Carcere, il tasso di suicidi è un’enormità: non possiamo non interrogarci sulle cause di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2022 Negli ultimi quattro giorni, un detenuto al giorno si è tolto la vita. È di poche ore fa la notizia che un uomo si è suicidato nel carcere di Ascoli Piceno. È il 44esimo suicidio in carcere dall’inizio di questo 2022, più di uno ogni cinque giorni. Numeri in vertiginosa crescita, ben superiori agli scorsi anni. Perfino a quelli del massimo sovraffollamento carcerario che costarono all’Italia una condanna da parte della Corte di Strasburgo per trattamenti inumani e degradanti e che mantenevano fino a poco fa il triste primato. Se l’Italia ha uno dei tassi di suicidi più basso d’Europa nella società libera (0,67 ogni 10.000 abitanti), esso sale di 16 volte se guardiamo alle persone detenute. È un’enormità, sulle cui cause non possiamo non interrogarci. La persona che oggi ha scelto di finire la propria vita, fa sapere il Garante Nazionale delle persone private della libertà, ci aveva già provato sei volte negli ultimi mesi. Storie di disperazione e spesso di marginalità. Non grandi e pericolosi criminali, ma persone con problemi di tossicodipendenza, giovani con poca corazza per imparare a farsi la galera, detenuti con parenti lontani e ancor più soli e isolati nell’isolamento del carcere. Circa la metà dei suicidi ha riguardato detenuti stranieri. Diversi si trovavano in carcere solo da poche ore e si sono sentiti persi. La fascia più rappresentata è quella dei giovani e giovanissimi, tra i venti e i trenta anni di età. Il sistema penitenziario e la politica non possono non farsi carico di tutto questo. Lo Stato ha un dovere di custodia nei confronti di chi reclude. Sono anni che i rapporti di Antigone, compreso quello di metà anno pubblicato pochi giorni fa, raccontano lo stesso scenario: un grande sovraffollamento (che non significa solo mancanza di spazio vitale, ma anche riduzione dell’attenzione che il sistema può prestare al singolo e compressione di ogni servizio essenziale, compreso quello di tutela della salute), di detenuti tossicodipendenti, di detenuti affetti da patologie psichiatriche. Da troppo tempo in carcere rinchiudiamo chi fuori non vogliamo vedere e non vogliamo gestire. Poche, troppo poche, le figure capaci di intercettare questi problemi. Ciascun educatore deve farsi carico in media di 81 persone, con picchi di 220 (Bari) o 189 (Foggia). La media di presenza degli psichiatri si attesta attorno alle 10 ore settimanali per 100 detenuti, quella degli psicologi sale a 20. Nei mesi scorsi Antigone ha redatto un’articolata proposta di riforma del regolamento penitenziario. L’attenzione di fondo era anche a creare condizioni di vita interna capaci di sostenere la persona in un momento di disperazione ed evitare gesti irrimediabili. Alla fine dello scorso anno, la Commissione ministeriale per l’innovazione penitenziaria guidata dal prof. Marco Ruotolo aveva presentato una preziosa relazione che conteneva proposte in parte analoghe. Purtroppo la caduta del governo ha impedito che quel testo si trasformasse in realtà. Accanto a interventi riformatori più complessi, si proponevano provvedimenti decisamente di facile attuazione. Provvedimenti che in carcere possono salvare vite umane. Mi riferisco all’ampliamento delle possibilità di contatto tra le persone detenute e i loro cari, il cui contingentamento, se non in casi particolari, non ha alcuna ricaduta positiva sulla sicurezza e si risolve in una mera aggiunta di afflizione senza senso. Oggi il governo è in carica solo per il ‘disbrigo degli affari correnti’. Non ha che ‘poteri di ordinaria amministrazione’. Un concetto privo di contorni rigidi e suscettibile di interpretazione. Con l’ordinaria amministrazione si può allargare l’accesso alle telefonate da parte delle persone detenute. Basta una singola disposizione regolamentare, che potrebbe salvare molte vite. *Coordinatrice associazione Antigone 4 suicidi in 4 giorni. 44 in 7 mesi. Ecco l’agenda carceri di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 agosto 2022 Una strage. Una strage voluta. Quattro suicidi in quattro giorni, e siamo a quarantaquattro dall’inizio dell’anno. Il cappio al collo non è solo quello che ti stringe e ti soffoca fino all’ultimo goccio di respiro. È anche il simbolo di quella vita che ti sta stretta, della giustizia che rinchiude il tuo corpo perché non sa in quale altro modo sanzionare le tue trasgressioni. Un cappio al collo nella sezione femminile di Rebibbia. Darsi la morte ad Ascoli Piceno o a Verona a soli 27 anni. O ancora la pena dell’impiccagione data a se stesso a Brescia, a Canton Mombello. E così, giorno dopo giorno, a Sassari, a Pavia, a Viterbo, e persino a Bollate, il carcere di minima sorveglianza. Eppure era stato chiaro il Presidente Mattarella nel giorno del suo secondo insediamento. Quando si era impegnato, e aveva impegnato il Parlamento a fare qualcosa perché questa strage avesse termine. Viene rabbia a pensare che basterebbe così poco. Non c’è bisogno di pensare in grande, per cominciare a salvare qualche vita. Cominciamo a svuotare. Se lo si è potuto fare nei giorni del Covid e con un ministro non certo garantista come Bonafede, che cosa si aspetta, per esempio, a trasformare la detenzione in carcere in domiciliare per tutti coloro che stanno scontando l’ultimo anno di pena? E poi, i magistrati, soprattutto quelli che si definiscono “democratici”, potrebbero dare una bella regolata alla custodia cautelare. Chissà se la notizia di queste 44 persone che non ci sono più scuoterà qualche coscienza. Se qualche leader politico alzerà un dito. Se nessuno se ne vuole occupare, allora ciò significa una cosa sola, che siamo davanti a una strage voluta. E andatevene al diavolo, voi e i vostri piccoli mercanteggiamenti. Non siete degni dei nostri voti. Ieri mattina il leader dell’Associazione Luca Coscioni Marco Cappato si è andato a denunciare in una caserma dei carabinieri milanesi per aver accompagnato qualche giorno fa in Svizzera una signora veneta che si era rivolta all’associazione per poter accedere legalmente al suicidio assistito. Elena aveva 69 anni, era una paziente oncologica, non dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Per Marco Cappato si tratta di una nuova disobbedienza civile, dal momento che la persona accompagnata non è “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”, quindi non rientra nei casi previsti dalla sentenza 242\2019 della Corte costituzionale sul caso Cappato\Dj Fabo per l’accesso al suicidio assistito in Italia. Uscito dalla caserma ha riferito: “Alle forze dell’ordine ho raccontato le mie azioni concrete che mi hanno permesso di aiutare Elena. Lunedì mattina alle ore sette con la mia auto sono andato nel paese in Veneto di Elena, le ho citofonato, l’ho fatta accomodare in macchina e siamo partiti per Basilea”. Cappato ha concluso sottolineando che la sua presenza è stata utile e necessaria “per interpretare i documenti e le conversazioni col medico e il personale della clinica. Ho cercato di fare sentire Elena meno in esilio”. “Nella dichiarazione resa ai carabinieri ho sottolineato che se mi sarà chiesto continuerò a dare aiuto a persone come Elena”. L’Associazione Coscioni mette a disposizione un numero bianco (06 9931 3409), una vera e propria “infoline gratuita per far luce sui diritti nel fine vita e per avere maggiori informazioni”. Cappato rischia fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio. La sua autodenuncia è stata trasmessa alla Procura di Milano e sarà valutata dall’aggiunto Tiziana Siciliano, che si è già occupata del caso di Dj Fabo. A questo punto ci si chiede: non dovrebbero essere previste le misure cautelari per pericolo di reiterazione del reato? Ergastolo: la legge passa se si rinvia sulla delega fiscale di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2022 Oggi è il giorno decisivo per sapere se la riforma dell’ergastolo ostativo finirà in un nulla di fatto o se, invece, oggi stesso verrà votata dal Senato definitivamente. La riforma, imposta dalla Corte costituzionale, è appesa a un veto, pesante del centro-destra ma non sull’ostativo, bensì in tema di delega fiscale. Questa mattina, alle 9,30, ci sarà una nuova riunione dei capigruppo ed è a questa riunione che il centro-destra, secondo quanto ci risulta, vuole verificare se ha ottenuto quanto chiesto ieri, ovvero la garanzia che non sarà il governo dimissionario ad occuparsi dei decreti attuativi in merito alla delega fiscale, ma il governo che uscirà dalle urne dopo il voto del 25 settembre. Ieri, il centro destra ha chiesto un solenne impegno, possibilmente attraverso la parola del ministro Daniele Franco. Se oggi otterrà questa garanzia, allora è disposto a votare immediatamente la riforma dell’ostativo su cui, da solo, preme da tanti giorni il M5s, altrimenti non se ne fa nulla. Quindi oggi o tramonta definitivamente la riforma dell’ostativo, approvata da Montecitorio e ideata da M5s (anche se a firma del presidente della commissione Giustizia, Mario Perantoni, comunque anche lui pentastellato) oppure, se il centro-destra avrà ottenuto quello che vuole, la riforma va in Aula nel pomeriggio. Così come la riforma sull’equo compenso per le libere professioni, su cui ha spinto FdI. La riforma dell’ostativo ai benefici per detenuti mafiosi e terroristi, che non hanno mai voluto collaborare con la giustizia, è stata imposta a questo Parlamento dalla Corte costituzionale che, ad aprile 2021, quando ha bocciato anche l’ostativo assoluto in materia di libertà condizionata, dopo aver dichiarato incostituzionale l’ostativo assoluto per i permessi premio, nel 2019. In quel caso, però, aveva stabilito essa stessa i paletti che i magistrati di Sorveglianza devono rispettare per poter, eventualmente, concedere i permessi premio anche senza collaborazione con la giustizia. Per quanto riguarda la libertà condizionata, invece, la Corte ha sì dichiarato l’incostituzionalità dell’ostativo assoluto, stabilendo che debba essere relativo ma ha anche stabilito di far decidere al Parlamento i termini della riforma tenendo conto, però, “della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Se la riforma non sarà votata dal Parlamento uscente, si dovrà ricominciare da zero, ammesso che la Corte non decida di entrare nel merito il prossimo 8 novembre quando ha fissato l’udienza dell’ennesimo ricorso della Cassazione contro l’ostativo. Quel giorno, in assenza di riforma, la Corte ha tutte le possibilità aperte: o scegliere di dare altro tempo al Parlamento, in considerazione delle elezioni anticipate, o entrare nel merito in considerazione del fatto che il Parlamento “vecchio” aveva avuto, comunque, il tempo di votare la riforma. A maggio scorso, quando era scaduto l’anno concesso per legiferare, la Corte aveva dato al Parlamento altri 6 mesi, fino all’8 novembre, appunto, perché un ramo del Parlamento, la Camera, ad aprile, aveva già approvato la riforma e l’aveva trasmessa alla commissione Giustizia del Senato. La sfida di Cartabia su meno carcere, ma pene certe di Liana Milella La Repubblica, 4 agosto 2022 Oggi in Cdm la riforma penale, ma M5S la contesta. Le novità della Guardasigilli su come scontare le pene fino a 4 anni senza carcere, e sulla riscossione delle pene pecuniarie. M5S dà battaglia sulla messa alla prova per i reati fino a 6 anni, sulla giustizia riparativa e le pene sostitutive, ma anche sulle indagini preliminari e la gestione delle notizie di reato. Meno carcere, con più certezze, per Marta Cartabia. Troppo poco carcere per M5S. Una Lega che si dichiara “costruttiva” nella prospettiva di andare al governo e cambiare tutto sulla giustizia. Mentre Costa di Azione invita la ministra “ad andare avanti” contro chi cerca di bloccare una riforma penale considerata “troppo garantista”. Una riforma, come ricordano via Arenula e lo stesso Costa, “fondamentale” per incassare i 21 miliardi del Pnrr, la seconda tranche legata però all’approvazione definitiva anche dei decreti attuativi entro il 19 ottobre (il 26 novembre quelli del processo civile). Denaro la cui premessa è la riduzione dei tempi del processo penale del 25% e del 40% di quello civile. Il clima è molto simile a quello di un anno fa quando, giusto il 3 agosto, fu approvata alla Camera la riforma penale dopo un durissimo scontro con M5S sull’improcedibilità dei processi che sforavano il tempo massimo consentito e archiviava lo stop dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede alla prescrizione dopo il primo grado. Eccoci adesso all’ultima battaglia sulla giustizia del governo Draghi e di Cartabia. Che porta a palazzo Chigi un unico decreto attuativo sul processo penale. Ieri il testo è stato esaminato nel pre consiglio. Appena diffuso, il decreto ha prodotto un’infinita riunione degli esperti giustizia di M5S, capitanata dalla responsabile del settore Giulia Sarti, una “bonafediana” di ferro che, proprio come l’ex ministro, non potrà essere ricandidata. Al pari dell’ex sottosegretario Vittorio Ferraresi, durissimo nella sua battaglia sull’ergastolo ostativo. Le contestazioni M5S - Dalla riunione filtrano i dubbi e le contestazioni del M5S sul decreto. Riassumibili così: al partito di Conte non vanno giù le regole sulla “messa alla prova” per i reati fino a 6 anni (troppi sei anni, meglio ridurli a 4), quelle sulla giustizia riparativa (l’incontro vittime-autore dell’offesa alla presenza di un mediatore), sulle pene sostitutive al carcere, e su alcune regole previste nella fase delle indagini preliminari e sui tempi troppo stretti per gestire le notizie di reato. I punti della battaglia - Sarà l’ennesima battaglia di Marta Cartabia sulla giustizia. Su un testo di ben cento articoli in cui si affronta di tutto, dalla digitalizzazione alle notifiche degli atti, dalla giustizia riparativa all’effettiva riscossione delle pene pecuniarie, dalle nuove regole per le indagini preliminari alle pene sostitutive per le condanne fino a 4 anni, al diritto all’oblio per chi è assolto. Un testo su cui M5S è deciso a dare battaglia nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato che dovranno esprimere un parere consultivo, di cui però il governo può anche non tenere conto. Da via Arenula ieri sottolineavano tre aspetti che Cartabia ritiene importanti. La riduzione dei cosiddetti “liberi sospesi”, cioè coloro che vengono condannati con pene non superiori a 4 anni, quindi non vanno in carcere, sono “liberi”, ma poi restano in una sorta di limbo, quindi sono “sospesi”, in attesa comunque di scontare la pena. E ancora la riscossione delle pene pecuniarie, i cui arretrati, ad esempio, nel 2019 erano di ben 2.017.374.589, una somma che, sottolinea via Arenula, “come ordine di grandezza, è prossima all’ammontare dei fondi del Pnrr destinati alla giustizia”. E infine il capitolo della “giustizia riparativa”, una realtà, scrive il giurista e consulente di Cartabia Gian Luigi Gatta, “che oggi si sta facendo sempre più strada a livello internazionale e che si affianca, senza sostituirsi, al processo e all’esecuzione penale”. “Un programma - scrive Gatta - che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità, di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore”. Il nodo dei ‘liberi sospesi’ - Ed eccoci ai “liberi sospesi”. Il condannato chiede al giudice di sorveglianza una misura alternativa al carcere tra semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale. Nel 2021 quasi 31mila condannati a pene sotto i 4 anni hanno ottenuto una misura alternativa senza entrare in carcere. Due persone su tre hanno avuto l’affidamento in prova. Ma l’arretrato dei tribunali di sorveglianza è enorme, tant’è che esistono i “liberi sospesi”. Solo a Milano sarebbero 14mila e tra gli 80 e i centomila in Italia. Cartabia propone un’udienza di “sentencing” in cui il giudice valuta subito assieme alla difesa, e con gli esperti dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna di via Arenula, come sostituire la pena detentiva con una nuova pena sostitutiva. La novità sulle pene pecuniarie - L’altra novità riguarda l’effettiva riscossione delle pene pecuniarie. Anziché ricorrere al recupero crediti di ispirazione civilistica, si passa al modello sperimentato in molti paesi europei, come Germania, Francia e Spagna: non è lo Stato, con enorme dispendio di risorse e scarsi risultati, a dover andare a cercare il condannato per recuperare il credito derivante dalla condanna alla multa, ma è il condannato, su intimazione del pm, a dover pagare, anche con modalità telematiche, entro 90 giorni dalla notifica dell’ordine di esecuzione della pena. Se non paga, la pena pecuniaria si converte in semilibertà, cioè l’obbligo di rimanere in carcere per almeno 8 ore al giorno. Quattro anni se a essere convertita è la multa, pena per reati più gravi, due anni se è l’ammenda, la pena per le contravvenzioni. Se il condannato paga la multa o l’ammenda, in ogni momento, la semilibertà cessa. Corsa contro il tempo per attuare la riforma del processo penale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2022 Il decreto arriva oggi in Cdm, imposta dal Pnrr la scadenza del 19 ottobre per l’ok finale. Più misure alternative al carcere e riti alternativi per tagliare i tempi dei procedimenti. Meno spazio alle impugnazioni e maggiore alla giustizia riparativa. Con la digitalizzazione del processo penale, sono questi i punti di forza contenuti nei 99 articoli dello schema di decreto legislativo che attua la legge delega 134/2021 che punta alla “cura” del processo e della giustizia penale. Norme che dovrebbero approdare oggi al Consiglio dei ministri, per essere licenziate in prima lettura e poi sottoposte al parere delle commissioni competenti che va espresso entro 60 giorni. Passaggi obbligati per raggiungere gli obiettivi del Pnrr che prevendono, entro il 2026 la riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi giudizio. La prima tranche del pacchetto Cartabia, con i decreti che attuano la riforma del processo civile, ha avuto il via libera del Cdm il 28 luglio scorso ed è ora all’esame delle commissioni. Le dead line per l’ok definitivo dei decreti di attuazione è fissata al 26 novembre per il civile e al 19 ottobre per il penale. Una scadenza da segnare in rosso, perché anche dal suo rispetto, dipende l’arrivo in Italia dei 21 miliardi, seconda rata dei fondi Pnrr. Certamente è corsa contro il tempo, considerando i 6o giorni a disposizione delle commissioni e la seconda lettura del Cdm. L’incognita sul quando ci sarà il secondo approdo a palazzo Chigi, condiziona anche il chi, procederà al nuovo esame. Le norme attuano una riforma - al cui interno c’è la previsione dell’improcedibilità dell’azione penale in caso di superamento della durata massima del giudizio di impugnazione - approvata alla Camera un anno fa e duramente osteggiata dai 5 Stelle. Ma i 99 articoli dei decreti, tentano proprio di evitare che i processi vengano “rottamati” per l’inefficienza degli uffici giudiziari, timore espresso anche dalla Commissione europea nel report 2022 sullo stato del diritto. Le modifiche toccano il processo penale dall’udienza preliminare alle impugnazioni. Una novità è l’introduzione dell’udienza filtro nel procedimento con citazione diretta. Per potenziare l’accertamento processuale sarà possibile riassumere la prova nel caso di mutamento del giudice, come utilizzare forme semplificate di trattazione cartolare delle impugnazioni. Ma lo schema, per raggiungere l’obiettivo efficienza, punta soprattutto ad un maggiore ricorso ai riti alternativi e alle misure alternative al carcere. Potenziate la sospensione con messa alla prova, la non punibilità per particolare tenuità del fatto, la remissione di querela, e l’estinzione del reato, in particolare delle contravvenzioni, come risultato di condotte riparatorie. Interventi anche sul fronte delle pene sostitutive detentive brevi, dalla semilibertà al lavoro di pubblica utilità, immediatamente esecutive dopo il giudicato. Nel pacchetto anche strumenti per ridurre il numero dei cosiddetti liberi sospesi: i condannati a pene detentive che attendono anni, in libertà, che sia concessa la pena alternativa. Sulla scia delle best practice internazionali, gli interventi sulla giustizia riparativa che si affianca, senza sostituirlo, al processo e all’esecuzione penale. Un programma che, con l’aiuto di un mediatore adeguatamente formato, consente alla vittima e all’autore del reato di risolvere le questioni che da questo derivano. Una via che dovrebbe incentivare la remissione di querela e ridurre i tassi di recidiva. Penale, oggi i decreti attuativi in Cdm: criticità sul processo di Valentina Stella Il Dubbio, 4 agosto 2022 Spangher: “Tendenza a limitare gli strumenti a disposizione della difesa”. Oggi finalmente ci sarà l’attesissimo Consiglio dei ministri durante il quale la ministra della Giustizia Cartabia porterà i decreti attuativi della riforma del processo penale. Sarà interessante capire come si comporteranno i partiti di opposizione a Draghi, ossia Lega e Movimento 5 Stelle. Intanto abbiamo avuto modo di leggere la corposa bozza della relazione introduttiva. Circa 500 pagine divise nei tre pilastri principali: processo penale, sistema sanzionatorio, giustizia riparativa. Come ci sintetizza il professore emerito di procedura penale della Sapienza Giorgio Spangher, “da una rapida lettura, in attesa dei testi definitivi, non rilevo nulla di particolarmente nuovo rispetto alla delega. Quello che mi ha stupito è che, rispetto a tutto il dibattito precedente, ai criteri di priorità dell’azione penale siano state assegnato solo due righe”. In particolare leggiamo: ‘Nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio’. Ma è dal punto di vista delle istanze dell’avvocatura che Spangher mostra qualche preoccupazione: “Se è vero che il sistema sanzionatorio è il punto forte di questo progetto di riforma, per quanto riguarda il processo rilevo delle criticità. Innanzitutto sono stati specificati molto i criteri per le impugnazioni”, specialmente per quanto concerne l’appello. Si tratta di un tema su cui l’Unione delle Camere penali ha focalizzato molto l’attenzione e ha fatto emergere diversi timori in sede di discussione preliminare. Nella bozza, infatti, si prevede che “ l’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione”“. Viene quindi perseguito, si legge a commento, ‘il fine di innalzare il livello qualitativo dell’atto d’impugnazione e del relativo giudizio in chiave di efficienza, semplificando al contempo le forme in ottica acceleratoria’. A ciò si aggiunge, sottolinea Spangher, “che la difesa deve presentare la domanda di concordato a pena di decadenza solo quindici giorni prima dell’udienza e non più anche nel corso del giudizio”. In più, ci spiega sempre Spangher, “si fa esplicito riferimento al fatto che l’inammissibilità prevarrà sull’improcedibilità”. L’Unione delle Camere penali aveva poi chiesto che, nell’ipotesi di mutamento del giudice, la riassunzione della prova dichiarativa verbalizzata tramite videoregistrazione venisse resa pubblica in aula per avere la certezza della visione da parte del nuovo giudice. Purtroppo questo non è stato previsto. Queste modifiche fanno emergere una certa tendenza a voler limitare gli strumenti a disposizione della difesa. Rispetto alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, a dispetto delle critiche sollevate da Carroccio e dai pentastellati, sembrerebbe confermato l’impianto iniziale della delega, ossia che ‘ la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva possono essere applicate dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni’. Il presupposto è quello per cui ‘ quando la pena detentiva ha una breve durata, rieducare e risocializzare il condannato - come impone l’articolo 27 della Costituzione - è obiettivo che può raggiungersi con maggiori probabilità attraverso pene diverse da quella carceraria che, eseguendosi nella comunità delle persone libere, escludono o riducono l’effetto desocializzante della detenzione negli istituti di pena, relegando questa al ruolo di extrema ratio’. Infine, per quanto concerne la vera innovazione della giustizia riparativa, fortemente promossa dalla Guardasigilli, ‘ la fattispecie di reato o la sua gravità non sono ostativi all’avvio di un programma di giustizia riparativa che può quindi aver luogo, potenzialmente, per qualsiasi illecito penale, sussistendo il consenso informato e la partecipazione volontaria delle persone interessate’. Intanto da via Arenula trapela il fatto che i decreti attuativi della riforma del processo civile e dell’Ufficio per il processo sono stati assegnati alle commissioni parlamentari di competenza, quindi hanno iniziato a decorrere i sessanta giorni utili per esprimere i pareri non vincolanti. Nel patto tra Pd e Azione è scomparsa la giustizia. Costa: “Noi non cediamo” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 agosto 2022 Il deputato, tra i possibili eredi di Cartabia in caso di vittoria, assicura: “La nostra agenda non può essere piegata a nessuna condizione”. Rossomando: “Si riparte dalle garanzie come segno della cultura della legalità”. Non è passato inosservato che nel patto elettorale siglato tra il Partito democratico da un lato e Azione e +Europa dall’altro manchi un capitolo sulla giustizia e il carcere. È vero che tra gli obiettivi comuni c’è quello di “realizzare integralmente il Pnrr nel rispetto del cronoprogramma convenuto con l’Ue” che comprende anche le riforme della giustizia. Ed è anche vero che quello presentato due giorni fa non è un programma comune di coalizione, ma un accordo tecnico sui collegi. Tuttavia ci si chiede cosa accadrebbe sul tema della giustizia se l’alleanza fosse chiamata a governare, dato che da ambo le parti si ribadisce che ognuno ha il proprio manifesto elettorale e ci si muove nella “rispettiva autonomia programmatica”. In questi ultimi anni abbiamo visto grandi distanze tra Pd e Azione. L’ultimo terreno di scontro sono stati i referendum “giustizia giusta”, con il partito di Calenda favorevole e quello dem assolutamente contrario: l’accesa diatriba era andata in scena nello studio di Enrico Mentana su La7, quando a fronteggiarsi sul quesito contro l’abuso della custodia cautelare si trovarono il responsabile giustizia di Azione Enrico Costa e la vice presidente del Pd Debora Serracchiani. Ma non dimentichiamo il voto contrario del Pd, in compagnia di Lega, Forza Italia e Movimento 5 Stelle, all’ordine del giorno sempre di Costa per avviare un monitoraggio ministeriale dei comunicati e conferenza stampa delle Procure. Così come i dem dissero no ad un altro ordine del giorno di Costa per ponderare l’uso del trojan. Ma scontri ci sono stati pure sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: all’ultima assemblea dell’Anm, quella che lo scorso aprile decretò lo sciopero contro la riforma Cartabia, applausi furono riservati alla grillina Giulia Sarti e alla dem Anna Rossomando, mentre l’intervento di Costa fu accolto con freddezza, perché è stato lui fortemente a volere la modifica del fascicolo di valutazione per i magistrati. L’apice della tensione si è forse raggiunto l’anno scorso, durante il dibattito per il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Al termine di una giornata convulsa volarono parole pesanti tra Costa e il dem Walter Verini. Quest’ultimo lo accusò di “voler usare per l’ennesima volta la giustizia come terreno di scontro politico” e di “seminare sempre zizzania”. L’altro replicò: “Il Pd è indecente: sbandiera il principio della presunzione d’innocenza, poi quando si tratta di votare lo affossa”. Quando qualche settimana fa si parlava ancora di campo largo, Enrico Letta stilò una lista di sei temi - lavoro, Europa, scuola, sanità, diritti, ambiente - su cui far convergere Giuseppe Conte e Carlo Calenda. Mancava ancora una volta la giustizia, come se fosse o la cenerentola della politica o una bomba pronta a far saltare qualsiasi alleanza. Enrico Costa non si lasciò attendere con un suo tweet: “Allora Enrico, cominciamo dalla giustizia. Sono curioso di conoscere il punto di sintesi. Lo stop alla prescrizione? Il fine processo mai? Il trojan indiscriminato? Il traffico di influenze? I garantisti liquidati come impunitisti?”. Fatte queste premesse, è lecito chiedersi se riuscirebbero a governare insieme sulla giustizia. Questa preoccupazione sembra non interessare al momento perché l’obiettivo comune è solo quello di fronteggiare come meglio si può la coalizione di centro-destra. E però uno sguardo al futuro non può mancare, memori del fatto che la giustizia appunto può far saltare Governi: vedasi Bonafede. La responsabile giustizia del Pd, la senatrice Anna Rossomando, ci dice: “Per il Pd si riparte da riforma dell’ordinamento penitenziario, deflazione del contenzioso, interventi sulla depenalizzazione, tempi ragionevoli dei processi, innovazione e organizzazione, garanzie per una uguaglianza sostanziale nell’accesso alla giustizia e ancora l’Alta Corte per impugnazioni sugli addebiti disciplinari dei magistrati e sulle nomine contestate, revisione della legge Severino in merito alla sospensione dei sindaci. Proposte che hanno come minimo comun denominatore la cultura delle garanzie come segno della cultura della legalità”. Mentre il vicesegretario di Azione, l’onorevole Enrico Costa, che, da quanto trapelato, Calenda potrebbe proporre quale Ministro della Giustizia per il dopo Cartabia, ci ribadisce: “Noi imporremo la nostra linea. Quella linea che è chiaramente descritta nel nostro programma”. Per il parlamentare, “in questo ultimo periodo siamo stati quelli che hanno ottenuto più risultati sul versante della giustizia: la legge sulla presunzione di innocenza, il fascicolo di valutazione di professionalità dei magistrati, il diritto all’oblio e le spese legali per gli assolti. Non solo: abbiamo fermato lo stop alla prescrizione di Bonafede”. Per questo, prosegue, “porteremo dietro tutti gli altri perché siamo una forza politica trainante”. E conclude: “Mentre il Partito democratico in questi anni si è caratterizzato per una certa flessibilità in tema di giustizia, la nostra agenda invece non può essere piegata a nessuna condizione. Non cederemo mai sulla separazione delle carriere, sulla lotta al correntismo, sulla responsabilità civile dei magistrati, sulle garanzie difensive”. Se le due prospettive si sommano ben venga l’alleanza ma sui temi divisivi, tipo appunto la separazione delle carriere, chi prevarrebbe? “La vera minaccia per le toghe sono le correnti” di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 agosto 2022 Parla Mirenda, il magistrato antisistema candidato al Csm. Il giudice di sorveglianza di Verona, da sempre tra i critici più feroci del sistema correntizio e sostenitore dell’impiego del sorteggio temperato per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura, è stato sorteggiato come candidato al rinnovo dell’organo di governo autonomo delle toghe. Neanche il miglior sceneggiatore avrebbe potuto immaginare un colpo di scena più incredibile per le elezioni del prossimo Consiglio superiore della magistratura, previste il 18 e 19 settembre. Il magistrato Andrea Mirenda, giudice del tribunale di sorveglianza di Verona, da sempre tra i critici più feroci del sistema correntizio e della trasformazione del Csm in un poltronificio, nonché sostenitore dell’impiego del sorteggio temperato per l’elezione dei togati di Palazzo dei Marescialli, è stato sorteggiato dall’ufficio elettorale presso la corte di Cassazione come candidato al rinnovo dell’organo di governo autonomo delle toghe. Come previsto dal nuovo sistema elettorale voluto dalla ministra Cartabia, infatti, in caso di mancato raggiungimento di un numero minimo di candidati nei collegi, i candidati mancanti vengono selezioni tramite sorteggio. Il destino ha voluto che a essere sorteggiato fosse proprio Mirenda, il magistrato più antisistema di tutti. “Alcuni amici mi hanno scherzosamente scritto che ero stato sorteggiato tra le quota rosa - afferma Mirenda al Foglio ridendo - Battute a parte, sono rimasto sbalordito, perché il fatto che fra tutti i magistrati del nord Italia sia stato sorteggiato un magistrato come me, che da vent’anni si batte per il sorteggio, è davvero uno strano scherzo del destino”. Il profilo di Mirenda è veramente particolare. In magistratura dal 1986, è stato per anni un esponente di primo piano di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe. Nel 2008 decise di abbandonare la corrente (e anche l’Anm) in polemica con i criteri spartitori alla base delle nomine del Csm, a cui la stessa Md mostrava di partecipare attivamente. Nel 2017 lo strappo finale: si dimise dall’incarico di presidente di sezione presso il tribunale di Verona e decise di tornare a fare il giudice di sorveglianza, denunciando il “mercato delle nomine” e la deriva correntizia. In un’intervista accusò il Csm di usare “metodi mafiosi”. Due anni dopo è arrivato lo scandalo Palamara: “È venuto fuori semplicemente ciò che tutti i magistrati già sapevano - dice Mirenda - Lo scandalo non è avvenuto nel 2019, ma dal 2006, cioè da quando è stato approvato il testo unico sulla dirigenza giudiziaria, che si è tradotto nel puro arbitrio delle correnti e in una valanga di annullamenti delle nomine da parte dei giudici amministrativi”. In seguito, Mirenda ha contestato le circolari adottate dall’allora procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, con cui lo scandalo Palamara è stato risolto con una sorta di amnistia generalizzata: “La circolare sull’autopromozione è assolutamente inconsistente sul piano giuridico ed è stato un modo per coprire la vergogna di una pratica che se fosse stata posta in essere da aspiranti a concorsi universitari o a incarichi pubblici avrebbe portato all’incriminazione”, ribadisce il magistrato con parole dure. “La decisione ulteriore di impedire alla sezione disciplinare del Csm di esaminare i casi archiviati ha rappresentato una doppia ferita alla trasparenza che la magistratura dovrebbe avere davanti ai cittadini”. Memorabile, poi, resta il cartello appeso fuori dalla porta del suo ufficio in occasione dello sciopero celebrato dall’Anm contro la riforma Cartabia lo scorso 16 maggio: “Questo magistrato NON sciopera!”. “Non posso scioperare aderendo a una decisione dell’Anm, cioè di un’associazione che rappresenta il vero pericolo dal punto di vista della minaccia all’indipendenza interna del magistrato”, ribadisce Mirenda. “Peraltro la riforma Cartabia è un progetto modestissimo, che introduce alcuni pochi correttivi per far felice la politica ma lascia mani libere alle correnti”. Oggi Mirenda fa parte di una sorta di think tank, denominato “Uguale per tutti”, riunito in un blog. “Il nostro gruppo di pensiero - spiega il magistrato - si poggia su due pilastri: il sorteggio temperato per l’elezione dei componenti togati del Csm e la rotazione degli incarichi direttivi, antidoti a costo zero contro il correntismo”. Nonostante lo scherzo del destino del sorteggio, Mirenda non si fa illusioni: “Ho zero prospettive di essere eletto al Csm. Naturalmente mi impegnerò in questo mese di campagna elettorale a fare tutto il possibile, ma la verità è che rappresento lo scemo del villaggio che ulula alla luna. La candidatura, comunque, rappresenta almeno un’opportunità per portare all’attenzione dei colleghi e dell’opinione pubblica le idee del nostro gruppo”. Le tante assoluzioni di “Mafiopoli” hanno smontato i Teoremi di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 4 agosto 2022 Giovanni Brusca, noto al grande pubblico per i tanti processi di mafia è stato sottoposto a misure di prevenzione dal tribunale di Palermo, e la notizia è apparsa su pochi organi di stampa perché probabilmente ritenuta di nessun rilievo. Invece il fatto è assolutamente rilevante e indicativo perché Brusca, che come “pentito” ha recitato tutte le parti a beneficio di diversi magistrati, e quindi ha ottenuto benefici premiali è stato considerato “pericoloso” e sarà sorvegliato speciale con obbligo di firma e con le relative misure. Brusca aveva “meritato” la scarcerazione nel maggio 2021 per i tanti “punti” messi insieme nella lunga carcerazione, ma evidentemente a una successiva e tardiva valutazione è stato considerato appunto “pericoloso”. Il magistrato Grasso anche se ex presidente del Senato dovrebbe essere contento e d’accordo con i suoi colleghi?! A nostro giudizio la notizia è importante perché ci riporta alle tante vicende contrastate e contraddittorie che hanno caratterizzato le indicazioni giudiziarie palermitane che sono state utilizzate e strumentalizzate per individuare presunti responsabili politici o per scagionare altri magari effettivamente responsabili. Insomma il “pentito Brusca” è servito per scrivere una storia di questi anni che non corrisponde alla verità. Mi sono proposto di far luce sui tanti episodi giudiziari che riguardano Tangentopoli e Mafiopoli che hanno appunto disegnato una storia non vera di questi anni. È per questo che svolgo alcune considerazioni. Abbiamo ripetuto varie volte che i magistrati con le loro “indagini” più ancora che con le sentenze, come vedremo, hanno preteso di scrivere la storia dell’Italia attribuendo alla politica e ai partiti la responsabilità della dilagante corruzione e agli stessi e alle istituzioni una collusione con la mafia e la camorra. Tante sentenze di giudici coraggiosi e indipendenti hanno contraddetto questo risultato delle indagini a volte con un giudizio severo e negativo che ha provocato querele da parte del pubblico ministero interessato sempre soccombente. Il procuratore della Repubblica di Milano dell’epoca Saverio Borrelli, il “capo” di Tangentopoli, riteneva che “era farisaico fingere che per prendere atto della realtà emersa bisognava attendere le sentenze”. “Bastavano le indagini”, egli aggiungeva “che erano rivolte più che ai singoli indagati al sistema per cui si chiedeva la dissociazione del sistema corruttivo che costituiva la regola generale”. I processi e le sentenze hanno fatto giustizia di questo teorema e hanno distinto l’illecito finanziamento dalla corruzione, confusione che ha consentito di ritenere la classe politica corrotta. Questo per quanto riguarda i processi di Tangentopoli; le indagini di mafiopoli, che hanno ipotizzato gravi responsabilità di politici di primo livello, sono state sonoramente sconfessate dalle sentenze, da Giulio Andreotti a Calogero Mannino e a tanti altri, e più recentemente la sentenza della Corte D’Appello di Palermo ha stabilito che i rappresentanti dello Stato e i politici non hanno fatto la “trattativa” con i mafiosi, non hanno attentato ai poteri dello Stato e non sono venuti a patti con la mafia. Queste decisioni, dunque lo ripeto, cancellano la pretesa dei magistrati inquirenti di voler accreditare una storia non vera dell’Italia finalizzata a screditare i partiti politici e l’apparato dello Stato. L’equivoco di questa ultimi anni è stato il magistrato come protagonista assoluto della verità e garante della questione morale che ha fatto prevalere una giustizia etica, quella che pretende di far vincere il bene sul male?!. Natalino Irti, con la sua sapienza storica e giuridica, ha detto che al magistrato e al giudice “non si chiede di ricostruire un tratto di storia generale politica ma di accreditare i fatti e quei fatti che esigono l’applicazione della legge”. Tanti si interrogano sul significato di Tangentopoli nella ricorrenza dei trent’anni sulle connivenze della politica e degli apparati dello Stato con la mafia che le indagini giudiziarie sulla trattativa ha alimentato per oltre venti anni, ma tanti notisti e alcuni organi di informazione in particolare continuano a distorcere la verità con faziosità inaccettabile. Le sentenze di assoluzione di Mafiopoli ancora più di quelle di Tangentopoli hanno fatto giustizia dei teoremi distorti che hanno alimentato negli anni, tutti sconfessati sia pure con una giustizia tardiva. In particolare quelli per Calogero Mannino sono stati più volte e duramente sconfessati, Mannino che era il vero nemico della mafia e che con la sua azione legislativa nel Parlamento ha contribuito a proporre leggi che, quando applicate bene, hanno colpito seriamente la mafia. Questo è un esempio lampante della grave falsificazione della storia: la tragica vicenda del ministro Mannino. Ecco perché la vicenda di Brusca insieme ai tanti pentiti che come diceva Falcone, con le loro dichiarazioni erano a beneficio di questo o di quel magistrato, debbono essere chiarite per far luce vera su quegli anni e per restituire alla storia non a quella delle indagini giudiziarie ma a quella vera, il compito della verità. Ricostruire le vicende vere per raccontare la storia così come descrivere i costumi i costumi di una società, in particolare di quella italiana, è un’opera difficile e ambiziosa in questo periodo perché il populismo che le indagini giudiziarie hanno alimentato ispirando addirittura alcuni movimenti politici, è fortemente radicato nella società e negli individui. Soltanto una presa di posizione generale e corale di tutta la classe dirigente per servire la causa, può essere valida; e quindi la campagna elettorale ormai in corso per le elezioni politiche deve essere l’occasione per qualificare i programmi delle liste che si presenteranno al corpo elettorale e le coalizioni che si determineranno per ricostruire la storia della nostra Repubblica fuori da rancori da pregiudizi falsamente ideologici. Il problema della giustizia, del ruolo che il giudiziario deve avere per l’assetto democratico in una Repubblica parlamentare è il problema fondamentale dell’Italia insieme alla sua collocazione europea e internazionale dell’Italia in presenza della spietata guerra in Ucraina e con una economia italiana ed europea che in questo contesto deve segnare la nostra qualità della vita e il nostro futuro. Insomma i gruppi parlamentari che hanno votato il governo Draghi garante della stabilità e della sicurezza del paese e dell’equilibrio europeo debbono impegnarsi su questi problemi per far emergere la verità su tutte le questioni che abbiamo indicato se vogliono essere davvero alternativi. Qualche settimana fa Walter Verini, dirigente importante del Pd, su questo giornale ha dichiarato che “il movimento Cinque Stelle è il partito che ha riformato con il Pd la giustizia”, dimenticando che quel movimento e quei parlamentari hanno distrutto l’ordinamento giudiziario e il codice penale all’insegna di una pretesa onestà sollecitando una riscossa rancorosa della società per una moralità che ora abbiamo ben conosciuto. La riforma penale proposta dal ministro Buonafede è una pagina oscura del Parlamento italiano che il Pd non ha ostacolato. Ricordo a Verini che è stato necessario il nuovo intervento del governo Draghi e l’ostinazione illuminata del ministro Cartabia per modificare un po’ le cose e creare i presupposti per una riforma radicale della giustizia. Gli elettori del referendum con il loro voto, ancorché non valido per il risultato, hanno dato una indicazione di marcia per una reale inversione di tendenza riconoscendo il problema giustizia come fondamentale per la democrazia. Il movimento 5Stelle sembra abbandonato ai suoi equivoci e la coalizione repubblicana alternativa deve prospettare agli elettori le riforme appena indicate che servono a qualificare “i movimenti” e liste che vogliono privilegiare una loro identità culturale. Diffamazione a mezzo stampa, carcere solo per comportamenti di “eccezionale gravità” di Camilla Curcio Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2022 Nel mirino dei giudici dei cartoncini con scritte offensive nei confronti di un immigrato. Ma i giudici escludono l’aggravante dell’odio razziale che, se riscontrata, poteva portare ad un verdetto diverso. La detenzione per il reato di diffamazione a mezzo stampa o attraverso altra pubblicità è ammessa solo in presenza di condotte giudicate estremamente gravi. Lo ha confermato la sezione feriale penale della Cassazione che, con la sentenza numero 30572/2022, depositata il 2 agosto, ha reputato inammissibile la condanna a tre mesi di reclusione comminata a una cinquantaseienne bergamasca, colpevole di aver diffuso scritte offensive (tramite cartoncini, un foglio e un lenzuolo) ai danni di un uomo di origini straniere. Pur rigettando l’impugnazione della ricorrente contro le sentenze di primo e secondo grado, la Suprema corte ha messo in evidenza l’illegalità della pena, facendo riferimento a un intervento della Corte costituzionale. La sentenza della Consulta - Nel testo della sentenza 150/2021, che riconosceva il valore della libertà di espressione (e, per i giornalisti, del diritto di cronaca) ma ribadiva l’inviolabilità della tutela della dignità della persona, i giudici stabilivano che “l’applicazione della pena detentiva per diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità è consentita solo in presenza di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista soggettivo e oggettivo”. Principio che, peraltro, era stato anticipato in una precedente pronuncia della Cassazione, chiamata a esprimersi in merito alla sua validità in caso di offesa recata anche al di fuori dell’attività giornalistica e facendo ricorso a qualsiasi mezzo di comunicazione, compreso internet (Quinta sezione, 13993/2021). Dunque, in base a quanto chiarito dalla Consulta, il giudice penale può procedere all’irrogazione della pena pecuniaria (non inferiore a 516 euro) o detentiva (da sei mesi a tre anni) solo dopo un’attenta analisi del comportamento dell’imputato. E, per la seconda opzione, solo nel caso in cui il soggetto sia coinvolto nella diffusione di insulti, messaggi d’odio o incitazione alla violenza e in campagne di disinformazione che, orchestrate nella piena consapevolezza della falsità delle informazioni diffuse, rischiano di ledere la reputazione della vittima. Nella fattispecie, il giudice di merito non aveva ordinato nessun tipo di valutazione e, in più, aveva escluso sin dal primo grado l’aggravante dell’odio razziale. Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza senza rinvio, visto il decorso dei termini di prescrizione del reato (collocabile, in base alla lettura degli atti, nel gennaio 2015) e l’assenza di elementi utili a supportare un’assoluzione della donna. Rimangono, invece, inalterate le statuizioni civili. Piemonte. Monitoraggio trimestrale della situazione nelle carceri iltorinese.it, 4 agosto 2022 È stato dedicato all’analisi delle problematiche delle carceri piemontesi l’incontro che il Presidente della Regione Alberto Cirio ha avuto con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Si è stabilito che ogni tre mesi Regione e sindacati si incontreranno per una valutazione della situazione all’interno dei vari istituti. Nel corso dell’incontro sono state affrontate anche tematiche come la situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari piemontesi, la contestuale grave carenza di organico della Polizia penitenziaria e l’aumento esponenziale delle aggressioni a carico degli agenti in numero mai registrato negli ultimi 40 anni. Inoltre, aderendo ad una richiesta dei sindacati, la Regione effettuerà una ricognizione dell’utilizzo dei posti letto nei reparti riservati ai detenuti degli ospedali piemontesi, al fine di favorire al massimo l’utilizzo dei reparti ospedalieri dedicati ai detenuti, riducendo ed efficientando di conseguenza l’utilizzo del personale della polizia penitenziaria addetto alla sicurezza. Verona. Il dramma di Donatella, suicida in cella a 27 anni di Laura Tedesco Corriere di Verona, 4 agosto 2022 Sperava in una misura alternativa con programma terapeutico al Sert. Era in carcere per reati di piccola entità, non ha retto alla disperazione: Donatella si è tolta la vita a 27 anni. Sperava nell’affidamento al Sert. “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami... “. Le sue ultime parole, le sue frasi d’addio alla vita, Donatella le ha scritte in un foglietto bianco. Era bella e giovane, troppo giovane per decidere di farla finita. Invece ha scelto di andarsene nella solitudine di una cella. Si è suicidata in carcere a Verona a soli 27 an6 ni, nonostante avesse ancora la vita davanti che la aspettava e un’infinità di sogni e progetti tutti da realizzare. “Dona”, come la soprannominavano affettuosamente gli amici, era innamorata. Era la prima volta che il suo cuore veniva rapito da un ragazzo. “Si volevano un bene dell’anima, erano inseparabili”: di recente avevano anche preso una casa in affitto. “Volevano stare sempre insieme”. Lui si chiama Leo e da lunedì notte è sprofondato nella disperazione. “È sotto choc, ha smesso di parlare e non mangia più, è sconvolto lo descrivono preoccupate le persone a lui più vicine -. Non riesce ancora a credere che sia successo davvero...”. Come Leo, nessuno dei conoscenti della 27enne si capacita dell’accaduto. “La speranza. Ti è stata tolta la speranza... Speriamo che tu ora abbia trovato la pace di cui avevi bisogno. Ci mancherai Donatella”, la ricorda affranta un’amica. Donatella aveva problemi di dipendenza ed era detenuta nel carcere di Montorio per alcuni reati di lieve entità, furtarelli nei negozi commessi per la droga. Era stata affidata in comunità da cui però si era allontanata: per questo l’avevano rimessa in cella. In cuor suo, sperava però di uscire presto: grazie all’interessamento del suo legale e dei servizi, era in attesa che venisse predisposta una misura alternativa che comprendesse un programma terapeutico da svolgersi sotto il monitoraggio del Sert. Bastava aspettare ancora un po’ ma la 27enne, presa da un momento di disperazione, si è tolta la vita mentre si trovava da sola in cella. Ha messo in atto il tragico gesto durante la notte tra lunedì e martedì, inalando del gas dal fornelletto. “Quando sono arrivati gli agenti, per la ragazza non c’era più nulla da fare - spiega Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa Polizia Penitenziaria - A livello nazionale, siamo al 42esimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno, ci avviamo a superare i 54 totali registrati nel 2021. Il carcere genera violenze e morte, suicidi e omicidi, aggressioni al personale - aggiunge De Fazio -. Sono teatri di violenza che incidono fortemente sulle persone, crea forte disagio nei soggetti più deboli che vengono portati al suicidio. Nelle carceri femminili di solito la situazione è più tranquilla, ci sono meno persone - ha continuato Gennarino De Fazio - A Verona la situazione è difficile ma lo è ovunque nelle carceri italiane”. Stando a quanto denuncia Monica Bizaj, attivista per i diritti dei detenuti, “come ogni estate i suicidi in carcere aumentano vertiginosamente, come ogni estate tutto si ferma, per il mondo dei liberi ci sono le ferie, per i detenuti ci sono 24 ore da riempire in qualche modo, per non restare soli coi tormenti dei pensieri. Donatella non ha retto a tutto questo, Donatella - rivela Bizaj - aveva paura di non farcela, Donatella aveva perduto la speranza a soli 27 anni. E tutto questo nell’assenza dello Stato, che da troppo tempo sta restando sordo e cieco di fronte ai drammi quotidiani che si vivono nelle carceri italiane. Tutto questo - continua Monica - nonostante 2 anni e mezzo di restrizioni per Covid, che hanno reso la detenzione ancora più afflittiva”. Il giorno prima di Donatella, lunedì 1 agosto, al carcere di Rebibbia si era impiccata un’altra donna, sempre con problemi di dipendenza. Dall’inizio dell’anno, compresa la 27enne veronese, sono cinque le detenute donne che in Italia si sono tolte la vita in cella. “Un numero altissimo - evidenzia l’associazione Antigone - se si considera che, al 30 giugno 2022, le donne sono pari al 4.2% del totale della popolazione carceraria”. Creature fragili che non reggono alla lontananza dagli affetti più cari. Come Donatella che “temeva di perdere il suo amato Leo”. Ascoli Piceno. Si toglie la vita in carcere, è il terzo suicidio in sette mesi al Marino di Peppe Ercoli Il Resto del Carlino, 4 agosto 2022 Al tunisino di 36 anni restavano 8 mesi da scontare. Ancora un suicidio è avvenuto nel carcere di Marino, il terzo in sette mesi in un istituto di pena che attualmente ospita un centinaio di detenuti. A togliersi la vita è stato ieri mattina presto un tunisino di 36 anni, più volte carcerato per reati vari e che stava scontando una pena per lesioni, violenza e minacce; gli restavano ancora 8 mesi da trascorrere nella casa circondariale di Ascoli, ma ieri mattina ha deciso di farla finita. L’uomo già sabato scorso era stato protagonista di un tentativo di suicidio; era stato salvato e ricoverato all’ospedale Madonna del Soccorso di San Benedetto, affidato alle cure di psichiatria. Lunedì era stato riportato in carcere. Precauzionalmente gli agenti di polizia penitenziaria gli avevano tolto le lenzuola di stoffa; ogni detenuto ne ha due in dotazione e le sue erano state sostituite con lenzuola di carta. Ma evidentemente è riuscito a procurarsene una dall’armadietto di un altro detenuto che era con lui nella stessa cella; è andato in bagno e si è impiccato legando il lenzuolo alla finestra. A scoprirlo quando ormai era senza vita è stato un detenuto che ha dato l’allarme. È successo alle 7,30 e non c’erano segnali che potessero far presagire una fine del genere. Alle 6 un agente aveva parlato col tunisino e sembrava tranquillo. Lo scorso 3 maggio nel carcere di Ascoli si era tolto la vita un marocchino di 21 anni. Stava scontando una pena per reati legati al traffico di stupefacenti e avrebbe dovuto rimanere detenuto fino al 2025, altri tre anni. Lo scorso febbraio era giunto nel carcere ascolano proveniente da quello di Pesaro. Un trasferimento disposto dall’amministrazione penitenziaria proprio per il suo carattere molto irascibile e violento. Nel carcere di Pesaro per quattro volte aveva dato fuoco alla cella dove era detenuto con altre persone. Quindi è stato portato a Marino del Tronto. Quel giorno il giovane ha aggredito tre agenti che nel tentativo di ricondurlo alla ragione sono rimasti contusi con prognosi di 34 giorni. Ha poi iniziato a danneggiare la cella: ha divelto le finestre, rotto i vetri e danneggiato i telai. Una crisi di nervi che verso le ore 18 lo ha portato anche a scardinare il termosifone con l’acqua che ha in breve allagato la stanza. A quel punto gli agenti sono andati a chiudere le valvole; quando sono tornati indietro non l’hanno visto più nella stanza, si sono diretti nel bagno e l’hanno trovato impiccato coi pantaloni al braccio della doccia. Bologna. Caro cardinal Zuppi, se a Ferragosto, per qualche ora, alla Dozza... di Valter Vecellio Il Dubbio, 4 agosto 2022 Eminenza, perdoni l’ardire di un laico digiuno di cose di chiesa, e che le osserva con l’occhio di chi non fa parte della “comunione”. Sono mille le emergenze di questi tempi: la guerra in Ucraina, la crisi economica, la siccità, la pandemia, una classe politica che non sa uscire dal pantano in cui sembra sprofondare ogni giorno di più. Poi ce n’è una, non meno drammatica, ma ignorata, dimenticata. Quella della giustizia e del suo epifenomeno: le carceri, le condizioni in cui vivono non solo i detenuti, ma l’intera comunità penitenziaria. Ho sotto gli occhi i dati raccolti nel suo ennesimo rapporto dall’associazione Antigone. In questa torrida estate, leggo che nelle celle i ventilatori sono oggetti rari. Sconosciuti o quasi frigoriferi, condizionatori o docce nelle celle, pur previsti dal regolamento penitenziario del 2000 a partire dal 2005: e siamo al 2023! “La calda estate delle carceri”, è il titolo del rapporto di Antigone: riforme giudiziarie al palo per via della crisi di governo; la pandemia con quello che comporta; e le quotidiane condizioni di vita, le celle ridotte a luogo di tortura, perfino l’acqua, elemento base, razionata, a singhiozzo: “Il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, con una circolare, autorizza l’acquisto dei ventilatori nel ‘ sopravvitto”, si legge nel rapporto di Antigone. “ ma la loro disponibilità varia da carcere a carcere; il fatto che l’acquisto sia a spese dei detenuti fa sì che non tutti abbiano possibilità di comprarne uno”. Rarissimo il frigorifero nelle celle, nel 58% non c’è la doccia, anche se previste dal regolamento. Nel 44,4% degli istituti ci sono camere con schermature alle finestre che impediscono il passaggio d’aria. Detenuti sempre oltre la capienza. I dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria aggiornati al 30 giugno parlano di 54.841 persone detenute, quando la capienza regolamentare sarebbe di 50.900 posti, con un tasso di affollamento ufficiale del 107,7%. Ma secondo Antigone il dato è più alto: dalle schede degli istituti penitenziari italiani, pubblicate dal ministero della Giustizia, risultano 3.665 posti non disponibili. La capienza effettiva dunque scende a 47.235 posti e il sovraffollamento sale al 112%. Ben 25 istituti presentano un tasso superiore al 150%, con picchi di oltre il 190%. Una cinquantina gli istituti (su 190) il cui tasso si attesta tra il 100 e il 120%; un’altra cinquantina nella fascia 120- 150%. Tra i casi più critici: Latina, (194,5%); Milano San Vittore (190,1%); Busto Arsizio (174,7%). Una quarantina i detenuti che si sono tolti la vita nei primi sei mesi dell’anno, uno ogni 5 giorni. Di recente il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello descrive le allucinanti condizioni dei detenuti del carcere napoletano di Poggioreale: 2.207 detenuti stipati in un carcere che ne può ospitare 1.571, costretti a convivere anche in dieci in celle “ dotate di un solo ventilatore, a volte anche guasto. Un carcere con almeno un centinaio di detenuti con problemi di natura psichica: detenuti che vedono uno dei due psichiatri presenti nel carcere al loro ingresso e, se va bene, quasi un anno dopo”. Purtroppo, non è un caso isolato. Non sono situazioni, realtà di cui dovrebbero interessarsi sindaci, presidenti di Regione, parlamentari? Napoli… Al laico digiuno di cose di chiesa viene in mente quel passaggio del Vangelo di Matteo (25,35- 44), un “manifesto” per credenti o no che si sia: “… Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato…”. Eminenza, anche Lei Matteo (il caso fa bene le cose): anche di recente ha richiamato l’attenzione di tutti e di ciascuno “per far cambiare in meglio il carcere”, e respingere “ la tentazione di buttar via la chiave, e cercare invece quelle giuste per favorire recupero e reinserimento dei detenuti”. Eminenza: chi le scrive ha raccolto l’appello del Partito Radicale e impiegherà qualche ora del suo Ferragosto per andare nelle carceri, per ascoltare l’intera comunità penitenziaria, e dimostrare che non tutti si dimenticano, non tutti restano indifferenti. Sarebbe bello trovarci, anche solo per qualche ora, a Bologna. Non crede eminenza? Alla Dozza ne avrebbero, ne sono certo, consolazione. Milano. Diabete, screening in carcere di Gloria Saccani Iotti Il Giornale, 4 agosto 2022 Da anni il Rotary Club Milano Arco della Pace ha rapporti consolidati con le amministrazioni carcerarie della casa di reclusione di Opera (la più grande d’Europa) e della casa circondariale di San Vittore di Milano. Dallo scorso anno ha messo a disposizione il proprio spirito di servizio nel settore sanitario, settore di per se stesso molto delicato, che trova ulteriori difficoltà all’interno della realtà carceraria. Difficoltà aumentate purtroppo in occasione della emergenza Covid. È per questo che il Rotary ha deciso di scendere in campo a fianco delle istituzioni per offrire il proprio contributo fatto di professionalità, capacità di “fare rete” e di quella propria caratteristica naturale consistente nel “servire al di sopra di ogni interesse personale”, che da oltre cento anni caratterizza l’azione rotariana. Scopo del progetto promuovere uno screening sanitario per valutare una patologia conosciuta, ma a volte trascurata, come il diabete. Si è pensato di eseguire il test dell’emoglobina glicata (HbAlc), che sicuramente può fornire un quadro della situazione glicemica completa ed attendibile e che consente di valutare l’andamento medio della glicemia negli ultimi due o tre mesi. Lo screening ha lo scopo di valutare l’andamento della glicemia nei pazienti diabetici noti, ma anche e principalmente di individuare eventuali stati di malattia non nota o in fase precoce (pre-diabete). Lo scorso anno fu eseguito uno screening che potremmo definire “pilota” su più di 200 detenuti (comprese circa 40 donne) di entrambi le carceri, mentre quest’anno si è deciso a favore degli agenti di polizia penitenziaria e del personale amministrativo dei due carceri, circa 800 persone. All’interno degli istituti carcerari entrano i volontari rotariani che effettuano l’anamnesi, anche relativamente allo stile di vita (es. fumo, attività sportiva), nonché all’eventuale presenza di patologie (es. ipertensione, malattie cardiovascolari, diabete, o ancora familiarità ed utilizzo di farmaci). Successivamente si procede allo screening mediante l’analisi di una micro-goccia di sangue per mezzo di un apposito strumento messo a disposizione da Siemens Healthinners, un analizzatore che in circa 6 minuti calcola il valore di HbAlc in percentuale. La collaborazione con la struttura sanitaria all’interno del carcere è fondamentale per cercare di trovare le soluzioni migliori e per indirizzare collaborazioni future. Roma. Tra i giovani volontari che salvano gli ultimi nella città d’agosto di Giancarlo de Cataldo La Repubblica, 4 agosto 2022 Roma, nell’ostello della Caritas dove l’accoglienza non va in ferie: “Non basta servire un pasto a chi non ha niente, ma dare loro dignità”. “Basta poco per scivolare. Una malattia, un rovescio della vita, una scelta sbagliata. Un attimo, e se non hai una rete di protezione composta da famiglia e amici, ti ritrovi ad essere scartato”. Dopo una lunga militanza nell’Osservatore Romano, oggi Piero Di Domenicantonio coordina L’Osservatore di strada, un giornale in libera vendita che dà voce agli ultimi, ai feriti dalla vita, agli “scartati”, per dirla con Papa Francesco. Piero mi fa da guida nel torrido pomeriggio di questa infuocata estate romana. È lui che mi accompagna mentre varco la soglia dell’ostello Don Luigi di Liegro. Dove agli “scartati” un manipolo di operatori specializzati e di volontari cerca di prestare quel minimo etico di assistenza e conforto che separa la precarietà dall’irredimibilità, la danza sull’orlo dell’abisso dal precipizio senza ritorno. La struttura porta il nome di chi la fondò, trentacinque anni fa. Don Di Liegro, figura carismatica di una carità praticata e non solo predicata. Offre 175 posti letto distribuiti in stanze per massimo sei ospiti, una mensa, docce, guardaroba, deposito bagagli. È aperto dalle 17 alle 9 di mattina: Luana Melia, una giovane operatrice dall’aria fattiva, mi spiega, però, che i soggetti più fragili, o con disabilità, a volte si trattengono più a lungo. Nessuno viene rispedito sulla strada a perdersi, nessuno viene “scartato”: lo “spirito” dell’Ostello non lo permetterebbe. Gli ospiti cominciano ad affluire, salutati dai volontari che fanno un po’ da filtro all’ingresso. Piero comincia a spargere la voce che, se ne avranno voglia, potranno parlare con un tipo che poi scriverà di loro, anche di loro, su un giornale. Le storie dei volontari - A Luana si aggiungono Alessandro, Lorenzo, Michele. Sono tutti ragazzi sui trent’anni o poco più. Sediamo intorno a un tavolo, in uno stanzone dall’arredo spartano ma dignitoso. Cerco di stimolarli con le curiosità che immancabilmente mi assalgono quando entro in contatto con chi fa un lavoro di frontiera: qual è la molla che ti ha spinto, che cosa speri di ottenere con il tuo impegno? “Sono entrata qui pensando di farcela a risolvere la vita alle persone” puntualizza subito Luana “e presto mi sono resa conto che mi ero data un obbiettivo impossibile”. Però va avanti: “Finché si può, e sin dove si può arrivare. In sostanza, si tratta di diventare un punto di riferimento in queste vite complesse, e l’unico modo è percorrere insieme un pezzo di strada”. Michele annuisce. Per alcune sere a settimana cura il “Servizio Notturno Itinerante”. Insieme a un altro paio di ragazzi gira con un furgoncino per entrare in relazione con i senza fissa dimora. Alcuni sono vecchie conoscenze, ci si parla, ma la strada è una scelta, rifiutano l’accoglienza, non vogliono entrare nel sistema. Altre sono new entry, e il problema è la presa di contatto. “Il punto non è portare un piatto di pasta” mi spiega Michele “non ci crederai, ma Roma è piena di associazioni e anche di singoli che offrono con molta generosità cibo, vestiti, eccetera. Però sai cosa ci dicono i nostri SFD? Che nessuno si ferma mai a parlare con loro. Un piatto di pasta lo cucini per chiunque, una conversazione la fai con una persona. In quel momento la stai riconoscendo, le dai dignità”. Ma soprattutto, e su questo sono tutti d’accordo, non si fa carità in vista di un grazie o perché, con uno slancio mistico che la durezza della vita fa presto a cancellare, dal povero hai tanto da imparare. Non è così che funziona. Ci sono problemi, e tanti, e vite sulle quali questi problemi si sono concentrati. Vite schiantate. E, dunque, si fa quel che si può. Strano pragmatismo, per un’istituzione cattolica: ma ci arriveremo. I numeri dei senza fissa dimora - Sopraggiungono Roberta Molina della Caritas Diocesana, e Giustino Trincia, direttore della Caritas Romana. Offrono una visione d’insieme, e un po’ di dati. Roma è la seconda città italiana per numero di SFD, nel 2015 se ne contavano fra 7 e 8 mila, ma le stime vanno aggiornate al rialzo. Chi perde il lavoro, ma parte comunque da una struttura solida - per affetti, famiglia, tenuta individuale - può anche considerare la strada come un’esperienza transitoria, e dopo 3 o 4 mesi rimettersi in carreggiata. Per chi accompagna alla marginalità una dipendenza o un problema di salute mentale la via della strada può essere senza ritorno. Aumenta il fenomeno del “barbonismo domestico”, aggiunge Trincia. Si tratta di persone che hanno una casa, ma che vivono in completa solitudine, senza legami né familiari né di altro genere. Situazioni di totale abbandono alle quali la Caritas contrappone un servizio di assistenza domestica. La pandemia, infine, ha prodotto effetti devastanti, con un’impennata dei soggetti con disagio psichico. Negli ultimi anni, poi, i ragazzi, per dirla icasticamente, stanno “scoppiando”. L’età media della disperazione si abbassa pericolosamente. È evidente che centri d’ascolto, ostello, prima accoglienza sono solo tappe intermedie, provvisorie. L’intento resta quello di trasformare la marginalità in integrazione: l’Ostello è una tappa, e un’altra tappa è la casa-famiglia, e così progredendo. Ma senza il concorso convinto della politica, e più ancora della società nel suo complesso, il tema degli “scartati” non conoscerà mai un approccio razionale, lucido, e, soprattutto, risolutivo. Il giornalino dell’ostello - Torna Piero, e si cambia scenario. Nell’androne dell’ostello, intorno a un lungo tavolo, Alessandro e Francesca hanno organizzato una curiosa riunione di redazione. All’ostello fanno una rivista, si chiama “Gocce di Marsala” - colto il doppio senso? Via Marsala 87 è l’indirizzo del posto... - e lo fanno gli ospiti. Quelli di oggi e quelli di ieri, chi da qui è passato e ha risolto, o comunque attenuato il suo disagio, e chi c’è ancora dentro. È una riunione informale. Ognuno espone la propria idea e il proprio progetto - che sia un tema da affrontare con taglio da cronaca, una riflessione, una poesia, un dialogo. Se ne discute insieme, e poi le cose selezionate finiscono sul giornale. Che è a diffusione interna, non ufficiale, per così dire, ma è motivo di profondo orgoglio: e si capisce, lo fanno loro. È una loro creatura. È la loro voce. E qui, vinto l’imbarazzo iniziale, qui, finalmente, le parole acquistano un senso concreto, e capisco che cosa enorme, e complessa, è questo posto voluto da Don Di Liegro: davvero la casa, la casa libera degli ultimi, il rifugio degli “scartati”. Lia, per dire. Veste di bianco, ha occhi profondi e smarriti, avrà settant’anni, parla piano, pianissimo, bisogna accostarsi per sentire e non interrompere il flusso dei suoi ricordi, evitare che perda il filo. La sua è una storia dolorosa, l’abbandono di una madre cercata per tanti anni e mai trovata - “M’ha buttato via, ma io le volevo chiedere: perché?” - ma è pure una storia di risalita, di ricostruzione. C’è Attilio, scrittore ed editore di un libriccino di riflessioni, pensieri, abbozzi di racconti che acquisto volentieri. Si definisce “il desiderativo”, s’è guadagnato uno spazio al Salone del libro di Torino - mi mostra orgoglioso una foto - e conclude dicendo che gli piacerebbe diventare “un nomade digitale”. Nihal, avrà sui cinquant’anni, dice di avere un passato da imprenditore e giornalista free-lance, viene dallo Sri Lanka, non si apre molto, ma scruta, ascolta, apprende, e ti regala quel suo sorriso orientale e indecifrabile. A Massimo, che ha la parlata, lo sguardo furbetto, la postura fiera del romanaccio di strada, qualcuno dice che sono quello di Romanzo Criminale. Mi fa cenno di avvicinarmi e mi racconta la sua versione della Banda: c’erano Libanese, Freddo, Dandi e poi lui, che però se n’è uscito perché c’era troppa violenza: finché erano rapine si poteva fare, ma quelli esageravano. Come pure le Brigate Rosse... E c’è Ismail. Una bella faccia slava, abbronzata, occhi azzurri, incallito fumatore. È bosniaco, sessant’anni, ironico, se le fattezze sono lo specchio della vita la sua dev’essere stata assai intensa. Estrae dal taschino un foglietto con la sua ultima poesia d’amore. Eh sì, perché Ismail è un poeta, insospettabilmente delicato: “solo tu dissipi le nubi del mio cielo... l’amore è la vita, io voglio vivere di te... un uomo vero è quello che ti guarda negli occhi e dice: come sono fortunato!”. Non saprò mai se dietro c’è davvero una donna tanto amata, o se Ismail insegue un fantasma. E forse non è poi così importante saperlo. Mentre la riunione volge al termine, Alessandro porta pizza, patatine e bibite (rigorosamente analcoliche) per tutti. Si avvicinano altri ospiti: tratti asiatici, vecchi romani, un ragazzo africano dalle lenti a specchio. C’è un boccone per tutti, come è giusto che sia. Poi, piano piano, uno alla volta, gli ospiti salutano e si disperdono. C’è solo Ismail quando arriva Maurizio Lisanti, 73 anni portati eccezionalmente bene, baffoni, abbronzato. È l’anima di “Gocce di Marsala”, si scusa del ritardo, ma “stavo a lavora’“. Un altro romanaccio, uno che ha cominciato un quarto di secolo di fa, con Don Di Liegro. Mi chiede se sono contento della visita. Rispondo che ho ascoltato e imparato qualcosa. “Torna, e capirai ancora di più”. Dev’essere successo così anche a lui: si è accostato per curiosità a questo universo marginale ed è rimasto coinvolto. Mi trattengo con Piero sulla soglia dell’Ostello. Continuano ad affluire gli ospiti, il popolo claudicante e a volte inquietante della vicina Stazione Termini, qui sorprendentemente disciplinato. Affiorano dal passato lontani ricordi di catechismo. Una volta mi spiegarono che un credente è caritatevole perché nel povero legge il volto del Cristo, e dunque è al Cristo che la carità si offre. Da laico, resto perplesso. Nel povero vedo la vittima di un’ingiustizia sociale profonda e diffusa. Mi piace pensare che sia a lei, a lui che tendono la mano, qui all’Ostello. Su questo terreno ciò che ci unisce è molto più intenso di ciò che ci divide. Un ragazzo, in bici e con il borsone di una famosa catena di delivery, esce salutando. È Noufal. Profugo siriano. Lavora tutte le sere con le consegne. Si è comperato la bici coi risparmi. Ha una moglie e una bambina in casa - famiglia. Presto avrà la possibilità di affittare un appartamento. Lui è uno che ce la farà. Il segno che “si può fare”. E di colpo una ventata di speranza rende la sera più leggera. La crisi della rappresentanza di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 4 agosto 2022 La sfiducia non si traduce solo in astensionismo ma anche in un pericoloso dissenso verso i valori democratici. In un lampo ci siamo ritrovati in piena campagna elettorale. Quella formale ovviamente poiché dal punto di vista sostanziale come è noto i partiti sono sempre in campagna elettorale e quindi pronti ad affrontarla anche repentinamente come in questo caso. Semmai il problema è di merito poiché anche questa volta si registrano i consueti conflitti all’interno delle coalizioni e, in alcuni casi, dei partiti che le compongono, su tematiche non propriamente fondamentali per l’interesse del Paese e nonostante vi sia consapevolezza che l’appuntamento elettorale del prossimo settembre rappresenterà uno snodo fondamentale per scongiurare le pericolose insidie della crisi della rappresentanza politica, aggravata dalla riduzione del numero dei parlamentari. La centralità di detta ultima questione è rappresentata della stretta correlazione tra la rappresentanza politica e quella democratica che, in un sistema rappresentativo come il nostro, esprime l’essenza del concetto di sovranità popolare la cui alterazione determina l’allargamento del divario tra i rappresentanti politici e i cittadini alimentando la sfiducia degli stessi verso le istituzioni. Pur essendo incontrovertibile che la riduzione del numero dei parlamentari sia stata attuata per indebolire gli istituti della democrazia rappresentativa a vantaggio di quella diretta, risulterebbe oggi anacronistico un dibattito sulla fondatezza di questa scelta politica oppure se attraverso la stessa vi sarà effettivamente una maggiore efficienza del Parlamento oltre a un consistente risparmio della spesa pubblica. Tuttavia, è evidente che la riduzione del numero dei parlamentari è una riforma non controbilanciata da altre, come sarebbe stato opportuno fare per evitarne gli effetti negativi sulla rappresentatività. Per esempio, piuttosto che limitarsi a neutralizzare la legislazione elettorale (come è avvenuto con la legge n. 51 del 2019) sarebbe stato più opportuno quantomeno tentare di realizzarne una più adeguata a garantire la rappresentatività delle minoranze e, soprattutto, in linea con l’ampliamento delle circoscrizioni elettorali che in alcuni casi, per quanto riguarda il Senato, comprendono più di ottocentomila cittadini, quasi il doppio rispetto a quelli attuali. Oppure, assumere misure volte al superamento del bicameralismo perfetto ormai unanimemente ritenuto inadeguato. Oggi più che mai il ruolo dei partiti politici risulta essere determinante per preservare il sistema democratico attraverso una rinnovata funzione di mediazione tra le istanze del popolo e le scelte dell’amministrazione pubblica. La democrazia diretta non deve escludere quella rappresentativa ma anzi può aiutare a riequilibrarla costruendo un luogo pubblico di incontro tra i cittadini e i governanti. D’altra parte, i tentativi di realizzare innovative forme di rappresentanza diretta hanno in un certo qual modo rafforzato la convinzione che non è possibile escludere la mediazione della politica, cosicché la soluzione della crisi democratica non può risolversi nella sua negazione quanto piuttosto in una riqualificazione della stessa. Contrastare la tendenza post-democratica implica l’assunzione di una piena consapevolezza che la democrazia appartiene al popolo il quale alla lunga comprende e non tollera di essere trattato come pubblico. Senza dubbio l’indebolimento del rapporto di rappresentanza è causato da molti fattori e verosimilmente oggi potrebbe essere inasprito dalla intervenuta riforma costituzionale. Un rischio che prima di altri dovrebbe essere avvertito proprio dai partiti politici, i quali dovrebbero prendere coscienza che la sfiducia nei loro confronti non si traduce unicamente in una minore partecipazione al voto bensì anche in un più pericoloso dissenso verso i valori democratici. Da qui la necessità, per certi versi l’urgenza, di alimentare la partecipazione sia individuale che collettiva poiché solo in tal modo si può giungere a una corretta trasformazione sociale cogliendo i reali bisogni dei cittadini coniugando, al contempo, la governabilità con la rappresentanza. Vincere la povertà, per davvero di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 4 agosto 2022 Tutti, in questa campagna elettorale, dovranno fare i conti con le diseguaglianze. Diminuirle rappresenta una sfida complessa ma indifferibile. C’è un punto con cui tutti gli schieramenti in questa campagna elettorale dovranno fare i conti. Quello delle diseguaglianze. Diminuirle rappresenta una sfida complessa ma indifferibile nel nostro Paese. Per tre motivi fondamentali. Primo: per un problema di equità. Perché le diseguaglianze economiche e sociali sono elevate in tutte le loro forme. Secondo: perché possono minacciare la crescita. Terzo: perché quando le diseguaglianze aumentano, la coesione sociale è in pericolo. L’associazionismo, il volontariato, il terzo settore lo sanno bene e andrebbero ascoltati. Diseguaglianza non è solo povertà. Ma è anche povertà. Raddoppiata nel 2012, non è mai tornata al livello precedente. Anzi, si è incrementata di un milione di persone in povertà assoluta nel 2021. E rispetto al 2012 la povertà è più che triplicata per minori e giovani. Se non ci fosse stato il reddito di cittadinanza o di emergenza avremmo avuto un milione di poveri assoluti in più. Diseguaglianza è anche lavoro povero. Più di 4 milioni di persone non arrivano a guadagnare 12 mila euro lordi all’anno. E qui il problema non riguarda solo la bassa retribuzione oraria, ma lo scarso numero di ore lavorate nell’anno che impedisce di arrivare a un reddito decente sia a lavoratori indipendenti che dipendenti. Bisogna tener conto di ambedue questi aspetti se si vuole ridurre il lavoro povero. Diseguaglianza è anche basso tasso di occupazione femminile. Perché la metà delle donne non può avere autonomia economica nel nostro Paese, con tutto quello che ne consegue in termini di libertà femminile e di violenza in famiglia. E anche di maggior rischio per le famiglie di cadere in povertà. Le famiglie monoreddito sono più frequentemente povere, specie se con figli. Diseguaglianza è anche basso tasso di occupazione giovanile: 4 punti sotto il tasso del 2007 per i giovani da 25 a 34 anni significa che i giovani di oggi, oltre ad essere più precari e sfruttati sul lavoro di quelli del 2007, trovano anche meno lavoro. Diseguaglianza è anche disagio minorile. Perché è più basso il livello di competenze per i bimbi delle famiglie più disagiate, e minore l’accesso ad asili nidi con compromissione della riuscita nei percorsi scolastici e aumento della probabilità di permanere in stato di povertà da adulti. Diseguaglianza è anche distanza Nord-Sud. Perché al Sud tutte le forme di diseguaglianza sono maggiori. Si deve essere creativi e privilegiare quelle misure che siano in grado di innescare circoli virtuosi di riduzione di più tipi di diseguaglianze in un’ottica di sistema. Se ci si attivasse, per esempio, per un grande investimento, come mai fatto in Italia, in infrastrutture sociali e sanitarie, ciò porterebbe aumento di occupazione femminile, e quindi diminuzione delle diseguaglianze di genere, riduzione delle diseguaglianze tra bambini nell’accesso a strutture dell’infanzia, diminuzione delle diseguaglianze tra anziani e tra disabili nell’accesso all’assistenza con welfare di prossimità, riduzione delle differenze territoriali, riduzione della povertà. Analogamente, se ci si attivasse per ridurre il lavoro povero, ciò contribuirebbe a migliorare le condizioni di giovani, donne e Sud che più vivono questa situazione. Sono solo due esemplificazioni. Se ne possono studiare vari. L’importante è che si agisca con azioni di sistema, multidimensionali, che inneschino circoli virtuosi, processi a catena di riduzione delle diseguaglianze nella salute, nell’accesso ai servizi, nell’istruzione, nel lavoro, nei redditi. Per ridurre quelle di genere, generazione, territoriali, sociali. Se saremo in grado di farlo il Paese crescerà di più. E soprattutto sarà più equo. Elena suicida in Svizzera, “illegale”: Cappato si autodenuncia di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 agosto 2022 Il leader radicale ha accompagnato una signora veneta di 69 anni, malata oncologica ma libera da supporti vitali. Che dice: “Avrei preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e di mio marito. Purtroppo non è stato possibile e ho dovuto venire qui da sola”. “Mi chiamo Elena, sono italiana e mi trovo in Svizzera. Un anno fa ho avuto la diagnosi di microcitoma polmonare. Non ho nessun supporto vitale per vivere, solo una cura a base di cortisone. Mi restava solo da aspettare che le cose peggiorassero. Ora, mettendo in pratica una convenzione che avevo già in tempi non sospetti, prima che succedesse tutto questo, ho deciso di terminare la mia vita prima che lo facesse in maniera più dolorosa la malattia stessa. Ho parlato con la mia famiglia, ho avuto la comprensione e il sostegno che potevo desiderare. Ho chiesto aiuto a Marco Cappato perché non volevo che i miei cari accompagnandomi potessero avere delle ripercussioni legali, potessero essere accusati di avermi istigato ad una decisione che è stata invece solo mia”. Elena è morta ieri a Basilea dopo aver lasciato in un video la sua testimonianza diretta. E questa mattina alle 11 Marco Cappato si presenterà alla stazione dei Carabinieri in via Fosse Ardeatine 4 a Milano per autodenunciarsi. Perché ancora una volta il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni ha compiuto un reato accompagnando nel suo ultimo viaggio in Svizzera una donna veneta di 69 anni che non dipendeva da trattamenti di sostegno vitale, dunque non rientrava nei casi previsti dalla sentenza 242 della Corte costituzionale che nel 2019, trattando il supporto fornito a Fabiano Antoniani dallo stesso Cappato, ha reso accessibile anche in Italia la tecnica del suicidio medicalmente assistito. Ora il leader radicale - promotore della lista “Democrazia e referendum” da presentare, firme permettendo, alle elezioni del 25 settembre - rischia fino a 12 anni di carcere per aiuto al suicidio. Perché i requisiti richiesti dai giudici costituzionali in quella sentenza di tre anni fa (e che ancora non hanno trovato posto in una legge dello Stato) pretendono che il paziente che chiede di accedere alla “dolce morte” ne abbia diritto solo se è affetto da una patologia irreversibile fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psichiche, se è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, e se è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Espressione, quest’ultima, che però “non significa necessariamente ed esclusivamente essere dipendenti da una macchina, ma deve intendersi anche qualsiasi tipo di trattamento sanitario, indipendentemente dal fatto che venga realizzato con terapie farmaceutiche o con l’ausilio di strumentazioni mediche. Compresi anche la nutrizione e l’idratazione artificiale”, come puntualizzano sia la Corte d’Assise di Massa che la Corte d’Assise d’Appello di Genova nelle sentenze di assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato nel processo per la morte di Davide Trentini. Così come era dipendente da “trattamenti di sostegno vitale” anche Federico Carboni, il paziente tetraplegico marchigiano che aveva scelto lo pseudonimo di “Mario” durante la lunga battaglia legale combattuta contro l’Asur Marche per vedersi riconosciuto quello che era un suo diritto acquisito con la sentenza della Consulta, e che il 16 giugno scorso ottenne infine il suicidio medicalmente assistito, primo caso in Italia. Il nuovo “atto di disobbedienza civile” di Marco Cappato, con il supporto fornito alla signora Elena, però, spinge ancora un po’ più in là il confine dei diritti in materia di fine vita che si vuole vangano riconosciuti. Da una corte di giustizia, naturalmente. Visto che l’orizzonte politico scoraggia l’attesa di una legge a breve (quella licenziata dalla Camera il 10 marzo scorso è naufragata nel pantano del Senato e nella fine della legislatura, anche se restringeva perfino la platea degli aventi diritto). “Elena è morta nel modo che ha scelto, nel Paese che glielo ha permesso”, ha detto Cappato. Andare in Svizzera per la signora Elena è stata però una costrizione. Lo spiega poco prima di mandare “un saluto e un abbraccio a tutti quelli che mi vogliono bene”: “Sono sempre stata convinta - dice nel video - che ogni persona debba decidere sulla propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente, e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio. Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi ho dovuto venire qui da sola”. Suicidio assistito, di chi è la vita? di Luigi Manconi La Repubblica, 4 agosto 2022 L’interrogativo dopo la morte in Svizzera di Elena, malata terminale di cancro. Quando si parla di eutanasia e di suicidio assistito, la discussione pubblica e la controversia etica si addensano su un quesito cruciale: di chi è la mia vita? In altre parole, se sono io il titolare della mia esistenza fisica, psichica e spirituale, chi altri - se non io stesso - può decidere su di essa, sulla sua continuità o sulla sua fine? È questa l’opinione di chi scrive e, secondo indagini demoscopiche scientificamente attendibili, di gran parte della popolazione italiana. Ma sono numerose le posizioni contrarie, dettate da motivazioni ragionevoli o futili, da argomentazioni complesse o superficiali, da considerazioni di natura religiosa, ideologica o politica (talvolta, meschinamente politica): comunque di cui tenere conto. Tuttavia, una pronuncia della Corte Costituzionale del novembre del 2019 e più di una sentenza di tribunale hanno confermato un orientamento favorevole al principio dell’autodeterminazione. Ma la legge in materia, pur se più restrittiva della sentenza della Consulta, è stata bloccata - definitivamente, c’è da temere - dalla crisi di governo. La parola e la responsabilità tornano, di conseguenza, ai tribunali, all’iniziativa dei cittadini e delle associazioni, come la “Luca Coscioni”, e alle opzioni individuali. Ed è in questo quadro, significativamente arretrato, che si collocano le vicende di “Elena”, che ha concluso la sua esistenza in una clinica di Basilea, di Stefano Gheller, che ha chiesto di poter accedere alla procedura del suicidio assistito, e di “Antonio”, che attende ormai da molti mesi gli atti finali di quella stessa procedura. Nel primo caso, la scelta di “Elena” di recarsi in Svizzera era obbligata, in quanto la donna non possedeva uno dei quattro requisiti previsti dalla sentenza della Consulta: il fatto, cioè, di dipendere da trattamenti di sostegno vitale. Eppure, va ricordato, una successiva sentenza della Corte di Assise di Massa (2020) ha dichiarato ammissibile il suicidio assistito anche nei casi di pazienti sottoposti “a qualsiasi trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici”. Ma Elena ha voluto evitare la “strada più lunga” (tribunale, azienda sanitaria, protocolli medici, procedure amministrative, resistenze burocratiche…), che per lei sarebbe stata “un inferno”, e ha scelto la “soluzione Svizzera”. In ogni caso, al di là delle formulazioni giuridiche, evidentemente essenziali, delle sentenze dei tribunali, che ci si augura lungimiranti, e di una legge sempre più urgente, resta la domanda di cui si è detto all’inizio. E che si presenta, se pensiamo alla storia di Elena, con una ancora più profonda radicalità e nella forma di un quesito inesorabile: di chi è il mio dolore? È un interrogativo ancora più intimo e personale, nel senso che riguarda i primari fondamenti e sentimenti della soggettività umana. Il tema è quello della conoscenza e della decidibilità della sofferenza individuale: solo chi patisce può sapere la misura del proprio patimento e della sua intollerabilità. Ed egli solo può adottare una decisione in merito. Solo chi vive in prima persona il decadere del proprio corpo e della propria psiche e le pene lancinanti e non sedabili che comporta, e avverte la perdita di senso - ovvero di capacità di relazione e di esperienza - di una vita protratta artificialmente, è in grado di assumersi la responsabilità di porvi fine. Qui siamo ancora prima di ogni questione di etica pubblica e di teologia morale: siamo nello spazio indicibile della più nuda soggettività, dove l’individuo è solo con se stesso e non può essere altrimenti. Non c’è, infatti, alcuna forma di affetto, coniugale o fraterno o amicale che sia, e alcuna forma di conforto, emotivo, intellettuale o religioso, che possano portare a condividere davvero quel dolore. Questo spazio, che può essere anche quello dell’angoscia più nera, precede ogni norma e ogni convenzione, ogni morale e ogni relazione, che non sia quella dell’individuo con se stesso e con la propria sofferenza. È questo il fondamento costitutivo dell’autodeterminazione che, prima di essere un concetto giuridico o una opzione politico-culturale, è un tratto antropologico ineludibile. Il che non corrisponde, necessariamente, a uno stato di abbandono o di solitudine familiare o sociale. In tutte le vicende diventate pubbliche, che hanno portato all’aiuto al suicidio medicalmente assistito, il paziente si trovava all’interno di un sistema assai fitto di relazioni, di scambi, di comunicazioni; e dentro “mondi vitali” che lo hanno assistito, sostenuto e consolato, per quanto la consolazione risulti possibile in situazioni che si sanno ultime. Perché anche questo va detto: l’eutanasia non è “la dolce morte”, come ancora sciattamente si continua a scrivere. È, piuttosto, una scelta tragica che, in determinate circostanze, è inevitabile e profondamente umano assumere. Legalizzare la cannabis, il coraggio di vincere sulla destra di Antonella Soldo Il Manifesto, 4 agosto 2022 Una legislatura, tre crisi di governo, una pandemia e una guerra. Può sembrare bizzarro, ma il tema della cannabis, nonostante lo scenario, è riuscito a resistere nell’agenda istituzionale. In realtà è solo l’indice del fatto che la questione è ben più seria e sentita di quanto i partiti e i loro leader pensino. La crisi di governo è arrivata proprio durante la discussione di un disegno di legge sulla coltivazione domestica di 4 piante di cannabis, che era nato in Commissione Giustizia su iniziativa degli onorevoli Riccardo Magi e Caterina Licatini. E sul quale molta pressione hanno fatto le organizzazioni della società civile impegnate sul tema. Anche questa volta, nulla di fatto. Ma non basterà il tentativo dei leader dei partiti di area progressista di far finta di nulla e aspettare che le discussioni si sopiscano, in qualche modo. Tanto più che i loro stessi elettorati sono attenti alla questione: secondo un sondaggio condotto da Swg, il 74% degli elettori del Pd e l’81% di quelli del M5S si è dichiarato favorevole alla legalizzazione della cannabis. Lo scorso anno il Segretario del Pd Enrico Letta aveva pubblicamente dichiarato la necessità di “aprire un dibattito per arrivare a una posizione comune sul tema della cannabis” utilizzando il metodo delle Agorà Democratiche per trovarne una. Nell’ultimo anno è aumentato l’interesse da parte dei propri iscritti che hanno organizzato nei diversi circoli Pd più di 140 eventi sulla cannabis, presentando 19 iniziative nell’Agorà supportate da oltre 600 iscritti. Negli scorsi giorni, durante la relazione alla direzione nazionale, Letta ha presentato la lista “Democratici e Progressisti” nata proprio dal lavoro comune di idee e proposte emerse dalle Agorà. Per quanto il Segretario del Pd non abbia mai apertamente preso una posizione, questi elementi non possono che dimostrarsi vincolanti per la stesura del prossimo programma elettorale. Quanto al M5S, il tema della legalizzazione non era incluso nel programma elettorale del 2018 quando si presentarono agli elettori come movimento di rottura. Ciononostante, sono stati registrati diversi avvenimenti positivi in questa legislatura: la convocazione della Conferenza nazionale sulle droghe da parte della ministra Dadone, dopo oltre 10 anni di rinvii, in cui sono emerse delle chiare indicazioni a favore della decriminalizzazione della coltivazione domestica; e infine, l’impegno del Presidente della Commissione Giustizia Perantoni e di altri esponenti del M5S nel supportare il ddl sulla coltivazione domestica. Tuttavia ciò che avrebbe fatto davvero la differenza non è accaduto, ovvero la calendarizzazione della legge di iniziativa popolare sulla cannabis. Nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera, Roberto Fico aveva promesso la discussione delle leggi di iniziativa popolare. Ma non l’ha mai fatto. Ecco, nel momento in cui assistiamo al tentativo del M5S di tornare ai valori delle origini, forse è il caso che tra quei valori recuperino anche la questione della democrazia diretta. Dell’obbligo di discussione delle leggi popolari e della possibilità di presentarle raccogliendo le firme con Spid su una piattaforma del governo (che avrebbe dovuto essere attiva da gennaio ma di cui non abbiamo notizie ad oggi). Insomma l’appello ai progressisti, a quelli che si presentano e considerano tali è questo: Giorgia Meloni, Matteo Salvini Silvio Berlusconi sulla cannabis non hanno dubbi. Insieme all’immigrazione è l’argomento con cui aprono e portano avanti la loro propaganda. Con cui spaventano le persone, aumentano un sistema ingiusto, e dannoso. Una finta guerra alla droga che ha come bersaglio ragazzi e ragazzini ma che non si pone il problema della lotta alla mafia. Ecco, nel momento in cui ci si presenta come alternativa a Meloni, Salvini e Berlusconi bisogna rispondere qual è l’idea che si ha anche su questo tema. Far sapere se si sceglie lo status quo, facendo spallucce, oppure se si ha il coraggio e il buonsenso di dire che questo sistema ha fallito e va cambiato. Migranti. L’appello delle Ong: “Una flotta europea contro le morti nel Mediterraneo” La Stampa, 4 agosto 2022 Medici senza frontiere, Sos Mediterranee e Sea Watch chiedono agli stati dell’Ue di impegnarsi per arginare le stragi in mare. Negli ultimi giorni soccorse 444 persone. “Sos Mediterranee, Medici senza frontiere e Sea-Watch chiedono che gli Stati dell’UE mettano a disposizione una flotta adeguata di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale gestita a livello istituzionale, e che forniscano una risposta tempestiva e adeguata a tutte le richieste di soccorso, unitamente a una pianificazione degli sbarchi dei sopravvissuti”. È questo l’appello delle ong che in questi giorni stanno fronteggiando da sole l’emergenza nel mar Mediterraneo. Un’emergenza che al di là del racconto politico, non riguarda gli sbarchi, ma la sicurezza di coloro che affrontano il viaggio per arrivare sulle coste europee sfidando il mare. In cinque giorni la Geo Barents, nave SAR di MSF, e la Ocean Viking, nave SAR di Sos Mediterranee in partnership con la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, hanno salvato sedici imbarcazioni in difficoltà, mentre la settimana precedente la Sea-Watch 3 ha soccorso cinque imbarcazioni per un totale di 444 persone. Vite in balia delle onde che senza la presenza di navi civili di ricerca e soccorso, sarebbero abbandonati al loro destino nelle acque internazionali al largo della Libia, sulla rotta migratoria marittima più letale al mondo dal 2014. “Il mancato impegno a livello europeo di un’attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, oltre ai ritardi nell’assegnazione di un luogo sicuro di sbarco, hanno minato l’integrità e la capacità del sistema di ricerca e soccorso e quindi la possibilità di salvare vite umane” si legge nel comunicato congiunto. “Dall’inizio dell’estate - dichiara Juan Matias Gil, capomissione SAR di MSF - il team di ricerca e soccorso di MSF ha effettuato tre missioni in mare. Purtroppo, il primo salvataggio ha avuto esiti drammatici, con circa 30 dispersi e la morte di una donna. Attualmente, dato lo stato di necessità, sono 659 le persone a bordo della Geo Barents, un numero superiore alla capacità della nave. Considerati i bisogni, limitarsi a colmare il vuoto delle istituzioni nella conduzione di un’operazione di ricerca e soccorso non è più sufficiente e accrescere la capacità di risposta nel Mediterraneo centrale si pone come una necessità imprescindibile”. Il lavoro delle ong è ostacolato dalla mancata cooperazione delle autorità libiche che “non hanno quasi mai risposto, trascurando il loro obbligo legale di coordinare l’assistenza. Inoltre, quando intervengono e intercettano le imbarcazioni in difficoltà, le autorità libiche rimpatriano sistematicamente e forzatamente i sopravvissuti in Libia, un paese che secondo le Nazioni Unite non può essere considerato un luogo sicuro”. Nonostante la grave mancanza di adeguate risorse per la ricerca e il soccorso in questo tratto di mare, le persone continuano a fuggire dalla Libia via mare, rischiando la vita per cercare salvezza. Nella stagione estiva, quando le condizioni meteorologiche sono più favorevoli per tentare un viaggio così pericoloso, le partenze dalla Libia sono più frequenti ed è quindi necessaria una flotta di ricerca e soccorso adeguata. “Tenere le persone soccorse bloccate in mare per giorni in attesa di sbarcare in un luogo sicuro - afferma Xavier Lauth, direttore delle operazioni di SOS MEDITERRANEE - è un’ulteriore violenza imposta a chi è già estremamente vulnerabile. L’ultima e unica speranza che hanno è quella di riuscire a fuggire dalla Libia, che spesso definiscono un inferno sulla terra, attraversando il mare a prescindere dai rischi che corrono. La rimozione di operazioni di ricerca e soccorso europei adeguati e competenti nelle acque internazionali al largo della Libia si è rivelata letale e inefficace nel prevenire pericolosi attraversamenti”. Mentre la Sea-Watch 3 il 30 luglio ha completato le operazioni di sbarco di 438 persone presso il porto di Taranto e la Ocean Viking il 1° agosto ha fatto sbarcare a Salerno 387 donne, bambini e uomini soccorsi tra il 24 e il 25 luglio, la Geo Barents è ancora in attesa di una soluzione per i sopravvissuti soccorsi sette giorni fa. “Oltre a essere venute meno al loro dovere di soccorrere le persone in mare - sottolinea Mattea Weihe, portavoce di Sea-Watch - le autorità europee ritardano spesso gli sbarchi. La lunga attesa non fa che stancare ulteriormente le persone soccorse: sono sopravvissute al Mediterraneo, ma invece di trovare sicurezza aspettano giorni di fronte alle porte chiuse dell’Europa prima che i loro diritti umani vengano rispettati”. Migranti, diritti e riforme: ecco perché l’Europa teme la vittoria di Meloni di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 4 agosto 2022 Allarme sulla tutela delle minoranze. Voci di un tour della leader di Fratelli d’Italia a Berlino e Parigi. Via al piano anti-sovranista europeo: 22 paesi pronti all’accoglienza di chi arriva dal Mediterraneo. Forse c’è un modo per disinnescare Giorgia Meloni, la possibile prossima premier italiana che fa paura all’Europa. Su un tema prevedibilmente caldo della campagna elettorale, l’immigrazione, a Parigi, Berlino e Bruxelles lavorano da mesi. E nelle tre capitali si è negoziata e chiusa nelle ultime settimane l’intesa più rilevante da anni. Prima della fine di agosto - e dell’ultimo miglio della campagna elettorale italiana - migliaia di migranti sbarcati sulle coste italiane o greche o spagnole saranno ricollocati in ben 22 Paesi, e non solo Ue: ci sono anche l’Islanda, la Svizzera e altri partner Schengen. È il cosiddetto “Malta 2”, l’accordo della “coalizione dei volenterosi” che d’ora in poi garantirà la redistribuzione di molti migranti dai Paesi affacciati sul Mediterraneo come il nostro. Nell’immediato, la Germania e la Francia accetteranno la quota più generosa, rispettivamente 3.500 e 3.000 migranti. Un dettaglio importante riguarderà anche la tipologia delle persone da ricollocare: non saranno solo profughi, anche i cosiddetti “migranti economici” che sono il cuore della propaganda delle destre sovraniste. Secondo importante dettaglio: ai Paesi più colpiti dall’immigrazione saranno riconosciuti 160 milioni di euro di fondi Ue più altre quote aggiuntive dei 22 Paesi che hanno aderito all’accordo. “E all’Italia - annuncia una fonte diplomatica - toccherà la parte da leone”. Terzo dettaglio, fondamentale dal punto di vista politico: 8 miliardi di euro saranno destinati ai Paesi d’origine dei migranti e i respingimenti lì saranno enormemente rafforzati - una fonte comunitaria la battezza “politica europea dei rimpatri”. Ciò dovrebbe togliere forza a un altro argomento della campagna elettorale di Fratelli d’Italia. Altro particolare piccante: gli unici due Paesi che si sono rifiutati sia di aderire all’accordo sui ricollocamenti sia di concedere fondi all’Italia e agli altri partner affacciati sul Mediterraneo sono l’Ungheria e la Polonia, guidati da due storici alleati di Giorgia Meloni, Orban e Morawiecki. Ieri girava voce che la leader di Fratelli d’Italia voglia incontrare il cancelliere tedesco Scholz e il presidente francese Macron. Una notizia ancora non smentita né confermata ma che a Berlino viene accolta con il consueto pragmatismo. “Abbiamo l’impressione che sia interessata a un dialogo costruttivo”. Ma è altrettanto chiaro che nelle due capitali ci sono delle linee rosse: il famoso comizio di Meloni in Andalusia è stato uno shock, a nord delle Alpi. Sul fascismo e sull’antisemitismo non si scherza, in Europa. Anche se Meloni volesse immettersi sulla scia dei suoi modelli, Polonia e Ungheria, sulla lesione dei diritti delle persone lgbt+ o sulle minoranze, l’altolà sarà immediato. “Sui diritti umani non si negozia” fanno sapere da Berlino. Diverso il discorso sull’aborto: lì l’Europa ha dovuto riconoscere a Varsavia il diritto a legiferare in autonomia e di abolirlo quasi del tutto. Più difficile intervenire in quel campo, secondo Berlino. Mentre una fonte politica francese ricorda che Macron ha una posizione diversa: il presidente francese voleva inserire il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. E a Parigi non hanno neanche dimenticato, ricorda la fonte, “che Meloni è stata l’unica a opporsi al Trattato dell’Eliseo” tra Francia e Italia. Un terzo elemento che angoscia Parigi e Berlino è l’annuncio di Meloni di voler far prevalere il diritto nazionale su quello europeo, copiato da Marine Le Pen: “rischia di disgregare l’Europa”, avverte la fonte. Poi c’è l’economia. È vero che la Bce ha appena varato uno scudo anti-spread. Ma la ‘conditio sine qua non’ per beneficiare della protezione contro gli spread eccessivi è che l’Italia sia in regola con il Patto di stabilità e con i parametri per ricevere i soldi del Recovery Fund. Soprattutto: “la decisione finale è demandata al Consiglio direttivo” ricorda una fonte della Bce, dove siedono anche i falchi che in caso di grossi sforamenti del deficit e sfide al Recovery potrebbero bloccare tutto, lasciando l’Italia in balia degli spread alle stelle. Infine, nel prossimo autunno si entrerà nel vivo della riforma del Patto di stabilità: anche qui i “soliti” tedeschi, olandesi, finlandesi o austriaci potrebbero tirare il freno a mano sulle modifiche chieste apertamente da Mario Draghi come il taglio del debito concordato con la Commissione Ue o l’esclusione di determinate spese per investimenti dal disavanzo. Lo slogan di Meloni: “meno Europa ma meglio” dimentica sempre un dettaglio: è l’Italia, con il suo debito pubblico al 150% ad aver bisogno dell’Ue e della Bce. Myanmar, la tortura per stroncare l’opposizione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 agosto 2022 In un rapporto pubblicato ieri, Amnesty International ha denunciato che nelle prigioni e nei centri d’interrogatorio di Myanmar persone arrestate per essersi opposte al colpo di stato militare del febbraio 2021 vengono regolarmente sottoposte a torture e ad altri trattamenti crudeli e degradanti. Tutte le testimonianze hanno descritto l’orrore iniziato al momento dell’arresto, durato per tutto il periodo degli interrogatori e della detenzione e proseguito persino dopo la scarcerazione. Secondo l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici, dal colpo di stato del 1° febbraio 2021 la giunta militare al potere in Myanmar ha arrestato oltre 14.500 persone e ne ha uccise oltre 2000. I militari al potere violano la legge a ogni livello: arrestano senza mandato di cattura, obbligano a rilasciare “confessioni” con la tortura, sottopongono i detenuti a sparizione forzata, fanno rappresaglie contro i parenti degli arrestati, isolano questi ultimi da ogni contatto col mondo esterno. L’esempio più drammatico è stata, nel luglio 2022, l’esecuzione di quattro condanne a morte, due delle quali nei confronti di un noto attivista per la democrazia e di un ex parlamentare. Si è trattato delle prime esecuzioni dopo 30 anni. Nei bracci della morte restano oltre 70 prigionieri mentre altre 41 persone sono state condannate alla pena capitale in contumacia. Sottoposti a scariche elettriche e picchiati - I funzionari delle prigioni prendono i detenuti a calci e a schiaffi, li picchiano coi calci dei fucili, con cavi elettrici e coi rami degli alberi di palma. I detenuti vengono inoltre sottoposti a torture psicologiche, quali le minacce di morte e di stupro, per costringerli a confessare o estorcere informazioni su attività contro i militari. A un detenuto è stata inviata in cella una busta contenente una bomba, poi rivelatasi falsa. Molti ex detenuti intervistati da Amnesty International hanno riferito di aver visto altri detenuti pieni di ferite, sporchi di sangue, con gli arti spezzati e i volti gonfi. Gli addetti agli interrogatori si rendono responsabili anche di reati sessuali e di violenza di genere. Saw Han Nway Oo, una transgender, è stata arrestata nel settembre 2021 perché sospettata di aver preso parte a un corso di autodifesa. È stata portata al centro interrogatori di Mandalay, noto per le torture che si praticano all’interno. È stata interrogata per tre giorni. Ha riferito che le hanno procurato dei tagli alle ginocchia con uno strumento appuntito per poi spruzzare una sostanza urticante sulle ferite sanguinanti. Per tutto quel periodo, non ha ricevuto acqua né cibo. “Durante l’interrogatorio, quando usavo pronomi femminili per riferirmi a me stessa, mi dicevano che ero gay, mi mostravano i genitali e dicevano che avrebbero dovuto piacermi”. I militari hanno esaminato la sua corrispondenza con la sua dottoressa e le hanno chiesto se si fosse sottoposta a un’operazione per cambiare sesso. Infine, l’hanno spogliata e si sono messi a ridere guardando il suo corpo. Altre persone Lgbti hanno riferito di essere state sottoposte a ispezioni e controlli intimi per, nelle parole di un’ex detenuta, “sincerarsi di che sesso fossimo”. Bendati e isolati - Gli arresti vengono normalmente eseguiti durante raid notturni. Soldati e agenti di polizia sfondano le porte delle abitazioni, picchiano le persone che trovano all’interno, mettono tutto a soqquadro, portano via telefoni e computer e a volte persino oggetti di valore come i gioielli. Una delle leader delle proteste, Ma Win, è stata arrestata a bordo di un autobus nella regione di Mandalay. L’hanno presa a schiaffi, ammanettata, bendata e portata in una località sconosciuta. Durante un interrogatorio durato oltre 24 ore, è stata presa a calci e più volte minacciata di morte. Per gli avvocati è estremamente difficile scoprire dove vengano portati i loro clienti. A volte sono costretti a pagare mazzette per avere anche la più piccola informazione. Le prigioni sono sovraffollate, con casi in cui 50 detenuti sono costretti a dividere una cella per 10. Nel cibo si trovano insetti morti e vermi.