Escalation di suicidi in carcere: 2 donne in pochi giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2022 L’ultima, Donatella, lascia un messaggio straziante. 42 i detenuti che si sono tolti la vita da gennaio: tra loro 4 donne. Superati i 34 del 2011. Aveva 27 anni la ragazza che ieri si è ammazzata a Verona, lunedì si è impiccata una donna a Rebibbia. E il Lazio registra altri 3 morti. “Leo, amore mio, mi dispiace, sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno, ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei mai amore mio. Leo sii forte, ti amo e scusami”. È il biglietto lasciato da Donatella, una ragazza di 27 anni con problemi di tossicodipendenza che si è uccisa ieri notte al carcere di Verona. Ha deciso di farla finita, non ha resistito. Da come si evince da questa sua dolorosa lettera piena di amore, non ha voluto affrontare una eventuale perdita. Il carcere, ancora una volta, diventa un buco nero che risucchia anche le persone fragili, vulnerabili e che non hanno la forza di affrontare il fardello della reclusione. Con lei, siamo giunti al 42esimo suicidio dall’inizio dell’anno 2022. Il primo agosto a Rebibbia un’altra donna si è tolta la vita - Il caso vuole che Donatella non sia l’unica donna. Il giorno prima, 1 agosto, al carcere di Rebibbia si è impiccata una donna, sempre con problemi di dipendenza. È la quarta detenuta donna (l’ultima, com’è detto, è al carcere di Verona) che si suicida dall’inizio dell’anno. Un numero altissimo se si considera che - al 30 giugno 2022 - le donne sono pari al 4.2% del totale della popolazione detenuta. Una percentuale - come ha sottolineato Antigone nel suo rapporto di metà anno - sostanzialmente stabile nel tempo, di poco inferiore al valore mediano dei paesi del Consiglio d’Europa, che secondo gli ultimi dati disponibili relativi al 31 gennaio 2021 si attesta sul 4,7%. Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 610 donne, circa un quarto del totale. Il numero più alto di donne detenute si trova nel Lazio (405), vista la presenza a Roma del carcere femminile più grande d’Europa. Seguono la Lombardia (370) e la Campania (324). Nel Lazio morti tre detenuti nel giro di pochi giorni - Ma ritornando ai decessi, balza all’occhio la regione Lazio. Come rivela il garante regionale Stefano Anastasìa, sono morti tre detenuti morti nei penitenziari del Lazio nel giro di pochi giorni. Il primo agosto, come già detto, si è impiccata una donna del carcere di Rebibbia. Il giorno prima, nel reparto di medicina protetta dell’Ospedale Pertini, è morto un uomo di cinquantasei anni, già detenuto a Velletri, dove gli era stato trovato un tumore in stadio avanzato contro cui non è stato possibile fare nulla, se non accompagnarlo verso la fine. A Viterbo, invece, in carcere è stato trovato morto un uomo di trentotto anni, probabilmente per un abuso di alcol e farmaci. In ciascun caso, com’è di prassi, ci saranno accertamenti disposti dall’autorità giudiziaria. Per ognuno di essi il garante della regione Lazio Anastasìa ne ha avuto notizia dai dirigenti sanitari che, in particolare nel caso della morte annunciata del paziente del Pertini, hanno fatto di tutto per alleviargli le sofferenze e per consentirgli di morire (quasi) in libertà. “Certo - osserva il garante regionale - per ognuna di queste morti bisognerà rivedere cosa è stato fatto e cosa di meglio si sarebbe potuto fare, e rivedere i protocolli conseguenti, ma salvo che dalle indagini disposte dall’autorità giudiziaria non emergano fatti nuovi, non serve cercare colpevoli a ogni costo di tragedie che, purtroppo, sono all’ordine del giorno nelle nostre carceri. Il problema sono, appunto, le nostre carceri, costrette a essere luoghi di contenzione del disagio e della sofferenza psichica, ospizi dei poveri, spesso insopportabili fino all’abuso di sostanze”. Anastasìa sottolinea che inizia nei prossimi giorni una nuova campagna elettorale per le elezioni politiche nazionali, per questo conclude con un auspicio: “Speriamo in parole misurate che siano anticipazioni di politiche sagge, che restituiscano alla società i suoi problemi di accoglienza e di sostegno sociale e riportino il carcere a quella condizione di extrema ratio che sola ne può consentire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e l’impegno al reinserimento sociale dei condannati”. Ristretti Orizzonti: negli ultimi 10 anni tra gennaio e giugno tra i 19 e i 27 suicidi - Ritornando sui suicidi, ricordiamo che Antigone, nel suo recente rapporto di metà anno, ha stabilito una media di un detenuto che si toglie la vita ogni cinque giorni. Il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti, racconta come da dieci anni a questa parte i suicidi avvenuti tra il mese di gennaio e quello di giugno siano stati un minimo di 19 e un massimo di 27. Solo nel 2010 e nel 2011 tale numero si avvicinava a quello di oggi, rispettivamente con 33 e 34 suicidi. Antigone sottolinea che quelli erano quelli gli anni del grande sovraffollamento penitenziario, i detenuti erano molti di più, e la Corte Europea condannava l’Italia per violazione del divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani e degradanti. Oggi i detenuti sono assai meno che allora ma carenze e disagi continuano, impattando con più o meno forza nei percorsi delle persone detenute. Ovviamente ogni caso di suicidio ha una storia a sé, fatta di personali sofferenze e fragilità, ma quando i numeri iniziano a diventare così alti non si può non guardarli con un’ottica di insieme. Come un indicatore di malessere di un sistema che necessita profondi cambiamenti. L’Italia è al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere - A riprova della natura strutturale del fenomeno, Antigone fa il confronto con quanto accade fuori dagli istituti di pena: con 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti, l’Italia è in generale considerato un paese con un tasso di suicidi basso, uno tra i più bassi a livello europeo. Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, l’Italia si colloca invece al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. A fine 2021, tale tasso era pari a 10,6 suicidi ogni 10.000 persone detenute. Mettendo quindi in relazione il dato della popolazione detenuta con quello della popolazione libera vediamo l’enorme differenza tra i due fenomeni: in carcere ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna. Antigone ha rivelato anche un altro dato interessante. Guardando l’età, la fascia più rappresentativa è quella più giovane con 14 persone decedute di età compresa tra i venti e i trent’anni. I più giovani in assoluto erano due ragazzi di 21 anni, mentre il più anziano un uomo di 70. Tra le persone che si sono tolte la vita, diverse si trovavano in carcere solo da poche ore. Altre erano invece destinate a lasciarlo a breve, essendo vicine al fine pena o trovandosi in procinto di uscire in misura alternativa. Riforma dell’ergastolo ostativo: legge insabbiata, il M5S accusa il Pd di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 agosto 2022 “Abbiamo licenziato alla Camera il provvedimento di riforma dell’ergastolo ostativo il 31 marzo: c’era tempo per approvarlo in Senato”, protesta Giulia Sarti, responsabile Giustizia del M5S che ora accusa Pd e Fd’I di aver posto veti incrociati e di aver così finito col cancellare dal calendario dei lavori di Palazzo Madama la riforma richiesta dalla Corte costituzionale entro l’8 novembre 2022. “A rischio anche la revisione dello strumento militare e l’equo compenso per le prestazioni professionali”, denuncia Sarti che spera nella conferenza dei capigruppo di oggi per calendarizzare la riforma dell’ergastolo ostativo, malgrado il suo partito sia stato contrario fin dall’inizio a recepire le richieste della Consulta. “Anche se noi non avremmo mai voluto mettere mano alla legge, abbiamo cercato di dare una risposta concreta dopo l’ordinanza della Consulta e per noi quel testo è diventato davvero una priorità perché temiamo il vuoto normativo che potrebbe aprire la possibilità di buttare giù il muro del carcere per i boss mafiosi - spiega Sarti. Lo abbiamo dimostrato scrivendo una nuova norma condivisa dalla gran parte delle forze politiche e approvata esattamente il 31 marzo scorso”. Il 5 Stelle Mario Perantoni, relatore del provvedimento alla Camera invita “il collega Ostallari” a garantire che si porti a temine l’iter. E Ostalleri, senatore leghista, presidente della Commissione Giustizia, ribatte: “Se salta, prendersela con Giuseppe Conte”. Ergastolo ostativo, tutto fermo. M5S contro Ostellari. Ma lui replica: “La colpa è di Conte” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 agosto 2022 Ancora nessun accordo in Senato sull’ergastolo ostativo. La riunione di ieri mattina, in cui erano presenti la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina e i capigruppo dei partiti di maggioranza della commissione Giustizia, non ha risolto la questione delle possibili modifiche da apportare al testo licenziato da Montecitorio lo scorso marzo. Quindi per ora non approda in Aula ed è subito scontro tra Movimento 5 Stelle e Lega. “Oggi (ieri, ndr) in capigruppo siamo stati l’unica forza politica a chiedere di inserire nel calendario d’aula l’ergastolo ostativo, già approvato alla Camera, in ragione della scadenza dell’8 novembre 2022 indicata dalla Consulta”, ha dichiarato Mariolina Castellone, capogruppo al Senato del Movimento 5 Stelle. A lei hanno fatto eco gli onorevoli grillini Mario Perantoni e Giulia Sarti. Entrambi auspicano che il presidente della commissione giustizia del Senato, il leghista Andrea Ostellari, trovi “un punto di sintesi tra tutti i gruppi per garantire che il provvedimento sull’ergastolo ostativo sia esaminato dall’aula del Senato”, per scongiurare “‘ il vuoto normativo che potrebbe aprire la possibilità di buttare giù il muro del carcere per i boss mafiosi”. Non si è lasciata attendere la replica dell’esponente del Carroccio: “Perantoni dovrebbe prendersela con Giuseppe Conte, che, irresponsabilmente, ha causato la caduta del Governo e messo a rischio questo e altri ddl di fondamentale importanza per gli italiani. Oggi siamo al lavoro sui provvedimenti legati agli obiettivi del Pnrr”. Ostellari ha poi concluso: “Già domani (oggi, per chi legge, ndr), nell’ambito dell’ufficio di presidenza della commissione Giustizia, faremo una valutazione politica per capire se ci sono spazio e ampio consenso, da parte dei gruppi, per procedere anche alla trattazione e all’affidamento all’aula della riforma sull’ergastolo ostativo. Sul tema la Lega ha sempre mantenuto una posizione chiara: no alle scarcerazioni facili di criminali e mafiosi. Chi rischia di far saltare la riforma va cercato altrove”. Dal Partito democratico trapela sconcerto per il rimpallo di responsabilità tra ex forze di maggioranza che, non avendo votato la fiducia al governo Draghi, hanno determinato la fine della legislatura con gravi conseguenze su provvedimenti di grande rilevanza come l’ergastolo ostativo. Percorso (rieducativo) ad ostacoli di Vittorio Rizzo poliziaedemocrazia.it, 3 agosto 2022 Uffici inadeguati, privi di dotazione informatica, pochi assistenti sociali con centinaia di casi da seguire. Questa la situazione degli Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna che dovrebbero seguire e supportare il reinserimento di un detenuto nella società civile. Spesso quando sentiamo parlare di esecuzione penale, la prima cosa a cui pensiamo è il carcere, con le sue sbarre e i suoi cancelli che fungono da contenimento; ma non è questo lo scopo rieducativo sancito dall’art. 37 co. 3 della Costituzione Italiana. A livello internazionale con il termine “community sanction”, le recenti normative invitano ad intendere la sanzione penale come una misura da vivere nella comunità, secondo quanto indicato dal Ministero della Giustizia: “Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per mezzo della Raccomandazione (92)16, rifacendosi al termine anglosassone community sanction, fornisce la seguente definizione di misura/sanzione alternativa o di comunità: sanzioni e misure che mantengono il condannato nella comunità ed implicano una certa restrizione della sua libertà attraverso l’imposizione di condizioni e/o obblighi e che sono eseguite dagli organi previsti dalle norme in vigore. Tutte le amministrazioni occidentali, compresa quella italiana, incaricate di tale parte dell’esecuzione penale condividono tale definizione. Le misure alternative alla detenzione o di comunità, consistono nel seguire un determinato comportamento, definito possibilmente d’intesa fra il condannato e l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna che lo abbia preso in carico. Gli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna sono organi periferici di livello dirigenziale non generale del Ministero disciplinati dall’articolo 10 del d.m. 17 novembre 2015 in attuazione al d.p.c.m. 84/2015 e sono dunque addetti alla presa in carico delle persone sottoposte a misure esterne alternative al carcere”. Ma cosa sono questi uffici e in che modo possono prendere in carico un detenuto in carcere e condurlo ad una misura alternativa esterna? Con la Legge n.154/2005 i CSSA (centri di servizio sociale per adulti) vennero denominati Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (U.E.P.E.) ma la figura dell’assistente sociale al suo interno, ha continuato ad avere una grande centralità. Sono infatti loro, gli assistenti sociali dell’U.E.P.E. che, ricevuta la segnalazione da parte dell’educatore, dell’arrivo in carcere di un detenuto, si attivano per incontrare prima i familiari e poi il detenuto stesso; in modo da preparare una relazione socio/familiare del soggetto. Questa relazione, all’interno di un Gruppo di Osservazione e Trattamento (G.O.T.) contribuisce a definire un programma trattamentale che preveda l’affido in prova ai servizi sociali per il detenuto. Grillini senza più big, ma Sarti assicura: “Sulla giustizia daremo una mano” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 agosto 2022 Piaccia o meno, il M5S ha comunque lasciato il segno con le sue leggi e i suoi numerosi slogan. L’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, il suo ex sottosegretario Vittorio Ferraresi, la responsabile Giustizia Giulia Sarti sono tra i big che, a causa del vincolo del doppio mandato imposto da Beppe Grillo, non potranno più ricandidarsi alle prossime elezioni politiche del 25 settembre. Il Movimento 5 Stelle, dunque, in un colpo solo perde tre nomi di peso sul terreno della giustizia. Qualche mese fa era stato pure abbandonato dall’attuale sottosegretaria di Via Arenula Anna Macina, trasmigrata nel gruppo Insieme per il Futuro fondato da Luigi Maio. Bonafede, Ferraresi e Sarti, divisi tra la commissione giustizia della Camera e quella Antimafia, in questi anni hanno comunque lasciato un segno, a prescindere dal giudizio che ognuno può esprimere sul merito delle iniziative politiche: pensiamo, in primis, alla legge Spazzacorrotti, quella sulle intercettazioni e quella per il carcere ai grandi evasori. Norme attraverso le quali si è disposta la sospensione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, si sono introdotte pene più severe per i pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio, sono stati previsti il daspo per i corrotti e per i corruttori, i poliziotti infiltrati nella Pa con il compito di riferire presunti illeciti alla magistratura, l’ampliamento dell’uso del trojan. Ma non dimentichiamo anche la proposta di legge per un “nuovo ergastolo ostativo”, nonostante la Consulta lo abbia definito incompatibile con la Costituzione, l’ostruzionismo contro il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, la mancata attuazione dei decreti attuativi per il potenziamento delle misure alternative al carcere, e adesso i continui attacchi al capo del Dap Carlo Renoldi. Tutto ciò rappresenta un importante patrimonio legislativo e se vogliamo culturale del Movimento 5 Stelle, che per il peso politico assunto negli ultimi governi è riuscito persino a giocare bene la sua partita contro l’attuale ministra Cartabia e il suo stuolo di esperti di diritto, portandola, erroneamente sull’altare del compromesso, a far approvare quel pasticcio che è l’improcedibilità. Adesso chi difenderà questo fortino che da più parti viene bollato come giustizialismo? O altresì “populismo penale”, descritto dal professore Giovanni Fiandaca come “una accentuata strumentalizzazione politica del diritto penale, e delle sue valenze simboliche, in chiave di rassicurazione collettiva rispettivo a paura e allarmi a loro volta indotti o comunque enfatizzati da campagne politico-mediatiche propense a drammatizzare il rischio-criminalità”? Il Movimento 5 Stelle, per la sua lontananza da una idea liberale di giustizia, può non piacere, ma durante queste ultime legislature ha cresciuto una classe dirigente che ha lavorato per istituzionalizzarsi in una certa misura, ha imparato a muoversi nei Palazzi, su alcuni provvedimenti ha lasciato che la mediazione del Partito democratico smussasse talune spigolature. Insomma, ha cominciato ad apprezzare ed usare le regole del mestiere della politica. A ciò aggiungiamo che sono riusciti ad accreditarsi anche nella magistratura, come portatori di alcune loro istanze: chi non ricorda gli applausi fragorosi riservati a Sarti dall’ultima assemblea dell’Anm quando andò a scagliarsi contro l’attuale riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, che pur aveva votato, per poi dire che “non era la nostra riforma”? E adesso che succede? Con le new entry si ricomincia tutto daccapo a colpi di slogan e semplificazioni sterili? Proprio a proposito di riforme, a giugno 2023 scadrà il termine per l’elaborazione dei decreti attuativi della riforma del Csm: la nuova truppa pentastellata saprà difendere, per quanto possibile in minoranza, alcune delle promesse fatte alle toghe per modificare certi aspetti della delega? Ipotizzando che i grillini non saranno più al Governo, ci saranno figure capaci di fare un valido ostruzionismo e di capire la portata dei provvedimenti o avremo dilettanti allo sbaraglio selezionati all’ultimo momento? L’onorevole Giulia Sarti vuole rassicurare che questo non accadrà e al Dubbio dice: “Questo patrimonio non si disperderà perché noi tre (Bonafede, Ferraresi, e lei ndr) continueremo comunque a dare una grossa mano anche dall’esterno, dove ci sarà una organizzazione tale per cui tantissimi temi non si potranno perdere proprio perché noi continueremo ad esserci, anche se faremo un altro lavoro. La linea politica è tracciata e su quella gli elettori si riconosceranno, a partire dal contrasto alle mafie e alla corruzione”. Dall’interno del Parlamento, il Movimento potrà comunque contare, se si presenteranno e verranno rieletti, sull’attuale presidente della Commissione Giustizia Mario Parantoni, sul suo collega Eugenio Saitta, sull’onorevole Angela Salafia - che ricordiamo essere la co-firmataria della proposta di legge per l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo -, ma anche su Vittoria Baldino, attuale membro della Commissione Affari costituzionali, dove si dovrebbe giocare la partita aperta dall’Unione della Camere penali sulla separazione delle carriere. Il Far West del Csm: le nomine continuamente bocciate dai giudici amministrativi di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 agosto 2022 Tar e Consiglio di stato continuano ad annullare le scelte del Consiglio superiore della magistratura sui dirigenti degli uffici giudiziari. Serlenga (Associazione magistrati amministrativi): “Non esistono valutazioni meritocratiche, le correnti dominano”. L’ultima bocciatura per il Consiglio superiore della magistratura è giunta soltanto una settimana fa: il Tar del Lazio ha annullato l’atto con cui il 13 febbraio 2020 i consiglieri di palazzo dei Marescialli hanno nominato il magistrato Roberto Aniello come procuratore generale presso la corte d’appello di Genova. I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso presentato da un altro candidato, Carlo Maria Zampi, stabilendo “l’erroneità della delibera impugnata, per avere omesso la completa valutazione del suo profilo professionale, oltre che per una non corretta comparazione tra quest’ultimo e il profilo del prescelto”. Le nomine decise dal Csm e poi annullate dai giudici amministrativi ormai non si contano più. Il 27 giugno il Tar del Lazio ha annullato la nomina di Gabriele Paci a procuratore capo di Trapani, rilevando anche in questo caso una comparazione tra i candidati “lacunosa” da parte del Csm. Poche settimane prima era toccato a Giovanni Bombardieri, procuratore capo di Reggio Calabria. Il Consiglio di stato, a distanza addirittura di quattro anni dalla nomina, ha accolto il ricorso degli altri candidati, a causa di difetti nella comparazione dei candidati. Pochi giorni fa, il Csm ha confermato la nomina di Bombardieri all’unanimità con una nuova delibera. Lo stesso era avvenuto, in maniera molto più clamorosa, a gennaio, quando il Consiglio di Stato aveva decapitato i vertici della Corte di Cassazione, dichiarando illegittime le nomine del presidente Pietro Curzio e del presidente aggiunto Margherita Cassano, a pochi giorni dalla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Anche in quel caso, poi, il Csm aveva confermato le nomine in fretta e furia con motivazioni più articolate. Il caso più eclatante resta quello di Michele Prestipino, che ha ricoperto l’incarico di capo della procura di Roma da marzo 2020 a dicembre 2021, prima di vedersi annullata la nomina ed essere sostituito da Francesco Lo Voi. Il problema è evidente, ma nessuno sembra volersene occupare (e a settembre si procederà con il rinnovo del Csm). “Il problema è stato ancorare le nomine a delle presunte valutazioni meritocratiche, che però di meritocratico evidentemente hanno ben poco”, dichiara al Foglio Gia Serlenga, giudice del Tar della Puglia e presidente dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi (Anma). “Se la carriera della magistratura viene agganciata a criteri fluttuanti - aggiunge - è chiaro che ognuno è costretto a trovarsi un santo protettore. Ecco che il sistema delle correnti si sbizzarrisce e si dà spazio al Far West”. “Nella giustizia amministrativa la nomina agli incarichi direttivi si basa sull’anzianità senza demerito”, spiega Serlenga. “Qualcuno potrebbe obiettare che il criterio dell’anzianità secco abbia i suoi risvolti negativi perché non dà spazio a nessun altro tipo di valutazione - prosegue la presidente dell’Anma - Tuttavia, si potrebbe valutare il demerito in modo rigoroso, ancorandolo a criteri quasi matematici e dando rilievo a parametri come il ritardo reiterato nel deposito delle sentenze. Questo rappresenterebbe il minore dei mali. Sempre che a monte siano stabiliti i carichi massimi esigibili perché alla magistratura, per il carattere dell’attività svolta, non possono di certo essere applicati i principi del fordismo”. Le distorsioni generate dalla discrezionalità in mano al Csm (e alle correnti) sono chiare. Basando le nomine soltanto sull’anzianità senza demerito e poco altro, però, non si rischia di rendere impossibile l’introduzione di criteri manageriali nella gestione degli uffici giudiziari? “La domanda è lecita - replica Serlenga - ma è possibile ritenere il Csm, composto in prevalenza da magistrati che sono altro dai manager, in grado di valutare le capacità manageriali di altri magistrati? Su questo sono molto dubbiosa. Ecco perché discostarsi dall’avanzamento automatico è un rischio”. Insomma, per superare le degenerazioni correntizie la presidente dell’Anma propone nomine basate su tre principi: “Anzianità senza demerito, fissazione ex ante dei carichi esigibili, temporaneità degli incarichi”. Gli 80 anni di Sofri nel tritacarne della campagna elettorale di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 agosto 2022 Gad Lerner pubblica un tweet per fargli gli auguri in cui scrive: “Buoni 80 anni, caro Adriano, vissuti dalla parte giusta”. Una provocazione? La destra reagisce e attacca. Entra la stupidità, esce la giustizia. “Buoni 80 anni caro Adriano. Vissuti dalla parte giusta”. Come uccidere un uomo, fingendosi, o credendosi suo amico. Adriano Sofri impegnato a scrivere sul Foglio di una guerra vera, in Ucraina, e a raccontare “La strage di Olenivka” con i prigionieri uccisi come topi in trappola. Non ha tempo per pensare al proprio compleanno del primo agosto, probabilmente, anche se il calendario gli dice che sono 80 proprio quel giorno. E intanto una piccola squallida guerricciola viene scatenata su di lui e contro di lui, sui social, con seguito su alcuni quotidiani del giorno successivo. L’iniziativa è del provocatore di provincia Gad Lerner, che di Sofri fu compagno in Lotta Continua e che gli fa gli auguri a modo suo. Nulla di amoroso né di sincero, come ci si aspetterebbe da un amico. E neanche un vero ricordo di sogni e bisogni vissuti insieme. Solo una punturina spocchiosa gettata in mezzo a una campagna elettorale che già puzza di antichi sfoghi tra fascismo e antifascismo. Se voleva far male a Sofri, se voleva metter sale su antiche ferite, Lerner ci è riuscito benissimo. Anche se, essendo lui notoriamente un anaffettivo, forse non se ne è neppure reso conto. Che cosa ha voluto dire con quel tweet “Buoni 80 anni caro Adriano, vissuti dalla parte giusta”? Viene in mente un famoso titolo del manifesto, il quotidiano in cui Lerner transitò furbescamente e provvisoriamente mentre attendeva che cessassero le turbolenze nelle stanze dell’Espresso in cui la gran parte della redazione era contraria alla sua assunzione. Il titolo era “Vent’anni dalla parte del torto”. Era il 1991, il giornale di Rossanda e Pintor con quel titolo intendeva valorizzare la propria storia di giornale corsaro che ancora esisteva, dopo vent’anni dalla nascita, pur essendo considerato, dalla sinistra “ufficiale”, dalla parte del torto. Era un messaggio soprattutto agli uomini del Pds, gli eredi di quel Pci che aveva saputo affrontare il dissenso interno solo con le radiazioni del gruppo dirigente del manifesto. Una lezione difficile da capire, per uno come Gad Lerner. Che ha infatti trasformato quel concetto di “torto” nello stare dalla parte giusta. Quella dei buoni? O forse degli onesti, nella salsa grillina del Fatto quotidiano, il giornale cui Lerner collabora? O siamo invece tornati alla superiorità morale della specie comunista e di sinistra? Tutti argomenti, questi, che hanno occupato ieri numerose colonne di quotidiani di orientamento centro-destra. C’era da aspettarselo, del resto, questo tipo di reazione. Siamo nel bel mezzo di una campagna elettorale cominciata male con la consueta richiesta di analisi del sangue da parte della sinistra più spocchiosa nei confronti di Giorgia Meloni. Che cosa di meglio che vedersi servito su un piatto d’argento un argomento come questo? Siamo nel caso tipico dell’esibizionismo del personaggio che nel 2019 andò nel pratone di Pontida dove era in corso la consueta manifestazione della Lega, nella speranza che qualcuno lo picchiasse e portò a casa la delusione dell’esser stato accolto nell’indifferenza generale. Anche ieri le principali attenzioni non sono state per lui. Luigi Mascheroni sul Giornale lo accusa blandamente di aver twittato l’intwittabile apposta per farsi insultare e poi denunciare i fascisti che lo hanno attaccato. Francesco Storace su Libero gli dà del “cicisbeo social”, che non è male, e conclude con un lapidario “inopportuno, pessimo, cinico”. Che per uno come Gad non sono per niente insulti. Siamo sicuri che non se la è presa, anche perché ai suoi occhi uno come Storace più che un giornalista, è semplicemente uno che sta dalla parte sbagliata. Quindi, meglio se è contro. Ma il problema vero, in questa vicenda, quello che caratterizza la stupidità di certe iniziative dettate da superficialità ed esibizionismo di sé, è il grave danno che quella frase ha arrecato a Adriano Sofri e a qualunque battaglia, mai come in questo momento importante per il futuro del Paese, sulla giustizia. Tutto quello che Sofri ha costruito in questi anni, dopo la sentenza di condanna della Cassazione arrivata dopo infiniti processi indiziari e senza prove, la sua cultura, le sue passioni, la sua eccezionale capacità di scrittura sono evaporati come se l’orologio si fosse fermato quella mattina del 17 maggio 1972 in cui fu ucciso il commissario Calabresi. Così ci si domanda se stare dalla parte giusta della storia vuol dire sparare o comunque giustificare il terrorismo. Si apre il vaso di Pandora del famoso “album di famiglia” della sinistra, quella stessa che non vuol fare i conti con quella parte della propria storia. E questo è vero, ma andrebbe recitato in altro modo. In altro contesto. Ma la miopia politica genera altrettanta miopia. E il manicheismo altro manicheismo. Così, ecco il titolo di Libero “La sinistra è sempre dalla parte sbagliata”, che fa proprio il paio con l’infelice frase di Gad Lerner. E, pur senza riflettere, il che sarebbe dovuto, su come si sono celebrati in Italia certi importanti processi, lo stesso direttore Sandro Sallusti, lancia una provocazione un po’ da brivido, nel giorno che è anche anniversario tragico della strage di Bologna. Se io, ha lanciato nel suo editoriale, avessi scritto la stessa cosa a Giusva Fioravanti, “mi sarei preso del terrorista e avrei trascinato nella gogna tutti i leader del centrodestra”. Così il discorso continua con la denuncia di due pesi e due misure. Tutti e due sbagliati, tutti e due perdenti. A nessuno viene in mente la vergogna di certe sentenze e di tutti gli imbrogli e le mancanze delle indagini e dei processi, fino agli ultimi, sulla strage di Bologna. Così come nessuno mette in discussione quelli sull’uccisione di Mario Calabresi. Non c’è tempo né modo. Diventa tutto un rinfacciarsi sui “compagni che sbagliano”, e assassini che diventano quasi eroi, perché stanno dalla parte giusta. Ma in questo modo, quella che sta uscendo dalla porta, mentre è entrata la stupidità, è proprio la giustizia. Bel lavoro, compagno Gad. Santa Maria Capua Vetere. Dopo le violenze detenuti chiusi in gabbia come gli animali di Andrea Aversa Il Riformista, 3 agosto 2022 Ci sono alcuni messaggi finiti nell’occhio del ciclone. Parte della corrispondenza sequestrata dagli inquirenti durante le indagini. Stiamo parlando dell’ormai purtroppo nota “mattanza”. Quella avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 e per la quale il prossimo 7 novembre avrà inizio un processo. Il procedimento vedrà sul banco degli imputati 105 persone, tra poliziotti, medici e personale amministrativo. Secondo quanto spiegato dalla delegazione dell’osservatorio campano di Antigone a Il Riformista, in quei messaggi traspariva uno degli obiettivi di quelle violenze: costringere i detenuti da un regime di celle aperte a uno di celle chiuse. Lo scopo è stato raggiunto considerato che da allora i reclusi del “reparto Nilo” sono segregati in gabbia per 20 ore al giorno. Come i detenuti del reparto di massima sicurezza, solo che il “Nilo” sarebbe quello di prima accoglienza. “Durante l’ultima visita (avvenuta lo scorso 20 luglio, ndr), abbiamo dovuto constatare che nonostante gli sforzi della nuova direzione di investire in nuovi percorsi di reinserimento, in tutti i reparti - tranne che per il “Volturno” - vige questa tipologia di regime detentivo”. Sono state queste le parole dell’avvocato Gaia Tessitore, a capo di quella delegazione. Con lei l’avvocato Paolo Conte: “Una situazione drammatica, considerata anche la piaga del sovraffollamento e le elevate temperature che d’estate trasformano le carceri in un inferno”. Persino il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe), in seguito ad alcuni episodi di violenza avvenuti all’interno del carcere casertano, ha denunciato tale situazione. “Così non si può andare avanti - ha dichiarato il Segretario regionale Emilio Fattorello - Il lassismo che caratterizza il penitenziario di S.Maria Capua Vetere è imbarazzante ed intollerante. Da mesi il Sappe denuncia che non ci sono un direttore ed un Comandante di Reparto titolari, fissi, in pianta stabile, eppure i vertici regionali e nazionali del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr) non assumono provvedimenti urgenti”. Anche per gli agenti della penitenziaria, in costante sotto organico, la vita in carcere è dura: eppure nulla lo Stato ha fatto fino ad oggi per risolvere il problema della mancanza di personale. “In carcere quello che manca è il lavoro - ha affermato il Segretario generale del Sappe Donato Capece - che dovrebbe essere obbligatorio per tutti i detenuti dando quindi anche un senso alla pena ed invece la stragrande maggioranza dei ristretti sta in cella venti ore al giorno, nell’’ozio assoluto. E farli stare fuori dalle celle dodici ore al giorno senza fare nulla non risolve i problemi, anzi!”. E c’è dell’altro: venti dei poliziotti imputati sono ancora in servizio all’interno del penitenziario di Santa Maria. “Manca il numero sufficiente di educatori e del personale sanitario - ha detto Emanuela Belcuore, Garante per i diritti dei detenuti per la provincia di Caserta - E questo causa due gravi problematiche: da una parte una difficile assistenza sanitaria, dall’altra l’assenza delle attività trattamentali. Inoltre non dimentichiamo i tanti casi di covid riscontrati in cella”. Ma c’è una “buona” notizia. Dopo 26 anni, ovvero da quando il carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato costruito, dovrebbe essere presto concluso il processo di allaccio del penitenziario alla rete idrica cittadina. Perché purtroppo nel 2022, in Italia, questa è una novità positiva: il fatto che all’interno di una struttura detentiva ci sia l’acqua corrente. Brescia. Rovente e stipato: quando il carcere diventa un inferno di Mario Pari Brescia Oggi, 3 agosto 2022 I detenuti dovrebbero essere 206: al momento sono 340, con possibilità di variare ogni giorno. In questo dato, tutta la criticità di un carcere finito in prima pagina per l’ultima tragedia che si è consumata fra le sue mura. Ma i problemi, gravi, sono quotidiani. Quando succedono fatti come quello di due giorni fa, un suicidio in cella, il conto che viene presentato è il più pesante. Alle rivolte, agli incendi, ai tentativi d’evasione si pone rimedio. Per la morte, il discorso cambia. Anche quando capita in una struttura come la casa circondariale Nerio Fischione di Brescia, per molti ancora “Canton Mombello”, il nome con cui è stata conosciuta fino a qualche anno fa e, di fatto, quello ancora noto tra tanti bresciani (quando non semplicemente “Cantone”). Non è l’unico istituto di pena nel territorio di Brescia. L’altro è “Verziano”, ma la differenza è abissale, nel senso che nella casa di reclusione alla periferia della città tutto procede molto più serenamente. Il dramma, invece, nel carcere incassato a due passi dal centro cittadino se non di casa torna a riproporsi ciclicamente. A volte viene solo sfiorato grazie all’impegno della Penitenziaria e della direttrice Francesca Paola Lucrezi. Due giorni fa doveva essere il suo rientro dalle ferie; è arrivata, è stato riferito, intorno alle 3 di notte, quando ha appreso dell’irreversibile. E quello di ieri, per comprensibili motivi, è stato un altro giorno non semplice per la direttrice. Oltre a tutto ciò che è rimasto da capire, si è trattato anche di tornare su un fatto molto grave delle scorse settimane: un tentativo d’evasione. Era il 10 luglio scorso e un detenuto ha ingoiato delle lamette da barba, mentre ne ha usata un’altra per tentare di fuggire. Una volta bloccato e riportato in carcere ha provato a dar fuoco alla cella. Anche in questo caso gli è stato impedito di raggiungere l’obiettivo, ma gli agenti hanno riportato ferite e lesioni. Ieri quindi si è parlato di questo, di come fare in modo che tutto sia più sicuro per polizia penitenziaria e detenuti. Massimo il riserbo, invece, sulla tragedia del suicidio. Al Nerio Fischione, partire da quello che è un viaggio nel disagio, fino ai livelli estremi, significa innanzitutto basarsi su dati di fatto che si abbattono sulla qualità, sul livello della detenzione. Come il già citato numero eccessivo dei detenuti, che dormono in celle dove, sulla base di una sentenza Cedu, devono poter disporre di 3 metri quadrati a testa (questo lo spazio vitale). Poi, ci sono i letti a castello e non c’è l’aria condizionata che viene invocata, pare, anche negli uffici della penitenziaria. Certo è che nelle ultime settimane è stata una carenza tecnologica avvertita in modo particolare, alla luce delle temperature altissime rispetto alla media. “C’è - spiega Calogero Lo Presti, coordinatore regionale della Fp Cgil Lombardia - uno sforzo grandissimo della direzione per sfruttare ogni millimetro. A Verziano i detenuti possono andare all’orto, fare molte cose. Il Nerio Fischione, invece è un cumulo di criticità, c’è un problema grosso derivante da tantissime questioni”. Si tratta di un “istituto di pena in cui sono rinchiusi detenuti in custodia cautelare, ma anche con condanne definitive”. Antonio Fellone, segretario generale aggiunto del Sinappe sottolinea che “viviamo problemi strutturali e fortissime carenze d’organico. Un’altra questione deriva dall’altissimo numero di detenuti stranieri. Si tratta del 60 per cento e non è facile far convivere le differenti etnie: nella maggior parte dei casi sono nordafricani e molto spesso gli eventi critici si verificano tra di loro. I nostri colleghi che hanno impedito l’evasione in ospedale hanno ancora i postumi”. Ma il problema è anche strutturale: “A Brescia serve un nuovo istituto di pena. C’è stato un incontro importante un mese fa, ma la situazione è in fase di stallo”.Il futuro, quindi, potrebbe essere un nuovo carcere. Il presente è rappresentato dai silenzi di chi ha deciso che non c’era più tempo per restare. Né in carcere né in vita. Torino. La testimonianza shock di un detenuto: “Viviamo coi topi, senza acqua né cure” di Elisa Sola cronacaqui.it, 3 agosto 2022 Al carcere Lorusso e Cutugno si mangerebbe anche “cibo a volte avariato”. “Nella mia sezione, il blocco C, sta diventando difficile resistere. Non c’è acqua corrente. Nella cella a fianco alla mia, l’altro giorno, un compagno è stato svegliato da un grosso ratto che gli rosicchiava la testa”. Inizia così il lungo racconto, che un giovane detenuto - che chiede di non essere citato per nome - del Lorusso e Cutugno, ha rivolto venerdì scorso, quasi con disperazione, alla sua avvocata, Paola Rubeo, che da settimane sta scrivendo alla direzione e al Garante dei detenuti per segnalare la situazione “quasi disumana” in cui, quest’estate, sarebbero costretti a vivere i carcerati. Il Blocco C è lo stesso padiglione dove, circa due settimane fa, si è tolto la vita un 38enne pakistano. “Nei giorni di grande caldo - dice il detenuto, che è entrato nell’istituto lo scorso novembre per un problema di droga - si può fare la doccia usando solo l’acqua bollente, quella fredda, non so perché, non funziona. La sera invece, l’acqua non c’è proprio. Per bere molte volte dobbiamo raccogliere i nostri soldi e comprare l’acqua nelle bottigliette di plastica”. Anche il cibo, racconta il ragazzo, che ha 35 anni, sarebbe un problema. “Molte volte - testimonia il giovane -vediamo sui carrelli dei pasti scaduti, che sono andati a male per il caldo. Molti di noi si sono ammalati di dissenteria”. La questione degli alimenti a volte deteriorati per il caldo sarebbe comune anche nella sezione femminile. “Anche la mia ragazza, che è detenuta - aggiunge - mi dice che stanno spesso male per il cibo avariato per il caldo”. Ma la questione più urgente, per il ragazzo, è quella sanitaria, sulla quale è stato aperto un procedimento del Garante, su segnalazione dell’avvocata Rubeo. “Ho l’Hiv e vorrei curarmi - precisa il detenuto, che si è disintossicato ed è seguito dal Serd - due mesi fa ho chiesto di potere iniziare la terapia, ma non mi hanno mai chiamato. Ogni volta che chiedo, mi dicono che poi la farò. Ma non è mai successo”. Non solo. Il 35enne, che ha subito un incidente prima di entrare al Lorusso e Cutugno, aspetta di essere portato in ospedale da settimane, per un grave problema alla mano. “Rischia di essere mutilato”, ha scritto la sua legale alla direzione del carcere, dopo avere premesso: “Pur avendo fissato una visita ortopedica per ben quattro volte, negli ultimi quattro mesi, sarebbe emerso che il mio assistito non sia tuttavia riuscito a raggiungere il nosocomio per, così mi è stato riferito, carenza di personale infermieristico”. La situazione sarebbe “talmente compromessa” ormai, sottolinea l’avvocata Rubeo, che probabilmente il ragazzo dovrà subire l’amputazione di un pezzo di arto. A nulla sarebbero servite le segnalazioni e le sollecitazioni della legale, che denuncia: “Si tratta di una situazione estrema e critica. Nella mia cultura giuridica il carcere deve avere sì una funzione punitiva, ma quest’ultima ora è diventata eccessiva e siamo ai limiti dell’anti costituzionalità per la violazione del principio della tutela della salute. Così il carcere non è più rieducativo”. Quello che spiace, afferma l’avvocata, è che “il giovane stava facendo un buon percorso di recupero”. Come conferma l’assistente sociale che lo segue, il ragazzo si stava disintossicando e partecipava con regolarità ai colloqui con gli psicologi. “Come ampiamente noto, e contenuto nella Carta dei diritti del detenuto - scrive Rubeo in una delle segnalazioni rivolte al Garante - chi si trova in carcere deve ricevere tutte le opportune assistenze, anche e soprattutto di natura medico sanitaria, in ossequio con quanto insegna la Costituzione all’articolo 32”. “Ora - sottolinea, tra i vari aspetti, la legale - per ragioni che mi paiono poco chiare, al mio assistito è stata negata la terapia”. Paradossalmente però, al giovane sarebbe stato somministrato un farmaco, il Lyrica, che lo avrebbe reso “dipendente” dal principio attivo del medicinale. L’otto giugno il Garante dei detenuti ha aperto un procedimento sulle condizioni di salute e sulle “cure negate” al giovane. Brindisi. I detenuti brindisini hanno una loro nuova garante lostrillonenews.it, 3 agosto 2022 La dottoressa Valentina Farina con atto monocratico del Presidente della Provincia di Brindisi Antonio Matarelli è stata nominata per l’intero periodo del suo mandato 2022/2026 Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Già vice presidente dell’Ordine degli assistenti sociali della Regione Puglia. La sua carriera lavorativa e professionale è confluita verso una spiccata capacità nella co-programmazione dei servizi, tanto da concludere il percorso di laurea magistrale in scienze della progettazione e organizzazione dei Servizi Sociali, con votazione 110 e Lode grazie un apprezzato lavoro di ricerca. Nell’ambito del lavoro interprofessionale, il rapporto tra vocazione e competenze si è fondato ulteriormente su una carriera sovradisciplinare improntata all’impegno professionale anche nel volontariato a livello internazionale, Erasmus Plus Indire, fino alla guida di diverse reti di cooperazione del terzo settore e nel mondo della formazione professionale, dell’innovazione sociale e del piano strategico di cambiamento. Supervisore e accompagnamento con funzione di tutor - Operatore Locale di Progetto del Servizio Civile Universale - presso gli enti accreditati. Dal 2009 ad oggi ricopre l’incarico di Assistente sociale specialista presso il Comune di Oria per il Consorzio Ambito n. 3 per la realizzazione del sistema integrato di welfare dei Comuni di Francavilla Fontana. Da un anno opera anche presso il Comune di Torchiarolo. Dal 2015 sino al 2016 firma contratto di collaborazione con l’Azienda Sanitaria Locale di Taranto assegnata al Ser.D Dipartimento Dipendenze Patologiche, c/o l’Ospedale Giannuzzi di Manduria. Nel 2016 presso l’Asl Br 3, ricopre incarico presso la porta unica di accesso PUA, struttura del sistema territoriale di assistenza. Esercita anche la libera professione. Numerose esperienze per aver guidato le organizzazioni a livello locale, regionale e nazionale, nei partenariati con le parti sociali, di welfare, della formazione professionale. Inoltre è esperta in politiche attive del lavoro e formazione professionale in materia di Politiche Sociali e sistemi di welfare; ha preso parte a diverse commissioni studio. Curatore e tutore del minore. Diversi master conseguiti tra in Comunicazione pubblica e istituzionale presso C.N.R. Di Pisa, master in mediazione familiare, conseguita con collegio Pugliese. Autrice di numerosi articoli su magazine di informazione internazionale. Esperienze acquisite nel paradigma ri-educativo nel trattamento penitenziario, rientrante nella short list presso Ministero della Giustizia, coopera con gli Uffici esecuzione penale esterna per i minorenni e per gli adulti. I principi, i valori e le regole contenute nel Codice deontologico orientano le sue scelte di comportamento professionale tecnico e metodologico in tutti gli ambiti, a tutti i livelli di responsabilità attribuita giuridica ed amministrativa. Il carcere come luogo di rieducazione e ricerca introspettiva: nel 2019 con l’equipe intramuraria del carcere di Brindisi, aveva avuto modo di promuovere un laboratorio di narrativa introspettiva attraverso la fumettistica dal titolo Maschere da dentro, le storie che curano. L’incontro rivolto ai detenuti del carcere di Brindisi. Esistere, non sopravvivere. Essere, non apparire. La Garante si occuperà di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi delle persone private della libertà personale, con particolare riferimento ai diritti fondamentali alla casa, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, e allo sport. Interloquirà con Casa Circondariale di Brindisi, Rem di Carovigno e con la struttura di Restinco. Promuoverà altresì iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva anche attraverso la sottoscrizione di protocolli d’intesa con le amministrazioni interessate e la realizzazione di iniziative congiunte con la Provincia di Brindisi e con altri soggetti pubblici. Una nomina importante che si inserisce all’intero dei diritti fondamentali delle persone, sia di chi sta dentro, sia di chi immesso nella collettività chiede maggiore sicurezza ed inclusione, sia sul sistema della pena e anche sulla sua intrinseca umanità. Latina. Miniventilatori in dono per le detenute del carcere latinatoday.it, 3 agosto 2022 I 34 dispositivi sono stati regalati da un’anonima benefattrice. Il Garante: “Il problema del caldo nelle carceri non si può risolvere solo con la generosità della società civile”. Un regalo per le detenute del carcere di Latina è arrivato nei giorni scorsi: si tratta di 34 ventilatori donati da una signora e destinati ad alleviare il caldo di questo periodo. “Grazie a questa donazione, le detenute del carcere di Latina avranno un po’ di sollievo dal caldo in queste settimane estive. Ringraziamo, dunque, la signora che se ne è fatta promotrice - sottolinea il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, nell’annunciare la consegna, a opera della Struttura di supporto al Garante stesso, di 34 mini ventilatori a spruzzo donati alla sezione femminile del carcere pontino - e auspichiamo che altre se ne possano avere, non solo per la sezione maschile di Latina, ma anche per gli altri istituti di pena della regione, dove non sempre i detenuti, anche da quando nelle scorse settimane sono stati autorizzati a comprarsi i ventilatori, hanno le risorse economiche per potersene dotare”. “Grazie, dunque, a chi vorrà aiutare i detenuti con le proprie donazioni, - prosegue Anastasìa- ma il problema del caldo in carcere in estate e del freddo in inverno non si può risolvere così, solo con la generosità della società civile. Con un Pnrr senza indirizzo in campo penitenziario, stiamo perdendo una grande occasione di riqualificazione del nostro sistema carcerario, che non ha bisogno di nuovi istituti o di nuovi padiglioni: basterebbe far scontare la pena in alternativa al carcere ai condannati per fatti minori per risolvere il problema del sovraffollamento. Si tratta piuttosto di efficientamento energetico e idrico, capace di rendere vivibili stanze e sezioni, d’estate come d’inverno. Speriamo - conclude Anastasìa - che qualcuno se ne ricordi nella prossima campagna elettorale”. Ravenna. Il concerto per i detenuti: Riccardo Muti dirige l’orchestra Cherubini nel carcere ravennatoday.it, 3 agosto 2022 Il prefetto De Rosa ai detenuti: “Avete la possibilità di rialzarvi, spetta a voi, nessuno vi giudica per i vostri errori. Noi vogliamo solo sostenervi”. “Queste iniziative riconciliano, e spazzano via tanti episodi di violenza gratuita e di malcostume che oggi riempiono le cronache quotidiane”. Queste le prime parole del Prefetto di Ravenna Castrese De Rosa, pronunciate lunedì sera al termine del concerto tenuto dall’Orchestra “Luigi Cherubini” nel cortile della Casa Circondariale di Ravenna per i detenuti ed il personale della struttura penitenziaria. Presenti il Maestro Riccardo Muti e la Presidente del Ravenna Festival Cristina Mazzavillani insieme al Sovrintendente Antonio De Rosa. La Musica senza barriere raggiunge i luoghi destinati al volontariato, alla cura e al recupero delle persone più fragili. Un impegno a cui i giovani musicisti della “Cherubini” anche quest’anno non hanno voluto rinunciare, tornando a raccogliere il testimone - morale e non solo artistico - del loro direttore Riccardo Muti e portando la musica laddove più si è sofferto e più si è rimasti soli. Un’iniziativa pregevole, che ha suscitato grande entusiasmo tra i detenuti ospiti del carcere ravennate, voluta dalla direttrice Carmela De Lorenzo e a cui hanno partecipato tutti i rappresentanti delle istituzioni locali, delle forze dell’ordine e il viceprovveditore dell’Emilia Romagna. L’Orchestra si esibirà anche nei giardini e reparti di R.S.A., residenze per anziani, cooperative sociali, ospedali e centri riabilitativi della città, perché la musica sia un diritto inalienabile e un conforto offerto a tutti e perché nessuno sia prigioniero della più insormontabile delle barriere, il silenzio. “Avete la possibilità di rialzarvi - ha affermato il Prefetto De Rosa rivolgendosi alla fine del concerto ai detenuti - spetta a voi, nessuno vi giudica per i vostri errori, noi vogliamo solo sostenervi, anche con questa meritoria iniziativa, per darvi una mano a non cadere più. Grazie alla musica che non è solo un atto estetico, ma anche etico, come ci insegna il grande Maestro Muti”. Piacenza. “Ariaferma”, al Bobbio Film Festival l’esistenza sospesa dei detenuti Libertà, 3 agosto 2022 È con “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, con Toni Servillo, nei panni di una guardia carceraria, e Silvio Orlando in quelli di un ergastolano, a caratterizzare la terza serata del Bobbio Film Festival. Il pubblico del Chiosco di San Colombano ha assistito ad una proiezione di spessore che si mantiene su un equilibrio narrativo davvero invidiabile per un’ora e mezzo. Il copione ci porta direttamente nel cuore della vita di un carcere che sta per essere chiuso e smantellato. Il regista e documentarista ischitano, che ha iniziato con il cinema in Francia alla fine degli anni 80, ricorda come la sua idea di partenza fosse quella di andare ad indagare le dinamiche che attraversano il regime carcerario in Italia. “Ho provato, grazie ad uno sguardo attento quanto sospeso della telecamera, a capire cosa possono rappresentare le sbarre oggi - ha detto - ho voluto scavare nelle pieghe di quella condizione, di cattività, e rintracciare l’essenza dei rapporti umani che si creano all’interno di un luogo di detenzione tra sorvegliati e sorveglianti. Si può dire che “Ariaferma” non sia un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”. A proposito di case circondariali, la struttura dove è stato girato il film, nel novembre del 2020 durante il secondo lockdown, è quella dell’ex carcere di San Sebastiano a Sassari: “Il carcere di Mortana - conclude Di Costanzo premio David di Donatello per la miglior sceneggiatura originale insieme a Valia Santella e Bruno Oliviero - nella realtà, infatti, non esiste, è un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte altre carceri”. Il festival prosegue questa sera alle 21.15 con “Settembre” di Giulia Louise Steigerwalt, ospite del Chiostro con l’attrice protagonista Barbara Ronchi. L’ambientalismo senza sbocchi: che fine ha fatto il sogno di Alex Langer? di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 3 agosto 2022 Trentotto anni fa, il compianto leader teorizzò la sua idea di fondo: gli ecologisti dovevano parlare non solo alla sinistra ma a tutti. Invece in un momento cruciale come questo ritorna il tanto contestato “cocomero”, cioè l’alleanza fra il microcosmo dei Verdi e quello della Sinistra “Vorremmo sfuggire, finalmente, a quella paralizzante logica di fondo che caratterizza il sistema politico e che è la logica di schieramento: il “con chi stai” per troppo tempo ha prevalso e continua a prevalere sul “cosa vuoi ottenere”, “cosa proponi”, “quale cambiamento vuoi realizzare”. In sintesi, i Verdi dovranno costituirsi come terzo polo, come “altro” rispetto alla canalizzazione corrente della dialettica politica”. Sono passati 38 anni (trentotto: ormai quasi il doppio del Ventennio) da quel 1984 in cui Alex Langer, il compianto leader ambientalista e pacifista sudtirolese via via cresciuto fino a diventare il punto di riferimento del movimento ecologista italiano ed europeo, teorizzò alla prima assemblea nazionale delle liste Verdi la sua idea di fondo: gli ambientalisti dovevano parlare non solo alla sinistra ma a tutti. Condividendo con più cittadini possibile, di tutti gli schieramenti, le battaglie su alcuni temi comuni. Dio sa quanti ce n’erano da affrontare. Basti rileggere i pezzi sul Corriere di Indro Montanelli che già dal ‘55 bastonava il sindaco di Venezia reo d’essersi presentato a piazzale Roma con un piccone, diffidava i sardi dal fare ciò “che i romani han fatto di Ostia e di Fregene”, combatteva le Olimpiadi invernali e l’autostrada a Cortina, accusava le raffinerie d’avere “la licenza di uccidere”, attaccava i piani regolatori “sviluppisti” di Punta Ala, Asolo o Firenze... Tutte battaglie che, ricorda Fulco Pratesi, “non erano né di destra né di sinistra ma giuste”. Eppure, stando alle risposte date ieri da Angelo Bonelli per i Verdi e Nicola Fratoianni per Sinistra Italiana (“Non ci riguarda”) siamo ancora lì. Alla nicchia. Magari coerente e piena di sentimenti. Ma nicchia. In Germania i Grünen hanno il vicecancelliere, gli Esteri e altri quattro ministeri. In Austria hanno il presidente della Repubblica Alexander Van der Bellen, governano col Partito Popolare e hanno la vicecancellieria, la cultura, la giustizia… In Francia, assieme ai socialisti, hanno strappato dopo 25 anni Marsiglia al centrodestra e conquistato Lione, Bordeaux, Strasburgo... Tutta gente rotta ai compromessi? Ma dai... Da noi no. “Duri e puri”. E mette malinconia, in un momento cruciale come questo, vedere plasticamente il ritorno del tanto contestato “cocomero”, cioè l’alleanza (“verdi fuori, rossi dentro”, accusavano gli avversari già agli esordi) fra il microcosmo dei Verdi e quello della Sinistra. Per carità, sarà colpa dell’universo mondo che hanno intorno, dal Pd a Calenda, dai grillini a tutti gli altri: tutti “impuri”. Ma può essere questo l’unico sbocco dell’ambientalismo italiano? E il sogno di Alex Langer? Gli spaesati”, quelle persone in fuga dagli eventi climatici di Aldo Grasso Corriere della Sera, 3 agosto 2022 Ci sono Paesi e aree del pianeta dove gli effetti della crisi ambientale sono più evidenti e producono stravolgimenti nelle vite delle persone. Stato d’animo giusto per vedere la punta de “Gli spaesati”, uno dei reportage della serie “Il fattore umano” dedicata alla violazione dei diritti umani (Rai3). Perché stato d’animo giusto? Perché da tre giorni sto spalando fango, sto dando una mano al muratore che ripara il tetto dissestato, sto radunando i rami spezzati degli alberi (in vita mia ho piantato, in orizzontale, molti ma molti più alberi di quanti Stefano Boeri ne abbia piantato in verticale). Un temporale così in Langa non si era mai visto, in una sola ora la furia della pioggia, della grandine e del vento non ha avuto riguardi per nessuno. Non per consolarmi, ma ci sono Paesi e aree del pianeta dove gli effetti della crisi ambientale sono più evidenti e producono stravolgimenti nelle vite delle persone. “Gli spaesati” raccontava la vita dei profughi climatici che ogni giorno lasciano le campagne del Nord del Bangladesh sommerse da inondazioni sempre più frequenti e abbondanti, che abbandonano i villaggi del Sud, dove intere coltivazioni vengono distrutte da cicloni imprevedibili e violentissimi, raccontava le storie di persone in fuga dagli eventi climatici e il loro viaggio fino a Dhaka dove ogni giorno scendono da traghetti e autobus più di mille persone destinate a vivere negli slum, le immense baraccopoli della capitale del Bangladesh. Protagonista dell’intervista del reportage era Amitav Ghosh, scrittore di origine indiana residente negli Stati Uniti che ha dedicato i suoi ultimi saggi e romanzi al tema degli effetti del cambiamento climatico. Per Ghosh la colpa di tutto è del neoliberismo: “La dinamica che sta alla base del cambiamento climatico deriva da un modello di economia estrattiva, che ha iniziato a imporsi a partire dal XVI e XVII secolo con il colonialismo. Dopo, lo sviluppo economico ha usato l’ambiente come una merce. I risultati sono sotto i nostri occhi”. Oltre il fango anche il senso di colpa? Eh, no! Ong e soccorso in mare, un segnale positivo dall’Europa di Luigi Manconi La Repubblica, 3 agosto 2022 Spesso le Organizzazioni che raccolgono i migranti nel Mediterraneo hanno lamentato come l’attività di ispezione sulle navi si sia rivelata immotivata e pretestuosa e abbia funzionato come un ostacolo - l’ennesimo - alla loro sacrosanta opera di salvataggio. Lunedì mattina la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in merito ai procedimenti relativi ai fermi amministrativi di Sea-Watch 3 e Sea-Watch 4, due navi appartenenti all’omonima Ong tedesca, che opera nel Mediterraneo centrale nell’attività di soccorso. L’estate del 2020 le due imbarcazioni sono state ispezionate dalla Guardia Costiera nei porti di Palermo e di Porto Empedocle e in seguito bloccate. I fermi sarebbero stati motivati dalla mancanza di certificazione per l’attività di ricerca e soccorso in mare e dal numero troppo elevato, rispetto a quello autorizzato, di persone imbarcate. Ovvero di persone salvate dall’annegare in mare. Infine, erano state evidenziate alcune carenze tecniche che, secondo le autorità italiane, avrebbero potuto mettere a rischio la salute, la sicurezza e l’ambiente. L’Ong Sea Watch ha fatto ricorso al Tar della Sicilia per richiedere l’annullamento dei provvedimenti e il tribunale regionale si è rivolto alla Corte di Giustizia europea. Quest’ultima, con la sua pronuncia, ha ribaltato il punto di vista: prima viene la salvaguardia della vita umana, ovvero il diritto al soccorso, poi la sicurezza marittima e la tutela delle condizioni a bordo. La Corte ha chiarito che le navi umanitarie possono svolgere attività di ricerca e soccorso e possono essere sottoposte ai controlli da parte dei porti di approdo, ma solo se questi sono condotti nel rispetto delle convenzioni internazionali e avendo come priorità il salvataggio di chi si trovi in pericolo. E proprio per questo principio la Corte ha affermato che “il numero di persone a bordo, anche ampiamente superiore a quello autorizzato, non può costituire, di per sé solo, una ragione che giustifichi un controllo”. Nel merito dei controlli amministrativi tre sono i punti essenziali. Il primo riguarda le ispezioni, che possono essere effettuate solo se è dimostrata, “in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”. Il secondo è che lo Stato di approdo “non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione”. Nel caso della Sea Watch 4, per esempio, le autorità tedesche, dopo il blocco del Tar, avevano consentito la prosecuzione delle attività in mare perché non avevano riscontrato irregolarità nella certificazione. Significa dunque che l’Italia non ha rispettato la giurisdizione dello Stato di bandiera. Un ultimo punto riguarda le azioni correttive: se l’ispezione rivela carenze, lo Stato di approdo può emettere misure sanzionatorie purché siano “adeguate, necessarie e proporzionate”. Ora, se pure si deve ancora attendere il giudizio definitivo del tribunale regionale, questa decisione è un segnale positivo per le Ong del soccorso in mare, che hanno lamentato come l’attività di ispezione si sia rivelata spesso immotivata e pretestuosa e abbia funzionato come un ostacolo - l’ennesimo - alla sacrosanta opera di salvataggio. Che questa sia una priorità appare come un dato ovvio a tutte le persone di buon senso. Non lo è sempre, evidentemente, per tante autorità piccole e grandi. In mare non basta la legge dello Stato. Per salvare vite servono le Ong di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 3 agosto 2022 La sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue per il caso Sea Watch e la concretezza del diritto. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dato risposta ai quesiti postile dal Tar della Sicilia in ordine alla portata del diritto dell’Unione riguardante l’attività di navi battenti bandiera di Stati membri dell’Unione, che sistematicamente si dedicano al soccorso umanitario in mare di persone in pericolo o in difficoltà. Si trattava del caso di due navi della Sea Watch, registrate in Germania e classificate come “navi da carico generale - polivalente”. Nei suoi ricorsi al Tar la società armatrice ha chiesto l’annullamento dei provvedimenti di fermo amministrativo delle sue navi, disposti nell’estate del 2020 dalle Capitanerie di porto di Palermo e di Porto Empedocle, che avevano effettuato ispezioni sulla sicurezza delle navi e la regolarità dei certificati di cui disponevano. Il fermo delle navi era poi durato a lungo, con controversie sull’esistenza e la gravità di certe irregolarità, che hanno anche visto contrapposte le autorità italiane a quelle tedesche. I ricorsi erano diretti contro il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (del governo Conte Due) e contro le due Capitanerie di Porto. Come è noto, la normativa nazionale deve essere conforme a quella dell’Unione e, in caso di difformità, deve essere disapplicata. Quando la questione è dubbia il giudice nazionale chiede indicazioni alla Corte dell’Unione ed è poi tenuto ad adeguarvisi. Così farà il Tar nel decidere in concreto il caso delle due navi. Il tenore della sentenza della Corte vincola tutti gli Stati membri dell’Unione. Si spiega così l’intervento nella procedura davanti alla Corte della Commissione europea e di Germania, Spagna e Norvegia che sono Stati di bandiera di altre navi dedite al soccorso umanitario in mare. Le questioni decise dalla Corte europea riguardano essenzialmente i poteri dello Stato di approdo riguardo alle ispezioni a bordo e ai conseguenti provvedimenti cautelari come il fermo della nave. La sentenza della Corte discute la portata della direttiva europea n. 2009/16 sui controlli delle navi da parte dello Stato di bandiera e degli Stati di approdo. La interpretazione adottata tiene conto delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare e per la salvaguardia della vita umana in mare. Il dovere di soccorso in mare e il corrispondente diritto, nella corretta visione della Corte, sono prevalenti rispetto ad altre esigenze. La difficoltà interpretativa nasce dal fatto che le due navi oggetto del ricorso svolgono sistematicamente una attività (quella di soccorso) diversa da quella propria della classificazione assegnata dalla Germania ai fini della registrazione. La diversità è rilevante sul piano della adeguatezza delle regole di sicurezza delle persone, dell’igiene, dello smaltimento dei rifiuti. Le regole, infatti, sono tarate in funzione delle normali 20-30 persone a bordo, mentre poi, come conseguenza dei soccorsi in mare, quelle che vengono a trovarvisi possono essere centinaia. Ma le modalità di classificazione in vigore non contemplano il caso specifico delle navi che svolgono sistematicamente opera di soccorso in mare. D’altra parte, l’eventualità dei soccorsi e la loro entità numerica, pur legate a una attività non occasionale e fortuita, dipendono dal caso. Pretendere che tali navi siano comunque predisposte per ricevere a bordo centinaia di persone è irrealistico e finirebbe con l’impedire ogni attività di soccorso organizzata da privati. Le questioni di diritto non sono astratte. La loro stessa proponibilità ha conseguenze concrete, come la lunga interruzione dell’opera di soccorso delle due navi di Sea Watch e l’emergere di una grave questione politica. Si può infatti pensare che proprio quella interruzione fosse lo scopo dell’intervento delle Capitanerie di Porto, che certo non si sarebbero mosse senza avallo da parte ministeriale. In effetti la prassi che ha colpito le due navi di Sea Watch non pare sia poi stata ulteriormente adottata: né prima, né dopo in casi simili. La Corte di Giustizia ha stabilito che la direttiva n. 2009/16 è applicabile anche alle navi che, pur essendo classificate come navi da carico, sono in pratica utilizzate sistematicamente per un’attività di ricerca e soccorso di persone in mare. Lo Stato di approdo non può richiedere certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera, ma, dopo che sono state completate tutte le operazioni di trasbordo o di sbarco delle persone soccorse, può sottoporre le navi a un’ispezione supplementare rispetto a quella normale dello Stato di bandiera. Tale possibilità è ammessa qualora lo Stato abbia accertato e possa dimostrare che esistevano indizi seri di un evidente pericolo, che comporti l’impossibilità di navigare in condizioni di sicurezza. In occasione delle ispezioni è possibile tener conto dell’attività di soccorso di fatto svolta dalle navi. Lo Stato può imporre azioni correttive necessarie e proporzionate, in materia di sicurezza, di prevenzione dell’inquinamento, nonché di condizioni di vita e di lavoro a bordo. La sentenza della Corte europea si comprende considerando che l’obbligo (e quindi il diritto) di effettuare il salvataggio di persone in mare, da un lato è assoluto, ma dall’altro la relativa regolamentazione sembra presupporre l’occasionalità dell’evento cui si applica. La ricerca di compatibilità di esigenze diverse è ciò che caratterizza la sentenza. Sullo sfondo vi è il tema drammatico del pericolo corso da migranti che attraversano il Mediterraneo e dei tanti morti, dell’insufficienza del soccorso organizzato da Stati condizionati dalla volontà non esplicita ma reale di non offrire sicurezza ai migranti, dall’indispensabilità, quindi, della supplenza delle organizzazioni umanitarie private. Il suicidio assistito di Elena, malata di cancro: “Ho preferito la Svizzera all’inferno” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 3 agosto 2022 La donna non aveva i requisiti per chiedere di morire in Italia, secondo i parametri fissati dalla sentenza della Consulta sul caso Dj Fabo. È dovuta andare a Basilea, mettere fine alla sua vita senza gli affetti accanto. È stata accompagnata da Marco Cappato che oggi si autodenuncerà. Rischia 12 anni di carcere per istigazione al suicidio. Un sorriso dolce e mesto: “Saluto tutti quelli che mi hanno voluto bene. Ciao”. Se n’è andata così Elena, con la voce sottile e il coraggio di un leone, lasciando un video che è un limpido testamento di amore per la vita. “Mi sono trovata davanti ad un bivio. Una strada più lunga che mi avrebbe portato all’inferno, una più breve che poteva portarmi qui in Svizzera, a Basilea: ho scelto la seconda”. Sono le parole di Elena, 69 anni, di Spinea, un marito e una figlia, affetta da un gravissimo tumore, (microcitoma polmonare) che ha chiesto a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, di essere accompagnata a morire a Basilea, con il suicidio assistito che in Svizzera è legalizzato. Dalla stanza della clinica nella quale dopo poche ore morirà, Elena ha registrato un video - lucido e straziante - in cui testimonia la sua libera e inappellabile scelta, ma accusa, anche, il nostro paese di averla costretta ad emigrare per poter morire con dignità. “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia, la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e quindi sono dovuto venire qui da sola”. In Italia, dove il suicidio assistito è depenalizzato in determinate circostanze, così come ha stabilito la sentenza della Corte Costituzionale sul caso di Dj Fabo, e come è avvenuto per “Mario” cioè Federico Carboni poche settimane fa, il caso di Elena, paziente oncologica, non è contemplato. Marco Cappato, avendo accompagnato Elena a Basilea, si autodenuncerà, oggi, ai carabinieri di Milano, per questo atto di disobbedienza civile, con il quale avrebbe violato l’articolo 580 del codice penale sull’istigazione al suicidio. Un chiaro atto politico, così come fu per Dj Fabo, per denunciare le carenze della legge in discussione sul suicidio assistito, che crea discriminazione tra pazienti. Cappato rischia, in teoria, 12 anni di carcere. Molto però è cambiato, dai tempi del processo a Cappato del 2017. sul caso Fabo. In mezzo c’è la decisiva sentenza della Corte Costituzionale del 2019, che depenalizza di fatto il suicidio assistito. Soltanto però se sussistono determinate condizioni. La libera scelta del paziente, una malattia irreversibile, l’essere dipendente da sostegni vitali, (nutrizione artificiale. farmaci salva vita) e il patire sofferenze insopportabili. Il nodo della storia di Elena è questo: non era sostenuta, al momento della morte, da sostegni vitali, dunque secondo le regole della Consulta, nell’accompagnarla, Cappato avrebbe violato il codice penale. Quei sostegni vitali sarebbero sopraggiunti in una fase ancora più avanzata, quando Elena, non sarebbe più stata in grado di respirare da sola. Soltanto allora, attanagliata dal rischio di soffocamento, Elena avrebbe avuto diritto ad effettuare il suicidio assistito in Italia. Elena aveva ricevuto la diagnosi di microcitoma polmonare nel luglio del 2021. Poche, le speranze fin da subito, eppure Elena ci aveva provato a curarsi. Po il verdetto: una manciata di mesi davanti a sé e la discesa negli inferi della sofferenza. “Non ho nessun supporto vitale per vivere, non potevo fare altro che aspettare. Ho deciso di terminare la mia vita prima che fosse stata la malattia, in maniera più dolorosa, a farlo. Ho avuto la comprensione e sostegno dalla mia famiglia. Ho chiesto aiuto a Cappato perché non volevo che i miei cari accompagnandomi potessero avere delle ripercussioni legali per una decisione che è sempre stata solo mia”. Un addio in 4 minuti, un atto di accusa verso l’Italia che l’ha separata dagli affetti più cari alla vigilia dell’ultimo viaggio. Cappato rischia 12 anni di carcere per l’aiuto al suicidio a una malata di Giulia Merlo Il Domani, 3 agosto 2022 Elena, la pensionata veneta di 69 anni malata terminale di microcitoma polmonare, è morta a Basilea, in Svizzera, attraverso suicidio assistito. Ad accompagnarla, come già aveva fatto con dj Fabo, è stato Marco Cappato. Il caso però è diverso rispetto alla cornice fissata dalla sentenza costituzionale Cappato che rende non punibile l’aiuto al suicidio. La donna, infatti, manca del primo requisito previsto in via giurisprudenziale, ovvero il fatto di essere “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”. In parlamento è in corso l’iter per l’approvazione di una legge che recepisca l’orientamento della Consulta, già votato alla Camera e fermo al Senato. Tuttavia, nemmeno la legge non ancora approvata renderebbe non punibile la condotta di Cappato, proprio perchè fa propri i limiti posti dai giudici costituzionali ma non li allarga. Elena, la pensionata veneta di 69 anni malata terminale di microcitoma polmonare, è morta a Basilea, in Svizzera, attraverso suicidio assistito. Ad accompagnarla, come già aveva fatto con dj Fabo, è stato Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni, che andrà ad autodenunciarsi ai carabinieri di Milano. Prima della fine, Elena ha videoregistrato un messaggio in cui racconta la storia della sua malattia, diagnosticata a luglio 2021, per la quale - dopo vari tentativi di cura - i medici le hanno dato una aspettativa di vita di qualche mese e nessuna possibilità di guarigione. “A un certo punto della mia vita ho dovuto scegliere se, trovandomi davanti a un bivio, volevo percorrere una strada più lunga, che però portava all’inferno, o se invece volevo percorrere una strada più breve che mi avrebbe portata qui a Basilea”, ha detto la donna, spiegando la sua convinzione anche prima della malattia che ognuno debba avere il diritto di vivere e morire come vuole. La figlia e il marito hanno capito la sua scelta e la hanno sostenuta ma, per non metterli in pericolo davanti la giustizia italiana, Elena ha chiesto aiuto a Cappato: “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola”, ha concluso. Il video, pubblicato dall’associazione Coscioni dopo la morte della malata, permette di ascoltare direttamente da Elena le ragioni della sua scelta: a parlare, infatti, è una donna evidentemente emaciata, ma in grado di parlare e che non è mantenuta in vita da macchinari, nè costretta in un letto: “Non ho nessun supporto vitale per vivere, solo una cura a base di cortisone”, ha spiegato la donna. Un caso nuovo - Proprio questo rende il caso di Elena molto diverso da quello di dj Fabo, per il quale Cappato è già stato processato e assolto con l’ipotesi di reato di aiuto al suicidio. Il caso, rinviato alla Corte costituzionale, ha prodotto la cosiddetta sentenza Cappato, che ha dichiarato parzialmente incostituzionale il reato, prevedendone la non punibilità a determinate condizioni. In particolare, nel caso in cui il paziente sia “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale”, sia “affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili” e sia “pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, scegliendo così di porre fine alla sua vita. Inoltre, la non punibilità di chi aiuta il paziente malato è subordinata alla verifica di alcune condizioni mediche, sentito il parere del comitato etico territoriale per il via libera definitivo. È stato questo il caso di Mario/Federico Carboni, il malato di Ancona che ha potuto accedere al suicidio assistito in Italia dopo una lunga battaglia che ha portato al sì dei medici e dopo il crowd founding per acquistare il farmaco e la strumentazione non previste dal servizio sanitario nazionale. Il caso di Elena, invece, è evidentemente diverso rispetto alla cornice fissata dalla sentenza costituzionale. La donna, infatti, manca del primo requisito previsto in via giurisprudenziale, ovvero il fatto di essere “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”. Questo nuovo caso, quindi, non è coperto dalle previsioni di non punibilità indicate dalla sentenza Cappato. Il tesoriere dell’associazione Coscioni, dunque, rischia fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio. “Per Cappato si tratta di una nuova disobbedienza civile”, spiega l’associazione Coscioni. Ora, quindi, inizia un nuovo lungo percorso giudiziario per Cappato, che potrebbe arrivare di nuovo davanti alla Corte costituzionale. L’esito, però, rischia di essere diverso proprio perchè una nuova sentenza dovrebbe allargare le maglie di quella che la ha preceduta, eliminando dalle previsioni il fatto che il malato sia tenuto in vita artificialmente. In parlamento è in corso l’iter per l’approvazione di una legge che recepisca l’orientamento della Consulta, già votato alla Camera e fermo al Senato. Tuttavia, nemmeno la legge non ancora approvata renderebbe non punibile la condotta di Cappato, proprio perchè fa propri i limiti posti dai giudici costituzionali ma non li allarga. In Svizzera, dove Cappato ha accompagnato Elena, invece, l’assistenza al sucidio è legale dagli anni Quaranta. Per farlo esistono cliniche a pagamento con medici che assistono, ma è il malato a compiere l’ultimo gesto attraverso l’assunzione di farmaci che producono prima il coma profondo e poi il decesso. L’unica condizione posta dal codice penale svizzero è che il malato non agisca per motivi “egoistici” (l’equivalente italiano di un “dolo specifico”), quindi motivi di lucro o vantaggi di qualsiasi tipo. Cannabis, l’Europa si muove e anche il Senato Usa di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 3 agosto 2022 Lo scioglimento delle Camere in Italia ha interrotto ogni speranza di approvazione della proposta Magi-Licatini sulla legalizzazione della coltivazione di quattro piante, sulla cancellazione delle sanzioni amministrative e sulla distinzione delle pene per i fatti di lieve entità. In quegli stessi giorni i Ministri competenti per le politiche sulle droghe di Germania, Malta, Olanda e Lussemburgo si sono riuniti nel Granducato per un vertice di riflessione comune sulle prospettive di riforma sulla cannabis. La discussione è stata incentrata sull’esame delle convenzioni internazionali e della normativa europea, e poi sulle opportunità legate ad una reale valutazione degli obiettivi in materia di salute pubblica e sicurezza. La rappresentanza del governo olandese, nelle sabbie mobili della sperimentazione della legalizzazione della produzione e distribuzione della cannabis che arriva nei coffeshop, non ha sottoscritto la dichiarazione congiunta. Esiste quindi un gruppo di Stati europei che intende affrontare con uno sguardo comune la regolamentazione legale della cannabis. Vanno sottolineati alcuni punti della dichiarazione, innanzitutto terminologici. Si definisce come ambito di discussione la regolamentazione della cannabis per “usi non medici e non scientifici”, richiamando in qualche modo quello spiraglio presente nelle convenzioni approfondito in un’analisi presentata in questa rubrica (vedi G. Zuffa, 30 marzo 2022). Viene affrontato anche il nodo politico, primo fra tutti la necessità di bilanciamento fra l’approccio in termini di salute pubblica e quello della giustizia criminale nell’ambito di politiche che, a partire dalle convenzioni, hanno l’obbiettivo primario “della salute e del benessere dell’umanità”. Per la Ministra della Salute lussemburghese, Paulette Lenert, “è necessario un cambiamento di paradigma nella politica sulla cannabis, che dovrebbe basarsi sulla responsabilità primaria di adottare un approccio coerente, equilibrato e basato sulle evidenze, mirando al risultato più vantaggioso per la società, ponendo l’accento sulla prevenzione e sulla riduzione dei rischi e dei danni attraverso la regolamentazione piuttosto che la repressione”. Negli Stati Uniti, intanto, il capogruppo democratico del Senato Chuck Schumer, insieme ai colleghi Cory Booker e Ron Wyden, ha presentato il Cannabis Administration and Opportunity Act (CAOA) che toglie la cannabis dalle sostanze vietate dalla legge federale, garantisce la possibilità ai singoli Stati di legalizzarla senza interferenze federali e stabilisce meccanismi per aiutare a riparare i danni creati dal proibizionismo, sia dal punto di vista economico che della discriminazione etnica. La proposta di legge, che si affianca al MOREact già approvato dalla Camera, apre il difficile confronto al Senato con una forte leadership politica, data dall’imprimatur del capo della pur esigua maggioranza democratica. Con le elezioni di medio termine alle porte che rischiano di cambiare i rapporti di forze a favore del Partito Repubblicano, i tempi si fanno molto stretti. L’azione politica può però godere di un forte sostegno nell’opinione pubblica. In un sondaggio curato da The Economist e YouGov.com il 45% degli intervistati sostiene che il governo federale dovrebbe legalizzare l’uso della cannabis a livello nazionale. Un consenso pari a quello per il matrimonio egualitario e superiore ai favorevoli ad una norma nazionale sull’aborto (41%) o sul suicidio assistito (32%). Per un ulteriore 21% poi la decisione di legalizzare o meno la marijuana dovrebbe essere lasciata ai singoli Stati, che è poi quello che fanno CAOA e MOREAct, mentre solo il 20% si è dichiarato favorevole alla proibizione nazionale. E in Italia? Il rischio è che il tema sia lasciato alle vane e ideologiche proclamazioni di lotta alla droga della destra. Per una volta, vorremmo essere smentiti. Kosovo. Sul ponte che divide Mitrovica, la Berlino dei Balcani: “La guerra è solo rinviata” di Fabio Tonacci La Repubblica, 3 agosto 2022 I carabinieri italiani della Kfor sorvegliano il viadotto dopo gli scontri esplosi domenica tra serbi e albanesi a causa dell’entrata in vigore di nuove norme sulle targhe automobilistiche e i documenti di identità che hanno riacceso il confronto tra le due comunità nemiche. In ogni famiglia tante armi. Quando mancano cinque minuti all’una, sul ponte degli italiani si sentono tre colpi di fucile e un muezzin che chiama alla preghiera. La moschea è nella parte sud, a maggioranza albanese. Gli spari provengono dai quartieri serbi a nord, oltre il fiume Ibar che taglia in due la città di Mitrovica. “Tranquilli, è normale”, sorride uno dei tre carabinieri di guardia al versante serbo. “Accade spesso, staranno festeggiando qualcosa, forse un matrimonio, forse un compleanno. In Kosovo tutti hanno i fucili sotto il letto…”. Di armi nascoste ce ne sono tante, in effetti. Dicono almeno trecentomila. In ogni famiglia kosovara c’è qualcuno che ne ha almeno una, risalente ai tempi della guerra alla fine degli anni Novanta. Motivo per cui quando da queste parti la gente blocca le strade e tira su barricate, è faccenda da prendere tremendamente sul serio. Mitrovica è la Berlino dei Balcani. La città più grande del Kosovo settentrionale è spezzata in due: centomila abitanti, di cui quindicimila di etnia serba che vivono di là dall’Ibar. I rivoltosi che domenica hanno isolato i valichi di confine a Jarnije e Brnjak mettendo di traverso i camion e sparando contro la polizia, provenivano quasi tutti dai quartieri nord. “Erano armati e davvero pronti alla battaglia”, racconta Srdjan Simonovich, 46 anni, un kosovaro serbo che fuma appoggiato alla balaustra del ponte, mentre osserva il livello troppo basso dell’acqua del fiume. Si occupa di sicurezza per molte organizzazioni internazionali. C’era, quattro giorni fa. Sa di cosa parla. “Se il premier Albin Kurti alla fine non avesse posticipato a settembre l’entrata in vigore dei due provvedimenti sulle targhe automobilistiche e sui documenti di identità, la situazione sarebbe sfuggita di mano. Un nuovo conflitto, sì. E non la chiamerei ribellione, piuttosto una misura necessaria per proteggere ciò che abbiamo”. Il ponte che unisce le due zone è presidiato h24 dai carabinieri: il ministero della Difesa ne ha mandati qui 140, fanno parte del contingente italiano della missione di peacekeeping della Nato. È chiuso al traffico, si può attraversare soltanto a piedi o in bicicletta. Gli italiani in divisa si danno il cambio ogni sei ore. La mattina arriva un ragazzino di nome Granit che non ha altri posti dove andare e che loro aiutano come possono: una maglia, un paio di scarpe, un po’ di soldi, una mostrina coi gradi da colonnello che Granit mostra con orgoglio. Sotto la macchina, si ripara dal sole un’altra mascotte involontaria: il cane Pluto. Srdjan Simonovich si accende un’altra sigaretta. “Accadrà qualcosa di brutto entro uno o due mesi, se Kurti non ritira i provvedimenti. I serbi torneranno per strada. Non ci siamo dimenticati dei tremila sfollati a cui il governo di Pristina dal 2004 impedisce di tornare a casa, non vogliamo fare la loro fine”. I nostri militari sono ben visti dai locali, perché fanno collette e le portano a chi abita nei villaggi più sperduti, dove si arriva solo arrampicandosi su strade sterrate. Sì, qualche giovane serbo talvolta passa e gli fa il segno delle tre dita, il simbolo patriottico della vittoria ritenuto offensivo dagli albanesi, ma insomma, poca roba per il ponte di Mitrovica, teatro, durante la guerra degli scontri più sanguinosi. Divenne poi un check-point militare e fu ristrutturato nel 2001 coi soldi del governo francese. È raro vedere una città cambiare connotati così profondamente nell’arco di una passeggiata di pochi secondi. La parte albanese, musulmana, è più moderna: palazzi alti costruiti grazie a investimenti di società svizzere, infrastrutture pagate coi fondi Nato e dal governo di Pristina, moschee e ristoranti affollati. La statua del nazionalista albanese Isa Boletini che guarda severo i blocchi di cemento posti all’ingresso del ponte. Di là, cambia tutto. Anche il nome della città, che diventa Kosovska Mitrovica. Gli edifici si impoveriscono, architettura socialista invecchiata male. Al posto delle moschee, chiese ortodosse. Uno striscione: “Benvenuti nella comunità delle municipalità serbe” davanti alla statua di Tsar Lazar, il principe cristiano eroe nazionale che fu ucciso nel 1389 nella battaglia della Piana dei Merli per tentare di fermare l’avanzata degli ottomani. Bandiere della Serbia ovunque, sui muri volantini che invitano a boicottare l’ordine di Kurti di sostiture le targhe con quelle kosovare. Sugli scaffali delle farmacie si trovano medicine di contrabbando fatte arrivare da Belgrado e Raska. Circolano macchine con gli adesivi bianchi sulle targhe, a coprire lo stemma dello stato di Belgrado. Nella piccola redazione di Kossev, sito indipendente di informazione, la direttrice Tatjana Lazarevi? è alle prese con i postumi di un attacco hacker. “Sono preoccupata - ragiona - Se la Nato o l’amabasciata Usa lasciano Kurti e la controparte fare ciò che vogliono, a settembre scoppierà un nuovo conflitto. Ci siamo molto vicini, guardi...”. Gira il monitor del suo portatile verso di noi. Leggiamo l’ultima dichiarazione della presidente della Repubblica del Kosovo Vjosa Osmani. “La Serbia, aiutata e controllata dalla Russia, sta volutamente causando l’escalation della tensione nei Balcani”. Rifugiati siriani, il campo di Za’atari rischia di diventare permanente: l’Europa li aiuti di Francesco Petrelli* Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2022 È ormai diventata la crisi dimenticata per antonomasia, potremmo dire. È la “diaspora” dei rifugiati siriani, che ancora oggi, dopo la fine di un conflitto che ha fatto quasi 400 mila di vittime, non possono tornare nel proprio paese perché semplicemente è ancora distrutto. Una tragedia a cui la comunità internazionale e l’Europa hanno ormai voltato le spalle, pur riguardando milioni di famiglie allo stremo che, dopo aver trovato scampo alla guerra nei paesi al confine con la Siria, stanno perdendo ogni speranza. Oltre 1,3 milioni vivono tutt’ora in Giordania, spesso senza riuscire a trovare un lavoro o sommersi dai debiti. Adesso più che mai. Dieci anni dopo, nel campo di Za’atari in 80 mila sono allo stremo - Per oltre 80 mila di loro il campo di Za’atari è diventato casa, la propria città, da dieci anni esatti: 12 distretti, 38 scuole, negozi e servizi pubblici si sono sviluppati negli anni per garantire la sopravvivenza di chi ha trovato qui un rifugio, che oggi rischia di diventare permanente. “Quando siamo arrivati abbiamo pensato che saremmo potuti tornare presto a casa, ma siamo ancora qui”, racconta Amira, che ha visto il campo crescere intorno a lei. È una popolazione giovane, troppo, quella che vive in quello che nel tempo è diventato uno dei campi profughi più grandi al mondo. Oltre la metà è composta da bambini, alcuni sono nati qui. Molte famiglie, il 42%, ha almeno un familiare con disabilità, in molti casi l’orrendo frutto della guerra. E anche qui, come per gran parte delle persone che nel mondo hanno dovuto lasciarsi un’intera vita alle spalle, l’impatto della crisi alimentare globale è in questo momento devastante. Secondo le stime delle Nazioni Unite oltre un terzo dei rifugiati del campo ha dovuto ridurre il numero di pasti e tanti sono costretti a indebitarsi anche solo per comprare un po’ di cibo, che è aumentato nei negozi del campo del 22% in quattro mesi. Il risultato è che i 32 dollari che ciascun rifugiato riceve ogni mese non bastano più nemmeno per far fronte ai bisogni di base. Tante organizzazioni umanitarie dall’inizio della guerra stanno cercando di alleviare le sofferenze dei profughi siriani. Come Oxfam, ad esempio: attraverso la gestione del riciclo dei rifiuti del campo di Za’atari negli ultimi due anni abbiamo dato un lavoro, un reddito a oltre dieci mila rifugiati che vivono qui. Ma adesso i bisogni continuano a crescere di settimana in settimana. Ebbene, di fronte a tutto questo, i grandi donatori internazionali non possono più rimanere indifferenti, servono subito maggiori aiuti. È necessario che la solidarietà che i Paesi europei hanno dimostrato verso l’accoglienza dei profughi ucraini divenga un precedente coerente con i principi europei e il diritto internazionale, valido per il popolo siriano e per tutti i popoli in fuga dalla guerra e dalla povertà. I paesi alla frontiera con la Siria - dal Libano alla Giordania - devono essere sostenuti nel far fronte all’emergenza. Al popolo siriano deve essere data la possibilità di rialzarsi. *Policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia In Egitto c’è chi vuole le impiccagioni in diretta tv di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 agosto 2022 L’Egitto, da alcuni anni stabilmente tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni, rischia di scendere un ulteriore gradino in basso nella scala dei diritti umani. Il tribunale della città di Mansoura ha chiesto al parlamento di emendare la legge in modo che le esecuzioni delle condanne a morte, tramite impiccagione, possano essere trasmesse in diretta tv. Secondo gli articoli 473 e 475 del codice di procedura penale, le condanne a morte devono essere eseguite all’interno delle prigioni o di un altro luogo ristretto al pubblico, alla presenza di un rappresentante della procura, del direttore della prigione, del medico della prigione o di altro medico delegato dalla prigione e dell’avvocato del condannato a morte. La richiesta è nata dal processo, conclusosi con la sentenza alla pena capitale, per un fatto sicuramente terribile e che ha sconvolto l’Egitto, anche perché girarono in rete parecchie immagini: l’accoltellamento di Naira Ashraf, una studentessa in procinto di superare gli ultimi esami, avvenuto il 20 giugno. Secondo il tribunale di Mansoura, mettendo a morte in diretta tv Mohamed Adel (questo è il nome dell’assassino) o almeno “mostrando le prime fasi della procedura, si potrebbe raggiungere l’obiettivo della deterrenza”. Di parere opposto è Ahmed Shawki Abu Khatwa, docente di diritto penale ed ex preside della Facoltà di Legge dell’Università di Mansoura: “Non credo che trasmettere in televisione l’esecuzione dissuaderà altre persone dal compiere omicidi. Piuttosto, lascerà il pubblico in balia della violenza inducendolo a credere di essere di fronte a una vendetta. Non mi pare sia questo l’obiettivo del tribunale”. Dello stesso avviso è Hala Mansour, docente di Sociologia all’Università di Benha: “Sì, il crimine è stato feroce e ha scioccato l’Egitto ma non è necessaria una misura estrema come la diretta tv dell’impiccagione. Il pubblico vuole essere rassicurato che un criminale non evaderà la giustizia, non di subire una violenza così estrema”. Vi sono due precedenti, almeno parziali. Il 21 aprile 1988 la tv egiziana mandò in onda gli ultimi istanti prima dell’esecuzione di tre uomini condannati a morte per l’omicidio di un uomo e dei suoi due figli in un appartamento del Cairo. Il 27 novembre 2019 vennero mandati in onda i primi secondi dell’esecuzione di un uomo condannato per terrorismo. Congo. Caschi blu dell’ONU sparano “senza motivo”: due vittime di Andrea Spinelli Barrile Il Manifesto, 3 agosto 2022 I responsabili agli arresti presso una base Monusco. Kinshasa li vuole per processarli. L’ondata di rabbia anti Nazioni unite, impersonate dalla missione di peacekeeping Monusco in Repubblica Democratica del Congo, ha intrapreso una spirale al ribasso pericolosissima per la tenuta della zona dei Grandi Laghi e della stessa missione Onu. La sintesi delle proteste che da oltre una settimana si registrano nelle diverse città delle regioni orientali della Rdc la offre alle agenzie internazionali il movimento nonviolento congolese Lotta per il Cambiamento (Lucha): “Siamo di fronte a una forza che ha tutti i mezzi militari, logistici e finanziari per porre fine alle attività dei gruppi armati. Non li usa e di conseguenza chiediamo la partenza di questi turisti”. In una situazione di tensione crescente, da un lato per la pressione che le milizie riescono ad esercitare sulle comunità e dall’altro per le proteste contro l’insicurezza e contro chi, secondo i congolesi, dovrebbe proteggerli, ovvero la missione Onu, domenica è successo quanto di più grave poteva accadere. Al posto di confine di Kasindi tre camion militari e un blindato, bianchi e con le insegne Onu, provenienti dall’Uganda hanno forzato il passaggio in territorio congolese, nonostante il rifiuto dei doganieri e della popolazione locale, sparando ad altezza d’uomo, uccidendo due persone e ferendone 15. La spiegazione data alla stampa da Bintou Keita, a capo della Monusco, è incredibile: la brigata Monusco era formata da militari che rientravano da un congedo che “hanno aperto il fuoco al posto di frontiera per ragioni inspiegabili e si sono fatti strada con la forza”, un atto “irresponsabile” per la Monusco deplorato anche dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. Un atto che non è spiegabile nemmeno con lo stress, visto che i militari erano forze fresche in arrivo. Un fatto di sangue grave che rafforza le accuse della scorsa settimana da parte delle autorità congolesi, e dei manifestanti, alla stessa Monusco, accusata di aver sparato alzo uomo sulla folla a Goma, Butembo, Beni ed altre città di Nord e Sud Kivu, uccidendo in totale 19 persone. Tre, invece, i caschi blu morti negli scontri. Altri due invece sono caduti uno “accidentalmente” (afferma Monusco), l’altro durante uno scontro con la milizia M23. I militari che domenica scorsa hanno forzato il checkpoint di Kasindi e sparato sui civili, invece, si trovano agli arresti presso una base Monusco, con le autorità di Kinshasa che chiedono vengano loro consegnati per il processo. Nel frattempo però Kinshasa, a reti unificate, chiede calma alla popolazione. La confusione nelle regioni orientali della Rdc regna incontrastata: ieri a mezzogiorno la polizia congolese ha sparato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti anti-Monusco a Beni, mentre le Forze armate congolesi sparavano in aria a scopo intimidatorio. L’obiettivo dei manifestanti era la base Onu che già la settimana scorsa era stata messa sotto assedio, come a Butembo e a Goma, dove il quartier generale Monusco è stato saccheggiato mercoledì scorso da una folla inferocita e dove ieri il vicesegretario generale dell’Onu Jean-Pierre Lacroix ha commemorato la morte dei cinque caschi blu caduti nell’ultima settimana. L’effetto di stress prolungato dell’insicurezza in quelle zone dell’Africa (la Monusco, con diverse sigle, è presente dal 1999) è esploso con la manifesta incapacità delle Nazioni unite di contrapporsi ai gruppi armati, che oggi conoscono un nuovo periodo d’oro. La vicenda che portò alla morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, un anno e mezzo fa, è avvenuta proprio in questo contesto, che nel frattempo si è ulteriormente aggravato. Myanmar, nuovo rapporto: la tortura per stroncare l’opposizione amnesty.it, 3 agosto 2022 In un nuovo rapporto Amnesty International ha denunciato che nelle prigioni e nei centri d’interrogatorio di Myanmar persone arrestate per essersi opposte al colpo di stato militare del febbraio 2021 vengono regolarmente sottoposte a torture e ad altri trattamenti crudeli e degradanti. Il rapporto, intitolato “Quindici giorni che sembravano 15 anni”, si è basato su una quindicina d’interviste a ex detenuti, avvocati ed esperti e sull’esame di oltre 100 fonti giornalistiche. Tutte le testimonianze hanno descritto l’orrore iniziato al momento dell’arresto, durato per tutto il periodo degli interrogatori e della detenzione e proseguito persino dopo la scarcerazione. Secondo l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici, dal colpo di stato del 1° febbraio 2021 la giunta militare al potere in Myanmar ha arrestato oltre 14.500 persone e ne ha uccise oltre 2000. I militari al potere violano la legge a ogni livello: arrestano senza mandato di cattura, obbligano a rilasciare “confessioni” con la tortura, sottopongono i detenuti a sparizione forzata, fanno rappresaglie contro i parenti degli arrestati, isolano questi ultimi da ogni contatto col mondo esterno. L’esempio più drammatico è stata, nel luglio 2022, l’esecuzione di quattro condanne a morte, due delle quali nei confronti di un noto attivista per la democrazia e di un ex parlamentare. Si è trattato delle prime esecuzioni dopo 30 anni. Nei bracci della morte restano oltre 70 prigionieri mentre altre 41 persone sono state condannate alla pena capitale in contumacia. “Con questo vile e brutale trattamento dei detenuti, i militari di Myanmar cercano di fiaccare lo spirito delle persone e di costringerle ad abbandonare ogni resistenza al colpo di stato. Ma stanno ottenendo l’effetto opposto: la popolazione di Myanmar non si piega, nonostante questa lunga serie di violazioni dei diritti umani”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. “Chiediamo con urgenza che la giunta militare scarceri le migliaia di persone che stanno languendo nelle carceri solo per aver esercitato i loro diritti. Sollecitiamo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ad aumentare la pressione sottoponendo la situazione di Myanmar al Tribunale penale internazionale e applicando un embargo sulla fornitura di armi e sanzioni mirate”, ha aggiunto Callamard. Sottoposti a scariche elettriche e picchiati - I funzionari delle prigioni prendono a calci e a schiaffi i detenuti, li picchiano coi calci dei fucili, con cavi elettrici e coi rami degli alberi di palma. I detenuti vengono inoltre sottoposti a torture psicologiche, quali le minacce di morte e di stupro, per costringerli a confessare o estorcere informazioni su attività contro i militari. A un detenuto è stata inviata in cella una busta contenente una bomba, poi rivelatasi falsa. Molti ex detenuti intervistati da Amnesty International hanno riferito di aver visto altri detenuti pieni di ferite, sporchi di sangue, con gli arti spezzati e i volti gonfi. Gli addetti agli interrogatori si rendono responsabili anche di reati sessuali e di violenza di genere. Saw Han Nway Oo, una transgender, è stata arrestata nel settembre 2021 perché sospettata di aver preso parte a un corso di autodifesa. È stata portata al centro interrogatori di Mandalay, noto per le torture che si praticano all’interno. È stata interrogata per tre giorni. Ha riferito che le hanno procurato dei tagli alle ginocchia con uno strumento appuntito per poi spruzzare una sostanza urticante sulle ferite sanguinanti. Per tutto quel periodo, non ha ricevuto acqua né cibo. “Durante l’interrogatorio, quando usavo pronomi femminili per riferirmi a me stessa, mi dicevano che ero gay, mi mostravano i genitali e dicevano che avrebbero dovuto piacermi”. I militari hanno esaminato la sua corrispondenza con la sua dottoressa e le hanno chiesto se si fosse sottoposta a un’operazione per cambiare sesso. Infine, l’hanno spogliata e si sono messi a ridere guardando il suo corpo. Altre persone Lgbti hanno riferito di essere state sottoposte a ispezioni e controlli intimi per, nelle parole di un’ex detenuta, “sincerarsi di che sesso fossimo”. Bendati e isolati - Gli arresti vengono normalmente eseguiti durante dei raid notturni. Soldati e agenti di polizia sfondano le porte delle abitazioni, picchiano le persone che trovano all’interno, mettono tutto a soqquadro, portano via telefoni e computer e a volte persino oggetti di valore come i gioielli. Una delle leader delle proteste, Ma Win, è stata arrestata a bordo di un autobus nella regione di Mandalay. L’hanno presa a schiaffi, ammanettata, bendata e portata in una località sconosciuta. Durante un interrogatorio durato oltre 24 ore, è stata presa a calci e più volte minacciata di morte. Per gli avvocati è estremamente difficile scoprire dove vengano portati i loro clienti. A volte sono costretti a pagare mazzette per avere anche la più piccola informazione. Le prigioni sono sovraffollate, con casi in cui 50 detenuti sono costretti a dividere una cella per 10. Nel cibo si trovano insetti morti e vermi. Nonostante l’esperienza della detenzione abbia lasciato profondi strascichi emotivi, molti attivisti sono determinati a resistere. “Non molleremo mai. Siamo come telefoni, quando la batteria è a zero ci ricarichiamo!”, ha detto Saw Han Nway Oo. Microprogetto in Repubblica Democratica del Congo: “cure mediche a 650 carcerati” fondazionecis.com, 3 agosto 2022 La scarsa alimentazione e le pessime condizioni sanitarie rendono i detenuti nel carcere africano di Mambasa (Repubblica Democratica del Congo) molto fragili ed esposti a malattie. Con questo microprogetto nel settore sanitario, Fondazione CIS, in collaborazione con altre realtà sensibili, punta ad assicurare all’infermiere che opera nelle prigioni la fornitura di medicinali di prima necessità, per consentirgli di curare, almeno in parte, queste persone altrimenti abbandonate a se stesse. Noto fino al 1997 col nome di Zaire, la Repubblica Democratica del Congo (R.D.Congo) è uno dei Paesi africani più vasti nel cuore dell’Africa, vista la predominanza di gruppi etnici bantù. Numerosi conflitti che permangono da anni hanno frenato il suo sviluppo, che sarebbe realmente possibile grazie all’estesa ricchezza di risorse nel sottosuolo. La città di Mambasa è un grosso centro, in mezzo alla foresta, nell’Est del Paese. Nonostante il numero elevato di abitanti, circa 50.000, ha l’aspetto di un grosso villaggio piuttosto che quello di una cittadina. A Mambasa da alcuni anni è stata riaperta una struttura carceraria, dove sono rinchiusi, in condizioni molto precarie, circa 650 detenuti. Molti dormono per terra. La razione giornaliera di cibo prevede circa 50 grammi di riso e 25 di fagioli. Molti soffrono la fame, soprattutto coloro che non hanno familiari nel territorio di detenzione. Alcuni benefattori italiani da circa tre anni offrono un aiuto, che permette di assicurare un pasto per tutti due domeniche al mese. E alcuni missionari dehoniani italiani hanno cercato di coinvolgere anche i cristiani della comunità africana, che nonostante loro povertà, si sono organizzati per offrire a tutti un pasto le altre due domeniche di ogni mese. Un punto dolente è l’assistenza medica: quasi del tutto dimenticata dallo stato. La scarsa alimentazione e le pessime condizioni sanitarie rendono i detenuti molto fragili ed esposti a malattie. Con questo microprogetto nel settore sanitario, si vorrebbe poter assicurare all’infermiere che opera nelle prigioni di Mambasa un minimo di medicinali di prima necessità, per consentirgli di curare almeno in parte queste persone carcerate. Venuti a conoscenza di questa realtà, totalmente dimenticata anche dai mezzi di informazione, Fondazione CIS in collaborazione con InfoGiovani Verona Vicenza e la testata giornalistica GrilloNews.it hanno deciso di offrire il proprio piccolo contributo lanciando una sottoscrizione aperta a tutti, per la raccolta di 4.000 euro da destinare al progetto, che vede quale referente padre Dino Ruaro, missionario dehoniano vicentino da decenni operativo in R.D. Congo. Le donazioni raccolte da Fondazione CIS saranno prontamente inviate a destinazione attraverso il supporto del Centro Missionario Diocesano di Vicenza, quale segno di vicinanza e sostegno a quanti si stanno dando da fare per portare un sollievo alle persone detenute bisognose di medicinali. Se vuoi, puoi dunque sostenere questa iniziativa con una donazione tramite bonifico bancario sul conto di Fondazione CIS, inviando poi una e-mail a info@fondazionecis.com con tuoi dati: nome e cognome, residenza e codice fiscale. Saremo così in grado di ringraziarti e spedirti la quietanza da utilizzare al momento della dichiarazione dei redditi: le donazioni a Fondazione CIS sono infatti deducibili o detraibili. Destinatario: Fondazione CIS. IBAN: IT28 I 03069 59968 100000000239 [Banca Intesa San Paolo - Filiale di Villafranca di Verona]. Causale: Donazione per Progetto cure mediche ai carcerati In alternativa, se lo desideri, può inviare la donazione direttamente alla Diocesi di Vicenza, che provvederà a inoltrate i fondi raccolti ai religiosi referenti del progetto: Destinatario: Diocesi di Vicenza IBAN: IT70 X 05018 11800 000016873945 [Banca Popolare Etica - Filiale di Vicenza]. Causale: Donazione per Progetto AF 02 2022 cure mediche ai carcerati.