senza difficoltà, di parlare apertamente di avvenimenti dolorosi. Racconto, in primo luogo, della mafia e di come essa ai tempi ha colpito mio padre con intimidazioni pesanti. Ma parlo anche del lato oscuro dell’antimafia e di come essa sia riuscita a svilire anni di sacrifici e di duro lavoro. Dico ovviamente quanto abbiamo sofferto io e la mia famiglia che lo Stato ha tentato ingiustamente di dividere, mettendo una parte di essa contro l’altra. Dopo una ingiusta detenzione di mio padre, come tale riconosciuta dallo stesso Stato italiano, abbiamo cercato di riprendere in mano la nostra vita sia a livello familiare che economico. Nonostante gli innumerevoli ostacoli frapposti sulla strada della mia azienda, sono riuscita a crearmi una realtà imprenditoriale discreta. Ma non posso permettere a nessuno di diffamare, ancora oggi, il nome della mia famiglia con accuse senza fondamento di giudizio. Pregiudizi, solo pregiudizi, che si trasformano in asfissianti preclusioni, interdittive al lavoro onesto. La mia impresa ha dovuto fare i conti con quelle che, con sentenze passate in giudicato, si sono rivelate accuse prive di prova rivolte a mio padre. Ma la certificazione giudiziaria della sua innocenza non basta a rendere libera la mia attività. È paradossale e ingiusto che io debba pagare un “fine pena mai” per un errore giudiziario - sentenziato in via definitiva dallo Stato - di cui mio padre è stato vittima. Ma mentre mio padre è stato vittima conclamata di estorsioni mafiose, io, sua figlia, sono interdetta da misure cosiddette antimafia. Capite bene allora che qualcosa non va nel sistema in cui mi sono, mio malgrado, ritrovata. Io vedo - e ne sono felice - parenti di un tempo capi mafia oggi non più in vita che ricoprono incarichi di prestigio nei comuni, che gestiscono appalti e somme pubbliche di enorme rilievo o che concorrono alle elezioni regionali. È giusto, è sacrosanto che sia così - lo ripeto: ne sono felice - perché nel nostro sistema penale non è scritto da nessuna parte che figli o nipoti debbano pagare gli errori di padri, nonni o zii. Ma questa regola - giusta, umana, civile - vale solo nel sistema penale antimafia? Il sistema di cosiddetta prevenzione antimafia è un mondo a parte? Per gli imprenditori che hanno avuto successo in terra di mafia vige un’altra legge: quella del sospetto? Come nel mio caso, la stortura è evidente: un’impresa creata da una ragazza, figlia di un imprenditore assolto da ogni accusa penale di mafia, sconta per via amministrativa un pregiudizio antimafia, paga a caro prezzo un discredito fondato sul dubbio inesistente. Non mi arrendo a questo stato di cose. Qualcuno mi dovrà spiegare come e perché io, figlia di un soggetto assolto da accuse di mafia, non posso fare impresa, non sono degna della fiducia da parte dello Stato. Vi avanza un’emergenza? di Mattia Feltri La Stampa, 6 agosto 2022 Le cose vanno male, ma male, ma molto male. Dopo l’emergenza criminalità (che non c’è, tutti i reati, specialmente quelli di sangue, sono in calo da decenni), dopo l’emergenza invasione stranieri (che non c’è, il numero degli stranieri residenti in Italia è stabile da oltre un lustro), dopo l’emergenza criminalità degli immigrati (che non c’è, il numero degli immigrati in carcere è in leggero ma costante calo), Salvini ha sollevato, con la tradizionale franchezza, sconosciuta ai suoi tortuosi e sfuggenti colleghi, la terribile emergenza della baby gang. Le nostre città sono ostaggio di questi giovinastri, in gran parte nordafricani, spesso dell’est d’Europa, talvolta asiatici, qua e là pure italiani, dediti a scorribande e aggressioni e taglieggiamenti e ogni sorta di soperchierie di cui noi brave persone, pacifiche e accomodanti, non ne possiamo davvero più. C’è da aver paura a uscire di casa, oramai! Per fortuna il nostro Salvini non se ne sta a bocca chiusa, dice le cose come stanno e propone soluzioni. L’ultima ieri: niente patente ai violenti. Interessante. I violenti non hanno paura di denunce, tribunali e carceri, ma se non gli dai la patente, chissà, magari si ravvedono. Però c’è un problemino, che mi permetto di segnalare sottovoce. Non c’è nessuna emergenza baby gang. Nel 2020, ultimi dati disponibili, i minorenni arrestati o fermati dalla polizia erano 26 mila 271. Meno del 2019, ancora meno del 2018, molti meno del 2017, parecchi meno del 2016, enormemente meno del 2015, quando erano 35 mila e 744. In sei anni, quasi il 30 per cento in meno. Va bene, Salvini. Ci vediamo alla prossima emergenza. Quale futuro ha l’Italia tra redistribuzioni impossibili e decrescita infelice? di Alessandro Penati* Il Domani, 6 agosto 2022 Le campagne elettorali fanno emergere una caratteristica costante delle politiche economiche nel nostro paese: l’enfasi quasi esclusiva sugli aspetti redistributivi. Per politica redistribuiva intendo qualsiasi legge, decreto o provvedimento che aumenta o riduce il reddito di una specifica categoria di cittadini, o professione, o impresa o gruppo sociale, o area geografica. Non parlo dunque solo dei provvedimenti-bandiera come l’abolizione dell’Ici sulla prima casa di Berlusconi, la sua reintroduzione con l’Imu o l’innalzamento dell’età pensionabile di Mario Monti, gli 80 euro di Renzi, la flat tax per gli autonomi di Salvini, o il reddito di cittadinanza del M5s; ma del complesso dei provvedimenti che hanno caratterizzato le politiche dei nostri governi. Troppe redistribuzioni - Sono chiaramente ridistribuivi i cambiamenti di aliquote fiscali e l’abolizione o l’introduzione di nuove imposte; ma anche le detrazioni/deduzioni per la dichiarazione dei redditi: la detraibilità delle spese veterinarie aumenta il reddito di chi possiede animali (dal veterinario ci andrebbe anche senza detrazione); quella degli interessi sul mutuo avvantaggia chi si indebita e le banche che lo erogano; e l’eco bonus per gli infissi chi produce e installa finestre. Ogni provvedimento sulle pensioni redistribuisce reddito: per esempio il passaggio dal retributivo al contributivo in un sistema a ripartizione (l’onere dei pensionati è finanziato coi contributi sociali di chi lavora) redistribuisce reddito a favore di chi ha poca anzianità lavorativa perché pagherà meno contributi di quanti ne avrebbe dovuti altrimenti versare con il retributivo. L’ammortamento accelerato per alcuni beni di investimento avvantaggia chi quel bene lo produce e gli azionisti di quelle imprese che l’investimento lo avrebbero fatto comunque. È redistributivo per azionisti e creditori di un’impresa ogni cambiamento fiscale che incida su dividendi, debito, cessioni, fusioni o acquisizioni; o la tassa sugli extra profitti del settore energetico, o l’Irap maggiorata per banche e assicurazioni, o gli incentivi per assumere o fare insediamenti produttivi in una certa area geografica. Redistributivi sono anche i provvedimenti per la concorrenza come per esempio quelli per concessioni balneari e taxi, perché riducono il valore del diritto di sfruttamento di un bene pubblico per chi ne ha beneficiato in passato. L’elenco potrebbe continuare. Condannati all’insuccesso - Diverse le motivazioni sottostanti: la ricerca di consensi e voti, gli obiettivi di finanza pubblica, la ricerca di una maggiore equità. Ma a prescindere dal giudizio di valore sulle motivazioni, il punto che voglio sottolineare è che la natura redistribuiva della politica economica italiana la rende inefficace, di difficile implementazione, e spesso controproducente. La ragione sta nella storica stagnazione del reddito pro capite del nostro paese e che, a differenza del Pil che misura la crescita complessiva dell’economia, indica come si evolve il tenore di vita degli italiani nel tempo e rispetto agli altri paesi. La Banca Mondiale produce le serie storiche del reddito pro capite dei vari paesi espresse in “dollari internazionali costanti” (lo stesso paniere di beni e servizi che un dollaro può acquistare negli Usa) per renderle confrontabili. Nel grafico si vede come l’Italia sia stata il fanalino di coda nei 20 anni che hanno preceduto il Covid (per evitare le distorsioni della pandemia), con una crescita media annua del reddito pro capite di appena lo 0,14 per cento, rispetto all’1,67 del Canada, 1,29 di Germania, 1,27 Usa, 1,15 UK, 0,9 Francia e 0,86 del Giappone. Perfino l’Argentina ha fatto meglio. Chi pensasse che sia il risultato di euro e austerità basta che guardi nel grafico al crollo che la Troika ha imposto alla Grecia (e che pure ha fatto meglio dell’Italia nel ventennio); o verifichi come il nostro Paese rimanga ultimo (crescita media annua 0,22 per cento) anche estendendo il confronto agli ultimi 30 anni. A somma zero - Una crescita quasi nulla del reddito pro capite per periodi così lunghi rende ogni politica redistribuiva un gioco a somma zero, e quindi inefficace perché chi perde con la redistribuzione oggi tende a coalizzarsi per esserne favorito domani. Ritengo che l’intrinseca instabilità politica italiana ne sia una conseguenza, piuttosto che la causa. Le politiche redistributive, inoltre, seguono spesso obiettivi politici di breve respiro, per quanto nobili, che finiscono per danneggiare la crescita in quanto non improntate all’efficienza e prive di obiettivi ben definiti. Per esempio, il welfare. Credo ci sia ampio consenso per un sistema che impedisca ai cittadini di scendere sotto un livello minimo di benessere: significa un salario minimo per chi lavora; sussidi, assistenza e formazione per chi ha perso o cerca occupazione; un reddito minimo per chi è anziano, in situazione disagiata, disabile o malato. Strumenti diversi che dovrebbero però essere strettamente coordinati formando un tutt’uno, e finanziati nel modo meno distorsivo per la crescita: ovvero scegliendo le imposte che meno distorcono gli incentivi a lavorare e a investire in capitale di rischio profittevole. Invece, gli interventi di welfare vengono adottati da noi in ordine sparso, governo dopo governo, senza coordinamento e chiarezza di obiettivi; e la redistribuzione fatta anche con le imposte, senza preoccuparsi dell’impatto del sistema tributario sulla crescita. Stato e concorrenza - Un altro esempio è la politica per la concorrenza. E’ prevalentemente redistributiva ma potenzialmente favorevole alla crescita. Perché sia accettata però da chi la subisce, evitando che si coalizzi per bloccarla, bisogna che sia percepita come una politica che tocchi tutti e non solo penalizzante per alcune categorie: benissimo aprire alla concorrenza concessioni balneari e taxi, ma come si può pensare che non vengano osteggiate quando poi gli stessi enti locali preservano decine di migliaia di monopoli date in gestione con logiche clientelari, senza concorrenza, ad altrettante aziende municipali o regionali? Anche il ruolo dello stato nell’economia dev’essere improntato alla crescita, per esempio finanziando il capitale umano, abbattendo le barriere all’ingresso in certi settori o indirizzando le risorse per chiudere rapidamente il gap con la concorrenza straniera. Non ci sarebbe il predominio americano nella tecnologia senza i massicci finanziamenti dell’industria della difesa. Da noi invece anche l’intervento dello Stato nell’economia è prevalentemente redistribuivo: la crescente partecipazione pubblica nel capitale delle società di fatto ne condiziona la gestione allo scopo di fare politica dei redditi, generare consensi o perseguire finalità della politica in contrasto quanto sarebbe necessario per massimizzare redditività e produttività, a danno della crescita. Con il Pnrr si è usciti per la prima volta da questa logica, perché l’Europa ci ha imposto riforme come quella della pubblica amministrazione, degli appalti o della giustizia, che non hanno scopi redistributivi, ma sono strumentali alla crescita. E’ però solo un primo passo, anche se nella giusta direzione, la cui efficacia dipenderà comunque da come verranno implementate le riforme, e dal tempo - tanto - necessario per farlo. Purtroppo il Pnrr appare come una parentesi che presto si chiuderà con le elezioni e il ritorno alle vecchie politiche redistributive; che portano decrescita (infelice); e che a sua volta genera ancora più domanda di redistribuzione. *Economista Migranti, verso i ricollocamenti in Francia e Germania di Francesca Mannocchi La Stampa, 6 agosto 2022 Lamorgese: “L’Europa sulla strada giusta della solidarietà”. Primi passi concreti sulla redistribuzione ma restano i problemi all’origine dell’impennata dei flussi, tra cui la crisi in Tunisia e Libia, esacerbata dal blocco del grano in Ucraina che sta affamando diversi Paesi africani. Mentre Matteo Salvini tuona contro la politica del Governo sull’immigrazione lamentando gli sbarchi triplicati rispetto al 2020 e invocando un commissario straordinario sul modello del generale Francesco Figliuolo, e la leader di Fdi Giorgia Meloni rilancia l’idea del blocco navale, l’attuale inquilina del Viminale Luciana Lamorgese esulta per “i primi passi concreti” dell’accordo europeo sui ricollocamenti dello scorso 10 giugno, con le visite in Italia di delegati francesi e tedeschi pronti ad accogliere quote di migranti soccorsi in mare. L’intesa raggiunta il 10 giugno in Lussemburgo dal Consiglio europeo Affari interni prevede il ricollocamento annuo di circa 10mila migranti, individuati principalmente tra le persone salvate in mare nel Mediterraneo centrale e lungo la rotta atlantica occidentale e poi sbarcate negli Stati membri di primo ingresso dell’Unione. Francia e Germania hanno messo a disposizione le maggiori quote (rispettivamente 3.500 e 3mila persone) tra i 21 Paesi che hanno condiviso la Dichiarazione politica. Due mesi dopo l’Italia è particolarmente sotto pressione con i continui sbarchi che hanno messo in crisi Lampedusa e portato il totale degli sbarchi a superare quota 42mila (12mila in più dello scorso anno). Ecco perché al Viminale guardano con speranza all’avvio concreto della ricollocazione, segnato dalla visita presso il Cara di Bari - dal 28 luglio al 2 agosto scorsi - di funzionari francesi in missione per verificare la composizione di un primo gruppo di migranti che verranno ricollocati nel Paese transalpino. Contemporaneamente, le autorità tedesche hanno comunicato di essere pronte ad effettuare un’analoga missione nel corso di questo mese. Il meccanismo, dunque, è partito e anche se l’Italia non sarà la sola a usufruirne e i numeri inizialmente non saranno imponenti è un segnale tangibile della “solidarietà” europea invocata a lungo dalla ministra Lamorgese, che ha parlato di “tappa storica”. “Sono convinta - ha affermato - che l’Unione europea abbia intrapreso la strada giusta per affrontare le sfide migratorie e umanitarie, come è stato dimostrato anche in questi mesi con la risposta, condivisa e solidale, relativa all’emergenza provocata dal conflitto armato in Ucraina che ha determinato lo spostamento di milioni di profughi in Europa”. Restano naturalmente i problemi enormi all’origine dell’impennata dei flussi: in primis, la crisi politica ed economica in Tunisia e Libia, esacerbata dal blocco del grano in Ucraina che sta affamando diversi Paesi africani. La strada obbligata per una gestione ordinata degli arrivi, secondo Lamorgese, passa per Bruxelles, dove il prossimo Governo italiano dovrà affrontare il difficile compito di sbloccare la trattativa sul Patto europeo immigrazione e asilo. Droghe, così il proibizionismo colpisce le minoranze di Leonardo Fiorentini* Il Riformista, 6 agosto 2022 Controllo penale e stigma sociale, la cannabis va legalizzata. Migranti, seconde generazioni, donne. È stato relegato a tema di interesse solo per consumatori, ma la politica sulle droghe riguarda i diritti a tutto tondo. Letale il legame tra profiling, leggi criminogene e sistema repressivo. La fine anticipata della legislatura ha interrotto la strada dei provvedimenti, dalla cittadinanza alla cannabis, che volevano portare al centro del dibattito parlamentare i diritti. A onore del vero si trattava di una strada molto in salita, se non addirittura sbarrata dai tempi e dai numeri del Senato. Al di là di questo, si trattava di questioni e istanze che viste da vicino possono sembrare lontane, ma che allargando lo sguardo rivelano tutta la loro interconnessione. La cannabis poi, svela tutto l’impatto pervasivo e intersezionale del proibizionismo, una pervasività tale da rendere la sua regolamentazione legale un tema urgente e prioritario per questa campagna elettorale. Provo a spiegare perché. La cannabis è la sostanza illegale più usata. Più di un terzo della popolazione l’ha incontrata e usata nella vita. Dal 1990 più di un milione di persone è stato segnalato ai Prefetti per il suo uso. Oltre un decimo del corpo elettorale ne subisce ogni giorno la sistematica repressione e stigmatizzazione. Il proibizionismo impatta quindi sulla salute di almeno 6 milioni di concittadini, messa a rischio più dalle leggi, che impediscono di verificare cosa si usa, favoriscono marginalizzazione e stigma e ostacolano l’accesso ai servizi, che dalla pericolosità della sostanza stessa. Interessa indirettamente la salute di tutti, sia per i costi sanitari dell’incapacità di prevenire gli usi problematici che per l’ostracismo ancora diffuso alle azioni di riduzione del danno. Chi usa cannabis in Italia viene costretto a entrare in contatto con le narcomafie, che oggi governano quel mercato. Paradossalmente si rischia meno a finanziare il crimine che a coltivarsela in casa. Non solo. A rischio è la sicurezza di tutti: le piazze di spaccio sono abbandonate alle organizzazioni criminali che le governano con il mezzo che gli è proprio, la violenza. Quando serve anche lo “Stato” viene infiltrato e corrotto, come purtroppo ci riportano le cronache quotidiane. Il proibizionismo pesa sul bilancio pubblico che sperpera almeno un paio di miliardi di euro l’anno per svuotare il mare con il cucchiaino, senza alcun risultato su domanda e offerta delle droghe. E molti di più, almeno 6 miliardi, sono regalati esentasse alle casse delle narcomafie. Il nostro sistema economico è drogato dal fiume di denaro riciclato dalle mafie. Aziende che vivono solo per “lavare” il denaro proveniente dal narcotraffico, concorrono slealmente con l’imprenditoria sana del paese. Proprio quel tessuto imprenditoriale sempre vezzeggiato dalla retorica politica, mai protetto dal dumping finanziario reso possibile dal riciclaggio. È anche una questione di genere, per come la violenza dell’illegalità e della repressione colpisce globalmente le donne (nel latinoamerica la detenzione femminile è rappresentata per l’80% da violazioni sulle droghe) e per come queste ovunque siano oggetto di particolare stigma per l’uso di sostanze. La proibizione è devastante per il sistema della giustizia e delle carceri: non ci sarebbe alcun sovraffollamento carcerario senza detenuti per semplice spaccio o senza detenuti che usano sostanze. Nei tribunali ci sono oltre 240.000 fascicoli pendenti per droghe, quasi la metà - si stima - per cannabis. A causa della tenaglia di due leggi criminogene come la Jervolino-Vassalli e la Bossi-Fini i migranti vivono sotto il ricatto della tratta da una parte e della repressione dall’altra. Così il 34% degli stranieri è in carcere per reati di droga, un dato che ha fatto segnalare l’Italia nell’ultimo report del gruppo di lavoro dell’ONU sulle detenzioni arbitrarie. La proibizione riguarda chi arriva qui, attraverso tratte che sono integrate, finanziariamente e strutturalmente, con il traffico di droghe. Riguarda anche le seconde generazioni. Non c’era bisogno dei casi di Babayoko e Blair per scoprire come il profiling faccia in modo che sia nell’esperienza comune degli italiani senza cittadinanza l’essere fermati anche due volte in un giorno dalle forze dell’ordine. Succede in qualsiasi città italiana, senza particolare motivo, se non il fatto di essere di carnagione diversa. Attenzione. Questo legame fra profiling, leggi criminogene e sistema repressivo è letale: non c’è bisogno di mandato per perquisire in caso di sospetto di possesso di droghe; basta la detenzione - ricordiamolo, quasi un italiano su sei usa droghe - per rischiare patente e passaporto; è sufficiente una quantità un po’ superiore al minimo e magari non essere un maschio bianco benestante, per andare davanti ad un giudice; con l’inversione di fatto dell’onere della prova basta qualche contante, un rotolo di pellicola trasparente e una bilancia da cucina per essere condannati. Così mentre il rapporto processi-condannati per i reati contro la persona o le cose è di 10 a 1, quando va bene 2, quelli per droghe trovano ogni 10 processi ben 7 condannati. È innegabile che sia proprio la cannabis al centro di questo sistema repressivo, che usa le leggi sulle droghe per marginalizzare e colpire le giovani generazioni e le minoranze, in Italia come in tutto il mondo. La retorica proibizionista non lo dice: il vero obiettivo del divieto non è limitare i consumi di droghe, cosa peraltro che gli riesce malissimo, ma avere uno strumento di controllo penale e di stigma sociale. Ed in questo, è invece efficacissimo. Per questo va sradicato. Ecco, lo stigma, ben conosciuto dalla comunità Lgbtq+. Il tabù della droga è riuscito a impregnare così in profondità il tessuto della società civile italiana, che ancor oggi chi la usa, quando non è un “tossico”, è un disadattato. Nella percezione comune, tre ragazzi che si ubriacano alla festa del patrono del paese, hanno alzato un po’ troppo il gomito e lo raccontano divertiti il giorno dopo al bar. Gli altri tre, che si fumano una canna sulla panchina del giardino, sono tre giovani da salvare dall’autodistruzione. Nel discorso mainstream non è contemplato che una persona perfettamente inserita socialmente, stimata e con un lavoro stabile, consumi cannabis senza averne particolari problemi. Come accade con il caffè alla mattina o la birra con gli amici la sera. Eppure, è quello che succede nella stragrande maggioranza dei casi. La distinzione fra sostanze illegali e legali, che è figlia solo della legge penale, fa perdere il lume della ragione e della comprensione dei fenomeni. Se è stato un errore nel passato non riuscire ad avere una visione ampia, relegando la questione antiproibizionista al mero interesse diretto di chi usa sostanze, oggi non si può far finta di vedere come le politiche sulle droghe interessino i diritti umani a tutto tondo. I diritti di tutti, che non sono alternativi ma complementari. L’uno integra l’altro, nessuno limita gli altri. La battaglia dell’uno dev’essere quella dell’altro, mentre le risposte della politica non devono dividere, ma unire. Per fortuna qualcosa sta cambiando. Lo abbiamo visto con la campagna sul referendum cannabis: oggi abbiamo una forte maggioranza di cittadini consapevoli che non si può andare avanti così. Sono tanti e sono soprattutto giovani. Forze politiche che non abdicano al proprio ruolo devono sapere dare loro risposte, chiare ed urgenti. A partire dalla regolamentazione legale della cannabis. *Segretario di Forum Droghe Siamo tutti incarcerati in Egitto di Andrea Amato transform-italia.it, 6 agosto 2022 “L’esercizio del pensiero è quella forza dei fragili che impone, alla tirannia, di togliere dalla vista della società, o meglio, di coloro che sono (ancora) liberi, i corpi dei dissidenti e rinchiuderli dentro le mura delle carceri perché restino invisibili”. Così, nell’agosto 2021, scriveva Paola Caridi riferendosi alla detenzione di Alaa Abd-el-Fattah nelle prigioni egiziane (Dalla prefazione a: Alaa Abd el-Fattah, Non siete stati ancora sconfitti. Hopelfulmonster editore, 2021). Un accanimento nell’occultare il suo corpo che, nelle due ultime settimane di luglio 2022, ha raggiunto il parossismo. Per quindici giorni, non solo ‘Alaa non ha potuto comunicare nemmeno con i familiari, ma non è stata fatta trapelare alcuna notizia sulla sua salute, ingenerando dubbi sulla sua vita. Già, perché dal 2 aprile egli ha iniziato uno sciopero della fame a tempo determinato. Alaa Abd-el-Fattah non è solo uno dei circa sessantamila detenuti in Egitto ai quali vengono negati diritti primordiali; egli è, da anni, il simbolo della repressione dei regimi egiziani contro ogni voce che non si esprima in sintonia con il potere. ‘Alaa è stato in carcere sotto Mubarak, per aver manifestato, nel 2006, per l’indipendenza della magistratura. Arrestato e imprigionato nel 2011, durante il regime transitorio del Consiglio Supremo delle Forze Armate, per aver pubblicato il resoconto di una notte trascorsa in ospedale dopo l’uccisione, da parte dei militari, di ventisei manifestanti. Arrestato e fermato, per “oltraggio alla magistratura” anche durante il Governo di Mohamed Morsi (Fratelli Musulmani). Il 28 novembre 2013, tre mesi dopo il colpo di stato del Generale Al-Sisi, Alaa viene arrestato per aver manifestato contro la riattivazione di una legge del regime coloniale britannico che vietava qualsiasi forma di protesta. I quasi nove anni che ci separano da quella data, a parte alcuni mesi di libertà su cauzione o libertà vigilata, Alaa li ha passati nelle carceri più dure del regime. Perché tanta spietatezza nei suoi confronti? Per il semplice fatto che Alaa Abd-el-Fattah, blogger, come tanti altri protagonisti della “rivoluzione” del 2011, è diventato l’icona dell’opposizione al regime di Al-Sisi. Perché, da allora, ha accompagnato la sua infaticabile attività di militante dei diritti umani e di leader del movimento, a una copiosa produzione di saggi e articoli, scritti prevalentemente in carcere, che gli sono valsi l’appellativo di “Gramsci egiziano”. Anche per questo, egli ricorda quella figura di “intellettuale organico”, da noi ormai scomparsa perché scomparsa è la lotta di classe, e che ritroviamo invece nelle periferie del mondo “sviluppato”, dove ancora il popolo lotta e soffre, con alterne fortune. Una riflessione continua che parte dagli accadimenti; i fatti diventano oggetto di analisi economica, sociale, politica; e da queste analisi emergono “pezzi” di teoria politica. Una voglia di conoscere, di capire, d’interpretare e di raccontare la realtà partendo dal conflitto, che a qualcuno di noi può ricordare quando, nei primissimi anni ‘70, si faceva il cosiddetto “lavoro politico” nelle fabbriche o nelle campagne, e, dopo le animate riunioni con gli operai o con i contadini, si passavano lunghe ore notturne ad analizzare la realtà sociale e i punti di vista dei “soggetti”, passando tutto al vaglio di letture in comune dei classici del marxismo, ma anche dei “Quaderni rossi”. Gli scritti di Alaa Abd-el-Fattah, dal 2011 in poi, sono stati raccolti in un libro pubblicato in Italia, alla fine del 2021, con il titolo “Non siete stati ancora sconfitti”. È una raccolta di saggi, articoli, memorie, post su Facebook, Tweet, che raccontano i molteplici aspetti della sua esperienza di militante, pensatore, ma anche di persona seviziata dal potere, nel corpo e nell’anima (molto interessanti sono le prime due presentazioni del libro, in Italia e in Francia). Vi troviamo pagine di palpitanti cronache della rivoluzione del 2011, e delle vicende successive in cui emergono tutti gli ingredienti di una storia tragica: il movimento dei giovani, gli islamisti integralisti, l’esercito, la polizia, gli apparati di sicurezza, persino gli ultras del calcio. E poi, le riflessioni sulla sconfitta, una sconfitta che egli considera solo una battaglia perduta. Una sconfitta non solo egiziana: Rivoluzioni che non hanno preso il potere (…) Come quella tunisina, la nostra rivoluzione non ha preso il potere e, come in Tunisia, la controrivoluzione e il vecchio regime hanno preso in ostaggio lo Stato. Alaa scriveva questo nel novembre 2011, a soli dieci mesi dall’insorgere delle “primavere arabe”. In merito, la sua posizione è chiara, e coglie tutta la preoccupazione per la polarizzazione che ha distrutto le primavere arabe: da un lato l’asfissiante integralismo che conculca le libertà civili anche con uso della violenza di Stato, dall’altro la trappola mortale dei regimi militari. L’esigenza di sfuggire ad ambedue poli è ironicamente rappresentata in un tweet del 17 giugno 2013: Quando la rivoluzione vincerà, metteremo in atto un piano per dividere l’Egitto. Invieremo i sostenitori della Fratellanza in uno Stato governato dai militari, e i sostenitori dei feloul (cascami del regime), dei militari e della stabilità, in uno Stato governato dalla Fratellanza. Un “né..né” che nei paesi arabi è colloquialmente così espressa: “Perché dobbiamo sempre scegliere tra il nero degli islamisti e il grigio-verde dell’esercito? Non abbiamo diritto ad altri colori?”. Una posizione maggioritaria ma che non trova rappresentanza politica, perché, anche lì, i partiti politici (non le loro caricature) non esistono più. A questo proposito, nell’analisi di classe che fa della società egiziana, Alaa, da convinto anticapitalista, si preoccupa che la borghesia non abbia rappresentanza politica. Naturalmente il centro della sua attenzione è la situazione del proprio Paese, ma sempre con uno sguardo largo. Per esempio, cerca nella storia (e nella geografia) parallelismi con l’attualità politica egiziana, come nel racconto del “caso Lysenko”, creato da Stalin per convincere il popolo sovietico (e, soprattutto, ucraino) a sopportare la carestia e, quindi, sottomettersi al regime. Parte dalla propria esperienza di tecnico informatico che ha creato, negli anni precedenti la rivoluzione, il primo aggregatore di blog in Egitto - nonché da quella di un’intera generazione cresciuta con i social network (senza la quale non vi sarebbe stata Piazza Tahrir), che ha creduto nel ruolo liberatorio e democratico dei social - per sviluppare una riflessione non scontata sul rapporto tra innovazione digitale e produzione di senso, e da lì un’analisi critica del ruolo delle multinazionali. Dedica un intero saggio a Uber, denunciando l’operato del Governo per creare in Egitto le condizioni per un suo sviluppo. Insomma, una riflessione politica a tutto campo, in cui trovano posto questioni disparate ma che nel suo pensiero trovano nessi e organicità, come la Palestina, il cambiamento climatico, il luddismo. E da tutto questo, una continua riflessione sul “che fare”, sull’occupazione di tutti gli spazi, anche minimi, che il potere dispotico lascia ancora aperti, sull’apertura al dialogo con altre sensibilità con cui creare alleanze, su ciò che è stata la rivoluzione - che egli preferisce chiamare insurrezione popolare - e su come essa debba trasformarsi in una continua lotta contro l’oppressione. Perché ci sia una rivoluzione, però, devi avere una narrazione che metta insieme tutte le diverse forme di resistenza e devi avere speranza. Bisogna che le persone si mobilitino, non per disperazione, ma per la chiara sensazione che un’esistenza diversa da quella vita disperata sia possibile. Il valore universale di questa riflessione potrebbe porre molti interrogativi anche a chi non vive l’esperienza egiziana né di molti altri paesi arabi e africani. Si capisce, infatti, che gli scritti di Alaa Abd-el-Fattah non parlano solo al suo popolo, ma, più o meno direttamente, anche a noi europei. Per esempio, parlano indirettamente a noi gli scritti sulla Costituzione e sul processo costituente. Non di certo, quando denuncia le nefandezze commesse nella vicenda costituzionale egiziana, ma quando prefigura un percorso di definizione della Costituzione che si discosta da quello seguito dalle democrazie europee nate nel secondo dopoguerra sulle ceneri dei regimi dittatoriali. Cioè delle Costituzioni elaborate da Assemblee Costituenti elette dal popolo (quella della Germania Federale fu eletta dai Lantag, i Parlamenti dei Länder). Non è a questo modello di processo costituente che egli guarda ma a quello applicato nel Sudafrica di Nelson Mandela, dove la Costituzione è stata il frutto di una vasta e autentica partecipazione popolare, partita innanzi tutto nel suo Partito, l’African National Congress, poi allargata alle altre forze contrarie all’apartheid, e solo nella fase conclusiva adottata dall’Assemblea Costituente e dalla Corte Costituzionale. Infatti, cosa garantisce, in un Paese politicamente destrutturato, che dei rappresentanti del popolo, ancorché democraticamente eletti, garantiscano di produrre una buona Costituzione? E quand’anche ciò avvenisse, cosa può garantirne la tenuta nel tempo. L’esperienza della Tunisia è tristemente esemplare. Un’Assemblea Costituente bloccata per due anni su fronti contrapposti (laici e islamisti); una Costituzione, frutto di un compromesso appena passabile, sostanzialmente imposto dal provvidenziale ruolo del Quartetto del Dialogo Nazionale, quindi dall’esterno dell’Assemblea eletta; un’indeterminatezza tra i poteri istituzionali che ha permesso all’attuale Presidente della Repubblica di sbloccare la situazione politica tunisina nel modo più autarchico: scioglimento del Parlamento, plebiscito su un nuovo testo di Costituzione (iperpresenzialista), approvato da un quarto degli elettori. Ma perché una riflessione sulla Costituzione egiziana iniziata da Alaa nel 2011, dovrebbe oggi riguardare noi europei. Perché da diverse parti si avverte la necessità di dare un assetto istituzionale diverso all’Unione Europea e una delle proposte sul terreno è quella di dare un mandato costituente al prossimo Parlamento Europeo. Certamente la destrutturazione dei sistemi politici dell’UE non è quella egiziana o tunisina, ma lo scollamento tra partiti politici e popolo è tanto importante da non garantirci che a decidere sulla Costituzione Europea possano essere eletti nel Parlamento Europeo rappresentanti anche lontanamente paragonabili a quelli dell’Assemblea Costituente italiana del 1946. Un processo alternativo potrebbe essere, quindi, quello preconizzato da Alaa. La sinistra critica, insieme alle Organizzazioni della società civile, potrebbe cominciare un lavoro di discussione a livello popolare per definire i punti principali di una futura Carta costituzionale europea. Nella critica serrata che, nel novembre 2012, egli fa all’operato dell’Assemblea Costituente egiziana e nelle proposte alternative, c’è un punto che va evidenziato per l’originale acutezza. Dice Alaa: nella Costituzione italiana è evidente la preoccupazione di impedire ogni eventuale possibilità di ritorno al fascismo; analoga preoccupazione c’è nella Costituzione sudafricana per quanto riguarda l’apartheid. Le Costituzioni non possono essere avulse dal contesto storico che le ha generate. Per questo, la Costituzione egiziana avrebbe dovuto opporre un cordone sanitario alle piaghe che si erano manifestate durante la rivoluzione, in primo luogo le torture e l’ingerenza dell’esercito. Proseguendo nel parallelismo con la nostra vicenda europea, verrebbe da chiedersi: quali sono le due o tre cose che fanno parte dell’esperienza dell’UE, che la futura Costituzione Europea dovrebbe mettere al bando? Forse è proprio da questa domanda che potrebbe partire la discussione nelle riunioni popolari della sinistra. Tra le diverse questioni affrontate da Alaa in tema di Costituzione, si potrebbe, ancora segnalare la scottante attualità del rapporto tra diritti fondamentali ed evoluzione tecnologica. In maniera più diretta, ‘Alaa si rivolge a noi, quando parla delle nostre responsabilità nei confronti di un futuro comune. Lo fa quando, nel 2017, invia dal carcere un messaggio a RightsCon, il summit mondiale dei diritti umani, al quale aveva già partecipato nel 2011. Un messaggio pieno di amarezza ma non disperato, in cui la speranza (compresa l’utopia) è riposta sui cittadini - in primo luogo i difensori dei diritti umani - dei paesi in cui c’è ancora un substrato democratico. Non a caso il titolo del messaggio è: “Non siete stati ancora sconfitti”, titolo che è stato dato all’intera raccolta degli scritti di Alaa. È difficile leggere/rileggere questo messaggio senza sentirsi addosso il peso gravoso della responsabilità cui veniamo chiamati. Migliorate la vostra democrazia (…) Se i diritti umani fanno un passo indietro in un contesto in cui la democrazia ha radici profonde, ciò sarà sicuramente usato come pretesto da società in cui i diritti sono più fragili e che si sentiranno in diritto di compiere violazioni ancora peggiori (…) Non fate il gioco delle nazioni. Perdiamo molto quando permettete che il vostro operato venga utilizzato come strumento di politica estera, non importa quanto buona sia la vostra attuale coalizione di governo. Rischiamo molto quando la difesa dei diritti umani diventa un’arma in una guerra fredda (proprio come le rivoluzioni arabe sono state perse quando i rivoluzionari si sono trasformati in reclute inconsapevoli e involontarie nelle guerre per procura tra le potenze regionali). Ci rivolgiamo a voi non perché siamo alla ricerca di potenti alleati, ma perché affrontiamo gli stessi problemi globali, condividiamo valori universali e crediamo fermamente nel potere della solidarietà. Proprio perché si rimane colpiti dalla lucidità di questo messaggio e dalla sua bruciante attualità, non si può non immaginare che se fosse stato scritto oggi, l’appello a noi “democratici” avrebbe probabilmente contenuto un richiamo a non permettere più che i nostri Governi lucrino sul baratto tra diritti umani degli egiziani (e di tanti altri popoli) e vendita delle armi. Un baratto che continua e si intensifica, imperterrito, sotto i nostri occhi distratti. E poi, ovviamente, nel libro troviamo le annotazioni periodiche sul suo calvario giudiziario e sulla sua condizione di detenuto. Anche qui, Alaa unisce il “personale” al “politico”. C’è uno scavo profondo sulla propria esistenza di persona così a lungo violentata fisicamente e psicologicamente. Una sorta di “diario dell’anima”, da cui egli parte sempre per denunciare politicamente lo stato della carcerazione, e, in particolare, i meccanismi della detenzione cautelare, che a migliaia di giovani (Patrick Zaki è stato uno di questi) viene rinnovata ogni quindici giorni senza arrivare mai al processo. Una condanna anticipata all’isolamento per prevenire qualunque contatto con il mondo esterno. Soprattutto dei detenuti che ancora pensano e, per questo, il loro pensiero non deve trapelare all’esterno del carcere; per questo, l’obiettivo diventa la loro distruzione intellettuale. Ecco perché Alla Abd-el-Fattah è diventato bersaglio privilegiato del potere. Dopo tutti questi lunghi anni di detenzione, nel dicembre 2021, Alaa è stato condannato a cinque anni di reclusione per “diffusione di notizie false”; in realtà per aver ritwittato un tweet. Dopo giorni di trepidazione per la sua sorte, si è appreso che è ancora vivo. Nel giorno di pubblicazione di questo articolo, egli è al 124° giorno di sciopero della fame ((Sulla vicenda giudiziaria e i suoi ultimi esiti, cfr. Paola Caridi, Egitto il lungo digiuno dei diritti umani. L’Espresso,31 luglio 2022). L’Italia è il paese europeo in cui vi è stata la maggiore mobilitazione della società civile contro la violazione dei diritti umani in Egitto. Questo perché l’assassinio di Stato di Giulio Regeni e l’incredibile vicenda di Patrick Zaky ci hanno riguardato da vicino. Come si sa, da parte governativa non si è mostrata la determinazione necessaria. Anche per Patrick Zaky - la cui sorte è ancora appesa al filo dell’esito della prossima udienza fissata per il 27 settembre 2022 - il Governo italiano non è stato capace di rendere esecutivo il conferimento della cittadinanza italiana, votato in aprile dal Parlamento italiano, nonostante le riserve della Viceministra degli Esteri, Marina Sereni. Al contrario di quanto fatto dal Governo di Boris Johnson, che ha concesso il passaporto britannico a Alaa Abd-el-Fattah. Contrariamente a quanto accaduto per Giulio Regeni e Patrick Zaky, l’opinione pubblica italiana ha pressoché ignorato la vicenda di Alaa Abd-el-Fattah. A parte gli appelli di Amnesty International e gli interventi del suo portavoce Riccardo Noury, va dato merito al blog di Paola Caridi di aver quotidianamente acceso il suo riflettore sulle condizioni di Alaa, e sullo sciopero della fame a staffetta promosso in Italia. Non foss’altro che per una questione di civiltà, l’attenzione in Italia su Alaa Abd-el-Fattah deve crescere. E, per una questione di politica, a partire dalle persone e dalle forze della sinistra critica. Anche perché, a pensarci bene, nelle carceri egiziane non c’è solo Alaa ma ci siamo tutti noi. Per questo la prima cosa da fare è leggere/rileggere il suo libro. Emergency in Afghanistan, una guerra alla volta di Laura Salvinelli Il Manifesto, 6 agosto 2022 Reportage. A un anno dalla morte di Gino Strada, una visita al presidio di Emergency, che non è mai andata via dal Paese. “La guerra è essa stessa terrorismo legittimato, ingiustizia assoluta, violazione irrimediabile di ogni diritto. Qual è il senso della guerra, contro chi si sta combattendo, se si dichiara di combattere contro dittatori e terroristi e poi il risultato finale è che nove volte su dieci è un civile a perdere la vita? Quale medico prescriverebbe un farmaco che nove volte su dieci uccide il paziente? In un ospedale, quel farmaco verrebbe proibito, e chi si ostinasse a somministrarlo verrebbe denunciato.” Così scrive Gino Strada nel suo ultimo libro pubblicato postumo, Una persona alla volta, Feltrinelli, 2022, “non un’autobiografia, un genere che proprio non fa per me, ma le cose più importanti che ho capito guardando il mondo dopo tutti questi anni in giro”, un manifesto “non pacifista ma conto la guerra” e per il diritto “più fondamentale”, quello della salute, non privilegio per pochi ma per tutti, da esseri umani “liberi e uguali”. Idee semplici, per niente facili, basate sempre sulle “radici che mi hanno tenuto saldo ovunque sia andato nel mondo: l’antifascismo, la politica, la militanza, la passione per la medicina.” A quasi un anno dalla sua morte, il 13 agosto, e dalla presa di potere da parte dei talebani, il 15 agosto, sono tornata in Afghanistan per farmi raccontare dall’unica Ong italiana che non è mai andata via e unica organizzazione internazionale presente in Panshir, la Valle di Ahmad Shah Massoud e dei mujaheddin, cosa sta succedendo in un Paese in cui non c’è libertà di stampa e le notizie girano per passaparola e sui social senza possibilità di verifica? Emergency è in Afghanistan dal 1999. I suoi 3 Centri chirurgici per vittime di guerra di Anabah nel Panshir (dove sono anche la maternità e il pediatrico), di Kabul e di Lashkar-Gah, nell’Helmand dell’etnia pashtun, roccaforte talebana e produttrice, insieme a Kandahar, del 90% dell’oppio e dell’eroina mondiali, sono un osservatorio importante. Sono arrivata da Islamabad con un piccolo aereo con 19 posti - a bordo eravamo 3 passeggeri. Il volo interno Lashkar-Gah - Kandahar - Kabul è stato cancellato per 3 giorni: ho il forte sospetto perché sarei stata l’unica passeggera. All’aeroporto di Kabul i talebani non hanno fatto in tempo, o non si sono curati, di rimuovere la vecchia insegna a cui manca solo una D, magari caduta da sola: Hami Karzai International Airport. Gli unici voli internazionali sono quelli del servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite. Come non si sono accorti di un murale di Massoud un po’ nascosto in città, scampato alla loro furia iconoclasta. Mai vista Kabul senza traffico e l’autista mi spiega subito perché: oltre ai tanti che sono scappati, il prezzo della benzina è triplicato. Guerriglia - Il 3 settembre il Governatore della provincia ha fatto una visita in ospedale, ha distribuito soldi ai pazienti e ha dichiarato che sarebbe stato ignobile arrendersi e dar via l’Afghanistan senza combattere. Il giorno dopo gli studenti coranici hanno preso la città di Anabah, senza incontrare nessuna resistenza. Non avendo le forze per scontri frontali, i mujaheddin si sono arroccati in montagna, da dove combattono con azioni di guerriglia. I racconti su quanto sta accadendo nella Valle, per 20 anni un’oasi di pace, sono tremendi. Le case vengono controllate per capire se ci sono armi o legami con la resistenza. Le famiglie devono nascondere o distruggere le foto, i ricordi, i messaggi: tutta una parte della loro vita. Si parla di sparizioni di persone, di esecuzioni sommarie, di rappresaglie. “Sono entrati in casa dei miei vicini. Hanno chiesto i soldi, minacciando di uccidere un ragazzo universitario di 22 anni, che era presente con la nonna. Quando hanno avuto i soldi l’hanno ucciso lo stesso, con la motivazione che suo fratello era stato un poliziotto del governo precedente” mi racconta uno dei tanti panshiri scappati a Kabul che preferisce restare anonimo. Il poliziotto era il tipico lavoro del governo precedente. Secondo la ginecologa Keren Picucci, che vive ad Anabah da 9 anni, la maggior parte degli uomini hanno rapporto o fanno parte della resistenza. È un’intera popolazione dunque a rischio. Stefano Sozza, country director di Emergency, conferma che ci sia un’investigazione in corso da parte dello Special Rapporteur sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, su esecuzioni sommarie fatte dai talebani in Panshir e altre province del Nord. Per questioni di sicurezza non sono potuta andare ad Anabah. L’intervista con Keren si è svolta su Skype da Lashkar-Gah, le altre testimonianze le ho raccolte a Kabul. Donne con la scorta - E le donne? Diciamolo subito chiaramente, dopo fiumi di inchiostro versati inutilmente ancora sul burqa. L’ordinanza di maggio di coprire il volto, con l’uso del niqab e non necessariamente del burqa, non ha cambiato sostanzialmente nulla. Nelle zone rurali le rare donne che si vedevano per strada erano sempre tutte col burqa. A Kabul ma anche nella tradizionale Lashkar-Gah ora si vedono donne da sole, con i figli, o accompagnate dal mahran, una scorta maschile che può essere il marito o il fratello, altro obbligo imposto dai talebani. Sono tutte a testa coperta, ma non necessariamente a viso coperto. Non ci sono controlli effettivi e in ogni caso la punizione spetterebbe ai mariti o ai padri o ai fratelli. C’è chi scherzando dice anche che vorrebbe uscire senza velo per fare un dispetto a questi. Scherzi a parte, il burqa è l’ultimo problema delle afgane. I problemi reali, gravissimi, in parte non dipendono dai governi che cambiano, ma dal sistema tradizionale radicalmente patriarcale che le costringe spesso a matrimoni forzati e precoci, e le considera dei “bambinifici”. Silvia Triantafillidis, infermiera, mi ha raccontato di una paziente di 17 anni sgozzata dal fratello per essere stata scoperta con un ragazzo, e di un’altra, che ha ricevuto 15 coltellate, anche lei dal fratello, per aver osato rifiutare l’uomo che la famiglia aveva scelto come suo marito. Si chiama Mursal, ha 20 anni, l’ho vista in corsia, è bella come una bambola di porcellana di inizio Novecento e naturalmente non si è fatta fotografare. A questi problemi, ora si aggiungono l’estrema povertà, la chiusura delle scuole secondarie e il divieto di lavorare tranne che nel settore della sanità e della scuola, annientando la speranza in un futuro migliore. La disoccupazione di donne e uomini - tutti gli impiegati per il governo precedente, l’hanno perso, e in molti casi non possono cercarne un altro rischiando di essere accusati di essere anti-talebani - la siccità peggiore degli ultimi 30 anni, l’ingiusto congelamento dei patrimoni nelle banche americane, il collasso delle banche afgane, l’aumento del costo dei beni di prima necessità fanno sì che da poveri siano diventati poverissimi. Chi ha potuto è andato via - c’è stata una gravissima fuga di cervelli perché chiaramente le persone specializzate hanno avuto più mezzi per poterlo fare - e chi è rimasto vorrebbe andare via. La salute materna è in condizioni disperate. Le donne non vanno negli ospedali perché non hanno i soldi, se lo fanno è quasi sempre troppo tardi. Keren mi ha raccontato della zia di una loro ostetrica che per andare a partorire da loro, è partita dalla provincia di Kapisa con la sorella, la madre dell’infermiera, e un autista a pagamento. L’uomo non si è fermato a un check-point e i soldati hanno sparato. A quel punto ha perso la testa: è tornato verso casa prima di decidersi a proseguire per l’ospedale. Quando infine sono arrivati, la madre dell’ostetrica era morta, e la zia ha partorito in stato di shock. Lo stesso vale per i bambini del pediatrico: se arrivano, è quasi sempre troppo tardi. Stefano Sozza, orgoglioso di come lo staff abbia risposto velocemente, con empatia e voglia di contribuire al terremoto del 21 giugno - che ha fatto tra gli 800 e i 1000 morti - con l’apertura della clinica a Barmal nella provincia di Paktika, non fa in tempo a chiudere quell’emergenza, che si trova già focolai di colera alle porte dell’ospedale di Lashkar-Gah. E, a proposito di guerra, mi passa un report sulla Grande Assemblea degli Ulema tenuta a Kabul dal 30 giugno al 2 luglio. Pur in un ambito in cui si è chiesto lo sblocco dei fondi congelati nelle banche americane e l’approvazione della comunità occidentale, e ci si è detti impegnati ad affrontare le tematiche dei diritti delle donne e delle minoranze, la massima autorità talebana, lo sceicco Haibatullah Akhundzada, ha dichiarato che la jihad, la guerra santa contro gli infedeli continua, che l’Afghanistan non si piegherà alle idee occidentali e che dovrebbero essere ripristinate le pene corporali per i crimini contro Dio e gli uomini. Lashkar-Gah, roccaforte talebana, in guerra per 20 anni contro il governo precedente, ora è in pace. “È lì che probabilmente abbiamo i ‘coltelli più fini’ della chirurgia di guerra del mondo, per l’eccellenza della formazione e per quanto hanno praticato” dice Stefano. Ma una pace sempre con moltissimi feriti per le mine e gli ordigni che continuano ad esplodere, per la criminalità, un altro tipo di guerra, e per un modo di vivere non protetto, che ha perso ogni senso del pericolo. “Anche se questa è zona pashtun, i combattimenti sono stati aspri. Quando i talebani sono entrati in città, siamo rimasti in ospedale per 17 giorni fino al 15 agosto. Sparavano e soprattutto lanciavano razzi da una parte all’altra del fiume. Uno è atterrato nel nostro giardino, per fortuna in una zona senza persone. Ma non siamo mai stati minacciati: l’aver curato bene e gratis tutti senza mai chiedere a quale fazione appartenessero ci ha protetti. Abbiamo fatto dei turni di 24-48 ore per coprire l’assenza dei colleghi che erano impossibilitati a raggiungere l’ospedale e assistere tutti i feriti che arrivavano. Tutto il personale è stato estremamente disponibile, senza chiedere niente in cambio. Ho visto infermiere che si offrivano spontaneamente per assistere anche pazienti uomini e per rimanere a dormire qui per qualche giorno. È stata una grande soddisfazione” racconta Leila Borsa, medical coordinator dell’ospedale. Il dottor Khushal, uno dei ‘coltelli più fini’, lavora nel Centro chirurgico dal 2004. “Il 13 agosto i responsabili dello staff medico dei talebani sono entrati nel nostro ospedale nel pieno rispetto delle nostre regole, senza armi, e ci hanno detto che eravamo salvi. Ora in città la sicurezza è meglio di prima. C’è molta criminalità che non dipende dal cambio di governo: ci sono sempre stati conflitti legati soprattutto alla spartizione e all’irrigazione della terra. I talebani e i criminali rispettano la nostra neutralità e la nostra indipendenza. Ora” aggiunge, quando gli chiedo della sua famiglia “sono afflitto da un gran problema. Ho un figlio maggiore e quattro figlie, di cui la più grande ha 16 anni, e non può andare a scuola. Era molto brava, e ora è depressa. Se voglio che continui a studiare dobbiamo lasciare il Paese. Ma sono molto legato alla mia famiglia di origine, alla mia cultura e al mio lavoro. Però, anche il destino di mia figlia, e delle altre tre che cresceranno, è importante. Non so proprio cosa fare, è un mio pensiero fisso”. In Una persona alla volta il dottor Gino scrive che “Ogni appello all’umanità e alla ragionevolezza [contro l’intervento dell’Italia accanto agli USA in Afghanistan] cadeva nel vuoto”. “Le reazioni erano per lo più accuse di essere traditori dell’Occidente e amici dei terroristi. Al massimo, potevamo aspirare al rimbrotto paternalistico di chi ci trattava come bambini che vogliono sedere al tavolo dei grandi E poi c’erano quelli che: “E allora che cosa avreste fatto voi contro i nazisti?”. Armi - Il dottor Geert Morren partì ingenuo nel 1989 per il Sudafrica, giusto poco prima della liberazione di Mandela, ma aprì velocemente gli occhi sul razzismo, sulla povertà, sulla mancanza di cura e anche sulla compassione e su come si poteva curare accademicamente col minimo dei mezzi a disposizione. Altro ‘coltello fine’ e grande essere umano incontrato a Lashkar-Gah, gli chiedo di parlarmi non delle guerre afgane, ma della guerra: “Spendiamo 50.000 euro al secondo per le armi. Quando si producono, le armi si vendono e poi si usano. È un sistema economico che prepara la guerra, e questo succede da centinaia se non da migliaia di anni. Nella mia breve vita non ho visto fondamentali miglioramenti nel modo in cui vediamo la guerra. La consideriamo giusta o sbagliata a seconda delle nostre posizioni e dei nostri interessi. Fino a che non metteremo profondamente in discussione la violenza degli uni contro gli altri, continueremo a fare guerre. Il problema è estremamente complesso perché va affrontato anche personalmente, riconoscendo e mettendo in discussione la violenza che abbiamo dentro noi stessi, quella violenza che è il nostro lato oscuro, che la guerra non fa che mettere in luce. Io credo che a livello spirituale questa sia la strada, e che sia molto difficile da percorrere. Questo però non vuol dire che dobbiamo restare passivi fino a che non abbiamo raggiunto una profonda evoluzione. Penso che possiamo lavorare in modi paralleli, da una parte per l’arricchimento interiore e dall’altra socialmente. Emergency è anche testimone della violenza delle persone che non hanno voce, civili o militari che siano, perché spesso i militari non sono nella posizione di poter scegliere”. Mi viene in mente la descrizione di Keren dei talebani arrivati feriti all’ospedale chirurgico di Anabah, “ragazzi scalzi, senza coperte, allo stremo delle forze. In sala operatoria si vedeva che i loro intestini erano vuoti come chi non ha mangiato da giorni”. “Abbiamo il privilegio di curare le vittime di guerra,” continua il dottore “ma abbiamo anche un forte obbligo di parlare delle profonde sofferenze che la violenza crea nelle vite delle persone, di cui a chi decide di fare le guerre non importa nulla. E sicuramente non dobbiamo mai, per nessuna ragione, armare gli altri per tentare di risolvere i problemi”.