Carcere, 44 suicidi: senza psicologi e psichiatri prevenzione impossibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 agosto 2022 Un altro recluso si è tolto la vita dopo sei tentativi in tre mesi e mezzo: negli ultimi 4 giorni è il quarto. C’è un’assenza cronica di psicoterapeuti. Antigone: in media uno psichiatra per 10 ore settimanali ogni 100 reclusi. Troppi suicidi, il sovraffollamento persiste ma a incidere è anche la grave assenza nei penitenziari di un supporto per la salute mentale. E ciò è un vero handicap per la prevenzione di questi eventi tragici che quest’anno sono in una crescita esponenziale. L’ultimo suicidio, il quarto negli ultimi 4 giorni, riguarda un detenuto di Ascoli Piceno. Siamo così arrivati a 44 reclusi che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Il garante nazionale delle persone private della libertà ne ha dato notizia, rilevando che l’uomo aveva tentato il suicidio almeno sei volte in tre mesi e mezzo. Ogni storia è a sé ed è sbagliato ricondurre questi eventi tragici al solo problema di salute mentale, ma c’è un dato che non va sottovalutato ed è sempre Antigone, tramite il rapporto di metà anno, a farlo emergere: in alcune carceri dove è risultato un alto tasso di suicidi, risulta carcere l’assistenza psichiatrica.7 Il triste primato: tre casi a Foggia Regina Coeli e San Vittore - Tenendo a mente la sistematicità del problema, Antigone ha dato un breve sguardo agli istituti dove sono avvenuti più suicidi dall’inizio dell’anno. Con tre casi ognuno, al primo posto si collocano le Casa Circondariali di Roma Regina Coeli, Foggia e Milano San Vittore. Seguono con due casi la Casa di Reclusione di Palermo Ucciardone, la Casa Circondariale di Monza, la Casa Circondariale Genova Marassi e la Casa Circondariale di Pavia. In questo istituto nel 2021 si erano tolte la vita altre tre persone in poco più di 30 giorni. Con due decessi avvenuti tra il mese di giugno e luglio, si arrivano così a contare cinque casi di suicidi nel carcere di Pavia in soli nove mesi. Senza voler ricondurre un fenomeno così complesso alle carenze del singolo istituto, Antigone può però osservare come soprattutto le cinque Case Circondariali siano tutti istituti con situazioni piuttosto complesse. Tutte soffrono da anni di una situazione cronica di sovraffollamento, che nel caso di Foggia, Regina Coeli e Monza si aggira addirittura intorno al 150% della loro capienza. A San Vittore, Pavia e Regina Coeli più della metà della popolazione detenuta è di origine straniera. A Monza in particolar modo vi è un’elevata presenza di detenuti affetti da patologie psichiatriche e il 50% della popolazione è tossicodipendente. A Foggia vi è un educatore ogni 190 detenuti. Dai dati raccolti dall’Osservatorio, emerge poi come tranne a Pavia negli altri cinque istituti via sia una carenza, più o meno elevata, di specialisti psichiatri e psicologi rispetto alla media nazionale. Partendo da questo dato, Antigone sviscera la questione della cura mentale in carcere e l’assenza cronica di supporto. Sia nel 2021 che nel 2022, la media si attesta intorno alle 10 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. Gli ultimi dati disponibili mostrano che Palermo Ucciardone, Monza e Foggia hanno una presenza molto inferiore rispetto alla media sia di psichiatri che di psicologi (Palermo: 5,14 ore psichiatri, 5,14 ore psicologi; Monza: psichiatri 6,4, psicologi 6,6; Foggia: psichiatri 3,4; psicologi 10). Regina Coeli ha una presenza molto inferiore alla media di psicologi (6,8 ore). San Vittore ha una presenza inferiore alla media per quanto riguarda gli psichiatri (8,4 ore). A Pavia la presenza di psichiatri è di 10,24 ore settimanali ogni 100 detenuti, mentre degli psicologi di 35,84 ore. Tante le storie tragiche raccolte nel rapporto di Antigone - Antigone, nel suo recente rapporto, narra alcune storie tragiche di detenuti suicidi che avevano forme di disagio psichico. Dalle storie di queste persone emerge come vi fossero alcune situazioni di probabili disagi psichici. Su un giovane ragazzo di 25 anni morto all’Ucciardone era stata effettuata, proprio per presunto rischio suicidario, una perizia psichiatrica che non aveva però portato a nulla. A un uomo di 54 anni in custodia cautelare a Terni era stata da poco rigettata la richiesta di scarcerazione, presentata a causa di una forte depressione. Un uomo di 36 anni, detenuto da poco nel carcere di Foggia e a solo due mesi dal fine pena, pare soffrisse di problematiche psichiatriche. L’uomo di 70 anni si trovava invece da poche ore nel carcere di Genova in stato di fermo come detenuto con disagio psichico. Era stato arrestato in stato di shock e aveva già tentato di togliersi la vita pochi mesi prima. Oltre a queste storie, se ne aggiungono altre di particolare gravità, riguardanti persone con problematiche psichiatriche note e diagnosticate. Un 21enne in carcere per il furto di un cellulare ha atteso 8 mesi il trasferimento in una Rems - Tra queste, Antigone rivela quella di G.T., un giovane ragazzo di 21 anni che secondo il Tribunale di Milano in carcere non doveva stare. Detenuto a San Vittore dall’agosto del 2021 per il furto di un cellulare, nel mese di ottobre il giudice aveva disposto il suo trasferimento in Rems (Residenza per le misure di sicurezza) in quanto una perizia psichiatrica dimostrava la sua incompatibilità con il regime carcerario, a causa di un disturbo borderline della personalità. Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, G. T. si è tolto la vita. Nelle settimane precedenti ci aveva già provato altre due volte. Pochi giorni prima, il 26 maggio, in una cella dello stesso reparto di San Vittore, si era suicidato un altro giovane ragazzo. Si chiamava Abou El Maati, aveva 24 anni, era un cittadino italiano di origine egiziana. Altra storia tragica riportata da Antigone è quella di G.P., un uomo di 30 anni con problemi psichiatrici toltosi la vita il 28 giugno nel carcere di Bari, dove si trovava da appena due giorni. Dopo il suo arresto era stato condotto nella ex sezione femminile dell’istituto, inagibile da anni e adibita a inizio pandemia a luogo per svolgere i periodi di isolamento. Da tempo la sezione era però utilizzata di fatto come reparto per detenuti con patologie psichiatriche, nonostante non fosse in alcun modo adatta a tale funzione per carenze di spazi e di personale. Antigone riporta infine la storia di una donna, di cui il nome ad oggi è però sconosciuto. Si sa solo che era di origine romena, aveva 36 anni ed era detenuta da poco tempo all’interno dell’Articolazione per la tutela della salute mentale (ATSM) del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Nel pomeriggio del 10 aprile è stata ritrovata senza vita nel cortile dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario, al termine dell’ora d’aria. La salute mentale resta il capitolo più problematico - Nell’ambito della questione delle condizioni di salute della popolazione detenuta, quello della salute mentale rimane il capitolo più significativo nei numeri e più problematico nelle risposte date dalle aziende sanitarie e dall’amministrazione penitenziaria. I numeri anzitutto continuano a fotografare il carcere come “psico-patogeno” dove il disagio psichico, diagnosticato e non, è diffuso, capillare e omogeneo sul territorio nazionale. I “disturbi psichici” rappresentano la metà delle patologie rilevate nella popolazione detenuta. Per avere un’idea della consistenza di questo dato, basti pensare che gli altri due gruppi di patologie più diagnosticate in carcere, che sono quelle del sistema cardiocircolatorio e delle malattie endocrine, del metabolismo e immunitarie, sono entrambi al 15% del totale delle patologie rilevate. Dunque il disturbo psichico è di gran lunga la prima categoria diagnostica nelle carceri italiane. Antigone, raccogliendo i dati direttamente dagli operatori sanitari delle singole carceri visitate nell’ultimo anno, ha rilevato che il 13% del totale della popolazione detenuta ha una diagnosi psichiatrica grave, in numeri assoluti significa oltre 7 mila persone. Solo per una piccola parte, dalla diagnosi è seguita una misura di tipo giudiziario. Una rilevazione statistica relativa alla sola Toscana presenta numeri ancora più significativi, sottolineando come su 1.744 persone sottoposte a visita medica in un anno, 610 avessero almeno un disturbo psichiatrico, pari al 34,5% delle persone sottoposte a controllo medico. Suicidi e caldo, è ancora dramma nelle carceri italiane di Luca Cereda vita.it, 5 agosto 2022 In Italia dentro il carcere ci si uccide 16 volte in più che “fuori”. È l’ennesimo, drammatico dato sulle carceri italiane rilevato dall’Associazione Antigone dopo l’ultimo caso di lunedì scorso: una detenuta di 36 anni che si è tolta la vita nell’istituto di pena femminile di Rebibbia a Roma. Sono già 42 nel 2022 - e l’anno è iniziato da appena sette mesi - i ristretti che si sono suicidati in cella: uno ogni cinque giorni. Vittime di suicidio, sempre più giovani: tra i 20 e i 30 anni - Nella maggior parte dei casi, secondo i dati riportati da Antigone, si tratta di giovani tra i 20 e i 30 anni, sia con poca esperienza detentiva alle spalle, cioè persone all’inizio della pena, ma anche detenuti ormai “navigati” e prossimi all’uscita. Ancora una volta, stando agli istituti di pena italiani in cui si registrano più casi, una delle problematiche più comunemente riscontrate è quella del sovraffollamento, con una grande quantità di detenuti con problemi particolari come dipendenze o patologie psichiatriche, e la cronica carenza di personale specializzato che se ne prenda carico. Difficoltà che affliggono molte strutture - Antigone lo aveva già evidenziato nel consueto rapporto di metà anno sulle carceri pubblicato pochi giorni fa - quali Roma Regina Coeli, Milano San Vittore, Palermo Ucciardone, Genova Marassi, Monza, Pavia e Foggia. Invertire la rotta si può? Antigone: “Meno detenuti e più tecnologia contro il gran caldo” - Ed è il gran caldo di questa lunghissima estate l’altro tema attuale e urgente sulla questione carcere. Antigone afferma che nel 58% delle 85 carceri che fanno parte del suo osservatorio, sono presenti celle prive di docce e con schermature alle finestre che impediscono l’ingresso di aria fresca; questo nonostante il regolamento penitenziario del 2000 già prevedeva la messa a norma delle strutture entro il 2005. Ad aggravare la situazione, il sovraffollamento - in Italia ci sono circa 55mila detenuti rispetto ai 47mila posti disponibili - e i limiti costruttivi di alcuni istituti di pena. Emblematico il caso di Augusta, in Sicilia, dove l’acqua viene razionata o di Santa Maria Capua Vetere, in Campania, dove manca il collegamento alla rete idrica comunale, anche se finalmente l’allaccio è stato previsto per l’autunno. Qui si provvede a fornire i detenuti di 4 litri di acqua potabile al giorno a testa, mentre per le altre necessità è fornita l’acqua dei pozzi artesiani. Infine, è di recente approvazione da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la possibilità di acquistare ventilatori nel sopravvitto, cioè a carico delle famiglie dei detenuti. Il caldo eccezionale visto dalle sbarre di M. Michela D’Alessandro ilmillimetro.it, 5 agosto 2022 Se non fosse un’emergenza farebbe caldo lo stesso. E a bruciare in questa estate non sono solo i parchi ma anche le mura dei 190 istituti penitenziari italiani, nessuno escluso. Impossibile pensare ai condizionatori quando a mancare sono anche dei semplici ventilatori e in alcuni casi l’acqua in cella, nonostante una legge del 2000 obbligherebbe la presenza di docce in ognuna di esse. Un problema, quello del caldo nelle carceri, non nuovo ma che si ripete da anni tra temperature ben oltre la media stagionale e il sovraffollamento (a fine marzo 2022 era del 107,4%; Poggioreale, solo per fare un esempio, è il carcere con più presenze in Italia, pur non essendo uno dei più grandi a livello di superficie: ospita oltre 2.200 detenuti per poco meno di 1.600 posti disponibili). “Anche se la situazione varia da caso a caso - spiega a Il Millimetro Federica Brioschi dell’Associazione Antigone, nata alla fine degli anni ottanta per tutelare i diritti e le garanzie nel sistema penale e penitenziario -, può dipendere da dove si trovano gli istituti, se ubicati nelle città o fuori ma anche dall’anno di costruzione dell’edificio”. Caratteristiche che rendono complesso persino fare un quadro a livello nazionale, quindi: “quello che è certo è che nelle celle non è presente nessun sistema di climatizzazione, in alcune possono trovarsi dei ventilatori ma non in tutte, e molto dipende dalla buona volontà del direttore della struttura”, continua Brioschi. Ventilatore cercasi - Pensare ad un complesso detentivo con climatizzazione, acqua calda e fredda tutto l’anno e docce in cella sembra allora quasi un sogno, anche nel 2022 con 40 gradi all’ombra. Dopo anni di dinieghi, con le alte temperature di quest’anno è arrivato finalmente il via libera per l’acquisto di ventilatori per i detenuti. Con un unico difetto, nella maggior parte dei casi il costo non sarà a carico del Ministero della Giustizia ma di chi sconta la pena, spesso per lunghi anni in strutture costruite anche un secolo fa. Dopo la notizia dell’Amministrazione penitenziaria la garante dei detenuti del Piemonte Paola Ferlauto ha rimarcato l’importanza della decisione spiegando come il tetto del carcere di massima sicurezza di Asti non abbia delle tegole, rendendo gli ultimi piani della struttura ancora più roventi. Mettendo a rischio lo stato di salute di alcuni detenuti, molti dei quali non più giovanissimi e con patologie cardiache. “La sezione del carcere è un lungo corridoio con le stanze poste su un solo lato quindi quando fa caldo non si crea corrente d’aria anche se i detenuti aprono le finestre”, ha sottolineato Paola Ferlauto. Anche Antonella Tuoni, direttrice del carcere di Sollicciano, a Firenze, a fine giugno ha ordinato 80 ventilatori per celle dopo la denuncia del cappellano don Vincenzo Russo sulla difficile situazione nelle aree detentive parlando di emergenza igiene e caldo. Questa volta l’acquisto è avvenuto in collaborazione con la Regione Toscana e con il Garante regionale dei detenuti: “per migliorare il clima - aveva commentato Tuoni - nelle ore più calde della giornata restano aperti i blindi delle celle, affinché ci possa essere maggior circolazione dell’aria e più refrigerio”. Anche in Campania, in provincia di Caserta, Samuele Ciambriello, Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, ha donato 50 ventilatori per i detenuti della casa di reclusione di Aversa. “Il fatto che in carcere si stia al fresco è un luogo comune - aveva detto ironicamente Ciambriello all’inizio dell’estate -. Nei mesi estivi è necessario intraprendere, nelle carceri, iniziative che consentano ai ristretti di non vivere una doppia reclusione”. Tra le proposte di Ciambriello, quella di diminuire le ore di attesa per i colloqui con i familiari (costretti anche loro ad aspettare fino a metà giornata prima di parlare con i loro cari), la concessione di più permessi premio e misure alternative, ma anche la possibilità per i detenuti di poter usufruire dell’ora d’aria nel pomeriggio inoltrato e non sotto il sole cocente. Così come soluzioni concrete per alleviare il caldo installando punti doccia o fontanelle - dall’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione pubblicato a fine aprile 2022 dall’Associazione Antigone, nel 2021 nel 56% dei casi, nelle camere detentive non era presente la doccia. “Se la politica si riappropriasse del suo ruolo e, specie nei mesi da giugno a settembre, andasse a visitare le carceri, dai consiglieri regionali ai parlamentari, allora sì che avremmo un carcere più umano e potremmo parlare di detenzione dignitosa”, ha concluso Ciambriello. L’estate a Regina Coeli - Con un caldo che non sembra allentare, ogni istituto penitenziario cerca di trovare soluzioni temporanee, come a Regina Coeli, il principale e più noto carcere di Roma nel quartiere Trastevere. Per i mesi estivi è stato concordato con la Direzione dell’Istituto penitenziario di garantire l’acqua corrente nei locali di permanenza all’aperto (ogni stanza detentiva è dotata di acqua), apertura nell’arco delle 24 ore delle porte blindate delle stanze detentive per consentire il ricircolo dell’aria, consegna più frequente di generi alimentari freschi e di acqua in bottiglia. E un monitoraggio costante dei pazienti con patologie più complesse allocati presso il SAI, il Servizio ad Assistenza Sanitaria Intensificata, ex CDT, Centri Diagnostici Terapeutici. A raccontare come è articolata la struttura è il dottor Luigi Antonio Persico dell’Asl Roma 1, responsabile dell’Uosd - Unità Semplici a valenza Dipartimentale -, l’assistenza sanitaria di Regina Coeli che interviene sia sulla popolazione detenuta nella casa circondariale che sul personale di Polizia Penitenziaria. E un diritto di effettuare visite mediche sia in regime di urgenza che di tipo programmato. Il dottore spiega come a metà luglio all’interno del carcere non si siano verificati malori legati alle alte temperature, né suicidi (quelli verificatosi sono da attribuire a problematiche psichiatriche). Nonostante l’art. 1 del decreto legislativo del 22 giugno 1999, n. 230 - Diritto alla salute dei detenuti e degli internati - stabilisce che “i detenuti e gli internati, al pari dei cittadini in stato di libertà, hanno diritto alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali”, il caldo estremo non è inserito come una malattia. Con il rischio che a differenza di altre patologie non venga considerato: un’esposizione prolungata a temperature elevate può sì provocare disturbi lievi ma condizioni di caldo estreme possono anche determinare un aggravamento della salute di persone con patologie croniche preesistenti. Un allarme lanciato a giugno - Le continue ondate di calore degli ultimi mesi hanno confermato che il mese di giugno del 2022 è stato il secondo più caldo mai registrato in Europa, con temperature superiori alla media di circa 1,6 gradi - a livello globale è stato il terzo mese di giugno più caldo di sempre. A renderlo noto all’inizio di luglio è stato il Copernicus Climate Change Service (C3S) implementato dal Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine per conto della Commissione europea. Insieme alla Spagna e alla Francia, l’Italia è uno dei paesi dove si sono verificate temperature estreme. Tra i primi a lanciare l’allarme proprio a giugno era stato Luigi Castaldo, segretario regionale dell’Associazione Sindacale Polizia Penitenziaria della Campania: “Con molta probabilità questa sarà un’estate di fuoco, tra le peggiori degli ultimi cinque anni. Purtroppo persistono ataviche criticità organizzative che metteranno a dura prova le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria”. Un mix esplosivo che metterà ancora più in allarme il corpo di polizia, in una estate che sembra tutto fuorché alle spalle. La politica si ricordi delle carceri di Enzo Brogi* La Nazione, 5 agosto 2022 So quello che direte: il Paese ha bisogno di sicurezza, di giustizia e di lavoro, dobbiamo occuparci dell’ambiente, del caro vita, della sanità, dell’energia, della scuola, altro che delle carceri! Tuttavia è solo di qualche giorno la denuncia di una situazione insostenibile del carcere di Sollicciano. Invasione di cimici e insetti, celle senza luce, inattività, maltrattamenti e così via. Sollicciano una delle tante emergenze. Medesimi problemi in molte altre galere del nostro Paese. Siamo pessimi nelle classifiche europee per sovraffollamento, alta presenza di detenuti in attesa di giudizio, enormi le cifre che lo Stato esborsa per risarcire le ingiuste detenzioni, insopportabile presenza di persone detenute per l’eccessiva repressività della legislazione sulle droghe. Su tutto questo poi va aggiunto la mancanza di personale, soprattutto nei ruoli sanitari, sociali e psicologici. Ma i problemi sono altri, continuate a sostenere voi, e i ladri e gli assassini devono “marcire in galera”. Ma se continuiamo a trattarli così, in spregio anche alla nostra Costituzione, che prevede la pena ma prevedrebbe pure la rieducazione e riabilitazione, avete pensato a quali saranno le conseguenze? Immaginate, con il caldo di questi giorni, tre, quattro detenuti chiusi per l’intera giornata in pochi metri quadrati, senza fare nulla. Persone di età, reati, etnie diverse. Tutti assieme disperatamente. E così i tanti in attesa di giudizio, i tossici che dovrebbero stare in comunità, la popolazione straniera che potrebbe tornare al loro paese. Ecco la situazione, drammatica, vero? E allora sappiate che quelli che riusciranno a uscire, potrebbero essere, date le condizioni, cause e pretesto, persino peggiori di come erano prima di entrare in quell’inferno indegno che sono le nostre carceri. Ecco, riflettiamo davvero su cosa voglia dire civiltà e sicurezza. In questa campagna elettorale io vorrei ascoltare anche qualcuno che si interessasse delle carceri, di chi le popola e delle loro famiglie. Per il bene comune. *Presidente Corecom della Toscana Le mura delle carceri non devono fermare la fraternità dello sport L’Osservatore Romano, 5 agosto 2022 C’è la visione dello sport inclusivo di Papa Francesco applicata dalla “sua” Athletica Vaticana - uno sport per tutti (in concreto e non a chiacchiere) che non escluda nessuno, tantomeno chi vive l’esperienza del carcere - nel progetto “Rieducare - Lo sport come strumento di dialogo”, presentato di recente allo stadio Olimpico di Roma su iniziativa di Sport e Salute, “per porre l’attenzione sulla funzione fortemente rieducativa delle attività sportive nei penitenziari”. Lo sport dunque come strumento rieducativo: lo ha testimoniato, con i fatti, il 24 maggio scorso anche l’iniziativa We Run Together co-organizzata da Fiamme Gialle e Athletica Vaticana. Su questa stessa linea inclusiva si muove la convenzione firmata da Sport e Salute e la Fondazione Irti per un progetto concreto nelle carceri. Per Francesco Paolo Sisto, sotto-segretario alla Giustizia, intervenuto all’incontro a nome del ministro Marta Cartabia, “rieducare è un rafforzativo della sicurezza: chi ha pensato che più carcere voglia dire più sicurezza ha messo in essere un’equazione incostituzionale. Ci deve essere comunque un domani per chi è afflitto da misure di custodia”. “Vogliamo promuovere un modello di società in cui lo sport sia una reale protezione sociale e civile per tutti a prescindere da età, condizioni economiche e sociali” ha affermato Vito Cozzoli, presidente di Sport e Salute che collabora attivamente con Athletica Vaticana. “Lo sport - ha sottolineato - è uno strumento fondamentale per il reinserimento dei detenuti. Stiamo rilanciando il nostro modello territoriale, perché dobbiamo intercettare il disagio sociale. Le politiche pubbliche non possono fermarsi alle mura degli istituti penitenziari e le attività ricreative, compreso lo sport, sono tra i pilastri della rieducazione del condannato. Rieducare con lo sport non vuole essere uno slogan, ma una reale opportunità”. “Lo Stato condanna, ma è lo Stato a dover rieducare e solo l’obbligo di rieducare può giustificare il potere di punire un condannato da parte dello Stato. Lo sport è regole e libertà insieme” ha rilanciato Natalino Irti, presidente della Fondazione che ha sottoscritto l’accordo. “La rieducazione non è altruismo buonista” ha concluso Carlo Renoldi, capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, “ma un preciso impegno dello Stato”. E un esempio concreto lo ha presentato Gabrio Forti, ordinario di Diritto penale e Criminologia all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, indicando “il rugby come sport in grado di trasmettere regole e valori e di essere straordinario strumento rieducativo”. Riforma penale, ok anche da Cinquestelle e Lega. Ergastolo: tutto rinviato a settembre di Angela Stella Il Riformista, 5 agosto 2022 Via libera ieri dal Consiglio dei Ministri al decreto legislativo di attuazione della riforma processo penale. Tutti i partiti hanno votato a favore. Dunque anche il Movimento Cinque Stelle e la Lega che nei giorni precedenti, sollevando diverse critiche, avevano fatto presagire un voto contrario. Adesso si riservano la possibilità di richiedere delle modifiche durante la discussione nelle commissioni giustizia, chiamate ad esprimere dei pareri entro sessanta giorni. Essi non sono vincolanti, quindi la Ministra Cartabia potrebbe anche non tenerne conto. Si tratta di 99 articoli che, insieme alla parte già vigente sull’improcedibilità, hanno l’obiettivo di ridurre, come richiesto dall’Europa, del 25% entro il 2026 la durata media del processo penale. Gli interventi attuativi della legge delega riguardano la procedura penale, il sistema sanzionatorio penale, la giustizia riparativa. Tra le novità più importanti: al termine delle indagini il pubblico ministero dovrà chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Oggi invece per il rinvio a giudizio è sufficiente disporre di elementi “idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Per quanto riguarda le impugnazioni, tema caro all’Unione delle Camere Penali, l’appello sarà inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione. Sul piano del sistema sanzionatorio si dà risposta al problema dei cosiddetti “liberi sospesi”, rendendo effettive le loro condanne. La legge delega, infatti, introduce pene sostitutive delle pene detentive brevi per condanne fino a 4 anni, che verranno applicate ora direttamente dal giudice di cognizione al momento della chiusura del processo e non più in una fase successiva dal Tribunale di sorveglianza. Non è previsto comunque nessun automatismo, l’applicazione è rimessa alla valutazione del giudice, caso per caso. Viene ampliato l’ambito di applicazione della messa alla prova ad un insieme circoscritto di reati puniti con pena non superiore nel massimo a sei anni. Soddisfazione da parte della responsabile Giustizia del Pd, Anna Rossomando: “Dopo i decreti attuativi del processo civile, il Cdm ha dato il via libera anche a quello relativo al penale. Un importante passo verso la messa a terra definitiva alla riforma, decisiva per l’ottenimento dei fondi del Pnrr. Ma non solo. Ci siamo infatti battuti affinché nelle deleghe venissero approvati interventi fondamentali e di merito su presunzione di non colpevolezza, incremento dei riti alternativi con la previsione già al momento del processo di pene alternative alla detenzione, ampliamento e investimento sulla giustizia riparativa; mettendo al centro i tempi del processo che devono essere certi e ragionevoli. Significa dare più garanzie ai cittadini e risposte alle domande di giustizia”. Plauso anche dal responsabile giustizia di Azione Enrico Costa: “Non accadrà più che persone innocenti vedano le notizie relative alle inchieste nei loro confronti diffuse in rete anche dopo l’assoluzione o il proscioglimento. Con le nuove norme sull’oblio approvate oggi (ieri, per chi legge) in Cdm, nate grazie ad un mio emendamento, chi è stato assolto o prosciolto avrà diritto di ottenere dai motori di ricerca web la deindicizzazione dei dati relativi ai procedimenti giudiziari che lo hanno interessato. La sentenza di assoluzione sarà il titolo per ottenere, senza se e senza ma, che le notizie relative alle inchieste non vengano più associate alla persona innocente. Un grande risultato, una norma di civiltà che rafforza il rispetto del principio di presunzione di innocenza nel nostro Paese. Basta innocenti marchiati a vita”. Nulla di fatto invece per l’ergastolo ostativo: la conferenza dei capigruppo di ieri al Senato ha rinviato a settembre. I Cinque Stelle avrebbero voluto accelerare per scongiurare un “vuoto normativo che potrebbe aprire la possibilità di buttare giù il muro del carcere per i boss mafiosi”, aveva detto Giulia Sarti. Ma sarà difficile approvare il testo tra divisioni dei gruppi, campagna elettorale e possibile ritorno alla Camera. Penale, in Cdm ok all’unanimità ai decreti attuativi di Valentina Stella Il Dubbio, 5 agosto 2022 Incredibile ma vero: dopo tanta attesa e polemiche ieri il Cdm ha dato il via libera all’unanimità al decreto legislativo di attuazione della riforma del processo penale. Un bel risultato per la mnistra Cartabia, che incassa il parere favorevole anche di Lega e Movimento 5 Stelle, i quali nei giorni precedenti, proprio da questo giornale e più volte, avevano sollevato diverse critiche al provvedimento, ipotizzando di non votarlo se non avessero avuto modo di leggere per tempo il testo. E invece, nonostante le 445 pagine di relazione introduttiva siano state rese note solo due giorni fa, il provvedimento è passato senza intoppi. La Guardasigilli: “Ringrazio la Presidenza del Consiglio, tutti i ministri e tutte le forze politiche - ha detto in una nota. L’approvazione di questo decreto legislativo è decisiva per assicurare il rispetto delle scadenze del Pnrr. È un passaggio molto importante nell’interesse dei cittadini. È motivo di grande soddisfazione che sui temi della giustizia, che riguardano tutti i cittadini, ci sia stata una così ampia condivisione. L’approvazione di questo decreto legislativo di attuazione della riforma del processo penale rappresenta un ulteriore significativo passo di un cammino condiviso con l’intera maggioranza, iniziato un anno e mezzo fa. Ringrazio i molti che hanno contribuito”. I pentastellati e il Carroccio chiederanno modifiche durante la discussione nelle Commissioni giustizia, chiamate ad esprimere dei pareri entro sessanta giorni. Non essendo vincolanti, la Guardasigilli potrebbe non tenerne conto, anche se, da quanto si apprende, il suo obiettivo sarebbe quello di averli quanto prima. Ma l’Ufficio di presidenza della Commissione giustizia della Camera di due giorni fa ha stabilito di rinviare a settembre la valutazione degli atti del Governo. Però se il Governo trasmette a breve alle commissioni il testo del penale, come fatto col civile, i sessanta giorni per i pareri cominciano a decorrere. Ieri bocche cucite da M5S e Lega: chi non ha risposto alle telefonate, chi ha detto “non so nulla, chiedi ad un altro”, chi “ti richiamo”, ma non lo ha fatto. Forse c’è imbarazzo per aver prima sollevato una bufera e poi come se nulla fosse si è votato in linea col Governo tanto contestato. Ad esprimere soddisfazione ci hanno pensato invece i due responsabili giustizia della nuova coalizione Pd / Azione +Europa. La vice presidente del Senato, la dem Anna Rossomando, ha infatti dichiarato: “Dopo i decreti attuativi del processo civile, il Cdm ha dato il via libera anche a quello relativo al penale. Un importante passo verso la messa a terra definitiva alla riforma, decisiva per l’ottenimento dei fondi del Pnrr. Ma non solo. Ci siamo infatti battuti affinché nelle deleghe venissero approvati interventi fondamentali e di merito su presunzione di non colpevolezza, incremento dei riti alternativi con la previsione già al momento del processo di pene alternative alla detenzione, ampliamento e investimento sulla giustizia riparativa; mettendo al centro i tempi del processo che devono essere certi e ragionevoli. Significa dare più garanzie ai cittadini e risposte alle domande di giustizia”. Plauso anche dal deputato di Azione Enrico Costa: “Non accadrà più che persone innocenti vedano le notizie relative alle inchieste nei loro confronti diffuse in rete anche dopo l’assoluzione o il proscioglimento. Con le nuove norme sull’oblio approvate in CdM, nate grazie ad un mio emendamento, chi è stato assolto o prosciolto avrà diritto di ottenere dai motori di ricerca web la deindicizzazione dei dati relativi ai procedimenti giudiziari che lo hanno interessato. La sentenza di assoluzione sarà il titolo per ottenere, senza se e senza ma, che le notizie relative alle inchieste non vengano più associate alla persona innocente. Un grande risultato, una norma di civiltà che rafforza il rispetto del principio di presunzione di innocenza nel nostro Paese. Basta innocenti marchiati a vita”. V ediamo quali sono i punti principali della riforma che in parte avevamo anticipato già ieri. Si tratta di 99 articoli che, insieme alla parte già vigente sull’improcedibilità, hanno l’obiettivo di ridurre, come richiesto dall’Europa, del 25% entro il 2026 la durata media del processo penale. Tra le novità: al termine delle indagini il pm dovrà chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Oggi invece per il rinvio a giudizio è sufficiente disporre di elementi “idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Per quanto riguarda le impugnazioni, tema caro all’Unione Camere penali, l’appello sarà inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione. Sul piano del sistema sanzionatorio si dà risposta al problema dei cosiddetti “liberi sospesi”, rendendo effettive le loro condanne. La legge delega, infatti, introduce pene sostitutive delle pene detentive brevi per condanne fino a 4 anni, che verranno applicate ora direttamente dal giudice di cognizione al momento della chiusura del processo e non più in una fase successiva dal Tribunale di sorveglianza. Non è previsto comunque nessun automatismo. Per quanto concerne la giustizia riparativa, tema molto caro a Cartabia, si affiancherà, senza sostituirsi, al processo e all’esecuzione penale. Si tratta di un programma che consente alla vittima, all’autore del reato e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore. Nulla di fatto invece per l’ergastolo ostativo: la conferenza dei capigruppo di ieri al Senato ha rinviato a settembre insieme all’equo compenso. Riforma penale entro le elezioni, il governo ci prova di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 5 agosto 2022 Approvato dal Consiglio dei ministri il decreto che in 99 articoli recepisce la delega sul processo: obiettivo tempi più rapide del 25% entro il 2026. Il testo va in parlamento per i pareri (non vincolanti). Via libera all’unanimità, nel Consiglio dei ministri di ieri, al decreto legislativo che attua la delega per la riforma della giustizia penale. Il testo in 99 articoli passa adesso alle commissioni giustizia di senato e camera che dovranno esprimere le loro valutazioni, non vincolanti. Il termine per la conclusione del percorso di riforma scade il 19 ottobre, ma l’obiettivo del governo è quello di chiudere prima delle elezioni del 25 settembre ed evitare il rischio che tutto salti. Anche perché l’intervento sulla giustizia penale rientra tra gli obiettivi del Pnrr. L’Italia è il paese del Consiglio d’Europa che più di tutti è stato condannato dalla Corte di Strasburgo per l’irragionevole durata dei suoi processi (il secondo, la Turchia, ha la metà delle condanne). Negli obiettivi del Pnrr è prevista una diminuzione del 25% del disposition time - la durata media dei processi - entro il 2026. Cosa che la ministra Cartabia - che ieri sera si è detta “molto soddisfatta” - conta di poter fare intervenendo sulla procedura penale, sul sistema delle sanzioni e spingendo sulla giustizia riparativa. Dal punto di vista delle procedure, sono previste spinte per la digitalizzazione delle notificazioni, una limitazione alle impugnazioni (inammissibili quando manca la specificità dei motivi), trattazione dei ricorsi in appello solo in forma scritta, termini più stringenti per le indagini preliminari e soprattutto che il pm dovrà chiedere l’archiviazione tutte le volte che “gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna”. Dal punto di vista delle sanzioni, il decreto attua la delega nel senso di ampliare le possibilità di sospensione della condanna con la messa alla prova e di accedere alle pene sostitutive delle detenzioni brevi (fino a 4 anni). Prevista anche una tagliola per incentivare l’effettività delle pene pecuniarie: chi non paga rischia di scontare in carcere o ai domiciliari. Infine la ministra ha spinto sul tema della giustizia riparativa, con la previsione di appositi centri presso ogni Corte d’appello dove provare a far incontrare le vittime e gli autori del reato in modo consensuale e volontario Verso processi penali più veloci di Giulia Maria Mentasti Italia Oggi, 5 agosto 2022 È quanto emerge dal Dlgs, approvato ieri in via preliminare dal Consiglio dei ministri, che introduce plurime modifiche in materia penale, tanto con riguardo al sistema processuale quanto a quello sanzionatorio, nonché una disciplina organica della giustizia riparativa. Processi penali più veloci: è quanto emerge dal Dlgs, approvato ieri in via preliminare dal consiglio dei ministri, che ha dato attuazione alla l. n. 134/2021, art. 1 (recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”), e che introduce plurime modifiche in materia penale, tanto con riguardo al sistema processuale quanto a quello sanzionatorio, nonché una disciplina organica della giustizia riparativa. Tra le numerose novità che consentiranno di chiudere i processi in tempi più brevi, i p.m. potranno richiedere solo una volta la proroga del termine delle indagini; nonché, per evitare la celebrazione del giudizio, viene data la possibilità di estinzione delle contravvenzioni nella fase delle indagini preliminari attraverso condotte riparatorie, ripristinatorie e risarcitorie, e viene estesa a un ampio novero di reati la non punibilità per particolare tenuità del fatto. L’oggetto del d.lgs. - Il d.lgs. con cui il Governo ha dato attuazione alla delega ricevuta per la riforma della giustizia penale si compone di 99 articoli, che introducono modifiche e nuove disposizioni al codice penale, al codice di procedura penale e alle principali leggi complementari. Il filo conduttore degli interventi - predisposti sulla base dei contributi di sei gruppi di lavoro di esperti costituiti dalla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia - è rappresentato dall’efficienza del processo e della giustizia penale, in vista della piena attuazione dei principi costituzionali, convenzionali e dell’U.E., nonché del raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, che prevedono entro il 2026 la riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio. Gli interventi al c.p.p. - Gli interventi al codice di rito mirano innanzitutto a realizzare la transizione digitale e telematica del processo penale, attraverso significative innovazioni in tema di formazione, deposito, notificazione e comunicazione degli atti e in materia di registrazioni audiovisive e partecipazione a distanza ad alcuni atti del procedimento o all’udienza. Una seconda area di intervento attiene invece alla fase delle indagini, rispetto alla quale le modifiche attuative della delega perseguono due obiettivi: ridurre i tempi delle indagini incidendo sui termini di durata e introducendo rimedi giurisdizionali alla eventuale stasi del procedimento, determinata dall’inerzia del p.m.; filtrare maggiormente i procedimenti meritevoli di essere portati all’attenzione del giudice, esercitando l’azione penale. La stessa logica propulsiva e selettiva informa novità riguardanti le successive fasi del procedimento, dall’udienza preliminare, al dibattimento, ai riti alternativi, al processo in absentia, ai giudizi di impugnazione, fino all’esecuzione penale. Gli interventi al sistema sanzionatorio. Quanto alle modifiche al sistema sanzionatorio, l’idea guida che le ha ispirate, come si legge nella relazione illustrativa, è che “un processo che sfocia in un’esecuzione penale inefficiente non è un processo efficiente”. Per questo il decreto ha puntato, oltre a incrementare i tassi di esecuzione e riscossione delle pene pecuniarie, oggi a livelli estremamente bassi, a diversificare e rendere più effettive e tempestive le pene, attraverso la riforma, tra le altre, delle pene sostitutive delle pene detentive brevi (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria sostitutiva), immediatamente esecutive dopo il giudicato; nonché delle pene pecuniarie principali (multa e ammenda), con introduzione di un nuovo sistema di esecuzione, riscossione e conversione in caso di mancato pagamento. Ancora, spicca l’incentivo alla definizione anticipata del procedimento attraverso i riti alternativi (quali il decreto penale di condanna e la sospensione con messa alla prova che vedono estesa la loro area di applicabilità); l’archiviazione o il non luogo a procedere per particolare tenuità del fatto; la remissione della querela; l’estinzione delle contravvenzioni a seguito del tempestivo adempimento di apposite prescrizioni impartite dall’organo accertatore e del pagamento di una somma di denaro determinata in una frazione del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa; nonché una riduzione delle impugnazioni, con l’inappellabilità delle sentenze di condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità e alla pena pecuniaria. La giustizia riparativa. Infine, in un’ottica di incentivo alla remissione di querela, e al contempo di riparazione dell’offesa e di prevenzione della criminalità, il decreto apre la strada alla giustizia riparativa, definita come ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore. Rischia il carcere chi non paga la pena pecuniaria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2022 Più spazio alle pene sostitutive e riscossione agevolata per quelle pecuniarie. Il sistema sanzionatorio è tra i punti più toccati dal decreto legislativo approvato ieri in prima lettura dal Consiglio dei ministri. Oggi le persone che si trovano in esecuzione penale esterna sono di più rispetto a quelle che si trovano in carcere: 73.000 contro 55.000. Dimostrazione, dati alla mano, che il carcere (che peraltro è limitato dalla capienza regolamentare: 50.900 posti), non è l’unica pena. Con il decreto, in attuazione della delega, si introducono misure sostitutive delle pene detentive brevi per condanne fino a 4 anni, che saranno però ora applicate dal giudice di cognizione al momento della chiusura del processo e non più in una fase successiva dal Tribunale di sorveglianza (i cronici ritardi nell’esecuzione hanno generato fino ad ora il fenomeno dei cosiddetti “liberi sospesi”, persone cioè condannate a pena detentiva fino a 4 anni che, dopo la sospensione automatica dell’ordine di carcerazione, chiedono una misura alternativa e restano liberi ma, appunto, “sospesi” in attesa di una decisione del Tribunale arrivata anche a distanza di anni). A venire soppresse sono le pene sostitutive meno utilizzate, quelle della libertà controllata e della semidetenzione (disapplicate nella prassi perché applicabili entro lo stesso limite in cui l’esecuzione della pena detentiva può essere sospesa: a maggio 2022 c’erano solo 5 persone in semidetenzione e 98 in libertà controllata). Sulle pene pecuniarie si affronta il nodo della assolutamente risibile percentuale di riscossione, tradizionale falla del sistema sanzionatorio: per risolvere il problema la riforma abbandona la farraginosa procedura del recupero crediti, di ispirazione civilistica, e adotta il modello diffuso e sperimentato in molti paesi europei, come Germania, Francia e Spagna: non è lo Stato, con enorme dispendio di risorse e scarsi risultati, a dover andare a cercare il condannato per recuperare il credito derivante dalla condanna alla multa, è il condannato, su intimazione del pubblico ministero, a dover pagare, anche con modalità telematiche, entro 90 giorni dalla notifica dell’ordine di esecuzione della pena. Se non paga, la pena pecuniaria si converte in semilibertà (obbligo di rimanere in carcere per almeno 8 ore al giorno). Sono previsti limiti massimi di durata della semilibertà: quattro anni se ad essere convertita è la multa (pena per i delitti, cioè per i reati più gravi); 2 anni se ad essere convertita è l’ammenda (pena per le contravvenzioni). Se il condannato paga la multa o l’ammenda, in ogni momento, la semilibertà cessa. La minaccia di una pena limitativa della libertà personale per chi non paga serve quindi a indurre i condannati a pagare tempestivamente la loro pena pecuniaria, come avviene in Germania e in altri paesi europei, dove i tassi di riscossione sono elevati. Se tuttavia il condannato, per le proprie condizioni economiche al momento dell’esecuzione, non può pagare la pena pecuniaria (che il giudice deve comunque tarare sull’effettiva capacità economica e patrimoniale del condannato) la pena pecuniaria si converte nel lavoro di pubblica utilità (o in detenzione domiciliare solo se il condannato si oppone al lavoro). Non sacrificate la giustizia sull’altare del consenso di Massimo Donini Il Riformista, 5 agosto 2022 Nei programmi elettorali si è affermato sempre più il diritto penale come arma contro il nemico. Il governo Draghi ha cambiato rotta. Ora bisogna evitare che torni un terreno di battaglia politica tra partiti in crisi. Le elezioni politiche continue sono state un fattore decisivo nell’uso del diritto penale nei programmi dei partiti con una gestione distorta e orientata a selezionare nemici da combattere: non solo mafiosi o stranieri, ma imprenditori, amministratori, politici etc. Il fatto che il Governo Draghi non abbia manifestato questa preoccupazione, o cercato consensi popolari attraverso il diritto penale, “normalizzandolo”, gli ha permesso di affrontare materie e soluzioni di carattere generale e non contingente, più orientate al dialogo con l’accademia, con tecnici e studiosi. Bisogna evitare la spartizione del tema giustizia in chiave elettorale e populistica, che produce disinformazione e una vera simonia, la vendita di cose magari non sacre, ma superiori, sull’altare di un facile consenso. Quando ho cominciato a scrivere sulle colonne del Riformista erano cambiati il clima politico, il clima della discussione giuridica e soprattutto penalistica. C’era una sorta di aspettativa di un qualche risorgimento. Qualcuno lo ha chiamato Pnrr questo risorgimento, ma vorrei parlare di Risorgimento del Diritto. Perché si abbia un risorgimento del diritto e cioè si passi a un diverso modo di fare legislazione e discussione sul diritto penale, bisogna ricordare cos’eravamo fino a qualche mese prima del Governo Draghi e quali erano i temi dibattuti. Ci si attendeva una diversa politica, perché il diritto è fatto di scelte politiche e non è puro tecnicismo, anche se attua la Costituzione, e la stessa attuazione della Costituzione è piena di tante scelte. Certo alcune di queste sono precondizioni, e anche nuclei di regole non patteggiabili. Tuttavia, nella loro disciplina concreta “entra” la politica in tantissimi modi. A volte non succede nulla per vent’anni e poi in pochi mesi tutto sembra che cambi d’improvviso. Un letterato potrebbe descrivere come il giornalismo sia cambiato nei primi mesi del 2021: la narrazione pubblica ha trasformato il dibattito e gli stili. Questo il clima dell’anno 2021. Le novità maggiori delle recenti riforme ancora in corso sono state rese possibili dall’assenza della tradizionale politica dei partiti: non dall’assenza dei partiti, che le hanno votate infine, ma della loro “vecchia politica”, perché c’è stata una politica eccome, ma affidata a commissioni tecniche e resa possibile da una crisi profonda del sistema dei partiti, per nulla superata oggi. Sotto il tecnicismo si sono nascoste così molte scelte politicamente discrezionali, presentate come attuazione di princìpi costituzionali o vincolate in sede Ue. È la debolezza della politica a spiegare la forza della Magistratura in Italia e a contribuire a dar conto dell’alterazione del rapporto tra i poteri dello Stato dopo Tangentopoli. Per non ripiombare nella patologia, la politica deve però ritrovare sé stessa, oltre le coalizioni pre-elettorali ad captandum vulgus. Nessun parlamento ha mai scritto il diritto, ma solo le leggi sulle quali il diritto si costruisce e che in parte ne condiziona dall’origine la formazione. Il diritto lo fanno gli interpreti; lo fanno le Costituzioni, le fonti sovranazionali, l’interpretazione e la dottrina anche, oltre che la giurisprudenza. Non solo le Corti Supreme fanno il diritto, ovviamente. È un’opera collettiva. Ciò lo salva dalle aristocrazie di singoli interpreti privilegiati e dal dominio delle stesse maggioranze. Tutte le riforme si nutrono di un ius preesistente nel pensiero o nella prassi degli interpreti. Invece, la panpenalizzazione e anche il penale come etica pubblica sono assurti a sistema. Un diritto punitivo così sovradimensionato è il frutto di una più forte malattia e debolezza della classe politica non solo italiana, ma da noi forse più marcata e specifica, sicuramente prodotta anche dalla corruzione sistemica della prima Repubblica, poi frutto dell’ingresso del penale nei programmi di partito, o meglio dell’uso (rectius, dell’abuso) del penale come strumento di lotta politica. È questa, del resto, la definizione più esplicativa del giustizialismo: l’uso del penale come strumento di lotta politica. Ora che sembra crollata l’immagine del magistrato penale supereroe, del pubblico ministero angelo vendicatore della giustizia, è più chiaro quanto sia erroneo affidarsi alle pene per costruire le regole comuni di etica pubblica e ancor più farlo secondo logiche divisive. La diminuzione dei poteri delle Procure, di cui oggi molti parlano, sicuramente non deve riguardare il potere di impedire i mali in atto, perché questo resta invece un ruolo fondamentale che il pubblico ministero svolge rispetto alla gestione dei processi criminali in fieri. Sono invece i poteri anomali, occulti, privi di controlli, a preoccupare. È il potere di fatto esercitato, anche se non con questa intenzione temporale, di tenere sotto accusa un individuo per molti anni, magari solo in primo grado, perché non ci sono reali controlli successivi e prima della sentenza definitiva tanti sono gli anni che possono trascorrere. Le elezioni politiche continue sono state un fattore decisivo nell’uso del diritto penale nei programmi dei partiti con una gestione distorta e orientata a selezionare nemici da combattere: non solo mafiosi o stranieri, ma imprenditori, amministratori, politici etc. Il fatto che il Governo Draghi non abbia manifestato questa preoccupazione, o cercato consensi popolari attraverso il diritto penale, “normalizzandolo”, gli ha permesso effettivamente di affrontare materie e soluzioni di carattere generale e non contingente, più orientate al dialogo con l’accademia, con tecnici e studiosi, per costruire prodotti legislativi non ispirati soltanto dall’intento di guadagnare consenso elettorale. A noi piacerebbe che si mantenesse un Ministero tecnico della Giustizia nella consapevolezza che per riforme di sistema sono necessari, comunque, interventi che almeno neutralizzino il rischio che il penale ritorni terreno di battaglia di una partitocrazia vecchio stile. Avvertiamo il bisogno estremo di evitare la spartizione del tema giustizia in chiave elettorale e populistica, che produce disinformazione e una vera simonia, la vendita di cose magari non sacre, ma superiori, sull’altare di un facile consenso. È questo che vorremmo leggere nei programmi elettorali, oggi tutti concentrati su altri temi. Tra le riforme occorre pensare a ridurre l’area del penalmente rilevante. “Depenalizzazione” non solo in concreto, che sarebbe una depenalizzazione giudiziale, ma legale, reale. La depenalizzazione giudiziale, affidata a meccanismi processuali deflativi, non smaltisce l’arretrato, ha scopi diversi. E sotto quel profilo meglio sarebbe una amnistia una tantum (Il Riformista, 23 febbraio 2021). Il penale è al collasso. I reati sono stati contati, almeno lo si è tentato. Nel 1999, una ricerca finanziata dal Ministero dell’Università ne ha registrati circa 5.400 (norme-precetto) nella legislazione complementare, ai quali andavano aggiunti quelli contenuti nei vari codici: quindi sarebbero stati trai 6 e i 7.000 complessivamente. Ovviamente si tratta di una ricerca già datata, e specificamente diretta alla riforma della legislazione complementare, ma da allora non è cambiato molto, secondo la percezione diffusa. Anzi, di certo si è registrato un ulteriore incremento delle fattispecie, e di procedimenti avviati che esigono radicali potature. Bisogna cambiare strada. Non solo: a questo intervento andrebbe abbinata la riduzione del potere del Pubblico ministero, e l’attribuzione di un maggior potere al Giudice dell’udienza preliminare. È giustissima la regola che esige una ragionevole previsione di condanna introdotta dalla riforma Cartabia (nella legge delega e nei decreti ora all’esame), però è un criterio che vale per la richiesta di archiviazione e per la richiesta di non luogo a procedere. Per il rinvio a giudizio, nel caso di dubbio, il provvedimento immotivato del Gup rimane comunque un passe-partout. C’è stato un ritorno proficuo delle Commissioni di studio per attuare riforme di sistema. Una flebile speranza che la ripresa della gestione della giustizia in chiave partitocratica potrebbe spegnere facilmente, e con essa la riscrittura di riforme più generali, che sono le meno spendibili nelle tribune elettorali. I professori negli anni hanno perso fiducia nella loro effettiva capacità di contribuire al cambiamento. Troppi sono i casi di strumentalizzazione delle intelligenze, nelle commissioni di studio, a scopi mai veramente chiari allo stesso committente, rimasti così incarichi di incerta ideazione, di propaganda, ridisegnati ex post, o più spesso falliti. È patetico scrivere nel curriculum che si è fatto parte di plurime commissioni i cui risultati giacciono negli annali dei progetti tentati che non sono mai approdati a nulla. Per questa ragione molti professori, insoddisfatti di attività puramente descrittive dell’esistente, hanno perso fiducia nel loro ruolo costruttivo, e si sono rassegnati a commentare la giurisprudenza, che citano più della stessa dottrina. Molti si occupano da tempo solo di sentenze, pur essendo e rappresentando un contropotere critico rispetto al dibattito complessivo. Ed è questo il ruolo che ritengo permanente e pubblico della loro missione, anche se appare normalmente come un atto di resistenza. Nel complesso disegno legislativo in discussione in questi giorni si intravedono una nuova visione dell’uomo e del processo, un nuovo ruolo del pubblico ministero, attenzione umanistica per la dimensione sanzionatoria. Un cambio di passo. Si è avviato un grande cantiere di riforme dove nessuno si è posto “contro” qualcun altro, e attraverso questo metodo sono rinate le speranze di vedere realizzati disegni più generali e condivisi. Il vero problema pregiudiziale a ogni riforma della giustizia è la permanente crisi del sistema dei partiti, oggi di nuovo emersa per la tempistica strozzata che ci conduce al voto e che il suo risultato non risolverà miracolosamente. Il silenzio sulla giustizia non è messaggero di pace. Se aver creduto di cambiare la politica attraverso la magistratura appartiene alle illusioni del tempo di Tangentopoli, altrettanto chiara è l’importanza che le questioni penali manterranno nel “corso” politico che verrà. Non si tarderà a prendere atto che la parentesi tecnica del Governo ora dimissionario è stata fortemente espressiva di valori collettivi, costituzionali ed europei, ma per nulla fonte di opzioni obbligate, quanto invece razionalizzate senza la distorsione permanente del populismo. Quei 35 minori che ogni giorno spariscono in Italia: “È emergenza” di Ernesto Manfrè La Repubblica, 5 agosto 2022 Il rapporto del commissario di governo: in sei mesi sparite quasi 10 mila persone. Nei primi sei mesi del 2022 in Italia sono spariti 35 minori al giorno, quasi uno e mezzo ogni ora: sono cifre che gettano luce su una drammatica realtà. Partiamo da qui, per comprendere il nuovo rapporto del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, il prefetto Antonino Bella. In sei mesi sono scomparse 9.599 persone, 53 al giorno, oltre due ogni ora. Si tratta soprattutto di uomini, oltre il 74%. I ritrovamenti sono stati poco più della metà, il 52%, degli altri non si sa ancora nulla. Rispetto al secondo semestre del 2021 le denunce di scomparsa sono calate di oltre il 13%, ma il confronto con il primo semestre dello scorso anno registra invece un aumento del 17%. L’emergenza sociale delle persone scomparse è difficile da comprendere e arginare. Gli allontanamenti, per lo più, sono volontari, l’82%, gli altri avvengono per deficit cognitivi, perché si è vittima di un reato o perché si è sottratti da un familiare. Il dato più inquietante riguarda la scomparsa dei minori. Da gennaio a giugno ne sono spariti 6.312, due terzi del totale. Il 70% riguarda minori stranieri che migrano attraversando la Penisola e per il 30% si tratta di italiani. I ritrovamenti invece capovolgono le percentuali, il 70% dei minori italiani viene recuperato, a fronte del 30% dei minori stranieri scomparsi e rintracciati. Ma il peggio è una parete obliqua. Lo spiega Elisa Pozza Tasca, ex parlamentare bassanese, portavoce di “Penelope (S)comparsi”. Fu lei a convincere l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, della necessità di istituire il Commissario di Governo per le persone scomparse. “La maggior parte dei minorenni che scompare fugge dalle guerre, ora in particolare quella ucraina - spiega Pozza Tasca - e scompaiono per il lavoro nero, la pedofilia, la pedopornografia, la prostituzione, fino al traffico d’organi, come nel caso della bimba rapita a Durazzo in un brefotrofio”. I casi di sottrazione internazionale riguardano 300-400 bambini portati via, ogni anno, dall’Italia. Nell’Unione europea sono circa 1.800. Nel dicembre del 2015 Emilio Vincioni, un bancario di Sassoferrato (Ancona), attendeva di diventare papà. La moglie, di nazionalità greca, all’ottavo mese di gravidanza espresse il desiderio di partorire nel Paese di origine, dove si eclissò con la neonata. “Mia figlia è scomparsa dalla mia vita - si sfoga adesso Vincioni - Nel febbraio del 2020 andai in Grecia per il suo compleanno e fui arrestato all’aeroporto”. Poi, ci sono i corpi non identificati. Il calcolo è impossibile. Andrea Cantadori, Vicario del Commissario, spiega che “oltre quelli non identificati negli obitori, bisognerebbe sommare i corpi ospitati negli ospedali e quelli parcheggiati nei cimiteri”. Ufficialmente risultano 973 salme non identificate, ma secondo i dati pubblicati dalla Rivista Polizia Penitenziaria sono almeno 2.000. Il Commissario di Governo coordina le ricerche degli scomparsi con le forze di polizia, gli enti locali, i vigili del fuoco, la protezione civile e le associazioni del volontariato. Stringe accordi con le amministrazioni e introduce l’utilizzo delle nuove tecnologie di ricerca. In pratica, sostiene e ammoderna la speranza. La sorte precipitata sulla famiglia Mennella di Torre del Greco è emblematica per capire come funzionava prima. Il 23 novembre del 2007, quando la figura commissariale era stata appena istituita, Antonio Mennella, 78 anni, uscì di casa e sparì. Il corpo sarebbe stato ritrovato, otto mesi dopo, vicino la sua abitazione. “La polizia non lo sapeva, i vigili urbani e i vigili del fuoco nemmeno - spiega la nipote, Maria Lucia Mennella - e fummo costretti a presentare ogni singola denuncia, come il coordinamento investigativo dipendesse da noi”. La questione delle persone scomparse, dalle sparizioni senili al traffico di organi passando per le sottrazioni, è un’emergenza transnazionale che, secondo il prefetto Bella, necessita di una regia comunitaria. “È un percorso inevitabile e se ne comincia a parlare” svela Nicodemo Gentile, presidente di Penelope Italia. Avere un Commissario europeo per le persone scomparse consentirebbe di affrontare in maniera concentrata le sparizioni dei minori che migrano e di coordinare i casi giuridici più intricati, come la sottrazione internazionale dei minori. Le persone che svaniscono possono essere scomparse, sottratte o disperse. Come è avvenuto a Giorgio De Bona, scialpinista di 47 anni di Alpago, che, lo scorso dicembre durante un’escursione ad alta quota precipitò in una dolina carsica. Per 25 ore rimase nel ventre della neve. “Si pensa soprattutto ai familiari, in ansia per la tua sorte, ignari della tua vita” racconta De Bona, che poi fu ritrovato. Il dovere dello Stato è dare una risposta a chi smarrisce una persona cara, perché peggio della morte c’è non sapere se abbiamo a che fare con la morte Verona. Si toglie la vita in carcere, inchiesta della procura di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 5 agosto 2022 “Perdonami Leo, amore mio, sii forte, ti amo e scusami...”. Togliersi la vita a 27 anni nella solitudine di una cella quando sei giovane e bella, sai che presto tornerai libera e hai un fidanzato che fuori ti aspetta nella casa che avete da poco preso in affitto per convivere. Perché Donatella lunedì notte nel penitenziario veronese di Montorio si è rannicchiata sul letto fingendo di dormire e ha inalato dal fornelletto il gas con cui si è lasciata morire? Se lo chiede il suo Leo, “sconvolto e ancora incredulo”, se lo domandano attoniti i tanti amici e le compagne di cella “che l’adoravano”. A volerlo scoprire è anche la Procura scaligera che con la pm Maria Beatrice Zanotti ha deciso di aprire un’inchiesta e disposto l’autopsia per accertare dinamica ed eventuali responsabilità. “Dona”, così la chiamavano tutti, è stata trovata esanime alle 8 di martedì mattina: le dovevano portare la terapia per i problemi di dipendenza con cui purtroppo stava lottando da tempo per “ripulirsi”, invece l’hanno scoperta “in rigor mortis”. Secondo il medico se n’era già andata 4-5 ore prima: i dettagli li stabilirà l’esame autoptico che verrà effettuato al Policlinico di Borgo Roma unitamente ai test tossicologici. In carcere la tragica fine della 27enne ha gettato tutti nella disperazione, dal direttore al comandante, dagli agenti alle altre detenute: “Era impossibile non affezionarsi, era un’anima buona ma troppo fragile e così sensibile...”. Lo dimostrano le sue ultime parole, quelle che prima di volarsene via Donatella ha lasciato incise su un foglietto bianco, un messaggio traboccante di affetto per il suo Leo: “Amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami Leo amore mio, sii forte, ti amo e scusami”. Frasi che lacerano il cuore, un’ultima dichiarazione d’amore a cui Leo ora vuole rispondere così: “Una parte di me te la sei portata via e non tornerà mai più, non riuscirò mai a capire né smetterò mai di chiedermi perché. Come faccio ora senza di te? - domanda sconvolto il ragazzo della 27enne suicida - Dona, amore, ho sempre creduto in te e in noi, te l’ho dimostrato. Tu eri la mia casa, il mio riparo, la mia àncora, non ti avrei mai lasciato sola. Invece ora tu hai lasciato da solo me, con mille perché a cui non potrai mai rispondermi. Mi hai lasciato un vuoto che non potrò mai colmare con niente. Mi mancherai per tutta la vita, ti ho amato con tutto me stesso ma forse non era abbastanza, forse non sono riuscito a capirti fino in fondo nemmeno io”. La conclusione del fidanzato è straziante: “Farei qualsiasi cosa per averti qui ancora, sei parte di me e lo sarai sempre amore mio. Mi manchi da morire, non sai quanto Dona... tuo Leo”. Anche l’avvocato Simone Bergamini, che difendeva la 27enne per i suoi guai con la giustizia legati ai furtarelli nei negozi per comprarsi la droga, è angosciato dalla notizia: “Donatella non era solo una persona che assistevo legalmente. Era una ragazza che mi aveva chiesto aiuto per scontare la pena in misura alternativa al carcere e per curarsi definitivamente dalla dipendenza che fin da giovanissima la spingeva a commettere i reati per i quali si trovava in istituto di pena. La conoscevo da circa 12 mesi. Dall’età di 21 anni - rivela l’avvocato era uscita e rientrata in carcere varie volte, e anche per questo nel seguire la sua posizione vi è stata assoluta unità di intenti con gli operatori del Sert, gli educatori del carcere, i volontari e la Magistratura di Sorveglianza, che gli ha sempre concesso una possibilità. Il mio grosso personale rammarico rimane quello di non avere avuto la capacità, nei numerosi colloqui avuti fino a venerdì scorso, di intercettare il suo enorme disagio interiore e di sostenerla, per quanto possibile. Il dispiacere è davvero grande e quando accadono fatti simili il senso di impotenza e di fallimento è totalizzante. La riflessione che ne segue è che forse - conclude il legale - il sistema penitenziario necessita di figure professionali più numerose e che possano seguire soggetti psicologicamente deboli, comprendendone il disagio e sostenendoli nel percorso di reinserimento, anche psicologico”. Verona. “Poteva tornare in Comunità”. Ma si è tolta la vita in carcere di Fabiana Marcolini L’Arena, 5 agosto 2022 In un biglietto si scusa con il fidanzato Leo, aveva trovato l’amore e temeva di perderlo. Un passato segnato dalla dipendenza da stupefacenti e da numerosi furti, Donatela, nata in Albania nel 1994, gli ultimi sei anni li ha trascorsi dentro e fuori dal carcere. Dal 2016 era stata arrestata più volte, il reato più grave una rapina impropria e ritenuta dal gip una donna con “una personalità allarmante sotto il profilo della pericolosità sociale”. Quello era il suo passato, reati non gravi ma la norma sulla recidiva non concede sconti e gli anni di carcere aumentano. Il suo presente invece era la sezione femminile della casa circondariale di Montorio, un presente fragile, contraddistinto probabilmente dalla paura di non riuscire a farcela. La conoscevano tutti, l’avevano aiutata a cercare di uscire da quel tunnel troppo spesso buio, dove la luce rischia di allontanarsi ogni giorno. Venerdì mattina aveva incontrato il suo legale, Simone Bergamini, aveva fretta di uscire, di tornare in comunità per disintossicarsi, nella struttura dalla quale era scappata un paio di mesi fa. Ma l’avrebbero ripresa. Ci sarebbe riuscita, doveva solo aspettare qualche settimana, resistere, perché nonostante quella fuga la disponibilità nei confronti di Donatela da parte dei servizi sociali e del Ser.D. era massima. Al rientro in carcere era stata inserita nel programma lavoro, nella sezione dedicata al confezionamento di marmellate, un progetto nuovo, al femminile. “Le ho parlato, non ho percepito la benché minima intenzione di porre fine alla sua vita, aveva fretta di uscire per andare a vivere con Leo”. Parla poco l’avvocato, da anni membro dell’Osservatorio nazionale carceri e quindi a conoscenza dei disagi dei detenuti e particolarmente attento ai “segnali”, a frasi che possano far pensare a un gesto estremo. “Le avevo spiegato che sarebbe stata accolta di nuovo in comunità, doveva solo avere un po’ di pazienza perché si stavano interessando tutti, a tutti i livelli”. Lunedì mattina ha visto il suo fidanzato, poi la notte, nella cella in cui era sola, ha messo in atto quello che aveva probabilmente progettato. Si è rannicchiata sul letto, come se stesse dormendo, ma aveva un sacchetto intorno alla bocca e ha aspirato il gas della bombola del fornelletto. Nessuno, vedendola, avrebbe potuto immaginare. Martedì mattina l’agente ha bussato alla porta alle 7.30 perché alle 8 aveva la terapia, si stava disintossicando. Mezz’ora dopo è ripassato, non si era alzata e ha aperto la porta per dare l’allarme. Donatela era immobile, probabilmente morta da diverso tempo ma a stabilire l’ora del decesso sarà l’autopsia: ieri mattina il pm Beatrice Zanotti ha affidato l’incarico al medico legale, la dottoressa Giovanna Del Balzo. Un animo tormentato e reso fragile forse dalla paura per una relazione affettiva nata da poco ma che si era trasformata in un legame profondo con un ragazzo, Leo. E probabilmente per lei la convinzione di non riuscire ad avere o quanto meno ad intravvedere un futuro insieme al giovane al quale era legata, ha avuto il sopravvento. Quella paura e la richiesta di essere perdonata che ha scritto in un biglietto in cui esprime l’amore per la madre, in cui parla del rapporto con il padre e dedicato soprattutto a lui, a Leo, con il quale si scusa. Raccomandandogli di essere forte. Una vita al limite, avrebbe dovuto e voluto fare l’estetista, era una bella ragazza ma a 21 anni aveva già avuto qualche problema con la giustizia. Furti in negozio, solitamente accompagnata da qualche amico, per procurarsi denaro destinato all’acquisto di stupefacenti. Troppe volte era stata arrestata e per questo il Questore aveva disposto il divieto di dimora a Verona. Non avrebbe potuto nemmeno passeggiare in città ma il 13 agosto 2020 l’episodio più grave, qualcosa di diverso dal furto di un portafoglio o di confezioni di profumo. Quel giorno cercò, riuscendoci, a strappare la borsa a una signora che stava passeggiando in compagnia di un’amica. La vittima cercò di opporsi e le inseguì ma la reazione di Donatela fu particolarmente violenta e la fece cadere a terra. Rapina l’accusa e 4 mesi dopo, anche alla luce dei precedenti, la Procura chiese ed ottenne l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare a suo carico, ritenendo che una misura diversa, ovvero i domiciliari con braccialetto elettronico, non avrebbero impedito la commissione di altri reati. Ma era cambiata, era uscita e andata in comunità terapeutica, da lì si era allontanata e per questo era tornata in cella. Ma aveva conosciuto un ragazzo, si era innamorata. “Forse siamo impreparati, forse per certi casi servirebbero più contatti con gli psicologi”, conclude Bergamini. Donatela aveva fretta, voglia di un futuro diverso. Ma la paura di fallire ha avuto il sopravvento. Ascoli Piceno. Suicidio nel carcere di Marino del Tronto. Il Garante: “Situazione insostenibile” ilmetauro.it, 5 agosto 2022 Il Garante regionale Giulianelli fa il punto della situazione: “Situazione insostenibile. Troppe criticità a livello locale e nazionale”. Il Garante Giancarlo Giulianelli fa il punto della situazione chiedendo che si intervenga adeguatamente anche sul versante della sanità carceraria, con particolare riferimento alle patologie di tipo psichiatrico che stanno determinando notevoli problemi in tutti gli istituti penitenziari “Si tratta - specifica - del terzo nell’arco degli ultimi sei mesi. Un numero che va ad incrementare il già lungo elenco riferito ai suicidi negli istituti penitenziari italiani. Da considerare che il ragazzo deceduto a Marino era stato da poco dimesso dal reparto di psichiatria di San Benedetto del Tronto per un suo precedente tentativo di togliersi la vita. Non possiamo che esprimere tutta la nostra vicinanza alla famiglia”. Ma Giulianelli va anche oltre, evidenziando alcune criticità che investono sia la sfera locale che quella nazionale. “La casa circondariale di Ascoli Piceno - specifica - ha numerosi problemi di carattere amministrativo e di direzione. Attualmente, infatti, non c’è un direttore ufficiale, ma un sostituto che ha già la guida dell’istituto di Fermo. In linea generale, quanto sta accadendo dimostra ormai ogni giorno l’inadeguatezza delle nostre strutture carcerarie, soprattutto sul versante dell’impatto determinato dalle patologie psichiatriche”. Proprio in questa direzione, secondo Giulianelli occorre “mettere mano alle competenze sanitarie penitenziarie, pianificando una riforma che assicuri, nel pieno rispetto di principi fondamentali, livelli essenziali di assistenza. Non dimentichiamo che con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, una grande mole di detenuti con queste problematiche si è riversata negli istituti, anche per l’attuale incapienza delle Rems”. Concludendo, lo stesso Giulianelli si chiede quante morti dovranno ancora esserci prima che si ponga mano seriamente a questa situazione “che è una spina nel fianco per l’amministrazione penitenziaria e per la tutela dei diritti dei detenuti”. Roma. Regina Coeli: detenuto recluso in cella senz’aria, formiche e lo scarico rotto La Repubblica, 5 agosto 2022 Il Garante: “Violati i diritti umani”. “Condizioni di totale degrado strutturale, mancanza di igiene e insalubrità assoluta” con riferimento alla stanza 1 in cui era rinchiuso l’uomo da tre giorni, durante il quale non aveva avuto accesso alle docce. Il materasso sudicio, come il pavimento su cui era appoggiato, con colonne di formiche, e piatti con sporcizia accumulata da tempo. Nessun arredo e al posto del corredo da letto alcuni fogli di giornale. Rotto lo scarico del water, intasato quello del lavandino, e l’unica finestra sigillata, senza passaggio d’aria, con una temperatura insopportabile. Sono le condizioni degradanti in cui il Garante delle persone private della libertà ha trovato un detenuto nel carcere di Regina Coeli, nella cella destinata a chi è a rischio suicidio. Per il Garante sono stati violati i diritti umani. Di qui la decisione informare la procura di Roma. Nel suo rapporto sulla visita, compiuta ad hoc il 18 luglio scorso nella Sezione Ottava del carcere romano, il Garante parla di “condizioni di totale degrado strutturale, mancanza di igiene e insalubrità assoluta” con riferimento alla stanza 1 in cui era ristretto il detenuto. “Uno stato tale da non consentire la permanenza di una persona senza violarne gravemente la dignità e la salute”. Un degrado che riferisce nel dettaglio, comprese “le pareti imbrattate per tutta la loro estensione, di macchie di varia natura, anche organica” e il detenuto costretto a usare i piatti di plastica dei pasti per buttare un po’ di acqua nel water. Al momento della visita il detenuto era lì da 3 giorni, durante i quali non aveva fatto “nessuna uscita ai passeggi” e non aveva avuto “nessun accesso alle docce”. Si trovava in quella cella per aver tentato il suicidio, ma sul punto il Garante non nasconde i suoi dubbi: l’uomo si era stretto al collo un lenzuolo alla presenza del comandante del reparto e di un commissario. Un episodio che, scrive, appare “un gesto di protesta”, più che un tentativo di suicidio Trento. Una casa per ripartire. Un progetto abitativo per ex detenuti ladigetto.it, 5 agosto 2022 Una vita dopo il carcere è possibile. Lo sanno benissimo a Trento, dove la Caritas diocesana, grazie al sostegno dei fondi dell’8xmille, è riuscita ad avviare, ormai dal 2018, un progetto di supporto, con vitto e alloggio, a quanti, conclusa l’esperienza carceraria, desiderano intraprendere o proseguire un percorso di studi o rivolgersi al mondo del lavoro nell’ottica dell’avvio di un nuovo capitolo della propria esistenza. “Abbiamo voluto cogliere la sfida di aiutare delle persone a riprendere il loro progetto di vita interrotto - spiega Alessandro Martinelli, già direttore della Caritas diocesana di Trento, a Gianni Vukaj nella nuova puntata della serie Firmato da te in onda su Tv2000 -, a ripartire con la solidità che può dare un titolo di studio o una qualifica professionale. Operiamo per fare in modo che il passato possa essere solo una parentesi da superare con la consapevolezza di dover voltare pagina. Grazie all’8xmille della Chiesa cattolica è stato possibile avviare il progetto “Una casa per ripartire”, che accoglie attualmente 7 persone, proprio per dare la possibilità di ricostruire un’esperienza positiva di reintegro nella società”. Per molti ex detenuti la vita dopo il carcere, senza un adeguato supporto, diventa complicata perché si affollano molteplici criticità che vanno dalla necessità di riavviare un processo di ambientamento al soddisfacimento delle esigenze quotidiane. “Sono un ex detenuto e uno studente di Sociologia - racconta Carlo Scaraglio - e per me questo progetto è stato determinante. Una volta usciti dal carcere non si hanno punti di riferimento, non si ha una casa né un lavoro, e quindi immaginare di costruire un percorso di studi diventa proibitivo. Io ci sono riuscito, mi laureerò a breve, e inoltre sono “peer supporter”, cioè aiuto i nuovi arrivati nell’avviare e proseguire il loro cammino, condividendo ansie e timori che io ho già affrontato”. Daniel Uche è un altro dei peer supporter - un termine che si spiega efficacemente come “un accompagnamento dell’inquilino alla pari” - ed è fermamente convinto che il sistema creato col progetto della Caritas Tridentina sia funzionale al reinserimento nella quotidianità perché “l’unico modo per cambiare, una volta usciti dal carcere, è conoscere persone che possano comprenderti per quello che sei veramente e non per quello che hai fatto”. Il funzionamento di “Una Casa per ripartire” è basato su un modello di autogestione da parte degli ospiti. “Siamo noi ex detenuti - continua Scaraglio - persone che hanno fatto quel tipo di esperienza, a mandare avanti l’appartamento”. Un sistema che evidentemente funziona e lo dicono i numeri: “Siamo molto soddisfatti - aggiunge il peer supporter - perché abbiamo un’ottima percentuale di uscita, in altri termini possiamo dire che tutti i ragazzi passati dal nostro appartamento sono poi riusciti a concludere le loro carriere scolastiche, ottenendo il diploma o la qualifica professionale che avevano scelto”. In quattro anni una decina di persone hanno usufruito dell’opportunità della casa, alcuni di loro, una volta concluso il percorso, hanno deciso di restare come supporto per i nuovi arrivati, attivandosi anche per sensibilizzare i più giovani col racconto delle loro storie. E la volontà di studiare, oltre che essere condizione essenziale e anche obiettivo conclusivo, è il motore di tutto il progetto. Con cadenza mensile si effettuano delle verifiche per aggiornare lo svolgimento del percorso e non mancano i volontari che si mettono a disposizione. “Il supporto principale è certamente indirizzato allo studio - spiega Giorgia Mattedi, psicologa e volontaria -, dal momento che l’attivazione di un percorso scolastico è un prerequisito per partecipare al progetto, ma questi ragazzi vengono sostenuti da tutti i punti di vista: gli viene fornito un alloggio e un aiuto per tutte le problematiche quotidiane che possono sorgere”. Le testimonianze di Alessandro, di Carlo, di Daniel e di Giorgia di “Una casa per ripartire” sono al centro di un nuovo filmato della serie Firmato da te, un progetto televisivo di TV2000 che racconta, attraverso la voce dei protagonisti, cosa si fa concretamente con l’8xmille destinato alla Chiesa cattolica e segue le ricadute di un piccolo gesto nel vissuto di persone e luoghi. Un racconto in prima persona, senza filtri, con un montaggio serrato e cinematografico, che coinvolge lo spettatore nelle pieghe delle tante esperienze sostenute dalla carità cristiana. Firmato da te è una serie, ideata e diretta da Gianni Vukaj, regista di TV 2000 in collaborazione con il Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica. Concepito come percorso formativo per quattro emittenti televisive (Telepace di Verona e Telepace di Roma, Tv Prato, Teledehon di Andria), che hanno partecipato alla realizzazione dei filmati, il programma mette in luce il valore della gratuità, tocca la carne viva di ferite che spesso non si vogliono vedere, comprende gli sforzi di una chiesa in uscita, che si prende cura dei più deboli. I video della serie tv mettono in luce i mille intrecci che la Chiesa cattolica è in grado di creare, donando possibilità e speranza, intervenendo con discrezione e rispetto, operando con creatività e positività nel presente dell’Italia che arranca. Ogni anno, grazie alle firme dei contribuenti, si realizzano, in Italia e nei Paesi più poveri del mondo, oltre 8.000 progetti che vedono impegnati sacerdoti, suore e i tantissimi operatori e volontari che quotidianamente rendono migliore un Paese reale, fatto di belle azioni, di belle notizie. Destinare l’8xmille alla Chiesa cattolica equivale, quindi, ad assicurare conforto, assistenza e carità grazie ad una firma che si traduce in servizio al prossimo. La Chiesa cattolica si affida alla libertà e alla corresponsabilità dei fedeli e dei contribuenti italiani per rinnovarla, a sostegno della sua missione. Ora una campagna elettorale che non legittimi il risentimento di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 5 agosto 2022 I più giovani rappresentano soltanto l’8% di chi vota. La politica deve riconquistarli alla vita democratica. Superato lo sgomento dei primi giorni per l’insensata caduta dell’esecutivo guidato da Mario Draghi, ci stiamo rassegnando - con la malinconia dei déjà vu - alla campagna elettorale che ci porterà al 68° governo della storia repubblicana. Il 25 settembre gli italiani e le italiane che avranno compiuto 18 anni, con un elettorato attivo per la prima volta allineato tra le due Camere (non ci sarà più la soglia dei 25 per poter ricevere la scheda del Senato), sono chiamati a eleggere un Parlamento nuovo: 400 deputati e 200 senatori (rispetto ai 945 delle precedenti legislature). Cambiano i numeri, si stanno componendo faticose alleanze nel centrosinistra e nel centrodestra, sono ancora aperti i giochi per definire liste e mappe nei collegi. Quella che rischia di non mutare in quest’estate surriscaldata è la sfiducia di fondo nella capacità dei partiti di agire per il bene comune. Quello che rischia di crescere ancora, fino a divampare, è il timore che la volontà riformatrice di cui la politica dovrebbe nutrirsi venga alla fine sotterrata dai tentativi più spregiudicati di accaparrarsi consensi, offrendo legittimità al risentimento, alla paura, ai rancori che ci attraversano in questa stagione di guerra e pandemia, di crisi economica e climatica. Ma “lo Stato poi siamo tutti noi, non qualcun altro del quale possiamo ignorare il destino”, come ha scritto Ferruccio de Bortoli su Oggi. E dunque il numero che dovrebbe cambiare nella prossima domenica elettorale settembrina è quello degli astenuti (nel 2018 votò il 72,9 per cento degli aventi diritto, che non è neppure poco rispetto ad altri Paesi vicini, ma nel 1948 andò alle urne il 92%). E, ancora di più, quello dell’astensione dei più giovani. Se chiedete in giro, o a casa, pochissimi dei nostri ragazzi e ragazze credono nell’utilità del proprio voto, nella possibilità di essere protagonisti o anche solo comparse della vita democratica. Chi ha tra i 18 e i 24 anni sa di rappresentare poco più dell’8% della popolazione attesa alle urne. Una percentuale crollata di 10 punti in vent’anni in un Paese afflitto dalla denatalità e da un’ormai cronica emigrazione di persone all’inizio della propria vita professionale. Un elettorato esiguo - e mutevole perché presto si sposterà verso un’altra fase esistenziale, con altri interessi - si confronta con il fronte agguerrito degli over 60, sempre più largo, da tradizione assai più omogeneo, stabile per decenni a venire. E meno tentato dall’astensione. La verità, tuttavia, è che pensare un programma di misure per i giovani non dovrebbe significare comporre un pacchetto di nicchia, contro altre fasce della popolazione; bensì ragionare sul futuro dell’Italia, tutti compresi. Investire sull’educazione di base, sull’integrazione tra percorso scolastico e lavorativo, sull’innovazione e la digitalizzazione del sistema che spesso ci lega e rallenta invece di sostenerci, sul contrasto al cambiamento climatico che ci affligge, sui diritti individuali così come stanno mutando agganciati alla giustizia sociale. Le ondate di Covid hanno radicalizzato l’apatia. Ci pare di essere stanchissimi, rigettati in un vuoto pubblico. Il dono di una campagna elettorale senza risse e promesse impossibili, animata da un confronto civile tra idee e numeri, attenta alle generazioni che più hanno da chiedere, sarebbe cura e vaccino. A dose unica e senza effetti collaterali. Per rimettere i giovani al centro della politica, i minorenni dovrebbero poter votare di Matteo Rizzolli Il Domani, 5 agosto 2022 Nel paese più anziano d’Europa l’età dell’elettore mediano è di poco superiore ai 52 anni. Considerando che l’età media di pensionamento è di 63,1 anni e che una persona di 52 anni ha un’aspettativa di vivere ulteriori 33,5 anni (dati Istat), questo significa che l’elettore mediano ha davanti a sé un futuro fatto per due terzi di vita da tranquillo pensionato. Ma chi è l’elettore mediano e perché dovrebbe importarci di lui? È l’elettore che divide esattamente la popolazione degli aventi diritto al voto tra la metà più anziana e la metà più giovane. Un noto teorema di economia predice che i partiti politici in competizione feroce per accaparrarsi un voto più della concorrenza cercheranno in ogni modo di soddisfare le preferenze dell’elettore mediano. Quante volte abbiamo sentito dire che è al centro che si vince la battaglia politica? Ecco, tipicamente si intende il centro dello spettro destra-sinistra, ma in questo caso il centro è definito rispetto allo spettro giovani-anziani. Oggi questo “centro” è fatto di cinquantaduenni non troppo lontani della pensione. Non sorprende quindi che da almeno vent’anni le elezioni siano state vinte con promesse generose che riguardavano i pensionati (dal milione al mese del 2001, all’abolizione della legge Fornero del 2018) e che quando si è messo mano in senso restrittivo alle pensioni si sono tirati in ballo tecnici senza l’incubo di essere rieletti, da Dini a Monti e Fornero fino a Draghi. E non sorprende che, a poche ore dalla convocazione delle prossime elezioni, Silvio Berlusconi abbia irresponsabilmente riesumato il suo vecchio cavallo di battaglia aggiornandolo alla valuta corrente: mille euro al mese di pensione minima. Questo sguardo ammiccante della politica verso l’elettore mediamente anziano ci ha consegnato un paese con la spesa previdenziale che nel 2018 ha sfiorato il 17 per cento del Pil (dati Istat), il dato più alto nei paesi sviluppati. Inoltre, secondo la Banca d’Italia, il reddito medio dei pensionati ha negli ultimi anni superato quello dei lavoratori dipendenti. In compenso la spesa per quello che interessa ai giovani (educazione, spesa per le famiglie) è tra le più basse del mondo occidentale: basti pensare a quanta fatica è stata fatta di recente per aggiungere i sei miliardi di euro necessari per fare finalmente l’assegno unico e universale: una misura che interessa 11 milioni di figli. Ma anche una misura del tutto insufficiente: si pensi, per fare un paragone, che Quota 100 avrà un costo totale di 23 miliardi in sei anni interessando meno di 350mila pensionati (dati dell’Ufficio parlamentare di bilancio). Una spesa pubblica cosi ingiusta verso le nuove generazioni crea un circolo vizioso: in uno studio comparato appena pubblicato, le studiose Katerina Koka e Chiara Rapallini evidenziano come i paesi più anziani investono meno in politiche familiari e di supporto alla natalità e questo comporta tassi di fertilità più bassi che a loro volta compromettono la sostenibilità del sistema di welfare. Sia ben chiaro: quella della senescenza è un problema di molte democrazie sviluppate tanto che l’ex presidente della Repubblica federale tedesca Roman Herzog già nel 2008 parlava del suo paese come di una “democrazia dei pensionati”. Ma certo il problema sembra particolarmente serio ed intricato nel nostro paese che oggi vive la realtà di un debito pubblico molto pesante, di una spesa pensionistica elevata e di un crollo demografico già in atto che rende insostenibile il mantenimento di questa spesa pubblica per il futuro. Ma se il welfare è destinato a crollare tra qualche decennio, cosa può importare al nostro elettore mediano? Diceva Keynes che nel lungo periodo siamo tutti morti: il nostro elettore mediano anche prima di allora. Qui sta la vera questione democratica che dobbiamo cominciare ad affrontare. Alcuni pensano che basti affidarsi alla buona volontà dell’elettore mediano che se informato opportunamente cambierà la prospettiva e si farà carico anche delle esigenze dei più giovani. In fondo anche l’elettore mediano potrebbe avere uno o due nipoti. Altri, tra cui il sottoscritto, ritengono che non sia più il tempo dei pannicelli caldi. C’è invece bisogno di uno shock che scuota il meccanismo democratico e l’orienti al dopodomani. Ci sia permesso durante una campagna elettorale mettere sul tavolo una proposta serissima e radicale che concerne il voto a tutti i minori. Se infatti l’elettore mediano è troppo in là con l’età è anche perché almeno un quinto della popolazione (i minorenni) è escluso dal voto. In campagna elettorale promettere investimenti sulla scuola e sull’assegno unico non paga elettoralmente. Le cose sarebbero ben diverse se gli interessi politici dei minori venissero davvero rappresentati. Uno studio del 2020 di Graziella Bertocchi su una riforma implementata in alcuni stati Usa, che semplicemente agevola il voto dei 18enni permettendo loro di pre-registrarsi nelle liste elettorali, ha confermato la teoria dell’elettore mediano precedentemente illustrata: a un piccolo aumento della percentuale di voto dei giovanissimi dovuto alla riforma ha corrisposto in quegli stati un altrettanto piccolo ma statisticamente rilevante aumento della spesa per educazione. Immaginate cosa potrebbe accadere se tutti i minori potessero davvero votare. E come si può fare? Il demografo Paul Demeny e prima di lui Antonio Rosmini, nel 1848, hanno proposto che il voto dei minori possa essere espresso per delega dai loro genitori. John Wall nel suo recente libro Give Children the Vote, cioè Date il voto ai bambini, (2021) ha raffinato la proposta ipotizzando che questo voto sia obbligatoriamente delegato ai genitori fino almeno ai 12 anni ma che successivamente un minore possa richiedere di esercitare il suo diritto direttamente. Questa proposta è per molti scioccante e solleva una serie di obiezioni già ampiamente discusse e ponderate in letteratura. La prima: chi dovrebbe votare per il minore e come siamo sicuri che il votante esprima davvero la preferenza del minore? Si può affidare mezzo voto a ciascun genitore, oppure il voto solo alla madre oppure a ciascun genitore ad elezioni alterne. Se uno o due genitori mancano ci pensa comunque il tutore che è chiamato a rappresentare gli interessi del minore. D’altronde chi più di loro può avvicinare le preferenze del minore stesso? E anche se le preferenze del minore fossero approssimate dal suo rappresentante questo sarebbe un enorme passo avanti rispetto allo status quo nel quale quelle preferenze non sono proprio rappresentate. La seconda comune obiezione concerne le capacità cognitive e la maturità necessaria per esercitare il voto. Va bene il voto a 16 anni di cui si parla da un po’, ma possiamo davvero dare il voto ad un dodicenne? Innanzitutto la proposta Wall chiarisce che il voto rimane delegato ai genitori finché non sia il minore a richiedere espressamente di poterlo esercitare in prima persona. In secondo luogo si noti che il test sulle capacità cognitive e sulla maturità si applica solo ai minori mentre nessuno ha mai seriamente discusso di limitare il diritto di voto per altre categorie delle cui facoltà e maturità si potrebbe dubitare come persone affette da demenza senile, disturbi mentali, persone in carcere per reati gravi etc. Insomma quello del voto è un diritto che definisce la cittadinanza a prescindere dalle caratteristiche individuali, ma questo non si applica ai minori (cittadini, ma non maturi per votare). Infine ricordiamoci che lo stesso Berlusconi della proposta sulle pensioni sosteneva qualche anno fa che il telespettatore/elettore “ha l’intelligenza di uno che ha fatto la seconda media”. Il nostro dodicenne insomma. Il percorso verso il suffragio universale cominciato nell’800 ha incontrato queste stesse obiezioni in passato: saranno i poveri e le donne maturi abbastanza per votare? I loro interessi non sono già sufficientemente rappresentati dagli attuali aventi diritto? Oggi sappiamo che l’estensione del suffragio non solo era doverosa dal punto di vista etico ma ha avuto conseguenze molto positive per lo sviluppo delle democrazie. E tuttavia il suffragio non è ancora davvero universale: oggi neghiamo ancora il voto alla generazione di Greta Thunberg che occupa le piazze seriamente preoccupata per il futuro sostenibile e neghiamo il voto alle mamme e papà che si devono prendere cura di tutti gli interessi dei loro piccoli tranne che dei loro interessi politici. Anche da questo malfunzionamento del meccanismo democratico nascono i problemi che affliggono il nostro paese. Quella del voto ai bambini è una proposta da prendere sul serio. È una proposta impegnativa che implica delle modifiche costituzionali per cui si potrebbe cominciare sperimentandola in consessi elettorali più limitati (primarie di partito, assemblee private o non disciplinate nell’ordinamento costituzionale). Ma non spaventiamoci per la sfida: chi oggi vuole parlare seriamente di futuro deve discutere della possibilità di far votare chi il futuro ce l’ha davvero a cuore. La forza di Cappato e la politica che fugge dai suoi veri doveri di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 5 agosto 2022 Cappato-bis. Se verrà mantenuto l’ormai distorto assetto dei rapporti tra giudizio sulla costituzionalità delle leggi e intervento legislativo del Parlamento, questo sarà il nome che si darà ad una probabile nuova sentenza della Corte costituzionale sulla disciplina penale del suicidio assistito. Dopo la Cappato-uno. Anche questa volta Marco Cappato rischia. Le radici politiche della sua azione sono nella tradizione della disobbedienza civile in materia di diritti fondamentali individuali, non solo italiana, ma anche specificamente europea (ad esempio per la obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio). Nella sua esemplare azione di disobbedienza civile, Marco Cappato una prima volta, denunciandosi, si era esposto a un processo penale per violazione del divieto di assistenza al suicidio di Dj Fabo. Aveva ottenuto dalla Corte di Assise di Milano, davanti alla quale era stato rinviato, di investire la Corte costituzionale della questione di costituzionalità dell’art. 580 del codice penale. La Corte costituzionale aveva dichiarato che quella norma era incostituzionale, cosicché Cappato è poi andato assolto dalla accusa. Perché allora Cappato ripropone la questione? La ragione risiede nel fatto che la Corte costituzionale, nella sua più che prudente sentenza, ha ritenuto in suo potere di stabilire limiti e procedure perché non sia punito chi aiuta il suicida. La Corte, ricalcando la situazione in cui si trovava Dj Fabo - e così trasformandosi in giudice del fatto piuttosto che di giudice delle leggi - ha ammesso l’impunità di chi aiuti il suicida, ma nel solo caso in cui esso, capace di prendere decisioni libere e consapevoli, soffra di una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche e sia tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale (tutte condizioni da accertare da parte del Ssn). In un primo tempo la Corte aveva invitato il Parlamento a provvedere a una nuova e complessiva disciplina della materia, per rimuovere quella incostituzionale. Ma il Parlamento, sottraendosi al suo dovere costituzionale, non lo aveva fatto. Per anni e ancor ora. Cosicché la Corte costituzionale aveva essa stessa provveduto con la sentenza n. 242 del 2019. Ma la via scelta (sostanzialmente legislativa, ma di incerto inquadramento tra le fonti del diritto) è irta di difficoltà applicative. E in più mostra seri aspetti di irragionevolezza. Che senso ha, infatti, limitare la incostituzionalità al solo caso in cui chi ha deciso di morire sia attualmente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (forse soltanto la ventilazione e il nutrimento artificiali, o anche altri) e così escludere chi non lo sia o non lo sia ancora, o li abbia rifiutati? È questo il caso della persona che Cappato ha accompagnato in Svizzera, ove le è stato possibile procurarsi la morte medicalmente assistita. Ma, per la legge italiana, come rimaneggiata e ritagliata dalla Corte costituzionale nella perdurante omissione del Parlamento, la condotta di Cappato continua a essere reato. Logica vorrebbe ora che, non la legge come atto parlamentare, ma la disciplina imposta dalla Corte costituzionale si sottoposta a vaglio di costituzionalità. Ma il giudice della costituzionalità è la Corte a tale scopo istituita: la Corte costituzionale, autrice della nuova norma. Gli sviluppi della vicenda saranno interessanti per i giuristi: forse meno per gli sconcertati cittadini. La incapacità del Parlamento di svolgere il suo ruolo (ostruzionismo degli uni, tiepido impegno degli altri; tentazione comunque di coprirsi dietro decisioni altrui, giudiziarie) è all’origine della grave situazione in cui le istituzioni si sono venute a trovare. Marco Cappato, ancora una volta impone di affrontare i problemi, di non far finta di niente, di non lasciare che le cose, anche gravissime, si svolgano nell’ombra. Il Parlamento evita di impegnarsi e ora tocca alla magistratura: l’istituzione che non potrà farlo. Nella prima vicenda la prudenza della Procura della Repubblica di Milano e poi l’impegno della Corte di assise avevano evitato drammatizzazioni processuali e portato correttamente il problema davanti alla Corte costituzionale. C’è da augurarsi che anche questa seconda volta il problema trovi il luogo ove può essere discusso e deciso. Per quanto snervante sia il quadro di crisi istituzionale, un passo positivo è stato compiuto: dal coraggio di Marco Cappato. Migranti. Partono i ricollocamenti in Europa: ecco come funzionano di Alessandra Ziniti Corriere della Sera, 5 agosto 2022 Gli emissari del governo francese già arrivati al centro di accoglienza di Bari, i tedeschi verranno entro agosto. Ha più chance di essere redistribuito chi ha i requisiti per lo status di rifugiato ma anche chi ha le competenze più richieste nel mondo del lavoro. La provenienza, lo stato familiare, i requisiti per ambire al permesso d’asilo e adesso anche le skills, le competenze: che titolo di studio hai, che esperienza di lavoro, che attitudini, che aspettative? Perché, ora più che mai, i migranti che sbarcano in Italia sono tanto più appetibili (anche nel resto d’Europa) quanto più rispondenti alla famelica richiesta del mondo del lavoro. Insomma, cuochi, camerieri di provata esperienza, operai specializzati anche se migranti economici (e dunque senza i requisiti per ottenere lo status di richiedenti asilo) oggi hanno buone chance di rientrare nelle quote di coloro che, già dalle prossime settimane, verranno ricollocati nei 22 Paesi europei che hanno dato la loro adesione al nuovo patto europeo per le migrazioni, una riedizione molto più allargata del piccolo esperimento avviato a Malta nel 2018 dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. La piattaforma informatica europea - La piattaforma informatica europea che, in automatico (e dunque senza più bisogno ogni volta delle telefonate di richiesta ai singoli stati da parte della Commissione europea che caratterizzarono il patto di Malta durante il governo Conte 2) farà incrociare domanda e offerta delle quote di migranti da ricollocare, è attiva da luglio. Dei 10.000 sbarcati nel 2022 nei Paesi di primo approdo (Italia, Spagna, Grecia) che verranno redistribuiti, la maggior parte andrà in Francia e Germania che hanno già dato disponibilità ad accogliere rispettivamente 3.000 e 3.500 persone. E, per la prima volta da molti anni, la dichiarazione d’intenti firmata al parlamento europeo a giugno non è rimasta sulla carta. Gli emissari francesi a Bari - Gli emissari del governo francese sono già arrivati in Italia la scorsa settimana. Tappa al centro di accoglienza di Bari, uno dei più grandi d’Italia dove spesso vengono inviati anche i numerosi gruppi salvati dalle navi umanitarie e fatti sbarcare a Taranto, dove nelle prossime ore approderanno anche gli ultimi 659 soccorsi dalla GeoBarents di Medici senza frontiere. A Bari i francesi hanno effettuato vere e proprie interviste a oltre un centinaio di migranti, richiedenti asilo e non: colloqui mirati e approfonditi segnando di ognuno il Paese di provenienza, il perché della fuga, eventuali motivi di persecuzione, caratteristiche personali e familiari, titolo di studio e competenze professionali. Nei prossimi giorni, dopo la verifica dei profili di sicurezza, di eventuali precedenti penali e delle impronte inserite dall’Italia nella banca dati europea, comunicheranno agli sherpa che gestiscono la piattaforma di ricollocamento i nomi dei prescelti. Le procedure di redistribuzione - Afghani e siriani, profughi per eccellenza, così come i nuclei familiari con bambini restano sempre in cima alla lista dei ricollocabili ma questa volta il patto prevede che anche i migranti economici rientrino nella redistribuzione ed ecco dunque che, per eritrei, subsahariani, pakistani, bangladesi le competenze da spendere nel mondo del lavoro diventano fondamentali per ambire ad approdare regolarmente in altri Paesi europei che quasi sempre provano comunque a raggiungere affidandosi ancora una volta a trafficanti e passeur. Esaurite tutte le procedure, sarà l’Oim (l’organizzazione internazionale delle migrazioni) ad organizzare i voli con cui i migranti raggiungeranno le loro destinazioni. Ovviamente per nessuno di loro potrà più scattare il regolamento di Dublino che prevede l’obbligo di richiedere asilo nel Paese di primo approdo. L’Italia primo paese a usufruire dei ricollocamenti - L’Italia, in questo momento, è il primo dei tre Stati costieri (gli altri due sono Spagna e Grecia) che si vedrà alleggerire della pressione degli sbarchi che, non per i numeri assoluti (43.000 contro i 30.000 del 2021) ma per la concentrazione in pochi mesi, ha messo sotto stress la capacità di primo soccorso e redistribuzione all’interno del nostro sistema di accoglienza, spiegano dal Viminale dove i tecnici ogni settimana inseriscono sulla piattaforma i dati del cruscotto degli arrivi. E dunque i funzionari degli altri Paesi europei, che nel frattempo comunicano di volta in volta l’offerta di pacchetti di quote da accogliere, sono in grado in tempo reale di incrociare domanda e offerta. Dopo la Francia, entro agosto sono attesi i tedeschi e anche le piccole Lituania e Romania si sono già fatte sentire. Il nodo irrisolto dei rimpatri - Chi non ha i requisiti, invece, dunque chi ha precedenti penali o ha violato precedenti ordini di espulsione, resta destinato ai centri per il rimpatrio. E qui resta irrisolto il grosso nodo degli accordi con i Paesi d’origine senza i quali è impossibile rimandare a casa chi non ha diritto a rimanere. Al momento -fanno sapere dal ministero dell’Interno- gli accordi di rimpatrio che funzionano regolarmente e che hanno consentito di rispedire indietro qualche migliaio di persone, sono quelli con Tunisia, Egitto e Albania. Migranti. Salvini a Lampedusa: “Patto con la Libia e Centri di detenzione in Africa” di Carlo Lania Il Manifesto, 5 agosto 2022 A Lampedusa per la campagna elettorale Salvini torna a soffiare sugli sbarchi. Poi sfida Meloni: “Nel centrodestra la Lega avrà più forza”. Anche ieri il leader della Lega è tornato a chiedere i nomi alla guida di Esteri, Giustizia, Economia e Interno. Ma gli alleati glissano: “Prima parliamo dei problemi del Paese”. In fondo anche il suo può essere considerato un viaggio della speranza, un po’ come quelli dei migranti che lui invece vorrebbe fermare. Sono da poco passate le tre e mezzo del pomeriggio quando Matteo Salvini arriva a Lampedusa per una due giorni di campagna elettorale all’insegna dell’emergenza immigrazione. Un cavallo di battaglia, per il leghista, più efficace delle promesse su flat tax, autonomia e presidenzialismo e con cui il leader spera di ottenere due obiettivi: conquistare il consenso degli elettori ma soprattutto, è la speranza, riuscire con la trasferta siciliana a inviare un messaggio agli alleati che, a Roma, continuano a frenare sulla possibilità per lui di tornare a guidare il Viminale. Non passa giorno, infatti, senza che Fratelli d’Italia e Forza Italia prendano tempo evitando di rispondere alle richieste della Lega di indicare subito i nomi di chi, dopo il 25 settembre e in caso di vittoria del centrodestra, guiderà almeno alcuni ministeri: Economia, Giustizia, Esteri e, ovviamente, Interno. “Per trasparenza”, ripete ancora Salvini da Lampedusa”. Senza però ricevere soddisfazione. “Ora bisogna trovare le soluzioni ai problemi del Paese, poi si troveranno i ministri”, spiegava ieri in un’intervista alla Stampa l’europarlamentare di FdI Raffaele Fitto. Con il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani che taglia corto spiegando che “è veramente troppo presto per parlare di incarichi”. Una doccia fredda, che però è niente rispetto a quanto affermato da Giorgia Meloni mercoledì in televisione: “Le squadre si fanno sui risultati”. Parole, quelle della leader di FdI, che si possono tradurre come: vediamo quanti voti prende ogni partito e poi discutiamo. Per Salvini il viaggio a Lampedusa, dove è stato chiamato dal vicesindaco leghista Attilio Lucia, è quindi una tappa importante per tornare a soffiare sull’immigrazione prima di spostarsi nei prossimi giorni su un altro confine, quello di Ventimiglia. L’impatto con l’isola della Pelagie non è però dei migliori. Ad attenderlo all’arrivo, oltre al vicesindaco e all’eurodeputata Annalisa Tardino, trova però un gruppetto di turisti in attesa di partire che appena lo vedono lo contestano con fischi e urla. Prima tappa il municipio, dove con il sindaco Filippo Mannino parla di una legge per le isole minori. Poi il sopralluogo all’hotspot di Contrada Imbriacola. Da settimane l’isola deve far fronte a sbarchi continui che hanno portato a una situazione di sovraffollamento del centro, arrivato a ospitare più di 1600 persone quando al massimo ne potrebbe accogliere 350. Per alleggerire la situazione il Viminale ha organizzato il trasferimento dei migranti con traghetti di linea ai quali si è aggiunta la nave Diciotti della Guardia costiera. Quando arriva Salvini ci sono poco meno di 600 persone tra uomini e donne. “Questo posto non è degno di un paese civile”, attacca una volta fuori. “Vogliamo controllare, proteggere i confini, dare sacrosanta accoglienza a chi scappa davvero dalla guerra, che è una minoranza di chi arriva qui”, ripete. Quattro anni fa, in un’altra campagna elettorale, aveva promesso di effettuare centomila espulsioni l’anno rimandando i “clandestini” a casa loro. Numeri stratosferici, impossibili da realizzare per tempi e costi ma che diventano pura fantasia se si tiene conto che non si può espellere una persona in mancanza di un accordo per il rimpatrio con il Paese di origine. E l’unico siglato in epoca salviniana è stato con la Costa d’Avorio. Oggi invece Salvini torna a insistere sulla necessità di avere degli accordi con Libia e Tunisia per fermare le partenze dei barconi. “Sono necessari”, afferma. “Sicuramente collaborare con la guardia costiera tunisina e libica sarà fondamentale” aggiunge spiegando che l’obiettivo della Lega è l’apertura di centri di identificazione e “prevenzione” in Nord Africa. Prima di tornare ad attaccare le ong (“c’è qualcuno che specula sulla pelle del prossimo”) e la ministra Lamorgese: “Se al ministero dell’Interno c’è qualcuno che non fa il suo - dice - è chiaro che rischiamo di arrivare a 100 mila arrivi al 31 dicembre”. La giornata sarebbe anche finita qua se Salvini non ne avesse anche per Giorgia Meloni: “Penso - dice sfidando i sondaggi - che la Lega avrà più forza rispetto a tutti gli altri nel centrodestra”. A Singapore la guerra alla droga è tornata a uccidere di Sergio D’Elia Il Riformista, 5 agosto 2022 Dopo la pandemia nella “Città del Leone” le autorità hanno ricominciato a tirare colli a più non posso. Nella furia è finito sulla forca anche un 22enne disabile mentale. Singapore è la Città-Stato più famosa al mondo. In sanscrito vuol dire “città del leone” e la parte del leone la fa in molti campi. È uno dei principali centri finanziari del mondo. È una delle principali città cosmopolite del globo. È tra i primi porti su scala mondiale per attività e traffico. È il Paese più densamente popolato dopo il Principato di Monaco. Ha la più alta concentrazione di milionari in rapporto alla popolazione. Singapore è fiera di tutti questi suoi primati e ne fa pubblico vanto. Ha un altro primato, quello della “guerra alla droga”, ma non vuole che nessuno ne parli. È una guerra senza quartiere, spietata fino alla morte. A Singapore puoi finire sulla forca se ti beccano con 15 grammi di eroina o con mezzo chilo di cannabis. Il 2022 si preannuncia come l’anno più brutale della “guerra alla droga” a Singapore. Dalla fine di marzo, dopo due anni di tregua dovuti alla pandemia, le autorità hanno recuperato il tempo perduto e hanno ripreso a tirare il collo a un ritmo mai visto prima. Sei uomini sono stati impiccati, altri tre si sono salvati per miracolo. Nella furia di esecuzioni, ad aprile, è finito sulla forca anche un disabile mentale. Il 22 luglio è toccato a Nazeri bin Lajim, un uomo di 64 anni condannato per possesso di 33 grammi di eroina. Ha lottato contro la sua tossicodipendenza da quando aveva 14 anni. È entrato e uscito dal carcere più e più volte fino alla sua ultima tragica uscita. L’ultimo condannato per droga è stato appeso a una forca alle prime luci dell’alba del 26 luglio. La sua esecuzione è avvenuta nel più rigoroso segreto. Si sa solo che era un cittadino malese di 49 anni, arrestato nel 2015 per traffico di cannabis. Anche i membri della sua famiglia, gli unici autorizzati a darne notizia, hanno scelto il più stretto riserbo. I Giardini botanici di Singapore sono una delle più popolari attrazioni turistiche e sono stati premiati come patrimonio dell’Unesco per la loro preziosa collezione di oltre 3.000 specie di orchidee. La prigione di Changi, una delle più temute mete del Paese, è nota per la sua disumanità e per la sua povera “collezione” di appartenenti alla specie umana. Nella seconda guerra mondiale, i giapponesi l’avevano riempita di prigionieri di guerra alleati. Dopo la liberazione, la prigione fu utilizzata dagli inglesi per detenere i prigionieri di guerra giapponesi e tedeschi. Oggi il carcere è destinato ai nemici della “guerra alla droga”, una guerra che a Singapore non sembra vedere mai la pace. La maggior parte delle 496 persone giustiziate nella città-stato dal 1991 sono state condannate per reati di droga. Impiccate nello stesso cortile dove negli anni 40 tre forche furono erette dai soldati britannici per le esecuzioni. Attualmente, le persone detenute a Changi e destinate alla morte sono circa 60, un numero significativo per un paese così piccolo. Il braccio della morte è sempre sovraffollato e le esecuzioni sono pianificate non perché è giunto il momento della resa dei conti, ma semplicemente per fare spazio ai “nuovi giunti”. La loro vita è trattata come un problema amministrativo, di capienza regolamentare e di capienza massima tollerabile per la qualità della vita nel braccio della morte. Così, i condannati a morte vivono nel timore che arrivi il giorno degli avvisi di esecuzione. Sono notificati ai familiari tramite una lettera dal carcere e una telefonata giusto in tempo per fare le ultime visite e i preparativi del funerale. Prima di andare alla forca, nella prigione di Changi, si svolge anche una bizzarra sessione fotografica: i detenuti sono costretti a sedersi sorridenti davanti alla telecamera coi loro vestiti preferiti. I giornali parlano della pena di morte solo quando le autorità rilasciano una dichiarazione, altrimenti fingono che la questione non esista. Spesso non riferiscono nemmeno quando è avvenuta un’esecuzione. Nessun partito politico è disposto a sollevare il tema in parlamento. Gli avvocati rischiano anche di essere accusati di abuso del processo giudiziario e di pagare ingenti spese processuali per la presentazione di ricorsi oltre il processo di primo grado e l’appello. Nel cuore della città-giardino patrimonio dell’umanità c’è un solo parco, Hong Lim Park, dove si possono tenere convegni pubblici non autorizzati. Ad aprile, due manifestazioni contro la pena di morte hanno attirato folle di centinaia di persone, tra attivisti abolizionisti e familiari dei condannati a morte. Un evento significativo in un Paese come Singapore dove lo slogan “legge e ordine” ispira la violenza di Stato. Sono state manifestazioni di speranza quelle tenute al parco di Hong Lim, ispirate da un’altra legge, da un altro ordine, votate alla sacra triade dei diritti umani universali - il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona - che sono il patrimonio dell’umanità più prezioso da tutelare. Russia. Processo Brittney Griner: la campionessa di basket condannata a nove anni di carcere di Rosalba Castelletti La Repubblica, 5 agosto 2022 Era stata arrestata a febbraio con l’accusa di “traffico di cannabis” perché aveva delle cartucce per vaporizzatore all’olio di cannabis. Biden: “Condanna inaccettabile”. Ora si apre la strada allo scambio di prigionieri. Tra le ipotesi, Viktor Bout, il “mercante di morte” impersonato da Nicolas Cage in “Lord of war”. Con i suoi 2 metri e 6 centimetri di altezza, la giocatrice di basket femminile statunitense Brittney Griner sembrava troppo grande per la gabbia riservata agli imputati del tribunale di Khimki, alla periferia di Mosca. Nella sua “ultima parola”, la trentunenne ha detto alla corte con voce tremante di “non mettere fine alla sua vita”. “Mi chiamano pedina politica, ma io spero che la politica resti fuori da quest’aula”, ha detto. Poi ha ascoltato il verdetto: 9 anni di carcere per “traffico di cannabis”. “Una condanna inaccettabile” per il presidente statunitense Joe Biden che chiede alla Russia il rilascio immediato così che Britney possa stare “con la moglie, i cari, gli amici e le compagne di squadra”. Una sentenza che è solo un altro inizio. A decidere davvero il fato della due volte campionessa olimpica e star della Women’s National Basketball Association (Wnba) saranno i negoziati sullo scambio di prigionieri tra Mosca e Washington già in corso che hanno accelerato le ultime battute del processo. L’arresto a febbraio per possesso di cannabis - L’incubo di Griner è iniziato lo scorso 17 febbraio, pochi giorni prima l’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale” russa in Ucraina. La cestista della Phoenix Mercury era venuta in Russia per giocare durante la “off season” statunitense, la pausa tra un campionato e l’altro, pratica comune per le giocatrici di basket della Wnba che spesso guadagnano da vivere di più all’estero che in patria, ma era stata arrestata in aeroporto dopo essere stata trovata in possesso di cartucce per vaporizzatore a base di olio di cannabis. Da lì è finita incastrata nella crisi geopolitica tra Russia e Stati Uniti accesa dall’intervento di Mosca contro Kiev. Durante il processo Griner ha ammesso di possedere la sostanza, ma ha sostenuto averla portata in Russia per errore e negato ogni “traffico”. La piccola quantità di cannabis, ha spiegato, era solo per il suo consumo personale per alleviare il dolore da lesioni croniche, metodo di cura comune tra gli atleti di punta perché ha meno effetti collaterali rispetto ad alcuni antidolorifici. “Un errore in buona fede”, ha ribadito oggi nell’ultima parola. “I miei genitori mi hanno insegnato due cose importanti: una, assumersi la responsabilità delle proprie azioni e due, lavorare sodo per tutto ciò che si ha. Ecco perché mi sono dichiarata colpevole delle mie accuse”, ha aggiunto. La richiesta della procura: nove anni e mezzo di carcere - Oggi doveva essere il giorno delle arringhe conclusive con il pubblico ministero russo Nikolaj Vlassenko che aveva chiesto nove anni e mezzo di carcere, quasi il massimo della pena consentita fissata a dieci anni di reclusione, oltre a una multa di un milione di rubli, circa 16mila euro al cambio attuale. Ma a sorpresa l’udienza è stata aggiornata al pomeriggio per la sentenza. Dalla pena di nove anni, ha detto la giudice Anna Sotnikova, le verranno scontati i cinque mesi già trascorsi in cella. Griner era stata portata in aula ammanettata, maglietta grigia e pantaloni, prima di essere rinchiusa nella gabbia e, prima dell’inizio dell’udienza, aveva mostrato ai giornalisti una sua foto circondata dalle compagne russe di squadra. “Se il tribunale deciderà di condannarla, chiedo di prendere in considerazione tutte le circostanze attenuanti e di imporre una pena più lieve”, aveva detto Maria Blagovolina, partner dello studio legale Rybalkin Gortsunyan Dyakin and Partners che difende la giocatrice, paragonandola a Bolt e Schumacher. “Nello sprint c’è Usain Bolt, in Formula 1 Michael Schumacher e nel basket femminile c’è Brittney Griner”. Ora promette che ricorreranno in appello. Le trattative sullo scambio di prigionieri - La condanna della giocatrice ora apre legalmente la strada a un possibile scambio di prigionieri di cui hanno discusso il venerdì della scorsa settimana il segretario di Stato Antony Blinken e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Blinken ha detto di aver fatto pressioni sulla sua controparte affinché accettasse la “sostanziale offerta” di Washington a Mosca per ottenere il rilascio di Griner e di un altro americano detenuto in Russia, Paul Whelan, che sta scontando 16 anni di carcere per spionaggio. Viktor Bout, il “mercante di morte” impersonato da Nicolas Cage - I media americani ipotizzano che sul piatto ci sarebbe il noto trafficante d’armi russo, Viktor Bout, soprannominato il “mercante di morte”, che ha ispirato il personaggio impersonato da Nicolas Cage nel film Lord of war: arrestato in Tailandia nel 2008, sta scontando una pena detentiva di 25 anni negli Stati Uniti. Ma il Cremlino ha contestato le fughe di notizia e i media russi mettono in dubbio uno scambio tra Whelan e Bout perché l’accusa di spionaggio imputata allo statunitense escluderebbe lo scambio con un civile peraltro, a detta delle fonti russe di Izvestia, considerato da Mosca un “innocente incastrato dagli americani”. Griner, nota come Bg per gli appassionati di basket, non segue le trattative. Nel suo ultimo accorato appello, ha chiesto “scusa” alla sua squadra e alla sua famiglia. “Non volevo ferire nessuno”, ha detto. “L’unica cosa che voglio è tornare da loro”. Iraq. Samira, la fotografa più forte delle carceri irachene di Manuela Borraccino terrasanta.net, 5 agosto 2022 La vita della 77enne fotografa Samira Mazaal è emblema della ricerca di libertà e di pluralismo dell’Iraq moderno. Uno studio famoso, due figli, anni di carcere e torture subite dai vari regimi le sono valsi la stima dei suoi connazionali. “Contadini o intellettuali, nel corso degli ultimi sessant’anni i miei compaesani li ho fotografati tutti” racconta Samira Mazaal, 77 anni, celebre fotografa di Amarah, nella provincia meridionale irachena di Maysan. La storia di questa donna dal volto scavato incorniciato dall’hijab nero raccolta dall’agenzia France Presse rimbalza in questi giorni sulle homepage di moltissime testate internazionali. I suoi connazionali la considerano un simbolo vivente della sfida al patriarcato e alle convenzioni che ha perseguito per tutta la vita e rendono onore alla tempra che ha mostrato negli anni di carcere e di torture subite per il lavoro di documentazione portato avanti nel mezzo dei rivolgimenti che hanno interessato il Paese in oltre mezzo secolo. “La fotografia è sempre stato il mestiere della mia famiglia, non avevamo altre occupazioni” racconta l’anziana professionista, che ha iniziato a fotografare a 16 anni: subito dopo che un intervento chirurgico sbagliato aveva reso cieco il padre, impedendogli di sfamare la famiglia. All’inizio usava dei fogli di rame argentato per un dagherrotipo ottocentesco, ma presto il padre vendette dei terreni per consentirle di acquistare un’attrezzatura più moderna. Come spesso avviene alle rare fotografe dei Paesi islamici, si aprirono per lei gli spazi interni delle case, dove la vita domestica può esser condivisa con un estraneo solo se è donna. “Il mio studio conobbe un successo straordinario - ricorda Samira - perché, essendo una giovane donna, potevo fare delle foto di famiglia”. Fu così avvantaggiata da una delle norme sociali tipiche di società così conservatrici: agli occhi di un capofamiglia maschio solo una donna poteva ritrarre mogli e figlie. Samira ha anche pagato a caro prezzo la sua ingenuità da adolescente nell’avvicinarsi all’attivismo politico, sulle orme delle simpatie comuniste dei fratelli. Aveva 18 anni ed era all’inizio della carriera, mentre l’Iraq era sconvolto da lotte intestine. Dopo che nel febbraio 1963 il generale Abdel Salam Aref - già tra i protagonisti di un golpe nel 1958 - ebbe rovesciato il regime del generale Abdel Karim Kassem con un colpo di Stato ordito con i militari pan-arabisti e l’ala radicale del partito laico Baath, tre militanti comunisti avvicinarono Samira e le chiesero di produrre un poster da affiggere nelle strade contro il nuovo regime. “Non c’era un solo muro in tutta Amarah senza una copia del manifesto. Non fu un crimine: è una fonte di orgoglio” ricorda ancora oggi. Una sua foto di quel periodo, che lei stessa mostra con fierezza, la ritrae in ospedale dopo esser stata torturata in un edificio della città. “Urlavo così forte che pensavo che l’intera città sarebbe accorsa a salvarmi”. Così non fu. Passò i quattro anni successivi, malata e abusata, in un carcere di Baghdad. Liberata grazie a una campagna internazionale per il rilascio di vari prigionieri politici in Iraq, divenne madre di due figli. Nel 1981 venne nuovamente imprigionata, per un breve periodo, sotto il regime di Saddam Hussein. Dieci anni più tardi un altro arresto legato alle proteste per le ripercussioni della Guerra del Golfo dopo l’invasione irachena del Kuwait. Samira fu graziata pochi mesi dopo insieme ad altre detenute. Oggi lo studio fotografico di Samira è ancora frequentato da tanti clienti e, malgrado l’età, lo spirito rivoluzionario di questa donna intrepida non si è spento. Nell’ottobre 2019 era in strada durante le manifestazioni di protesta inscenate dai giovani iracheni contro il carovita, la povertà e la mancanza di sicurezza che affliggono il Paese. “I giovani - chiosa - avrebbero dovuto trasformare il loro movimento in una rivoluzione di massa per sradicare la corruzione e i corrotti”.