Quelle rivolte nelle carceri ridotte a uno stereotipo di Luigi Manconi La Repubblica, 31 agosto 2022 Era il marzo del 2020 e, a seguito delle intollerabili condizioni di vita nelle carceri italiane, esasperate dalla diffusione del Covid, in numerosi istituti penitenziari vi furono forme di protesta che vennero immediatamente classificate come “rivolte”. In effetti, in più di un caso vi furono violenze e distruzioni e i detenuti si appropriarono di sostanze stupefacenti custodite (malamente, come è evidente) nelle infermerie. Azioni profondamente sbagliate e pericolose che portarono, in alcuni casi, a una repressione indiscriminata e feroce. La “orribile mattanza” (la definizione è del gip Sergio Enea) nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non fu, certo, un episodio isolato. Ma qui non importa tanto evidenziare le molte responsabilità del corpo della polizia penitenziaria nell’imporre un ordine fondato sulla violenza e talvolta sull’esercizio della tortura. Mi interessa sottolineare altro. Il fatto, cioè, che secondo uno schema ricorrente quelle proteste verificatisi in una ventina di istituti furono attribuite pressoché unanimemente a una “strategia occulta” e a un “disegno premeditato”. I detenuti avrebbero eseguito gli ordini e applicato le direttive provenienti dalla criminalità organizzata e, specificatamente, dalla Camorra. Presentare una simile versione dei fatti rispondeva, non solo al riflesso condizionato della cospirazione come chiave interpretativa dei fatti del mondo, ma anche ad alcune finalità immediate: a) dimostrare che le carceri italiane sarebbero totalmente fuori controllo e che, in esse, dominerebbero le diverse fazioni del crimine organizzato; b) screditare le ragioni dei detenuti e occultare le cause, spesso motivatissime, delle loro proteste; c) legittimare la repressione nei confronti dei contestatori che, assimilati tutti al grande crimine, meritavano la più severa delle punizioni. Ulteriore obiettivo di questa opera di disinformazione, quello di presentare le grandi organizzazioni criminali come potenze capaci di condizionare in profondità la vita degli italiani. Di conseguenza, quello delle “rivolte organizzate dalla Camorra” è diventato in un batter d’occhio uno stereotipo generalizzato. Dopodiché, qualche giorno fa è stata resa nota la relazione finale della commissione ispettiva del Ministero della Giustizia costituita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel luglio del 2021, che ha analizzato attentamente i fatti accaduti in quel marzo di due anni fa. La ricostruzione è dettagliata e puntuale ed è uno strumento utile per l’osservazione del sistema penitenziario italiano: e costituisce la possibile premessa di una politica di prevenzione. Ma c’è un passaggio che va immediatamente evidenziato. È laddove si legge che l’attribuzione della responsabilità delle rivolte alla mafia sarebbe stata motivata dal fatto che “la sospensione dei colloqui in presenza avrebbe danneggiato la catena di comunicazioni tra penitenziario e mondo esterno compromettendo gli interessi del crimine organizzato”; e dal fatto che “la contemporaneità degli eventi e le comuni modalità organizzative delle sommosse avrebbero deposto per una ‘strategia occulta orchestrata a tavolino’“. Bene, secondo la relazione della commissione ispettiva non si è rilevato nulla di tutto ciò e non è stata riscontrata in alcun modo la minima traccia di una regia della “criminalità organizzata e nemmeno una matrice politica anarchica o insurrezionalista”. E si aggiunge che, a determinare le proteste, sarebbero stati la “paura della pandemia, il rifiuto delle misure limitative della socialità e, tranne la rivolta di Salerno, lo spirito di emulazione delle altre rivolte alimentato dall’aspettativa dei benefici penitenziari”. Tuttavia, la relazione non nasconde il “sospetto che detenuti, loro familiari e gruppi antagonisti abbiano concordato il momento in cui dare l’avvio alle rispettive manifestazioni di protesta dentro e fuori le strutture penitenziarie”. Questo è il massimo di “complotto” che la commissione del Ministero della Giustizia è riuscita a individuare. Come si vede, è il ribaltamento totale di una interpretazione fondata tutta su una concezione dei detenuti quali strumenti passivi nelle mani del crimine organizzato e funzionali ai disegni di quest’ultimo. In sintesi, è quanto scrive Gaia Tessitore sul sito di informazione napolimonitor.it, “l’impossibilità di mettere in relazione la risposta scomposta e violenta degli agenti di polizia penitenziaria con la presunta esistenza di un piano preordinato palesa la preoccupante incapacità dell’amministrazione di una lettura efficace della realtà e dei fenomeni che si sviluppano dentro e intorno al carcere”. Un giudizio molto severo, ma che troppe vicende tendono a confermare. Rivolte in carcere: il malessere è l’unico, enorme motivo di Giusy Santella mardeisargassi.it, 31 agosto 2022 Siamo a marzo 2020. La nostra vita sta per cambiare. E non solo la nostra, che abitiamo case calde che tra poco diventeranno il porto sicuro in cui rifugiarci, ma anche quella di chi una casa vera non ce l’ha. O, meglio, dovrebbe averla perché sotto la custodia dello Stato, ma per cui quelle quattro mura - addobbate con grate - saranno molto meno rassicuranti. La prima rivolta scoppia nella casa circondariale di Salerno, per poi diffondersi a cascata in ventidue istituti penitenziari: si contano numerosi feriti tra la popolazione detenuta e il personale, perdono la vita tredici reclusi. Per loro vengono sprecate ben poche parole. I giornali si riempiranno di titoli che insinuano una regia criminale, una cospirazione per far evadere i detenuti - cosa in realtà avvenuta nel solo carcere di Foggia - e un coordinamento tra i reclusi dei vari istituti. Nessuna di queste supposizioni - dopo che tutti, politici compresi, se ne sono riempiti la bocca - è stata ritenuta provata da un’apposita commissione ispettiva istituita con il fine di accertare l’origine dei disordini, in particolare alla luce dei gravissimi fatti verificatisi nel mese successivo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per i quali sta proseguendo il relativo processo. Simili eventi hanno infatti posto inquietanti interrogativi sulla sicurezza nelle carceri, sulla possibilità di affrontare il contagio al loro interno - i casi di positività registrati sono stati in effetti moltissimi - ma, soprattutto, sulla legittimità dei comportamenti del personale penitenziario in quelle occasioni. Nonostante sia stata da più parte sottolineata la tardività dei soccorsi - e, al contrario, i fin troppo tempestivi trasferimenti punitivi effettuati dopo le rivolte, senza svolgere le necessarie visite mediche e prestare le cure a chi ne avesse la necessità, così come i numerosi comportamenti violenti perpetrati - un grande silenzio è calato sulle vite stroncate in quelle ore tra l’8 e il 9 marzo 2020, quando il numero delle vittime cresceva ogni minuto di più, portando con sé superficiali giudizi che si sono rincorsi sui quotidiani per giorni. Con la relazione diffusa dalla Commissione ispettiva presieduta dal procuratore Sergio Lari, si è tentato di ricostruire i fatti, attraverso la raccolta di testimonianze e di dati, seppur solo parzialmente poiché trattasi di un’ispezione tutta interna. Si legge: Stando alle testimonianze acquisite, le cause principali che hanno spinto i detenuti a scatenare la rivolta, sono state la paura del contagio alimentata dal sovraffollamento, il timore della sospensione dei colloqui in presenza con i familiari e la speranza di ottenere provvedimenti di clemenza o di maggiore accesso ai benefici penitenziari. Tali preoccupazioni vengono poi esplicitate in una serie di richieste che la stessa popolazione detenuta - prima tra tutte quella del carcere di Fuorni - sottopone all’amministrazione penitenziaria per iscritto, nel cosiddetto papello, chiedendo appunto tamponi ai singoli detenuti, di poter comunicare con la propria famiglia tramite video, un’assistenza immediata a chi soffre di particolari patologie. Le notizie riguardanti il contagio, infatti, sono oramai su tutti i quotidiani e i tg nazionali e locali, senza che però tale risalto mediatico sia accompagnato da adeguate misure di informazione da parte dell’amministrazione penitenziaria per la delicata condizione delle persone recluse. Certo, è stata un’emergenza per tutti, in parte inaspettata e difficile da gestire, ma non si può negare che l’interno delle mura carcerarie rappresenti ancora un mondo separato dalla realtà esterna, soggetto a un filtro che in quell’occasione è stato una delle principali ragioni dell’esplosione. Quest’ultima altro non è che espressione della forza bruta e violenta su cui sembra reggersi l’intero universo penitenziario, in cui i rapporti di potere e gli equilibri - se di equilibri si può parlare - sembrano reggersi sulla sola regola primitiva del più forte che schiaccia il più debole. Si trattava quindi di paura di essere abbandonati che, del resto, non si è rivelata così infondata se si pensa ai provvedimenti adottati dal governo, insufficienti e del tutto inidonei ad affrontare l’emergenza per ciò che questa rappresentava. A proposito del papello si legge ancora: Deve escludersi che tale documento sia stato il primo passo di una strategia concordata ai più alti livelli o suggerita dall’esterno. E, riferendosi alla prima rivolta in particolare, essa è avvenuta esclusivamente su iniziativa di una parte della popolazione detenuta appartenente alla criminalità medio-piccola ed è stata scatenata da un insieme di fattori che possono sintetizzarsi: la paura dei detenuti che l’epidemia causata dal Covid-19 potesse dilagare all’interno dell’istituto favorita dal sovraffollamento e dalla carenza di presidi sanitari adeguati, il timore provocato dalle notizie circolanti […] sull’imminente adozione di un decreto ministeriale che avrebbe previsto la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari fino al 31 maggio 2020, se non oltre; infine la speranza che, mettendo in crisi le strutture penitenziarie […] si potessero ottenere benefici legislativi e penitenziari. Gli stessi sentimenti di malessere erano già stati registrati anche in altri istituti, in particolare nel Nord Italia dove l’emergenza aveva fatto capolino prima, senza però essere adeguatamente presi in considerazione dall’amministrazione penitenziaria, dimostratasi indifferente alle sorti della popolazione detenuta. Si tratta del resto dello stesso malessere che quest’anno ha già mietuto cinquantotto vittime, detenuti suicidatisi in soli otto mesi. Un dato allarmante se si considera che ha già superato quello dell’intero scorso anno: quattordici solo nel mese di agosto (l’estate ha da sempre rappresentato un periodo critico per gli istituti di pena, per la carenza di personale e attività trattamentali, oltre che per il caldo torrido), uno ogni due giorni. O, meglio, un dato che dovrebbe essere allarmante se abitassimo davvero un Paese civile così come professano i nostri rappresentanti politici, che però conoscono la sola legge del taglione e della vendetta. Quest’anno i suicidi nelle carceri hanno già superato quelli del 2021 di Luca Sofri ilpost.it, 31 agosto 2022 I suicidi nelle carceri italiane nei primi otto mesi del 2022 sono stati 58, in tutto il 2021 erano stati 57. Ad agosto i suicidi sono stati 15, praticamente uno ogni due giorni. Nelle carceri, secondo i dati forniti da Ristretti Orizzonti, la frequenza dei suicidi è circa venti volte maggiore rispetto a quanto avviene tra le persone libere. In una regione, la Lombardia, i suicidi sono raddoppiati rispetto al 2021: nei primi mesi di quest’anno sono già stati 17. All’inizio del mese i giornali avevano riportato con molta evidenza la storia del suicidio di una ragazza, Donatella Hodo, di 27 anni e con problemi di dipendenza, che si era uccisa nella casa circondariale di Montorio, a Verona, usando il fornelletto a gas tenuto in cella. Dal 2016 era stata arrestata più volte, il reato più grave commesso era stato una rapina impropria, in cui cioè alla sottrazione di una cosa altrui segue una minaccia o una violenza. Il giudice per le indagini preliminari l’aveva definita una ragazza con “una personalità allarmante sotto il profilo della pericolosità sociale”. Dopo la sua morte Vincenzo Semeraro, un magistrato di sorveglianza che ha il compito di vigilare sulle carceri e sul rispetto dei diritti dei detenuti, ha scritto in una lettera aperta: “Scusami Donatella, con la tua morte ho fallito anche io”. In un’intervista a Repubblica Semeraro aveva detto: “Quando una ragazza di 17 anni muore in carcere significa che tutto il sistema ha fallito (…). Non so precisamente cosa ma so che si poteva fare di più”. Dal 7 agosto a oggi si sono uccise persone detenute italiane e straniere. Gardon Dardou, algerino di 33 anni, è morto a Secondigliano, Napoli, e sempre a Napoli, a Poggioreale, si è ucciso Francesco Iovine, di 43 anni. Rouan Aziz, del Marocco e 37enne, si è ucciso a Rimini, Mohammed Siliman, 24enne tunisino, a Monza, Alessandro Gaffoglio, 24 anni, a Torino. Due italiani di 52 e 30 anni di cui non è stato reso noto il nome sono morti a Piacenza e Foggia; un uomo marocchino di 49 anni a Terni. Simone Melardi, 43 anni, a Caltagirone (Catania). A Siracusa è morto un cittadino gambiano di 34 anni di cui sono state rese note solo le iniziali, D.A. Questi dieci ultimi suicidi sono quasi tutti avvenuti per impiccagione. Uno dei detenuti era in carcere per oltraggio a pubblico ufficiale, e sarebbe uscito molto presto. Uno era imputato di furto per aver rubato un telefonino. Un detenuto era in carcere per reati contro i familiari e si è ucciso dopo una videochiamata con alcuni parenti. Un altro era stato arrestato per una rapina a un supermercato: soffriva di problemi psichici, e si è ucciso soffocandosi. Un detenuto era nel reparto Sai (Servizio assistenza intensificata): soffriva di anoressia e pesava 43 chili. Secondo Ristretti Orizzonti ad accomunare i suicidi è la totale mancanza di prospettive, anche se in situazioni molto diverse tra loro. Ci sono i detenuti in attesa di giudizio che aspettano il processo per anni e quelli già condannati in via definitiva che sanno di dover scontare lunghi periodi. “In tante carceri”, dice il dossier, “spesso proprio quelle dove sono più frequenti i suicidi, il tempo della pena è tempo vuoto, dissipato lentamente aspettando il fine pena”. Nella relazione del 2021 presentata al Parlamento il Garante dei detenuti ha spiegato che l’età media dei detenuti suicidi è attorno ai 40 anni, quasi tutti uomini (una sola donna nel 2021), in maggioranza italiani. La maggioranza delle persone suicide, 17, era in attesa del primo grado di giudizio, e cioè del primo processo; 14 dovevano scontare dai tre ai cinque anni; 9 avevano da scontare meno di due anni; 14 più di cinque anni; due sarebbero stati scarcerati entro l’anno (manca il dato che riguarda uno dei detenuti suicidi). Nel 2021 il tasso di suicidi sul totale della popolazione carceraria è stato dell’1,10%, praticamente come nel 2020, 1,11%: otto anni prima, nel 2013, era lo 0,65%, poco più della meta e già più di 10 volte quello della popolazione italiana. Il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, ha chiesto una riforma urgente del regolamento, che risale al 2000, per liberalizzare le telefonate ai detenuti: “i 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario”. Antigone ricorda anche che dell’importanza dell’affettività per i detenuti parla anche il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nella relazione della commissione ispettiva che ha indagato sulle rivolte del marzo del 2020. Secondo la relazione a innescare le rivolte in varie carceri non ci fu nessuna “regia criminale”, come invece sostenuto da qualcuno. Il motivo invece fu la sospensione dei colloqui con i familiari dovuta all’epidemia di Covid-19. Il Dap ha annunciato da poco la realizzazione di nuove linee guida per rafforzare le attività di prevenzione. Nella circolare inviata a tutte le direzioni degli istituti è scritto che deve essere messo in atto “un intervento continuo attraverso il quale il Dipartimento, i Provveditorati regionali e gli Istituti penitenziari siano tutti coinvolti, in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidiarie delle persone detenute”. La circolare è firmata dal capo del Dap Carlo Renoldi, che ha previsto quella che ha chiamato “task force multidisciplinare” composta in ogni carcere da direttore, capo della polizia penitenziaria, educatore, medico e psicologo con il compito di valutare e monitorare le situazioni a rischio. Dovrebbe poi essere preparato un protocollo operativo che faccia riconoscere “eventi sentinella”. In pratica quei segnali, è scritto nella circolare, che possano essere intercettati e rivelatori del rischio di potenziali suicidi. David Lazzari, direttore del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, ha scritto a sua volta al direttore del Dap, chiedendo che vengano destinate risorse “all’inserimento degli psicologi in maniera stabile e strutturale in pianta organica”. Bongiorno Vs Nordio, il derby che dirà se il centrodestra è davvero garantista di Errico Novi Il Dubbio, 31 agosto 2022 Cresce il dualismo tra la leghista e il candidato di FdI: sono loro due i favoriti per via Arenula. L’ex pm candidato da Meloni torna a invocare il ritorno all’immunità dei parlamentari (“la politica deve affrancarsi da una magistratura a volte faziosa”) nonostante la plenipotenziaria di Salvini sulla giustizia abbia replicato: “L’articolo 68 non è una priorità”. Un derby. Mai visto prima. Giulia Bongiorno Vs Carlo Nordio. È una partita tutta da vedere, interna al centrodestra ma potenzialmente decisiva per l’intero sistema giustizia. Nel passato recente non si ricordano casi analoghi, con un guardasigilli che abbia trovato un contraltare così autorevole quale ciascuno dei due potenziali ministri sarebbe per l’altro. Nelle ultime ore, tra Bongiorno e Nordio sono emerse distanze. In particolare sul ripristino dell’immunità parlamentare. Con un’intervista a Quotidiano nazionale, l’ex procuratore aggiunto di Venezia, due giorni, fa ha detto che sì, a suo giudizio la norma del vecchio articolo 68 va ripristinata, e che “i padri costituenti l’hanno voluta come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura”. Ne sono venute reazioni contrarie, non solo politiche. Anche da Bongiorno, appunto: “Non mi sembra una priorità”, ha detto sia alla Stampa che al Fatto quotidiano. La Lega, si è espressa, con parole simili, pure per voce di Andrea Ostellari. Colpisce che Nordio non si sia lasciato scoraggiare dal “fuoco amico”. Al punto da diffondere poco fa un proprio personale comunicato, in cui cita peraltro solo il presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama e non anche Bongiorno: “In riferimento alle dichiarazioni del senatore leghista Ostellari (“L’immunità parlamentare non è una priorità”)”, recita testualmente la nota, “arriva pronta la risposta di Carlo Nordio: “Concordo pienamente che oggi la priorità sia la riforma della giustizia nella parte in cui impatta con l’economia e la sicurezza. Ma in prospettiva, con una maggioranza coesa e duratura, occorre ridare alla politica la sua centralità, affrancandola da iniziative imprudenti, e talvolta faziose, di una certa magistratura”“. Sembra un manifesto. Rivolto agli elettori, a tutti gli elettori di centrodestra: si tratta di capire se sono in maggioranza favorevoli alla chiave di Nordio. O se invece si sentono più attratti dall’abile prudenza del Carroccio. Certo, forse lo scudo per i parlamentari è il solo vero punto di attrito fra il candidato di Giorgia Meloni e la plenipotenziaria di Matteo Salvini, il quale ieri sera ha lanciato un’Opa su via Arenula: “Mi sentirei garantito da Bongiorno”. Di sicuro il derby è uno snodo decisivo. Bongiorno ha il profilo dell’avvocata penalista in perfetta sintonia con le battaglie ordinamentali dei propri colleghi, dalla separazione delle carriere al superamento dell’obbligatorietà. Nordio è in lista con un partito, Fratelli d’Italia, che sembrerebbe un alleato temibile per la Lega proprio perché orientato, sul penale, verso posizioni ancora più restrittive, eppure l’ex procuratore aggiunto di Venezia è del tutto autonomo, ed è un garantista puro. Crede nel ritorno dell’immunità (ne parla anche nel libro “Le catene della destra”, uscito ieri, in cui, intervistato da Carlo Cerasa, cita Bettino Craxi) ma anche nel superamento dell’abuso d’ufficio, come ha detto lunedì in un’altra intervista, rilasciata a Libero. In ogni caso, non è dal dettaglio dei singoli punti di programma che dipende il dualismo. Si tratta piuttosto di una diversità di vocazione. Se a via Arenula andasse Buongiorno, avremmo una giustizia più sbilanciata verso le posizioni tradizionali sia della Lega che, per paradosso, della stessa Fratelli d’Italia: riforme dell’ordinamento, a cominciare dalle carriere separate, ma una certa maggiore attenzione alle attese dell’elettorato “legge e ordine”. Con Nordio vedremmo invece superato una volta per tutte il vizio prodotto da tangentopoli, l’eliminazione dell’immunità. Un riequilibrio atteso da lustri. Ma che è Forza Italia, anziché il partito di Meloni, a considerare un obiettivo. E che al centrodestra in generale porterebbe attacchi pesanti. Basti citare il 5S Mario Perantoni, che ieri ha definito il ripristino del vecchio articolo 68 “un insulto per chi ha lottato per una Italia più giusta e legalitaria, e per tutti i cittadini onesti. La proposta di Nordio”, per il presidente della commissione Giustizia, “è espressione della peggiore destra”. A cogliere il rischio di esporsi a controffensive velenose è persino il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza: il quale dice, sì, di condividere “totalmente” l’ipotesi di ripristinare l’immunità, ma aggiunge: “Bisogna ragionare sull’impatto”, su come l’eventuale modifica “offra il destro a speculazioni: introdurre riforme di natura costituzionale e molto impegnative, che scatenerebbero il populismo più sfrenato, finirebbe per indebolire l’intero pacchetto” sulla giustizia. In ogni caso, nella teorica sfida Bongiorno-Nordio per il ministero di via Arenula, il centrodestra si gioca una parte notevole della propria identità sulla giustizia. Una volta per tutte va sciolto l’equivoco fra garantismo e intransigenza. Va sciolto fra i leader ma anche nell’elettorato. Proprio l’ex procuratore aggiunto di Venezia, nel colloquio con Quotidiano nazionale di domenica scorsa, ha osservato che parte dello stesso elettorato di Fdi “è più sensibile alla certezza della pena che non alla tutela della presunzione di innocenza”. Ma è davvero così? Davvero tutti quelli che voteranno per Meloni, e si preannunciano numerosissimi, sono in sintonia con la tradizionale ispirazione general-preventiva di Fratelli d’Italia? Non è così scontato. Contro l’idea di ripristinare l’immunità si è pronunciato oggi anche il segretario generale dell’Anm Salvatore Casciaro: la riforma, ha detto, “rischierebbe di riproporre quegli abusi di cui è ancora viva la memoria”. Con l’ex pm Nordio si finirebbe insomma per avere a via Arenula una figura considerata meno amichevole dalla stessa magistratura. Ma qui appunto si capirà cosa prevale oggi nel centrodestra: l’abilità strategica o una visione più sfrontata eppure più coerente con le battaglie del passato. L’Anm stoppa Nordio: “Immunità parlamentare? Così si torna agli abusi del passato” di Davide Varì Il Dubbio, 31 agosto 2022 Polemica per la proposta rilanciata dall’ex magistrato candidato con FdI. Caiazza: “Condivisibile, ma non è priorità”. Bonafede: “È la destra delle leggi ad personam”. Stop anche dalla Lega. “Il ripristino dell’originaria immunità parlamentare, secondo la proposta di Nordio, rischiererebbe di riproporre quegli abusi dell’istituto di cui è ancora viva la memoria”. A lanciare l’allarme è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Salvatore Casciaro, intervenendo sull’idea lanciata dall’ex magistrato Carlo Nordio, candidato nelle liste di Fratelli d’Italia. “Si tratta di un dibattito un po’ slegato dal tempo presente, ben altre essendo le priorità per i cittadini”, premette Casciaro all’Adnkronos, sottolineando che “il problema non è “scudare” i parlamentari da ogni possibile controllo di legalità, ma far sì che, se la necessità di indagine si prospetti in relazione a fatti specifici, i relativi approfondimenti giudiziari, ferma la presunzione di non colpevolezza, siano condotti in tempi rapidi”. “L’efficienza del processo è il vero tema messo in ombra, purtroppo, dalle questioni che si agitano nel dibattito politico sulla giustizia di queste ore”, conclude il segretario Anm. Il dibattito nasce dalle dichiarazioni dell’ex pm di Venezia, il quale - presentando il suo piano per la giustizia - ha rilanciato l’immunità parlamentare pur “riconosco che andrebbe spiegata bene ai cittadini, affinché non sembri un privilegio di casta: i padri costituenti, Togliatti, De Gasperi, Nenni, Calamandrei, l’hanno voluta proprio come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura”. “In linea di principio condivido totalmente, perché l’abolizione dell’immunità parlamentare è una delle cause più evidenti dello squilibrio tra potere giudiziario e potere politico. Ma credo che in politica si debba agire ragionando secondo criteri di priorità e di opportunità. Alla luce di questi criteri non mi sembra un’urgenza”, commenta Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali. “Bisogna ragionare sull’impatto che ha e su come offra il destro a speculazioni - spiega - Introdurre riforme di natura costituzionale e molto impegnative, che scatenerebbero il populismo più sfrenato, finirebbe per indebolire l’intero pacchetto di riforme”. Chi si lancia all’attacco è invece l’ex ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede, per il quale con le proposte di Nordio si ritorna “alla cara vecchia caciara che mette in secondo piano i problemi veri”. “Diciamoci la verità - scrive su Facebook l’espontente M5S - nessuno può sorprendersi del fatto che Meloni, Salvini e Berlusconi vogliano ripristinare l’immunità parlamentare. Sono sempre loro, quelli delle leggi ad personam. Quelli che nei governi Berlusconi hanno concepito una giustizia al servizio della politica e non dei cittadini. Ieri, proprio Nordio, candidato di Fratelli d’Italia (che, probabilmente, lo vorrebbe ministro della giustizia in un governo di centrodestra), ha rilasciato un’intervista che svela plasticamente già adesso le intenzioni del centrodestra, se mai ce ne fosse stato bisogno”. “I problemi, per il centrodestra - incalza l’ex Guardasigilli - non sono la lotta alla criminalità organizzata, alle mafie e alla corruzione; loro si concentrano su separazione delle carriere, depenalizzazioni varie e immunità parlamentare che, secondo Nordio, “andrebbe spiegata bene ai cittadini, affinché non sembri un privilegio di casta”. Tra l’altro, è totalmente fuori da ogni contatto con la realtà parlare delle priorità della giustizia senza fare riferimento ad investimenti concreti in assunzioni, digitalizzazione ecc. Da Ministro della giustizia ho portato avanti investimenti che non hanno precedenti per fronteggiare i problemi concreti: il centrodestra vuole ancora una volta intrappolare la giustizia nel pantano delle leggi che non interessano a nessuno… se non ai politici. È chiaro che questi signori hanno intenzione di realizzare una vera e propria restaurazione che possa cancellare la legge spazzacorrotti e tutti i passi avanti compiuti in questi anni”. A dire no è anche il senatore leghista, Andrea Ostellari, presidente della commissione giustizia a palazzo Madama. Per il quale “l’ipotesi di ripristinare l’immunità parlamentare rischia di mettere in ombra il grande lavoro che stiamo facendo per riformare la giustizia e soprattutto di distrarre dai veri problemi. Assunzioni di magistrati e di personale amministrativo nei tribunali, regolarizzazione di magistrati onorari e investimenti in infrastrutture e tecnologia. Queste sono le priorità e su questo dobbiamo concentrarci. Solo così l’Italia potrà diventare un Paese più giusto e attrattivo”. Nordio manda in tilt il centrodestra sull’immunità parlamentare di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 agosto 2022 L’ex pm, ora candidato di Fratelli d’Italia, propone di ripristinare l’autorizzazione a procedere: “I padri costituenti la vollero come garanzia dalle interferenze della magistratura”. Botta e risposta con la Lega, alleata di coalizione. Ha spaccato il centrodestra la proposta avanzata da Carlo Nordio, ex magistrato ora candidato alle elezioni politiche da Fratelli d’Italia, di ripristinare l’immunità parlamentare, o per meglio dire l’autorizzazione a procedere, abolita nel 1993 sull’onda di Mani pulite. In un’intervista al Quotidiano nazionale (oltre che nell’ultimo libro di Claudio Cerasa, “Le Catene della Destra”, Rizzoli), l’ex procuratore aggiunto di Venezia ha dichiarato che occorrerebbe reintrodurre l’immunità parlamentare per riequilibrare i rapporti tra politica e magistratura: “I padri costituenti, Togliatti, De Gasperi, Nenni, Calamandrei, l’hanno voluta proprio come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura. Sapevano benissimo che qualcuno se ne sarebbe servito a suo vantaggio, ma hanno accettato il rischio, perché quello della sovrapposizione di poteri era enormemente maggiore, come poi si è dimostrato”. Per Nordio, comunque, il ripristino dell’istituto “andrebbe spiegata bene ai cittadini, affinché non sembri un privilegio di casta”. Le parole di Nordio hanno generato la netta reazione della Lega, alleato di coalizione. Il senatore leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama, ha affermato che “l’immunità per i parlamentari non è una priorità per gli italiani, quindi non lo è per la Lega”, aggiungendo che “il buon funzionamento della politica si garantisce con l’elezione di rappresentanti capaci, preparati e credibili”. A bocciare definitivamente la proposta di Nordio è poi stata la senatrice Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega (che Salvini spera diventi la prossima Guardasigilli), che in un’intervista alla Stampa ha dichiarato: “Il tema non è nel programma del centrodestra, tantomeno in quello della Lega. A dirla tutta, non mi sembra proprio una priorità in questo momento storico. Meglio pensare ai cittadini prima che ai parlamentari”. La proposta di Nordio, per quanto certamente appaia in contrasto con il sentimento populista predominante nel dibattito politico e nell’opinione pubblica, non costituisce una novità, anzi si pone in perfetta continuità con quanto sostenuto da tempo dall’ex magistrato. Lo scorso 29 aprile, intervenendo alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia, Nordio attribuì alla politica la colpa di “aver ceduto terreno alla magistratura attraverso una serie di ritirate codarde, che sono culminate nell’abrogazione dell’immunità parlamentare”. Tra gli applausi della platea, l’ex magistrato ricordò come l’immunità parlamentare non costituisse “un privilegio dato al parlamentare, bensì una guarentigia data all’elettore che ha mandato la persona in parlamento, e che non può essere vulnerata da un’indagine giudiziaria”. Nordio aggiunse che “i nostri padri costituenti sapevano benissimo che l’articolo 68 avrebbe potuto essere sfruttato da qualche parlamentare, magari per nascondere reati in modo inaccettabile, ma hanno accettato questo rischio, perché sapevano che il rischio più grande e più pernicioso per la democrazia sarebbe stato quello di conferire alle procure della Repubblica il potere di condizionare la politica”. Di conseguenza, concluse l’ex pm, accogliendo ulteriori applausi dai presenti, “finché non ritorneremo al primato della politica, anche attraverso la reintroduzione dell’immunità parlamentare, state certi che la magistratura continuerà a intervenire”. Insomma, sul tema Nordio ha le idee molto chiare, in linea con la propria visione garantista e liberale della giustizia. Non a caso, ieri pomeriggio l’ex pm veneziano ha contro-replicato agli esponenti leghisti senza fare passi indietro: “Concordo pienamente che oggi la priorità sia la riforma della giustizia nella parte in cui impatta con l’economia e la sicurezza. Ma in prospettiva, con una maggioranza coesa e duratura, occorre ridare alla politica la sua centralità, affrancandola da iniziative imprudenti, e talvolta faziose, di una certa magistratura”. Sulla polemica Forza Italia tace, mentre ci si aspetterebbe che FdI difendesse la posizione del proprio candidato. “Rivedere la legge Severino”, ecco la riforma della giustizia che può diventare bipartisan di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 31 agosto 2022 Non trova pace l’abuso d’ufficio, il terrore della pubblica amministrazione, il reato “prezzemolo” che da anni ormai non si nega a nessun sindaco o assessore. L’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, ministro della Giustizia in pectore di un eventuale futuro governo di centrodestra, candidato al Parlamento con FdI, ha avanzato la proposta di abolire del tutto l’abuso d’ufficio per scongiurare il rischio dell’amministrazione “difensiva”, la cosiddetta paura della firma. Immediata la reazione dell’ex presidente Anm Eugenio Albamonte, pm a Roma ed esponente di punta delle toghe progressiste, secondo cui una simile riforma creerebbe una giustizia “forte con i deboli e debole con i forti”, di fatto un ritorno a “pre Mani pulite”. L’abolizione dell’abuso d’ufficio è da sempre uno dei cavalli di battaglia del centrodestra. Il leader della Lega Matteo Salvini non perde occasione per ricordare che tanti amministratori gli chiedono sempre il superamento del reato: “Ci sono 8mila sindaci bloccati che non firmano nulla per paura di essere inquisiti”, ha detto Salvini. A fagli eco è Forza Italia, con Pierantonio Zanettin, secondo il quale sarebbe auspicabile che “tutte le forze parlamentari’ mettessero mano all’abuso d’ufficio per una riforma condivisa”. Proposta inaccettabile per i grillini che pure hanno visto alcuni loro amministratori locali travolti dagli avvisi di garanzia per quella fattispecie. Va detto che non tutti i magistrati la pensano come Albamonte. Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, da presidente dell’Anac, si era sempre mostrato possibilista su una modifica, affermando che “la norma non funziona”. E di modifiche, l’abuso d’ufficio ne ha avute tante: la norma è cambiata nel 1990, nel 1997 e nel 2020. La modifica intervenuta due anni fa limita il reato alle sole regole che non implicano l’esercizio di un potere discrezionale, escludendo quindi che la violazione di una specifica ed espressa regola di condotta, se caratterizzata da margini di discrezionalità, possa integrare un abuso d’ufficio penalmente rilevante. Modifica che non ha però soddisfatto gli amministratori. Il presidente Anci Antonio De Caro (Pd) ricorda: “Non cerchiamo l’impunità, ma sono troppi i rischi penali e civili”. “L’Italia è un Paese che ha 200mila leggi, decine di migliaia di regolamenti di attuazione e di altre regole applicative delle leggi approvate. Ha un tasso di cambiamento vertiginoso che si aggiunge all’inflazione legislativa”, ha affermato il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca (Pd), più volte indagato per abuso d’ufficio. Lo “spauracchio” è determinato dalla famigerata legge Severino che consente di sospendere dall’incarico gli amministratori condannati anche solo in primo grado per reati contro la Pa. Senza considerare le conseguenze ‘ bbligatorie’ per il funzionario condannato, sempre solo in primo grado: decurtazione dello stipendio e trasferimento. Ebbene, interpellato dal Dubbio, anche il deputato dem Alfredo Bazoli, si dice favorevole ad una riflessione proprio sulla legge Severino, mentre considera l’ultima formulazione del reato come un buon compromesso. “Il referendum dello scorso giugno che voleva abrogare del tutto la Severino ha complicato la discussione fra i partiti. Il Pd è favorevole a una riscrittura di alcune parti della norma, differenziando meglio le responsabilità del ‘ politico’, sindaco o assessore, da quelle del dirigente”, osserva il deputato dem. Il dato di fatto è che, complice anche una giurisprudenza variabile a cadenza settimanale, per evitare di rimanere anni in balia della magistratura “l’autotutela” per il pubblico amministratore resta sempre quella del non fare nulla. A pagarne le conseguenze, però, non sono i magistrati ma i cittadini. “Riformare il Csm è la priorità, il referendum resta un faro” di Paolo Comi Il Riformista, 31 agosto 2022 “La legge Cartabia un pannicello caldo che non tocca le correnti. Per le toghe stesse responsabilità degli altri. Il nostro programma assolutamente garantista”. “Non è accettabile che la carriera di un magistrato non sia determinata dal merito, ma dall’iscrizione a una corrente. E non è pensabile che la magistratura agisca guidata dalle convinzioni politiche e non dal diritto”, afferma il senatore di Italia viva Francesco Bonifazi. Senatore, il ‘Palamaragate’ prima e poi gli impegni presi con Bruxelles per il Pnrr hanno rappresentato una occasione irripetibile per riformare la giustizia. È soddisfatto del risultato ottenuto o pensa si potesse fare di più? No non sono soddisfatto. La riforma Cartabia è l’unica riforma del governo Draghi su cui ci siamo astenuti. La cosa sorprendente è che in un qualunque Paese democratico che si rispetti, di fronte allo scandalo esploso a seguito del ‘Palamaragate’, ci sarebbe stata una reazione fortissima della politica per fare una vera riforma di sistema: invece è stato approvato un pannicello caldo. La riforma Cartabia ha avuto il solo grande merito di superare l’orrore giuridico della riforma Bonafede, senza però toccare le correnti all’interno del Csm. Cosa fare allora? In Aula noi di Italia viva abbiamo condotto una dura battaglia perché si arrivasse al sorteggio dei componenti del Csm: l’unica strada per disarticolare il sistema correntizio. La magistratura associata ritiene che i problemi di organici negli uffici giudiziari dipenda anche dalla decisione, presa all’epoca dal suo governo, di abbassare drasticamente da 75 a 70 l’età pensionabile delle toghe. Che risponde? La decisione del governo Renzi fu e resta sacrosanta. Non si risolvono i problemi di organico allungando l’età pensionabile, ma implementandolo con magistrati giovani e appassionati, magari anche limitando il numero spropositato di magistrati collocati fuori ruolo nei ministeri. Sembra che i problemi di organico scompaiano quando c’è da occupare un posto come capo di gabinetto. Fra l’altro, quella riforma parificava semplicemente l’età pensionabile dei magistrati ad altre categorie come i medici e i professori universitari. Ricordo bene le polemiche di allora, come ricordo quando aveva provato ad allungarla Bonafede per salvare il suo amico e ideologo Piercamillo Davigo. Anche pochi mesi fa ci fu un nuovo tentativo di innalzarla a 72 anni a cui ci siamo opposti con durezza. Le regole che riguardano i magistrati devono essere in linea con quelle delle altre categorie, così anche la loro responsabilità nell’esercizio delle loro funzioni. Il primo provvedimento che andrebbe approvato in tema di giustizia? Se devo sceglierne uno, è la riforma del Csm, ma il mio faro è il referendum sulla giustizia dello scorso giugno. Sette milioni di italiani, di cittadini, pur sapendo che il quorum non sarebbe stato raggiunto, hanno deciso di recarsi alle urne per esercitare il loro diritto: un numero enorme. Quei SI non possono restare inascoltati. Sono un grido di denuncia forte e consapevole che abbiamo il dovere di fare nostro. Il programma del Terzo Polo sulla giustizia è molto netto e orientato al più assoluto garantismo, che in Italia sembra una posizione radicale, ma non rappresenta altro che il rispetto dei principi costituzionali. Lei è un tributarista. Questo mese il Parlamento, anche con il voto di Iv, ha approvato la riforma della giustizia tributaria. Una riforma attesa che però contiene un enorme “conflitto d’interessi”, essendo il Mef, da cui dipendono i giudici tributari, anche parte nel processo con l’Agenzia delle entrate. Fd’I ha già fatto sapere che una volta al governo cambierà la legge... Guardi, lei tocca un tema a me caro conoscendo in prima persona i problemi del processo tributario, quindi la mia visione può differire da alcune decisioni prese. Detto ciò, la sua osservazione è fondata: dovremo prima o poi arrivare a far diventare il giudice tributario un giudice di serie A, il compromesso raggiunto non lo ha consentito. Gli accertamenti tributari hanno un risvolto molto penetrante nella vita delle persone che li subiscono quindi lo Stato deve offrire il massimo della terzierà e della professionalità. Osservo però che Fd’I ha introdotto una modifica estendendo il concorso per i giudici tributari ai laureati in economia, persone degne e preparate, ma non giudici né giuristi, contribuendo a marcare ancora una volta la distinzione tra giudice ordinario e giudice tributario. Inoltre prima o poi dovrà essere introdotto come mezzo di prova la testimonianza orale. Non posso non farle una domanda sul carcere. Siamo già a 57 suicidi dall’inizio dell’anno… Il carcere è tutto da riformare, anche a livello infrastrutturale. Non possiamo avere tutti questi suicidi. Il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio e soprattutto dovrebbe essere un ambiente di rieducazione, non disumano e degradante. Invece troppo spesso accade che si abusi della carcerazione preventiva anche per quei reati che non destano particolare allarme sociale e in casi in cui si potrebbero tranquillamente applicare misure non così profondamente restrittive della libertà personale, congestionando inutilmente le carceri. Attenzione poi al tema della mediaticità di alcuni arresti preventivi: si rovinano le vite delle persone per visibilità, trascurando - in alcuni casi situazioni dove davvero è in ballo la sicurezza delle persone. Il processo tra soave inquisizione processuale e mitezza sanzionatoria di Giorgio Spangher* Il Dubbio, 31 agosto 2022 Si può dire. Non è il processo che volevamo; che molti avrebbero voluto. Anche perché quasi sempre ci si dimentica, o si fa finta di dimenticare, che la riforma di cui stiamo parlando si innesta nell’impianto dell’AC 2435, cioè nella proposta di riforma voluta dal ministro Bonafede, ministro dell’epoca. Sicuramente modificato in alcuni aspetti nevralgici, come in materia di immediatezza per la modificata composizione del collegio giudicante (art. 190, comma 1 bis, appunto della proposta), ma significativamente superato e ora più garantito soprattutto rispetto alla criticatissima Sez. un. Bajrami, ma anche integrato nella l. n. 134 del 2021 dall’introduzione dell’art. 344 bis c. p. p., che non ha mancato di sollevare non poche perplessità (ancora di recente dagli stessi artefici della mediazione con l’art. 161 c. p. p. che ha previsto la interruzione della prescrizione con la sentenza di primo grado) che hanno prefigurato una iniziativa abrogatrice ne riserva più di un narratore. Non casualmente del resto i profili più avanzati elaborati dalla Commissione Lattanzi (archiviazione meritata e inappellabilità della sentenza di proscioglimento da parte del p. m., pur controbilanciata da motivi specifici per l’appello dell’imputato, solo per citare alcune proposte) non hanno avuto seguito. L’impianto della riforma, la sua filosofia, è sicuramente stata condizionata dalla necessità di rispettare i vincoli europei legati al Pnrr. Non è detto, tuttavia, da un lato, che l’obiettivo del decongestionamento del carico giudiziario dovesse essere perseguito con le modalità, cioè, con tutte le modalità contenute nello schema di legge delega. A volte si ha la netta sensazione che, complice il citato obiettivo e l’emergenza Covid, si sia voluto cogliere l’occasione per scelte non necessitate, ma piuttosto frutto di opzioni che sembrano trascendere quelle finalità e perpetuare una situazione ritenuta maggiormente funzionale a scelte precisamente orientate alla efficienza, trasformata in autentico modello ideologico. Quanto detto emerge con forza dall’accentuato riferimento e dalla precisa volontà di favorire il processo a distanza, nonché la cartolarizzazione di qualche fase e grado del processo, accompagnato da una forte spinta al rito camerale. Come anticipato, questa scelta, resa necessaria dalla emergenza pandemica, ha assunto una dimensione molto ampia, in ordine alla quale la scelta dell’imputato e della difesa, giustificata in ragione del contesto eccezionale, non ha più piena ragione d’essere. Si potrebbe obiettare che in molti casi sono scelte soggettive (ancorché immotivate) ma che tuttavia nella misura in cui incidono su diritti fondamentali dovrebbero in qualche modo - ma così non pare - interessare anche gli organi giudicanti, che sono ritenuti (spesso) indifferenti a queste scelte (nonostante i riferimenti a provvedimenti autorizzativi). Molti di noi hanno vissuto nella loro attività la partecipazione a distanza (spesso l’epidemia è stata un alibi comodo da utilizzare) ma tutti noi abbiamo sperimentato e stiamo sperimentando il profondo significato della presenza fisica e del contatto personale che va anche al di là di quel particolare atto o di quella speciale attività. Non vanno trascurati i riferimenti convenzionali alla pubblicità e alla necessità di assicurare la possibilità - nei casi previsti dalla legge - della presenza e del controllo del pubblico sullo svolgimento del processo, probabilmente non disponibile dalle parti processuali (sintomatica la norma, velata di ipocrisia, del giudizio abbreviato per superare eventuali profili di incostituzionalità). Un secondo profilo significativo è quello che richiamando una frase di Tullio Padovani può essere definito il processo come un processo connotato da una vena di soave inquisizione. Non è azzardato affermare che una lettura attenta dei meccanismi processuali della riforma ci consegna un retrogusto - di sapore antico - non tanto marginalmente impostato nei termini appena riferiti. Invero, non può negarsi l’intento del legislatore di edulcorare i profili sanzionatori peraltro, giustamente prevedendo l’effettività della pena pecuniaria (i cui “tassi giornalieri” possono risultare, a discrezione del giudice, anche molto elevati) - considerata la ritenuta impossibilità di scelte più incisive - con ricadute positive sull’attuale sistema carcerocentrico. Tuttavia, la soluzione individuata consegna al giudice un accentuato potere discrezionale accompagnato dalla propensione alla “definitività” delle decisioni di condanna, favorite dai limiti alle impugnazioni (la cui rinuncia viene premiata con sconti significativi di pena, che in alcuni casi si inseriscono in esiti già premiali sotto il profilo sanzionatorio) nonché con percorsi essi pure premiali connessi all’adesione dell’imputato alla prospettazione accusatoria. L’abbinamento di attenuati strumenti punitivi e di premialità processuali, che si ripercuotono sugli sviluppi esecutivi, accentuati dalle previsioni degli esiti decisori incardinati sui poteri di indagine della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, i costi individuali sia economici sia sociali, i vari ostacoli probatori e non solo sulla strada di un accertamento di estraneità al reato o di ridimensionamento della colpevolezza, non sono estranei ad un sistema che non solo favorisce, ed induce in modo più o meno soft, in modo più o meno accentuato, a percorre la strada delle exit- strategies, con pregiudizio del pieno accertamento dei fatti, pur non mancando mai la possibile applicazione da parte del giudice dell’art. 129 c. p. p. (declaratoria immediata di proscioglimento). Si ha la sensazione - quasi di impronta americana - di un processo spezzato in due; un sistema bifasico che complice anche la modifica alla prescrizione (spesso irraggiungibile) finisce con la sentenza di primo grado, ed un processo che non senza difficoltà e limiti per l’imputato si sviluppa nella fase delle impugnazioni, guardate con diffidenza, condizionate nei presupposti della legittimazione soggettiva e oggettiva nonché da adempimenti formali e sostanziali, con la inquietante prospettiva della declaratoria di inammissibilità, i cui confini già specificatamente ampliati dalla riforma, con un ulteriore estensione rispetto alle Sezioni Unite Galtelli, potranno a medio termine subire interpretazioni (manifesta infondatezza) ulteriormente dilatate, complice i richiesti riferimenti di diritto a supporto di “ogni richiesta” (anche su un motivo inammissibile non rende inammissibile tutto l’atto di gravame). Nella conservata struttura procedimentale (seppur con le considerazioni svolte) e con la novità di una udienza predibattimentale del rito monocratico, significativamente arricchito di competenza (anticipazione di una spinta al giudice singolo, che si era ipotizzato anche per il secondo grado), la riforma sembrerebbe delineare le figure soggettive (protagonisti e comprimari) in termini maggiormente funzionali ad un approccio “partecipato”, consapevole e professionale, alla “nuova” visione del processo penale. L’ipotizzata scelta valoriale. Il condizionale è d’obbligo. Si vedrà. Il dato è inevitabile in quanto il processo penale vive di equilibri instabili dovendo sempre comporre le esigenze generali connesse ai contesti criminali con le istanze individuali di tutela. Non è azzardato, quindi, sostenere che la riforma Cartabia costituisca uno step di cui, tuttavia, già si sono delineate alcune linee di evoluzione. Un discorso a parte, sicuramente collocato in questa dimensione, meriterebbe l’introduzione nel nostro sistema di giustizia penale della giustizia riparativa già reso incandescente dalla contrapposizione di letture tra Mazza, Passione e Zilletti. Non mancherà l’occasione per qualche meditata riflessione sul controverso profilo dell’art. 129 bis previsto dalla riforma, soprattutto in relazione ai poteri officiosi del giudice. *Emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma Udienze: invece del rinvio aboliamo la preliminare di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2022 Il 12 agosto il presidente del Tribunale di Roma ha sospeso per sei mesi, a partire dal 15 ottobre, le udienze collegiali relative ai procedimenti per omicidio, criminalità organizzata, rapine, estorsioni aggravate ed altri reati, motivando tale provvedimento con la scopertura del 14,5% dell’organico dei magistrati in servizio. Il provvedimento che non ha precedenti, è stato definito, dall’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, “singolare” e ha suscitato vivaci proteste da parte dell’Avvocatura che ha annunciato ricorso per chiederne le revoca. Certo è che il provvedimento - in attesa che su di esso si pronuncino il Consiglio giudiziario e il Csm - suscita non poche perplessità circa la sua ammissibilità, atteso che i casi di sospensione del procedimento penale previsti dal codice - (art. 3: “questioni pregiudiziali”; art. 41: “ricusazione”; art. 47: “rimessione”; art. 71: “incapacità dell’imputato”; art. 344: “autorizzazione a procedere”) - sono tassativi. In ogni caso, il decreto in questione ha nuovamente messo in risalto la drammatica, perdurante situazione in cui versano i tribunali italiani e che dimostra la inutilità delle “mini riforme” - (ivi compresa la recente “riforma Cartabia”, quasi tutte ispirate da magistrati ritenuti, non si sa bene perché, veri e propri “Soloni” del diritto) - che non hanno inciso in maniera strutturale su quel “mostro” giuridico costituito da un processo penale lento, macchinoso, creato dal pessimo legislatore del 1988, causa prima, indiscutibile del cattivo funzionamento della giustizia e degli incredibili, inaccettabili ritardi nella definizione dei processi. Senza voler procedere - (come è auspicabile, ma non avverrà mai) - allo stravolgimento completo di quel perverso sistema processuale, un intervento strutturale, idoneo a rendere più celeri i processi, poteva e doveva essere quello di eliminare l’udienza preliminare e, cioè, quella udienza c. d. “filtro” che si è dimostrata del tutto inutile e che, soprattutto nei processi complessi, allontana non di poco la data di inizio del dibattimento. L’udienza preliminare è, infatti, la vera “strozzatura” del processo che si pone tra la chiusura delle indagini e l’inizio del giudizio. Essa è, da un lato, inutile perché l’80% delle richieste del pm viene accolto mentre il residuo 20%, costituito da sentenze di non luogo a procedere, viene di regola annullato dalla Cassazione, e, dall’altro, dannosa sia perché avviene a distanza di anni dall’inizio delle indagini sia perché ritarda, anche di anni, l’inizio del dibattimento, così favorendo il maturarsi della prescrizione che, in quindici anni, ha portato alla estinzione di due milioni di processi, così come favorirà il verificarsi della gattopardesca “improcedibilità del processo” (!!) prevista dalla pseudo riforma Cartabia. Sarebbe stato, altresì, necessario modificare, con la massima urgenza, l’art. 194 dell’ord. giud. elevando ad almeno 5 anni la permanenza minima dei magistrati nello stesso ufficio giudiziario, (attualmente di tre, riconfermati anche dalla “pseudo riforma Cartabia”), in maniera da procrastinare i continui trasferimenti, soprattutto dei magistrati di prima nomina che aspirano a ritornare nelle regioni di provenienza o ad essere trasferiti in uffici giudiziari più importanti, trasferimenti che hanno un effetto devastante sulla durata di definizione dei processi penali perché essi comportano una serie continua di rinvii dei processi per il “congelamento” dei ruoli di udienza del magistrato trasferito, e, quasi sempre, tardivamente sostituito dal Csm a distanza di mesi, se non di anni. Sul punto, sarebbe utile conoscere l’opinione del Csm e della Anm e sarebbe interessante verificare la percentuale di incidenza dei rinvii dei processi determinati dal trasferimento dei magistrati giudicanti (verifica che darebbe, sicuramente, esiti davvero sorprendenti). In questo totale disastro della giustizia, non sarebbe inopportuna una nota di trasparenza: l’emanazione di una norma che renda possibile ai cittadini, tramite una opportuna piattaforma accessibile a tutti, conoscere il lavoro svolto nel tempo (un mese, un anno, ecc.) da ciascun magistrato e, quindi, il numero dei provvedimenti adottati (sentenze, ordinanze, decreti, numero delle udienze, ecc.) e i tempi impiegati per adottarli. Sarebbe in tal modo possibile accertare se talune critiche sulla laboriosità dei magistrati e sui tempi di emanazione dei provvedimenti siano o meno fondate. Politica dominata dalla pubblica accusa, giudici assenti: sono i pm Antimafia le vere star di Gennaro De Falco Il Riformista, 31 agosto 2022 Da un’analisi anche superficiale dei contrassegni presentati al Ministero degli Interni per le elezioni politiche del 2022 balza all’occhio un dato che io ritengo assolutamente impressionante e sintomatico dello squilibrio dei poteri e nei poteri dello Stato determinatosi in Italia dagli anni ‘90 in poi. Ebbene, tra i simboli presentati ben due sono direttamente riferibili a Luigi de Magistris, ex pm di Catanzaro e già sindaco di Napoli, vale a dire Unione Popolare con de Magistris e Unione Popolare, insomma un ex pm per ben due liste. Gli fa concorrenza un altro ex pm, Antonio Ingroia, con Azione Civile, anch’egli su posizioni di sinistra radicale, mentre a destra, almeno secondo quanto da lui dichiarato, ha tentato di collocarsi il celeberrimo ex pm Palamara con la sua lista Oltre il Sistema che però non è stata ammessa. Oltre ai partiti per così dire personali, spicca certamente la candidatura nei 5 Stelle dell’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho che segue in politica i suoi predecessori nella carica di procuratore nazionale antimafia. Non partecipa alla gara Catello Maresca, ex sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli, sfortunato concorrente con una lista personale appoggiata dal centrodestra alla carica di sindaco della città partenopea nelle ultime elezioni amministrative che ha spiegato le ragioni della sua mancata partecipazione alla competizione con una lettera diffusa in rete in cui afferma di non essersi candidato nonostante le sollecitazioni degli aderenti alla sua associazione. Insomma, in queste elezioni non abbiamo il partito dei magistrati ma addirittura una serie di partiti ma dei pm. Orbene, la prima circostanza che balza agli occhi è che si tratta sempre di pubblici ministeri in ogni possibile articolazione della loro carriera e che non vi sono appartenenti alla magistratura giudicante che appare in netto svantaggio, ed inoltre, con l’eccezione di Luca Palamara che ha una storia del tutto particolare, sono tutti schierati a sinistra e sono tutti di origine meridionale. Inoltre, bene o male, per specificità degli incarichi ricoperti e per provenienza territoriale, si tratta di pm provenienti dall’Antimafia, e questo significa due cose: la prima è che non è affatto vero che al Sud la mafia controlla la politica e la seconda è che il ceto politico non viene ritenuto idoneo ad arginare il fenomeno criminale che, comunque, almeno in termini “organizzati”, attualmente è molto meno incisivo di quanto si dice o si vorrebbe far credere, almeno in ambito politico. Detto ciò, è evidente che quello politico è un “mercato” e come tale soggiace alle sue regole in cui, come in tutti i “mercati”, conta la pubblicità e la “spendibilità” del prodotto”. In questo i pubblici ministeri sono assolutamente soverchianti anche rispetto ai loro stessi colleghi giudicanti, per non dire rispetto agli avvocati che sono per lo più ridotti al ruolo di mere onnipresenti comparse. Come può parlarsi di principio di parità delle parti del processo fra loro se l’accusa gode di tanto potere su tutto e tutti? Anche per poter solo pensare di organizzare una lista o per essere candidati da un partito occorre un seguito e dei mezzi, in altri termini occorre potere che si trasforma in consenso elettorale. Tutto ciò può sembrare ovvio ma spesso sono proprio le cose ovvie che sfuggono, e allora occorre chiedersi quale sia la fonte di questo potere che risale ad Antonio di Pietro, anche lui ex pm ed alla sua Italia del Valori. In questa sede io non intendo assolutamente contestare il diritto dei pm persone fisiche ad essere presenti in politica ma soltanto analizzare le ragioni della loro oggettiva appetibilità che a me pare evidentissima, cui si è sommata la geniale intuizione di Gianroberto Casaleggio che fu prima al fianco di Antonio di Pietro e che poi, conservandone ampiamente i contenuti insieme a Beppe Grillo, si è per così dire “messo in proprio” ponendo le basi del Movimento Cinque Stelle. Insomma, anche la politica in Italia è dominata dalla pubblica accusa e, negli ultimi anni, il suo strumento è stata assai spesso la “rete”. Ma quali sono le ragioni della popolarità e, quindi, del potere dei pubblici ministeri? Io credo che la risposta a questo interrogativo sia molteplice. Penso che le masse siano cronicamente affette da una sorta di isteria neo-giacobina e che, per questa ragione, siano sempre alla ricerca di un angelo vendicatore che le difenda da ogni male supposto, reale o anche solo temuto, angelo vendicatore che nell’Italia di oggi ha finito con identificarsi con la pubblica accusa e non, come pure sarebbe naturale, o almeno come accadeva dai tempi della rivoluzione francese nell’avvocatura in cui gli ex pm saltano continuamente a piè pari. È come se nell’Italia degli ultimi decenni si fosse imposto un inedito modello politico di stampo neo-Trotzkista che definirei di rivoluzione giudiziaria permanente, il cui inaspettato strumento è stato il codice di procedura penale del 1989. Il Codice Vassalli, secondo la mia convinzione, con gli amplissimi poteri attribuiti alle Procure, è stato all’origine del radicale mutamento che ha destabilizzato la società sia tra i poteri dello stato che al loro stesso interno. Basta vedere cosa accade quotidianamente nelle aule di giustizia dove i giudici attendono quietamente l’arrivo degli impegnatissimi pm per iniziare i processi e, per lo più, non considerano minimamente anche la sola presenza degli avvocati, difensori degli imputati o delle parti civili non rileva. Nel codice di procedura penale del 1989, inspiegabilmente tuttora adorato dall’avvocatura, la polizia giudiziaria, quindi il potere amministrativo diretta promanazione di quello politico, è stato messo sotto la direzione del pm, poi si è sommato un rito processuale assolutamente insostenibile per le difese per la sua farraginosità e per la scarsità di mezzi disponibili ed un’evidente rapporto preferenziale tra informazione e Procure. Tutti questi fattori sommati tra loro, unitamente a clamorosi fatti di cronaca che hanno colpito il nostro Paese, hanno determinato la forza e quindi il consenso raccolto dai pm. Insomma, è il “sistema” che ha generato questo stato di cose e non i singoli attori che vi compaiono. In ogni caso un fatto è certo, piaccia o non piaccia, le cose stanno in questo modo e certamente il ceto politico non sembra, almeno per ora, possedere la forza, il coraggio ed i mezzi anche culturali per riequilibrarlo. “Sì, strumentalizzo mio fratello Stefano: voglio difendere gli ultimi” di Simona Musco Il Dubbio, 31 agosto 2022 “È vero, può scriverlo: io strumentalizzo mio fratello. L’ho fatto per 13 anni e continuerò a farlo, perché Stefano è diventato un simbolo e tramite lui riusciamo a dare voce a tutti gli altri ultimi. Altrimenti non saremmo arrivati fin qui”. Ilaria Cucchi, sorella del giovane geometra romano arrestato per droga nell’ottobre 2009 e pestato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana, non ha paura delle accuse, non ha paura più nemmeno degli insulti, tanti, violenti, il più delle volte sessisti. “Un medico è addirittura arrivato a dire che mia madre ha partorito la gallina dalle uova d’oro, evocando la favola di Esopo. Sono parole che fanno male. Ma abbiamo le spalle larghe”, racconta al Dubbio, mentre spiega la sua scelta di candidarsi al Senato per l’Alleanza Sinistra Italiana-Verdi. Una battaglia per i diritti, tema sparito dalla campagna elettorale, e “che faremo tra la gente che ha combattuto con noi per Stefano”. Una battaglia contro “gli spot elettorali sulla giustizia” e per raccontare la “discarica sociale” in cui la politica ha trasformato il carcere. Cosa ne pensa del dibattito sulla giustizia in questa campagna elettorale? Che se ne parli poco. E mi chiedo se chi lo fa abbia mai dovuto affrontare un processo lungo 13 anni, così come ho dovuto fare io, che la giustizia l’ho vissuta sulla mia pelle. Lo scenario è abbastanza avvilente: assisto a questi talk show che sono diventati dei teatrini, in cui si parla di tutto e del contrario di tutto, ma non della cosa fondamentale, diritti e giustizia. A parlare è prevalentemente Giorgia Meloni, ma che soluzione ha trovato? Sono solo chiacchiere e slogan irrealizzabili. È chiaro che si tratta di spot, perché l’Italia non può rinunciare all’Europa. Le proposte in materia di giustizia e carcere vanno contro la Carta europea dei diritti fondamentali. Vuol dire o farci sanzionare o farci buttare fuori dall’Europa. Non si può rimanere quando c’è da prendere i soldi ed essere “fuori” quando si tratta di diritti. Lei ha invitato i candidati a passare una settimana in cella per capire come funzionino le carceri, un tema che non è stato affrontato in alcun modo, nonostante i dati raccontino di un’emergenza senza fine, tra suicidi e violenze... È un problema enorme, che non possiamo continuare ad ignorare, ma nessuno ne parla. Anzi, la proposta in campo è di rendere le carceri ancor più dei ghetti, lontane dalla società. Si pensa di risolvere il problema rimandando gli immigrati a casa loro, ma questa non è una soluzione, è populismo. Siamo in un momento in cui piace far leva sulla paura della gente, ci piace parlare di sicurezza, ma si tratta di soluzioni pseudo securitarie. Quando si parla di depenalizzazione dei reati minori si parla alla pancia della gente, senza evidenziare che le sanzioni amministrative consentirebbero tempi più brevi e salverebbero la giustizia da quella burocrazia interminabile che toglie spazio a ciò che conta. Come racconterà le carceri ai suoi elettori? Come luoghi che, per come sono concepiti oggi, non possono far altro che creare ulteriori reati. Il problema non riguarda solo i detenuti, che vivono in condizioni disumane, ma anche tutti coloro che lavorano quotidianamente in una realtà che è brutale. Sono una vera e propria discarica sociale, dove le persone vengono semplicemente gettate via. Si parla di sovraffollamento, ma non si dice che la stragrande maggioranza dei detenuti ha commesso reati bagatellari e potrebbe stare a casa, mentre chi ha potere, molto spesso, sta tranquillamente a casa propria. Com’è cambiata la sua idea di giustizia dopo il caso di suo fratello? Appartenevo allo stereotipo di cittadino medio, benpensante, di famiglia medio-borghese, cattolica. Per questo comprendo benissimo il meccanismo che scatta nella gente di fronte a questi slogan: c’è bisogno di sentirsi rassicurati e si ascolta chi lo fa. La vita, poi, mi ha voluto dare questa lezione e da allora sono cambiata e ho capito qual è la realtà della giustizia. E qual è? Non è vero che è uguale per tutti, ma solo per chi se la può permettere. La giustizia spesso obbliga un cittadino comune, quale ero io, di farsi carico di un peso che non gli appartiene, ovvero sostituire lo Stato nelle aule di giustizia e anche fuori. In più ci si scontra anche con l’indifferenza e l’ipocrisia, che scarica sulle vittime anche la responsabilità della propria morte, come accaduto con mio fratello. Meloni, con tutto il rispetto, parla dall’alto della sua posizione, ma sicuramente, e sono contenta per lei, un processo non l’ha mai affrontato. Io posso dire benissimo quali sono i problemi dei processi, dopo 160 udienze e 16 gradi di giudizio, dei quali avrei volentieri fatto a meno. E questo mi porta a dire che il primo problema è il controllo effettivo delle indagine. Che giustizia immagina? Una giustizia che vada nella direzione dei diritti. Bisogna dare l’opportunità alla persona offesa, così come all’indagato, di avere un ruolo attivo, di poter vigilare sulle indagini. Vogliamo dare la possibilità ai gip di controllare meglio lo sviluppo delle indagini e l’operato degli accusatori, evitando quelle patologie che causano la lunghezza dei procedimenti. Indagini più controllate, garantite e funzionali sono la premessa necessaria di ogni possibile riforma seria della giustizia. Vogliamo maggiore autonomia per i sostituti procuratori nei confronti dei capi degli Uffici, perché, troppo spesso, gli scandali recenti ne hanno messo in evidenza la nomina come condizionata da poteri esterni alla vera funzione giudiziaria e contigui alla politica. E soprattutto vogliamo fare in modo che l’istituto del gratuito patrocinio sia molto più efficace nel garantire il diritto di difesa per coloro che non hanno disponibilità economiche, per gli ultimi. I temi centrali, in questa campagna elettorale, sono però altri, soprattutto di tipo economico. Lei cosa propone? I problemi nascono dalla negazione dei diritti, che devono essere garantiti e uguali per tutti. Lo Stato deve garantire a tutti, per esempio, la possibilità di sopravvivere, un lavoro o, se non può farlo, un reddito di cittadinanza. La sanità, poi, è di fatto privatizzata, così come la giustizia. La famiglia Cucchi si è potuta permettere 13 anni di processi perché aveva una casa da ipotecare, diversamente Stefano Cucchi sarebbe morto di suo, così come era stato deciso nelle indagini iniziali. Questi sono i veri problemi. Io sono un cittadino normale che si trova catapultata in questo mondo, dopo aver fatto politica sul campo tra la gente per anni. Non servono più le chiacchiere, non si possono usare le paure delle persone. Io ho paura di poter essere un giorno in mano a questa gente. Questa non è politica, ma cabaret. Ed è per questo che ci batteremo per portare la nostra voce. Sicilia. Carceri siciliane: “Strutture inadeguate e carenza di personale” di Roberto Greco glistatigenerali.com, 31 agosto 2022 Lo afferma Donatella Corleo, attivista del Partito Radicale che, nel mese di agosto, ha visitato le principali strutture carcerarie dell’isola. Cinquantotto. È il numero, al momento in cui scriviamo, dei suicidi avvenuti tra le mura di un istituto penitenziario. È più che mai evidente che si tratti di problema serio, anzi drammatico, ma in campagna elettorale non ne parla nessuno. Questa scansione numerica crescente mi fa tornare alla memoria un’altra drammatica scansione numerica crescente, quel count-up che registrò nel 1982 il quotidiano “L’Ora” quando mise giornalmente in prima pagina un numero che alla Palermo di allora, seppur reale, sembrava quasi un semplice e banale fatto cronaca. In quel 1982 il numero di morti ammazzati dalla mafia cresceva giorno dopo giorno per arrivare a 79 il 4 agosto, 93 l’11 agosto e a 100 il 26 agosto. La risposta dello Stato, dapprima inerme di fronte a tale mattanza, non tardò ad arrivare ma, per tornare ai suicidi in carcere, in questo caso continua a essere blanda e a confermare, indirettamente, che la popolazione carceraria continua ad essere privata dei basilari diritti e che, in fin dei conti, la maggior parte dei cittadini è avulsa al rispetto dei diritti civili subordinandolo ad uno schema bigotto e borghese che non dovrebbe più appartenere alla società attuale. In fin dei conti ha commesso un reato e deve espiare la pena, sembra il retro pensiero dilagante senza ricordare, spesso in maniera strumentale, che la popolazione carceraria, al di là dei reati per i quali sta scontando la pena, non può essere privata dei propri diritti civili e costituzionali che sembrano essere relegati al di fuori della struttura. “Se con la riforma della Sanità in carcere, il tema del disagio mentale è rimandato ai presidi sanitari e ai colleghi dell’azienda, la complessità del suicidio rende necessario un lavoro di staff che male si fa con chi è presente poco in termini di ore e di visibilità. Inoltre, per provare a incidere sulle molteplici cause di fatti così gravi è necessario a nostro avviso saper leggere il contesto per agire anche con e sull’organizzazione” ha scritto David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, in una lettera inviata al capo dipartimento del Dap, Carlo Renoldi, per offrire il contributo della professione che rappresenta, a meno di due settimane dalla nuova circolare del Dap sulla prevenzione dei suicidi in carcere. Ma qual è la situazione all’interno delle strutture carcerarie? Al di là dei report statistici ufficiali, le uniche voci imparziali sono quelle di chi, da sempre, ha fatto di questo dramma dimenticato dai molti un impegno morale e civile. Associazioni come “Nessuno tocchi Caino”, “Antigone” e altre oltre al Partito Radicale, costantemente visitano le strutture mettendo in evidenza sia le esperienze positive sia i loro limiti oggettivi. Nello specifico, il Partito Radicale, durante il mese di agosto, ha visitato molte strutture carcerarie in tutta Italia. In Sicilia, nello specifico, sono state visitate le strutture di Palermo, Ucciardone e Pagliarelli, di Termini Imerese, Catania, Trapani, Castelvetrano e Siracusa. Ne abbiamo parlato con Donatella Corleo, attivista del Partito Radicale che ha partecipato a queste visite che avevano, come tema, “No alla custodia cautelare che genera sovraffollamento e fuori i malati psichiatrici”. In estrema sintesi, qual è la situazione delle strutture dell’isola? “Strutture inadeguate e carenza di personale”. Qual è il vostro giudizio complessivo rispetto agli anni precedenti? “La situazione delle carceri siciliane è nota da anni. Nel tempo, la parlamentare Rita Bernardini ha presentato fiumi d’interrogazioni parlamentari su tutti gli istituti siciliani che non hanno mai avuto risposta. Rispetto allo scorso anno, possiamo dire che è come se fosse avvenuta una regressione. È evidente che il Covid ha generato disagi ma l’inadeguatezza delle strutture e, come dicevo prima, la carenza di personale ha abbassato ulteriormente la vivibilità. Pensiamo semplicemente al grande caldo, tipico dei mesi estivi in Sicilia e ci rendiamo conto che poche “stanze”, come oggi si definiscono le celle, sono munite di ventilatori “stanze” nelle quali non c’è quasi mai un telefono a disposizione. Non c’è nessuna pretesa che ci siano i confort tipici degli hotel a cinque stelle, ma ci troviamo di fronte a livelli di vivibilità che non sono degni nemmeno di una stamberga senza alcuna stella. Altro esempio è quello relativo allo spazio a disposizione degli ospiti nelle “stanze”. Spesso si tratta di “spazio lordo”, ossia di uno spazio calcolato senza tenere conto che letti, armadietti e quant’altro limitano molto la c.d. superficie calpestabile e, invece, bisognerebbe lavorare su questo valore e non sulla superficie dell’ambiente vuoto”. Parlavi prima della carenza di personale. Qual è la situazione? “In quasi tutti gli istituti c’è carenza di personale ma devo sottolineare che quelli presenti lavorano con competenze, professionalità e, dato non trascurabile, umanità. A Catania, per esempio, la Polizia Penitenziaria è sotto organico del 35%. È inevitabile che, nonostante la loro straordinarietà, i pochi educatori non riescono a seguire tutti i casi. Mancano dappertutto gli psichiatri, nonostante si sia in presenza di casi conclamati e individuazioni di situazioni border-line. Spesso il servizio è definito H24 ma, in realtà i detenuti devono essere accompagnati fuori dalla struttura, con costi ulteriori e, soprattutto, senza un supporto costante. Anche per il controllo sanitario più generico assistiamo sì alla presenza di un servizio di pronto soccorso ma, in realtà, il medico non è presente in maniera costante. Spesso, però, il personale penitenziario non è preparato ad affrontare il disagio psicologico o addirittura psichiatrico nonostante molti della “nuova generazione” siano laureati. Inoltre dobbiamo fare i conti che alcune strutture che ospitano i detenuti sono edifici storici, protetti dalla Sovraintendenza e quindi non modificabili strutturalmente. Ma, se il sistema organizzativo non funziona ed è lacunoso, le carceri dimostrano la loro inutilità, non riuscendo a soddisfare il loro compito principale che è quello di restituire alla società persone nuove, migliori quindi reinseribili”. Caso critico? “Il carcere di Trapani perché, come dissi già diversi anni fa, dovrebbe essere rottamato. Nonostante il personale straordinario si tratta di un istituto in cui mancano i servizi essenziali, mancano le docce, senza bagni nelle “stanze”, con topi e blatte presenti nonostante la derattizzazione”. Eccezioni? “Un fiore all’occhiello, per così dire, è rappresentato dalla sezione femminile del Lanza, l’istituto catanese. Una sezione curata, ben gestita e mantenuta sia dal personale sia dalle ospiti, spesso madri di famiglia ed è evidente che sentono la necessità di stare con i loro figli, cosa che non possono fare con la regolarità che vorrebbero”. Siamo oramai a quota cinquantotto… “Partiamo dicendo che il drammatico dato che riguarda i suicidi nelle strutture italiane ci racconta che il tasso suicidario è maggiore in carcere rispetto all’esterno ed è superiore a tutte le carceri europee che generalmente non sono meglio di quelle italiane. Le carenze prima evidenziate, ovviamente, contribuiscono a non poter supportare non solo quanti già soffrono di patologie psicologiche o psichiatrica ma quanti, nel tempo e a seguito della loro crescente fragilità, avrebbero bisogno di supporto adeguato che non c’è”. In conclusione? “Non c’è attenzione né da parte della politica né da parte dei cittadini verso i detenuti, che sono “ultimi” e questo dimostra che questo paese non ha mai voluto effettivamente, in maniera completa e organica, la riforma del sistema giustizia che riguarda anche l’ordinamento penitenziario. Poche leggi, alcune buone, che in realtà non sono applicate all’interno delle carceri. Non è solo un problema di diritti umani fondamentali all’interno delle carceri, sicuramente prioritario, ma è anche un problema economico, cito ad esempio la mancanza di misure alternative e la custodia cautelare”. Roma. Aprire il carcere per le mamme e i figli. E l’asilo senza sbarre al quartiere di Paola Severini Melograni* Avvenire, 31 agosto 2022 Rebibbia e non solo: appello alla ministra Cartabia e, un po’, anche all’assessora romana Funari. Gentile ministra Cartabia, vorremmo ringraziarla dell’enorme impegno che lei ha dimostrato nello svolgere l’altissimo incarico che la vita e che il nostro Paese le hanno proposto. Ci siamo resi conto che le sue ferme convinzioni cristiane hanno segnato anche il suo attuale impegno al Ministero della Giustizia ed è proprio per questo che le scriviamo, affidando le nostre parole al direttore di ‘Avvenire’, giornale attentissimo come noi al ‘pianeta carceri’, certi che il nostro appello non cadrà nel vuoto. Mai come quest’anno si sono verificati una serie di suicidi negli Istituti di pena: siamo arrivati a 57. Un numero spaventoso! È ancor più terribile rendersi conto che si tratta di giovanissimi uomini e giovanissime donne, che hanno preso questa decisione perché avevano perso ogni speranza. Lei, come noi, sa bene che la maggior parte dei reati che prevedono il carcere riguardano spaccio, furto e non omicidi o reati gravi. Morire per questo è ancora più folle. Inoltre lei sa bene che il 14 giugno è stata varata alla Camera la riforma del Codice Penale sui bambini figli di detenute, dando via libera alla proposta di legge di Paolo Siani, che riconosceva e normava il divieto assoluto della custodia cautelare in carcere, in tutte le realtà della maternità, anche per le donne gravide. Sono ancora 27 i bambini ristretti nelle carceri italiane, 27 bambini che invece potrebbero vivere la loro primissima infanzia in comunità, insieme alle loro mamme. Sono più innocenti degli innocenti ed è tra l’altro una follia amministrativa tenere attive delle realtà di contenzione che potrebbero essere utilizzate altrimenti per il Bene comune. Dove vogliamo arrivare? La nostra proposta, cara ministra Cartabia, è quella di utilizzare al meglio il bellissimo asilo nido della sezione femminile del più grande carcere della capitale, con un magnifico giardino, con spazi e giochi, togliendo le sbarre, e mettendolo a disposizione anche del quartiere di Rebibbia. Il 15 agosto siamo andati, insieme a Rita Bernardini, ad alcuni militanti radicali e a tanti volontari, a visitare la sezione femminile di Rebibbia e con l’occasione abbiamo anche visitato l’asilo, l’asilo nido e il settore dove le mamme vivono: ebbene, c’era una sola bambina di 18 mesi. Non ha alcun senso tenere una struttura che potrebbe essere utile per la collettività in quelle condizioni. Questa nostra lettera è indirizzata a lei, ma vorremo che fosse letta anche da Barbara Funari, assessora alle Politiche Sociali e alla Salute del Comune di Roma, a sua volta sensibilissima a queste tematiche, per far sì che questo spazio venga restituito alla collettività. Crediamo che il luogo sia assolutamente disponibile almeno per 50 bambini e questo vorrebbe dire fare qualcosa di straordinariamente buono per il quartiere di Rebibbia, dando nel contempo un segnale importante da un punto di vista sociale. Ultima ma non da ultima, la richiesta che le facciamo sulla campagna che è stata lanciata da don Davide Riboldi (da non confondere con don Gino, anche lui straordinario cappellano nelle carceri), che ha raccontato come all’estero la possibilità dei detenuti di telefonare sia molto maggiore che da noi, e questo è qualcosa di importantissimo perché “una telefonata ti allunga la vita”, come diceva una celebre pubblicità. Ne parliamo in Angelipress dove raccontiamo come soprattutto i detenuti non italiani non possono telefonare perché si richiede dall’altra parte un contratto di acquisto di un apparecchio cellulare o di schede, e in posti come il Senegal o la Guinea è praticamente impossibile che questo accada; dobbiamo allora trovare una soluzione anche in questo senso, mentre per coloro che hanno questa possibilità sarebbe importante ampliare da dieci minuti a mezz’ora alla settimana il tempo per le telefonate. Cara ministra Cartabia, questo i direttori delle carceri lo possono fare. Basterebbe una circolare che li inviti a farlo e li conforti nelle intenzioni positive, facendo capire loro che sono condivise ai massimi livelli. La ringraziamo per averci ascoltate e ascoltati e le confermiamo, per averlo sperimentato di nuovo, che la sesta opera di misericordia corporale, “visitare i carcerati “, è forse la più importante. *Direttrice di Angelipress.com Bologna. Dalla Dozza alla rinascita: Chiusi fuori, l’associazione degli ex detenuti di Caterina Cavina Corriere di Bologna, 31 agosto 2022 Tra le attività la pulizia delle strade e gli incontri in zona universitaria. Dal 3 settembre la sua rassegna con gli autori. Marcelli: “Rapinavo banche, bene o male sono stato “riparato”. “Voglio morì con gli occhi aperti”, dice Gianfranco Marcelli meglio noto nelle carceri italiane come “Ribelli”, il presidente dell’associazione bolognese Chiusi fuori. In questa frase c’è la sua storia, quella di uno che vuole essere sempre consapevole dei propri diritti e di quelli degli altri, perché può aver sbagliato, sì, può aver rapinato “un paio di banche”, ma lui i diritti ce li ha e gli altri (ex) carcerati pure. Quindi, uscito dalla Dozza di Bologna, Marcelli ha fondato un’associazione che prova ad aiutare quelli come lui, quelli che appena varcano l’uscita del carcere si trovano “Chiusi fuori”. La genesi dell’associazione - “Eravamo all’aria io e Stefano Stefani (il tesoriere di Chiusi Fuori,ndr) e ci siamo detti: qua ce so’ un sacco d’ignoranti che non conoscono le legge e non sanno manco come difendersi, bisogna far qualcosa. Anche per quando escono perché questi se ritrovano peggio che al gabbio”. Romano vero, fisico segalino e capello canuto, sguardo azzurro ghiaccio, spiega con vigore come è nata l’idea dell’associazione: “Il carcere ti fa da mamma e da papà. In galera hai tutto: vitto, alloggio e qualunque problema te lo risolve la guardia. Ti fa male un dente? La guardia chiama il dentista; vuoi fumare? Pure le sigarette ti porta. Poi esci e magari nessuno ti ha aspettato, perché la gente nel frattempo s’è rifatta una vita. Non sai dove andare a dormire, non hai soldi, quelli che avevi ce li ha l’avvocato, gli amici ti pagano massimo una cena”. Lui non ha avuto questi problemi: “Quando sono uscito avevo un lavoro e una casa, la donna l’avevo lasciata prima di entrare, il mio fine pena era previsto per il 2026 quindi le ho detto: non starmi ad aspettare”. La storia di “Ribelli” - Ha vissuto il carcere come un’occasione di miglioramento. “Ho colto solo l’occasione e mi sono messo a leggere, perché fuori non lo facevo, e avrò divorato almeno 400 libri. Non potevo uscire più ignorante di come ero entrato, no? Poi facevo palestra e ho appreso un mestiere, facevo anche teatro (mettemmo in scena con Paolo Billi Le notti bianche di Dostoevskij, certi ceffoni mi dava la coprotagonista), ho fatto tutto altrimenti uscivo morto”. Con il carcere, Gianfranco ha anche imparato la geografia: Roma, Melfi, Ariano Irpino, Grosseto, Camerino, Ravenna e Bologna le case circondariali che ha girato. “La Dozza è un hotel a 5 stelle rispetto ad alcune galere del sud. Ricordo quando andai ad Ariano Irpino, non c’era nemmeno la lucetta in cella per leggere, mi arrabbiai”. Già, perché Gianfranco è un vero rompiscatole e viene preceduto dalla sua nomea, “il Ribelli” appunto, il galeotto che conosce a memoria i codici e i suoi diritti e guai a fargliene mancare uno. “Ricordo un posto dove il direttore aprì per me la cucina alle 5 del pomeriggio e mi fece preparare uno spuntino, visto che stavo in piedi, anzi in furgone, dalle 4 di mattina per il trasferimento. Così si fa, siamo carcerati, mica bestie”. “Sono stato riparato, bene o male non lo so” - Una volta a Bologna, al suo avvocato dice: “Quando esco facciamo un’associazione per quelli dentro che stanno per venir fuori, promesso?”. Detto fatto, o quasi. Perché poi uno non si accorge subito di essere libero. “L’ho fatto davvero quando ero in Salaborsa a leggere. Stavo lì e scoppia un acquazzone meraviglioso, alla Dozza quando pioveva ci rinchiudevano, sia mai che ci ammalassimo. Sono uscito sotto l’acqua e ho aperto le braccia al cielo, urlando: sono libero. Mi avranno preso per pazzo”. Importate per “Ribelli” è stata una conferenza alla Casa del Fanciullo sulla giustizia riparativa. “Ho esordito dicendo: mi chiamo Gianfranco Marcelli e sono stato riparato, bene e o male non lo so. E si sono messi a ridere, così ho spiegato le difficoltà che si incontrano fuori dal carcere. Poi ci siamo uniti io e altri quattro ex detenuti, abbiamo cacciato fuori 250 euro a testa e fondato l’associazione e siamo ancora qua”. È morto Cosimo Rega, l’ex ergastolano diventato poeta e attore La Repubblica, 31 agosto 2022 L’ex camorrista, rinato grazie alla recitazione e alla cultura, volto del film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, si è spento nella sua casa romana a 69 anni. “L’arte, la cultura, il teatro, l’amore della mia famiglia, il dialogo con le Istituzioni, hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti”: così parlava Cosimo Rega, ucciso dal male dei mali nella sua casa di Roma a soli 69 anni. Il male, di tutt’altra forma, nella vita ‘precedente’ Rega lo aveva conosciuto bene, portandolo avanti con convinzione: allora il suo nome faceva spavento, risuonava tetro, lui era Sumino ‘o Falco, un boss. Si presentava senza nascondere nulla, agli studenti, quando aveva capito che poteva esserci un altro modo di stare al mondo: “Mi chiamo Cosimo Rega, da qualche anno ho superato i sessanta, di cui circa quaranta trascorsi nelle carceri italiane condannato a un fine pena mai. Il motivo? Sono un ex camorrista, mi piacerebbe aggiungere ‘ex assassino’. Ma questo lo sarò per sempre. Convivere con questa consapevolezza è la giusta condanna che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni”, diceva. Scontò la sua pena, in carcere, un ergastolano che forse non immaginava che una cella potesse diventare anche un palcoscenico e fargli conoscere un mondo artistico prima incredibile. Quattro mura e una sola strada: “Iniziai un lungo viaggio dentro di me. Un viaggio per conoscermi e di conoscenza”, raccontava. “Ho studiato, ho scritto, ho tradotto in napoletano Shakespeare e recitato. Ho portato sulle tavole del palcoscenico Eduardo De Filippo, Dante e tanti altri ancora. Ho avuto la fortuna e l’onore di far parte del cast di Cesare deve morire dei fratelli Taviani. Ero Cassio. L’arte la cultura l’amore dei miei, il dialogo con le Istituzioni, hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti. Ho la consapevolezza di cosa è il male, e di quello che ho inflitto”. Poi, la semilibertà. Una routine autoimposta, come regola, per non sbandare: sveglia all’alba, fuori di casa alle 5,30, alle 7,30 sul posto di lavoro, all’Università di Roma 3 con la qualifica di portiere fino alle 14,00. Il pomeriggio, è tutto per il teatro. Rega recita, con tutti, dai professionisti agli studenti, fino ad altri detenuti che, come lui, vogliono frugare dentro sé stessi attraverso l’arte. È il 2012 quando i fratelli Paolo e Vittorio Taviani lo vogliono per uno dei loro film più potenti, Cesare deve morire, un dramma in stile documentaristico che mette in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli. Al Festival di Berlino, il film vince l’Orso d’oro, riconoscimento che non arrivava in patria dal 1991. Ma è solo uno dei tanti premi: ottiene otto nomination ai David di Donatello e ne porta a casa cinque, due Nastri d’argento - uno per il cast - e non solo. Con la compagnia teatrale di Rebibbia, nell’anniversario della strage di Capaci, nel 2018 debutta con uno spettacolo su Falcone e Borsellino. Rega è Borsellino. Sa che chi, cosa sta recitando: “Ogni volta che lo porto in scena sento un po’ di male allontanarsi da me”, spiegava. E, con un poco di ironia che gli era rimasta, ma non troppa, ammetteva: “Dopo che ho conosciuto il teatro, ‘sta cella me pare ‘na prigione”. Il potere salvifico dell’arte. Mamme in carcere con i figli: l’Italia vista da dietro le sbarre di Viviana Ponchia quotidiano.net, 31 agosto 2022 Viaggio in 13 penitenziari: dal 2021 sono 22 le donne recluse con i loro piccoli. Le storie e le foto in una mostra. Il mondo è un corridoio su cui si aprono porte. Dietro le porte sempre le stesse cose. C’è un fornelletto per riscaldare il biberon o preparare la pappa. Ci sono i letti per le mamme e quelli per i bambini, con le sbarre, che però non sono uguali alle sbarre delle finestre. Oltre le sbarre chissà. Un pezzo di prato e un albero, uno scivolo. Ma bisogna per forza guardare fuori e così fanno, lei che non avrà vent’anni e il figlio di pochi mesi con la felpa, rotondo e sereno. Bisogna anche ricordarsi di sorridere. E lanciare in aria per gioco quel piccolo individuo libero che in teoria può uscire quando vuole, quindi proprio volare, se qualcuno lo prende per mano. Maternità reclusa. Un ossimoro irriducibile dentro un castello che è prigione ma anche casa. In Italia nel 2020 i piccoli rinchiusi con le madri erano 57. Sono scesi a 29 alla fine di gennaio 2021, poi a ottobre al minimo storico di 22. Ma sono ancora lì. Ce ne fosse uno soltanto sarebbe necessario ricordarlo. Il fotografo del Carlino Giampiero Corelli è dal 2008 che si infila nelle sezioni femminili delle carceri italiane per fermare in uno scatto la loro infanzia incongrua, la sofferenza ma anche la voglia di riscatto di madri, addette di polizia penitenziaria, direttori di quello che comunque non è un asilo. “Domani faccio la brava”: cinquanta immagini, tredici prigioni italiane, un video di interviste (e un libro imminente), da venerdì in mostra a Ravenna a Palazzo Rasponi dalle Teste. È la bellezza “dentro”, da raccontare con pudore. Corelli ricorda che non tutti gli istituti sono uguali. Che non stanno fermi: la Dozza di Bologna, per esempio, aveva un clima tenebroso ma è arrivata un po’ di luce. E le detenute: non stanno ad aspettare te per mettersi in posa, qualcuna apre un varco, qualcuna ti manda a stendere. Il tema delle detenute con figli piccoli è annoso e irrisolto e oscilla di continuo tra “legge e ordine” e Cesare Beccaria. Ma non vediamo se non ci viene chiesto di farlo, in fondo non ci riguarda. Alziamo le antenne solo quando scappa il fattaccio. Nel 2018 alla sezione “nido” di Rebibbia una tedesca di 33 anni ha gettato dalle scale della prigione i suoi figli di sei mesi e un anno e mezzo, la più piccola è morta. Nel 2021 una detenuta di origine bosniaca di 20 anni ha partorito in una cella ordinaria dello stesso reparto alla scadenza naturale del termine, di notte, senza ostetrica e nemmeno infermiera, aiutata solo dalla compagna a sua volta al quinto mese di gravidanza. E come al solito: la legge italiana è una delle più avanzate sul tema, però mancano i fondi. A maggio è stata approvata alla Camera la proposta di legge per impedire che i bambini sotto i 6 anni seguano il destino delle madri recluse. In alternativa case famiglia con educatori specializzati e assenza di divise, o istituti a custodia attenuata. E divieto assoluto di custodia cautelare per la donna incinta. Staremo a vedere. Intanto ci sono quelle foto da guardare, l’obbligo dell’empatia. Una madre non può fare certe scelte: separarsi dal figlio o macerarsi nel senso di colpa per averlo voluto con sé. Non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere, diceva Nelson Mandela. Ecco, non facciamoci riconoscere. Dap, “Metamorfosi” alla Mostra del Cinema di Venezia gnewsonline.it, 31 agosto 2022 Il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha insignito con la medaglia del Presidente della Repubblica il progetto “Metamorfosi”, promosso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria unitamente alla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e all’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli. L’importante riconoscimento del Quirinale premia “per l’alto valore sociale e di legalità” un’iniziativa pilota di economia circolare che viene presentata il 31 agosto con il cortometraggio “Metamorfosi: un canto del mare”, in occasione della 79ma Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia, alla presenza del Capo Dipartimento Carlo Renoldi. Il documentario ripercorre il processo di riutilizzo delle imbarcazioni dei migranti recuperate a Lampedusa e successivamente trasferite nella Casa Circondariale di Milano-Opera per la trasformazione del legname in strumenti musicali: una narrazione che prosegue nella composizione sinfonica del Maestro Nicola Piovani, con un quartetto d’archi costituito da questi “strumenti del mare”. “Il carcere ha tanti volti, ai più sconosciuti - ha dichiarato il Capo Dap - Questa preziosa occasione qui alla Mostra del Cinema di Venezia per il progetto Metamorfosi, di cui siamo particolarmente orgogliosi, evidenzia, alla società libera, un carcere impegnato nella promozione delle persone detenute. L’attività della liuteria offre infatti un lavoro qualificante e autenticamente riabilitativo, come devono essere tutti i percorsi di reinserimento avviati all’interno degli Istituti. Il progetto ha anche un grande valore simbolico perché i violini sono realizzati con i legni dei barconi su cui i migranti cercavano una nuova vita attraverso il lavoro. Raccontare anche questo aspetto contribuisce ad accendere nuova luce su un mondo che è parte della nostra Repubblica”. Giustizia e comunicazione, quale disciplina per i social? Conversazione con Silvia Grassi di Valeria Covato formiche.net, 31 agosto 2022 “Giustizia, non giustizialismo e presto una disciplina per i Social”. Intervista alla giornalista Silvia Grassi, coautrice del saggio “Comunico dunque sono”, curato insieme al Prof. Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. “Il settore dei social non ha una disciplina. L’uso da parte dei leader politici di Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok non è regolamentato nemmeno da norme di par condicio, serve una disciplina di settore”. A dirlo in una conversazione con Formiche.net è la giornalista Silvia Grassi, esperta di comunicazione giudiziaria e coautrice del saggio “Comunico dunque sono” curato insieme al prof. Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. La comunicazione della giustizia è molto divisiva, come stiamo vedendo in questa infuocata campagna elettorale. Il 25 settembre si vota per le politiche, pochi giorni prima il 18 e 19 settembre, tutti i magistrati italiani sono chiamati ad eleggere i 20 togati che andranno a comporre il nuovo Csm, non appena il prossimo parlamento avrà votato i 10 laici. Cosa significa, in questo scenario, “comunicare la giustizia”? Comunicare la giustizia - come ha ricordato più volte il Presidente della Repubblica Mattarella - significa costruire fiducia, non ricercare consenso. La ricerca del consenso è propria dei partiti politici, altro è la costruzione della fiducia, che i cittadini devono riporre nell’azione giudiziaria e quindi nell’operato della magistratura. La magistratura non deve essere solo autonoma e indipendente, come prevede la Costituzione, ma anche apparire tale agli occhi dei cittadini. La riforma Cartabia, disciplinando in modo più stringente le cosiddette “porte girevoli” politica - magistratura, ha già prodotto i primi effetti: non ci sono magistrati in servizio candidati alle elezioni politiche. Quali sono i temi che affronta nel saggio? In flash: giustizia, non giustizialismo, giustizia e codice deontologico. Nel mio scritto cerco di affrontare il tema della comunicazione da parte dei magistrati e dell’informazione giudiziaria. I giornalisti hanno il dovere di informare i lettori, nel rispetto degli obblighi deontologici, così come i magistrati devono comunicare con sentenze chiare, comprensibili a tutti, perché la giustizia è un servizio che viene reso ai cittadini. Ma anche il tema della spettacolarizzazione: dai processi in Tv a quelli sui Social. Lo spartiacque per la giustizia è stato Tangentopoli? E da allora ad oggi cosa è cambiato? Sicuramente, anche se il filone del racconto giudiziario viene inaugurato, in Tv, già negli anni ‘80. Nel 1985 nasce la trasmissione Rai “In Pretura”, che nel 1987 diventa lo storico programma “Un giorno in pretura”, in onda ancora oggi. Un modo serio e garbato per raccontare i processi in tv. Ma è dagli anni ‘90, in poi, con il clamore di Tangentopoli che si diffonde il fenomeno della “spettacolarizzazione” della giustizia nei salotti televisivi, anche con imputati invitati in studio, a processo in corso. La “spettacolarizzazione” è l’apice del corto circuito tra media e giustizia: è la celebrazione sui mass media di una giustizia parallela. Un processo che si celebra nei salotti tv e non nelle Aule di giustizia e che spesso finisce per sovrapporre la verità mediatica a quella giudiziaria, con prevalenza della prima sulla seconda. Oggi, come allora, si rincorre la notizia “last minute”, lo scoop, raccontando con dovizia di dettagli l’avvio dell’inchiesta e le indagini preliminari; con poche righe e disinteresse il processo. La spettacolarizzazione sembra non passare mai di moda. Anzi, oggi con i social tutto è spettacolo. Sembra che anche l’agenda della politica sia dettata dagli influencer. Penso all’ultima presa di posizione di Chiara Ferragni, su un tema sensibile e divisivo come quello dell’aborto. Cosa ne pensa? La spettacolarizzazione si è spostata dai media tradizionali ai social, con l’aggravante che quest’ultimi sono un “non luogo” dove tutto è concesso, non essendoci ancora una disciplina di settore. Ci si affida all’autoregolamentazione e all’autodisciplina, con le piattaforme che intervengono solo nei casi più gravi e su segnalazione degli utenti. E i rischi (e gli interrogativi aperti) sono molteplici, se anche una giornalista acuta come Natalia Aspesi, alla luce dell’ultima polemica sull’aborto, si chiede a che punto siamo e dove arriveremo, se Ferragni, e quindi il “partito degli influencer” colma “il silenzio (o il vuoto) dei partiti”. Passiamo da anni di accese polemiche sulla supplenza (o presunta tale) della giustizia sulla politica alla supplenza degli influencer? Penso che il ruolo e il “peso” degli influencer, oggi, sia sempre più percepito e percepibile. Ma tanto potere di influenzare l’opinione pubblica senza nessun controllo, senza una disciplina di settore, è normale? In Rete, e soprattutto sui social, informazione e marketing sono spesso, volutamente, sovrapposte e indistinte. Inoltre mentre chi esercita la professione giornalistica ha dei precisi obblighi deontologici, tutti gli altri soggetti che “comunicano” con i social sono liberi di scrivere e promuovere qualsiasi prodotto (o tesi) senza nessun controllo. Nel libro “Comunicatore a chi?” che sto scrivendo con un collega di grande esperienza, il direttore Roberto Iadicicco, affronteremo proprio questo tema, per cercare di capire quali sono gli strumenti e le professionalità per combattere questi fenomeni e quello particolarmente odioso delle fake news. Altra disparità tra gli organi d’informazione e le piattaforme social è quello del rispetto della disciplina sulla “par condicio”. Radio e tv devono rispettare norme stringenti sull’esposizione mediatica dei partiti e i social? I social, attraverso i quali vengono veicolati anche contenuti elettorali, che spesso danno vita a polemiche diventando subito virali, non hanno una disciplina. L’uso da parte dei leader politici e dai candidati di Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok, e ogni altra piattaforma social, non è regolamentato da norme di “par condicio”. La regola è che non ci sono regole, se non attenersi alle policy della piattaforma. Ci si affida all’autoregolamentazione. Ma come si può pretendere l’autodisciplina da soggetti che usano i social come strumenti di marketing e non hanno obblighi deontologici, né professionali? Per radio e tv l’Autorità garante (Agcom, ndr) effettua un monitoraggio periodico, che diventa molto più intenso nella fase finale della campagna elettorale, e può erogare delle sanzioni, anche molto salate. Il tema della “pubblicità politica” sulle piattaforme social è all’attenzione della Commissione Europea, che dovrebbe approvare un regolamento in materia entro il 2023. C’è un tema che avvelena la campagna elettorale: le fake news, come si combattono? Le fake news si manifestano in vari modi e sono particolarmente insidiose perché non avvelenano solo il dibattito pubblico, ma sono un rischio per la nostra democrazia, specie quando vengono diffuse, in campagna elettorale per procurarsi un vantaggio o per danneggiare l’avversario. Sui social, poi, non c’è nessuno che vigila, e il confine tra comunicazione, informazione è sempre più sfumato, con incursioni e sovrapposizione dei piani. Per questo giornalisti e cittadini devono sempre verificare e soppesare fonti e canali d’informazione. Il pluralismo è una ricchezza, ma non tutte le fonti sono uguali, bisogna esserne consapevoli e informarsi solo con fonti autorevoli e verificate. Io mi affido al vaglio dei 3 setacci di Socrate. Prima di riportare una notizia (o di rilanciarla sui social) bisogna chiedersi: se è vero, se è buono, se serve. Se in tutti e tre i casi la risposta è negativa, io mi comporterei come suggerisce il filosofo ateniese: “Se ciò che vuoi raccontare non è vero, né buono, né utile, allora preferisco non saperlo e ti consiglio di dimenticarlo”. Educare alla parità per combattere la discriminazione di genere di Marina Della Giusta Il Domani, 31 agosto 2022 Il nostro Paese soffre di forti disuguaglianze di genere: le donne italiane sono penultime per tassi di occupazione e prime per carico di cura tra i Paesi europei. L’Italia è distaccata anche dai cosiddetti “Paesi latini” come la Spagna che pur partendo da condizioni economiche e storiche di svantaggio ha fatto enormi progressi: la rappresentazione politica femminile è già da un decennio al 40 per cento contro il nostro 11 per cento. Questa discriminazione strutturale ha costi sociali ed economici oramai insostenibili per il nostro paese e non si può scegliere un intervento rispetto a un altro. Le proposte devono essere realizzate nel loro insieme per essere efficaci. Si tratta di interventi noti, per cui c’è evidenza scientifica di un impatto positivo e che sono parte anche della strategia europea per l’uguaglianza di genere, ripresa a sua volta dal piano Colao e dal Pnrr: si concentrano nel campo del lavoro, della salute e della cultura, ed è proprio quest’ultima a fare la differenza. Prendiamo gli investimenti in asili e scuole di infanzia: l’economista Angela Del Boca stima che la cifra stanziata nel Pnrr sia sufficiente, ma il circolo virtuoso che questo investimento dovrebbe generare sull’occupazione femminile per avere un reale impatto necessita anche di una migliore distribuzione dei congedi parentali e di un sistema fiscale che non penalizzi il secondo lavoratore in famiglia. Un altro esempio chiaro è quello della detassazione del lavoro femminile: l’economista Enrico Rubolino ha mostrato che questo intervento ha incentivato le assunzioni delle donne nelle imprese ma non ha avuto effetti positivi sul divario salariale di genere: la quota di occupazione femminile è aumentata, la produttività aziendale anche ma a fronte di un taglio sul costo del lavoro di 100 euro le aziende hanno aumentato il salario netto delle donne solo di circa 14 euro. Le imprese hanno assunto più donne lavoratrici, comunque a basso salario rispetto agli uomini, e pagando meno tasse. Quindi per ridurre il divario economico tra donne e uomini non basta detassare le imprese, serve anche detassare i redditi femminili, o introdurre imposte differenziate per genere, aumentare la trasparenza sui comportamenti aziendali, raccogliere sistematicamente dati del monitoraggio e dei bilanci di genere, condizionare gli appalti pubblici, estendere la efficace legge Golfo Mosca sulle quote di genere nelle aziende quotate, a tutta l’amministrazione pubblica, a partire proprio dalla gestione del Pnrr. Insomma, si tratta di cambiare profondamente la cultura della classe dirigente del paese e dei cittadini. Le valutazioni dell’impatto del Pnrr sul divario di genere spiegano che per più dei due terzi degli interventi mirati alle donne (3,1 miliardi circa o l’1,6 percento del programma) la possibilità di incidere per ridurre divari esistenti dipenderà molto dai dettagli dell’attuazione e dunque dalla capacità di chi materialmente sarà preposto a promuoverli e alla reazione agli incentivi da parte del pubblico. Le scelte che compiono le famiglie e le imprese nella loro quotidianità, infatti, sono influenzate da una complessità di incentivi e disincentivi, dall’insieme delle politiche e se queste politiche che disegnano la realtà sono nel complesso sbilanciate a favore degli uomini i risultati saranno sempre deludenti. Per questo la misura fondamentale è la formazione alla parità di coloro che sono incaricati esplicitamente dei cambiamenti culturali nel settore pubblico e privato. La formazione alla parità si basa fondamentalmente sul contrasto agli stereotipi di genere che sono estremamente diffusi in modo sia esplicito che inconsapevole e formano la base dei persistenti divari di genere che osserviamo nella vita sociale ed economica (ad esempio nell’istruzione e nelle scelte scolastiche, nel mercato del lavoro, nella rappresentanza politica e nella divisione del lavoro nelle famiglie). Gli stereotipi sono scorciatoie cognitive; li usiamo automaticamente per generare aspettative sul comportamento degli altri, e quindi attribuiamo l’aspettativa di ciò che pensiamo che un gruppo faccia a una persona che proviene da quel gruppo. La minaccia di stereotipo influisce poi sulla performance: l’esposizione a pregiudizi verso il proprio gruppo influisce sullo sforzo, sulla fiducia in sé stessi e sulla produttività. La formazione professionale per contrastare i pregiudizi inconsapevoli, basata su principi di psicologia e di management, viene già utilizzata in vari contesti aziendali per ridurre le fonti involontarie di discriminazione, e quando incorpora un coinvolgimento attivo dei partecipanti permette di trasformare in modo positivo diversi aspetti del loro lavoro: i casi più classici riguardano la selezione e promozione del personale e la formazione di gruppi di lavoro con effetti positivi in settori come quello medico in cui per esempio è stato dimostrato che il training contro i pregiudizi inconsapevoli incide positivamente sulla prevenzione e cura delle donne. Educare i decisori - La formazione alla parità si basa su questi principi e fornisce strumenti per riconoscere e contrastare gli stereotipi di genere promuovendo il talento e l’efficacia delle politiche attraverso un disegno che tenga conto delle diverse necessità prospettive ed esperienze di donne e uomini. L’istituto europeo per la parità di genere (Eige) fornisce gratuitamente toolkit per disegnare training alla parità e offre anche un monitoraggio delle best practices a livello europeo dal nord al sud del continente. Un esempio? In Svezia con un investimento di 12 milioni di euro, poi aumentati di altri 22, considerati i risultati positivi, è stato promosso un piano di formazione alla parità per 66mila tra rappresentanti e funzionari degli enti locali e sono stati realizzati 87 progetti. L’idea di base è semplice: servizi che considerano gli interessi delle donne sono servizi comunali migliori. In Andalusia il governo regionale redige dal 2005 un bilancio di genere che possa essere di indirizzo alle politiche regionali. In Grecia si è deciso di formare le donne elette nei consigli comunali, tre donne per ogni consiglio comunale, per un totale di 1500 persone formate. E così via. In Italia non partiamo da zero: ci sono iniziative di training aziendali presenti soprattutto nelle multinazionali e le partnership promosse da istituzioni come ValoreD, ci sono diverse università ed enti di ricerca che stanno costruendo percorsi di training come parte dei Gender Equality Plans obbligatori per accedere ai fondi europei. Anche per quanto riguarda la scuola l’Ue fornisce una serie di buone pratiche e per gli insegnanti già esiste un obbligo formativo in diverse aree e fondi dedicati alla formazione, dunque il costo di questi progetti riguarda principalmente la formazione dei formatori che, come abbiamo visto, è in gran parte già disponibile in forma gratuita. Quello che serve è un progetto per la classe dirigente. Sarebbe importante che queste politiche siano sottoscritte in modo trasversale: tutte le donne che verranno elette dovrebbero impegnarsi a collaborare in modo bipartisan per la loro attuazione. I migranti, i patrioti e il gioco delle tre carte di Karima Muoal La Stampa, 31 agosto 2022 È sicuramente una campagna elettorale lampo questa che stiamo vivendo in vista del 25 settembre. Eppure almeno su un tema - l’immigrazione - nonostante ci si trovi già alla seconda generazione con i figli degli immigrati nati sul suolo italiano, continua ad essere manovrata con chiavi decisamente obsolete da parte dei due partiti di destra, Fratelli di Italia di Giorgia Meloni e la Lega di Matteo Salvini. La sensazione è che i due leader facciano continuamente il gioco delle tre carte. Salvini grida ai Clandestini Zero, Meloni risponde con un bel Blocco Navale. Ma il leader della Lega, in piena mitomania, si spinge ad autocelebrarsi sui social come “il miglior ministro dell’Interno che abbia avuto l’Italia”. Lo ha scritto lui stesso. E non importa che l’autoptoclamotosi miglior ministro dell’interno abbia partorito i famosi decreti sicurezza, (con evidente e denunciata macchia di incostituzionalità) riproposti in mancanza di fantasia in questa campagna elettorale. C’è anche da segnalare come non abbia mandato in porto nemmeno una delle promesse fatte prima di salire al Viminale. Una cosa è la propaganda, altro è la realtà. Eccola: sull’immigrazione irregolare Salvini promise allora come oggi il rimpatrio di tutti gli irregolari(erano circa 500mila): alla fine del suo mandato risultarono rimpatriati in 7.289. Sul decreto sicurezza - che Salvini oppone alla rivale Meloni come più efficiente di un’altra favola, quella del blocco navale - c’è da sottolineare che secondo molti studi quel decreto ha contribuito all’aumento del numero degli stranieri irregolari (sono arrivati a 600mila secondo le stime) con la soppressione della protezione umanitaria, finestra di legalità chiusa buttando per strada molti immigrati. E poi c’è l’altra favola, la preferita della Leader di Fratelli d’Italia, con tanto di foto di gigantesche navi militari. Prima della caduta del governo Draghi le dichiarazioni sul blocco navale erano nette, con il deputato Donzelli che ad ogni intervento s’impuntava sulla sua fattibilità ricordando che fu già adottato in un caso - negli anni Novanta con gli albanesi sulle nostre coste e Prodi al Governo. Omettendo che quella tragica decisione costò la vita a più di 100 albanesi con il comandante della Marina militare italiana che ha dovuto pagarne il prezzo non solo secondo la legge ma anche con la coscienza. In questi giorni assistiamo ad un aggrapparsi agli specchi (o a un bagno di realtà). Magicamente il blocco navale si ammorbidisce, si trasforma. Insomma, Meloni e Guido Crosetto insistono: il blocco navale che intendono non è il blocco navale che noi conosciamo. Loro - sostengono - parlano un’iniziativa europea in accordo con le autorità libiche. Probabilmente sono consapevoli che il blocco navale è infattibile, ma siccome fa scena rimane lì. Il punto è che questa “iniziativa europea”, è un lavoro anticipato proprio dal governo Draghi e già nell’ottobre 2021. In concreto: il 10% dei fondi Ue per l’azione esterna Ndci (Neighbourhood, development and international cooperation instrument) è dedicato alla migrazione, circa 8 miliardi di euro in aggiunta a quelli già previsti dal Qfp 2021-2027 per la gestione delle frontiere Ue. Sono poi stati definiti piani di d’azione per Libia, Tunisia, Marocco, Niger, Nigeria, Iraq, Afghanistan, Bosnia-Herzegovina) e programmi operativi per la rotta mediterranea in Paesi come Niger e Tunisia. La Commissione europea ha nominato Mari Anneli Juritsch coordinatrice Ue dei rimpatri, incaricandola di istituire un sistema europeo efficace, comune, legalmente solido, operativo e con una governance più forte, in stretta cooperazione con gli Stati membri. C’è un piano per accelerare i rimpatri verso Bangladesh e Pakistan. Sono poi stati finalizzati i mandati ad operare per Frontex con Senegal e Mauritania, importanti Paesi di origine e transito per la rotta mediterranea; su quest’ultima sono stati avviati interventi lungo le rotte del Mediterraneo centrale e occidentale, con risorse dell’Ue e degli Stati Membri. Questo è il lavoro iniziato per affrontare la questione migrazione a livello europeo e grazie al governo Draghi. Se vogliamo continuare a credere ai blocchi navali e al decreto sicurezza, attenzione: la propaganda deve pur sempre lasciare spazio alla realtà. Un tunisino può venire in Italia per turismo? No di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 31 agosto 2022 Le disavventure senza lieto fine del professor Chadli Sagal, berbero, docente di Scienze in un liceo tunisino, che aveva promesso alla famiglia una vacanza in Italia. Le ha provate tutte, ma non ce l’ha fatta. Il professor Chadli Sagal, berbero, docente di Scienze in un liceo tunisino, teme d’aver fatto due errori irreparabili. 1) ha promesso a uno dei suoi figli, che aveva portato a casa una pagella spettacolare, una vacanza d’una decina di giorni in Italia con tutta la famiglia. 2) Si è fidato della burocrazia italiana. Procurandosi tutti i documenti necessari per un visto turistico per sé, la moglie, tre figli in età scolastica e l’ultimo, ancora lattante. Per non essere confuso con tanti suoi connazionali disperati che si imbarcano clandestini su un gommone, si è dunque fatto fare un invito da un vecchio conoscente lombardo con cui ha rapporti da decenni, il professor Vermondo Brugnatelli che, spiega Wikipedia, insegna all’università Milano Bicocca ed è un “linguista, saggista, glottologo e accademico italiano, reputato fra i massimi studiosi contemporanei della lingua berbera”. Garanzie che per l’anonimo burocrate dell’ambasciata italiana di Tunisi pesano evidentemente meno dell’iscrizione a un Pizza Club. Quanto ai biglietti aerei andata e ritorno e la prova d’avere soldi a sufficienza per mantenersi in quei giorni di vacanza, il professor Sagal aveva anche quelli: aveva cambiato in valuta 1.500 euro per ognuno dei membri della famiglia. Sinceramente: quante famigliole di italiani non sono andate in vacanza perché non arrivavano a mettere insieme, come in questo caso, 9.000 euro? E non basta ancora, racconta il docente milanese: “Nell’invito ufficiale dichiaravo d’assumere io stesso tutte le spese del loro soggiorno. E siccome non bastava ancora, ho dovuto anche sottoscrivere fideiussioni di 4.000 euro a testa per ogni componente della famiglia, lattante escluso. Dico: totale ventimila euro più spese!” Tormentone chiuso? Macché: visto negato. Perché? “Lei non ha dimostrato di disporre di mezzi di sussistenza sufficienti sia per la durata prevista per il suo soggiorno sia per il ritorno nel paese d’origine o di residenza. Oppure per il transito in un paese terzo nel quale la sua ammissione è garantita”. Data del timbro: 18 agosto 2022. Una batosta doppia. Non solo perché i biglietti aerei erano per il 2 settembre, dopodomani. Ma perché il rifiuto peserà come un macigno sui futuri viaggi del professor tunisino. Compresi quelli con cui, racconta Brugnatelli, andava a trovare ogni tanto dei fratelli che vivono in Francia. P.s.: L’ambasciata segnala un indirizzo per i reclami. Reclamo, sacrosanto, fatto. Risposta? Zero. Caos in Libia e non solo, ecco cosa sono e quanto ci costano i “valori atlantici” di Alberto Negri Il Manifesto, 31 agosto 2022 Dalla guerra della Nato del 2011, sulla sponda Sud abbiamo accettato l’agenda degli altri che ha ridotto lo spazio della nostra politica estera al minimo. L’Italia, la Nato e gli Usa da anni sono in fuga da Tripoli e dalle loro responsabilità. La Libia attuale è il frutto avvelenato del cosiddetto “atlantismo”. L’intervento del 2011 contro Gheddafi portò alla fine brutale del dittatore ma lasciò il Paese nel caos, così come quello americano in Iraq nel 2003 e prima ancora in Afghanistan nel 2001. Le cronache di questi giorni da Tripoli, Baghdad e Kabul (a un anno dal disastroso ritiro occidentale) sono esplicite: dozzine di morti e un’instabilità cronica. Negli ultimi scontri nella capitale libica tra i sostenitori del governo di Tripoli del premier Abddulhamid Dabaibah e quelli di Fathi Bashaga, l’altro premier concorrente eletto dal parlamento di Tobruk, gli occidentali non sono stati neppure citati. Sono stati però menzionati dalle cronache i droni turchi che avrebbero colpito le milizie di Misurata. Per altro furono i turchi nell’inverno del 2019 a fermare l’avanzata sulla capitale libica del generale Khalifa Haftar: allora il governo Sarraj - riconosciuto dall’Onu - chiese aiuto attraverso il vice-premier Meitig sia all’Italia che agli Usa e alla Gran Bretagna. Ricevuto un netto rifiuto, Sarraj si rivolse allora a Erdogan, autocrate atlantista al quale lasciamo interpretare e gestire sul campo i cosiddetti valori dell’Alleanza atlantica strombazzati in modo bipartisan dai nostri partiti e dal “nostro” giornalismo mainstream in un campagna elettorale che sui temi della politica estera si svolge a occhi bendati e con forti dosi di ipocrisia: basta vedere cosa accade nei Territori occupati palestinesi, nel Kurdistan turco e siriano, con la resistenza kurda tradita sull’altare della stabilità atlantista grazie all’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia in funzione anti-russa per la guerra in Ucraina, e quanto avviene nei lager libici dove vengono concentrati, torturati, malmenati e vilipesi i migranti africani. Ma questi sarebbero ancora gli unici accordi che “funzionano” con la Libia dove abbiamo appaltato la vita di migliaia di persone a milizie e trafficanti, collusi e complici con una guardia costiera finanziata dall’Italia a proposito di valori atlantisti. Vale forse la pena ricordare ai nostri distratti politici che nel 2011 in Libia l’Italia subì per mano di Francia, Gran Bretagna e Usa la sua più grave sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Soltanto sei mesi prima, a fine agosto 2010 Gheddafi veniva ricevuto in pompa magna a Roma, incensato e blandito per via di accordi economici da 55 miliardi di euro che i partiti avevano approvato a stragrande maggioranza. Un mese dopo i raid contro Gheddafi subentrò la Nato a fare da ombrello ai bombardamenti e l’Italia decise di partecipare mentre forse sarebbe stato meglio dichiarare allora la neutralità come fece la Germania. La decisione, con un governo Berlusconi pericolante e balbettante, fu presa dal presidente Napolitano. In poche parole l’atlantismo “all’italiana” non si cura troppo degli interessi del Paese ma preferisce travestire la sua mancanza di responsabilità con il mantello della Nato: allora si disse che bombardavamo Gheddafi per difendere i nostri interessi energetici, dai pozzi di petrolio al gasdotto con la Libia inaugurato nel 2004. Ed ecco dove siamo finiti. Nel ridicolo e senza l’apporto energetico sperato. I nostri premier per un decennio sono andati in pellegrinaggio a Washington - che ci fossero al potere i democratici o i repubblicani - tornando con la vaga promessa, da vendere alla pubblica opinione, che gli Usa ci avrebbero dato in Libia la “cabina di regia”. Ci ha provato anche Draghi quando è andato da Biden nel maggio scorso mentre era già cominciata la crisi del gas con Mosca. “La Libia può essere un enorme fornitore di gas e petrolio, non solo per l’Italia ma per tutta Europa” ha detto Draghi nel suo colloquio alla Casa Bianca. “Tu cosa faresti?”, gli ha chiesto il presidente americano. “Dobbiamo lavorare insieme per stabilizzare il Paese” è stata la risposta del premier italiano. Come no. L’evento non si è puntualmente verificato: insomma l’ennesima presa in giro della cabina di regia. Per altro all’Italia non è andata meglio con l’Unione europea sulla questione dei migranti, dove a Bruxelles hanno puntualmente voltato la testa dall’altra parte sui migranti morti nel Mediterraneo. Insomma i cosiddetti valori “atlantici” per noi si sono tradotti in una perdita secca che in questo momento di tempesta energetica e geopolitica sono ancora più evidenti. Basta scorrere i dati appena resi noti dall’Eni sul gas e il petrolio libico. Mentre i flussi di gas dalla Russia verso l’Italia sono diminuiti del 45% rispetto allo stesso periodo dell’anno prima nello stesso periodo la Libia ha registrato un -26%. In termini assoluti non si tratta di valori molto alti perché il gasdotto libico Greenstream da tempo subisce i contraccolpi dell’instabilità libica e delle lotte tra le fazioni per la spartizione del territorio e delle risorse energetiche. In realtà questo gasdotto, lungo 520 chilometri e che approda a Gela, avrebbe a pieno regime un portata di 30 miliardi di metri cubi, quasi la metà dei nostri consumi annuali. Ecco quanto ci è costato e ci costa l’atlantismo. Poi naturalmente non possiamo ignorare che in Tripolitania oggi conduce le danze Erdogan e Haftar in Cirenaica è sostenuto da Mosca e dai mercenari della Wagner, oltre che dagli Emirati e dall’”alleato| egiziano il dittatore Al-Sisi - altro bell’interlocutore dell’atlantismo - oltre che da una Francia che fa finta di non volersi sporcare le mani. Ma nella sostanza, dal 2011, sulla sponda Sud abbiamo accettato l’agenda degli altri che ha ridotto lo spazio della nostra politica estera al minimo. A un filo di gas. Stati Uniti. Overdose da oppiacei, Big Pharma paga mld di dollari di Marco Perduca Il Manifesto, 31 agosto 2022 Da qualche anno il 31 agosto è dedicato alla sensibilizzazione sulle overdose: se in Italia il fenomeno è in via di progressivo contenimento, negli Usa siamo di fronte a una vera e propria strage per abuso di oppiacei illeciti o legali, che stanno ammazzando più persone che tutte le partecipazioni militari a stelle e strisce dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. L’emergenza è diventata una sincera preoccupazione nazionale grazie (anche) all’attenzione che Donald Trump aveva dedicato alla questione (quasi il 70% dei morti sono maschi bianchi che vivono in stati a maggioranza repubblicana). Come spesso accade però, un alleato potente ma scomodo non sempre aiuta la ricerca di soluzioni possibili; malgrado allarmi e appelli la situazione resta fuori controllo dal punto di vista sanitario. Diverso invece lo scenario delle responsabilità economiche. Non si tratta naturalmente di tornare a demonizzare la cura del dolore grazie agli oppiacei, cure che in Italia continua a esse stigmatizzate e quindi mai offerte come prima opzione; si tratta di adottare misure per cui, per l’appunto, gli oppiacei siano usati come rimedio gestito dalla professione medica per patologie che la necessitano e che devono essere somministrati col necessario monitoraggio e attenzione. Diverso il caso in cui i painkiller vengano usati problematicamente da chi, spesso, li mescola con altri consumi legali o illeciti in contesti socio-economici di disagio. All’inizio del 2022 quattro delle più grandi aziende di farmaci Usa hanno accettato di pagare circa 26 miliardi di dollari per bloccare uno tsunami di cause legate a pratiche commerciali che hanno contribuito ad alimentare le decine di migliaia di morti per overdose da oppioidi. Johnson & Johnson, il gigante che produce farmaci oppiacei generici ma che ha promesso di non continuare, contribuirà con 5 miliardi. AmerisourceBergen, Cardinal Health e McKesson pagheranno un totale di 21 miliardi. Altre si stanno adeguando. La maggior parte dei fondi saranno destinati all’assistenza sanitaria delle vittime e a programmi di cura con farmaci per alleviare la crisi degli oppioidi. Nessuna delle aziende ha però riconosciuto alcun illecito per il proprio ruolo nella produzione e distribuzione di farmaci antidolorifici in un momento in cui la dipendenza da oppioidi e le overdosi stavano aumentando. Secondo l’Oms ogni anno nel mondo, delle circa 500.000 morti attribuibili all’uso di droghe, più del 70% è correlato agli oppioidi e il 30% sono overdosi. Secondo il sito GeoOverdose.it in Italia le morti del 2022 sarebbero 107, la metà per eroina. Per il National Health Institute degli Usa le ricette per i farmaci oppiacei sono quadruplicate tra il 1999 e il 2010. Nello stesso decennio l’aumento delle morti per overdose causate da oppioidi è quadruplicato. La maggior parte dei decessi è dovuta a eroina e oppiacei sintetici diversi dal metadone. Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie di Washington ha documentato che dal 1999 al 2020 più di 932.000 persone sono morte per overdose e quasi il 75% dei decessi nel 2020 ha coinvolto uno dei vari oppiacei. Questa strage include derivati del papavero prescritti medicalmente, eroina e/o oppiacei sintetici (come il fentanyl). In 20 anni le morti sono aumentate di oltre otto volte! Nei primi sette mesi del 2022, le overdosi hanno ucciso quasi 69.000 - oltre l’82% per oppioidi sintetici. Il presidente Biden ha previsto l’investimento storico di 42,5 miliardi di dollari per il National Drug Control Program, con un aumento di 3,2 miliardi per ridurre, tra le altre cose, la fornitura di stupefacenti illeciti come il fentanyl. La guerra in Ucraina, la recessione e l’indagine su Trump hanno dirottato il dibattito pubblico, ma l’emergenza resta, e di dimensioni epocali. Ultimo ricorso contro l’estradizione di Assange. E l’Onu inizia a preoccuparsi di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 31 agosto 2022 I legali del fondatore di Wikileaks tentano con l’Alto Tribunale del Regno unito per impedire che sia consegnato agli Stati Uniti. Michelle Bachelet: a rischio la libertà di stampa. Sono ormai agli sgoccioli le possibilità di salvare Julian Assange, fondatore del portale Wikileaks, dall’estradizione negli Stati uniti, dove l’aspetta una lunga lista di accuse che potrebbero portare il governo Usa a condannarlo a 175 anni di reclusione. La settimana scorsa il caso è arrivato all’Alta commissaria dell’Onu per i diritti umani, l’ex presidente cilena Michelle Bachelet; il caso, ha detto alla compagna di Assange, Stella Moris, e ai suoi avvocati spagnoli, Baltasar Garzón e Aitor Martínez, è motivo di preoccupazione per l’impatto sulla libertà di stampa e il giornalismo di inchiesta. Venerdì scorso i suoi legali hanno consegnato un ultimo appello presso l’Alto Tribunale del Regno unito, ultimo capitolo di una saga giudiziaria che va avanti dal 2010. Quell’anno la Svezia chiese l’estradizione dell’australiano per stupro, molestie sessuali e coercizione. L’accusa mai provata era di aver rotto il preservativo durante la relazione sessuale con due donne, una circostanza che nel codice penale svedese rientra nel ventaglio dei reati tipificati come stupro. L’indagine negli anni è stata aperta e chiusa molte volte, l’ultima l’anno scorso, senza arrivare a nulla. La richiesta svedese di estradizione per interrogarlo sul proprio territorio (non legalmente necessaria) ha dato il la a un labirinto giudiziario. Assange temeva, e il tempo gli ha dato la ragione, che segretamente gli Stati uniti avessero allestito un’indagine per la quale avrebbero chiesto la sua estradizione una volta in Svezia. Quando la Gran Bretagna ha respinto il suo ultimo ricorso contro l’estradizione (un tipo di estradizione che oggi la Gran Bretagna non concede più: bisogna prima essere condannati), Assange ha infranto le condizioni di libertà vigilata e si è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador, allora guidato dal presidente Rafael Correa, che gli ha concesso asilo. È rimasto rinchiuso in quei pochi metri quadrati, senza accesso neppure alla luce naturale. Condizioni così estreme che nel 2018 il Working Group sulle detenzioni arbitrarie dell’Onu aveva criticato il Regno unito: non permetteva l’uscita di Assange dopo più di sei anni di confinamento nonostante l’inchiesta svedese in quel momento fosse chiusa. La rivista scientifica Lancet nel 2020 ha parlato di “stato di salute precario dovuto all’effetto di tortura psicologica prolungata sia nell’ambasciata ecuadoriana che nella prigione di Belmarsh”, centro di massima sicurezza dove è attualmente rinchiuso. Il nuovo presidente ecuadoriano, Lenín Moreno, che lo vede con assai meno simpatia, aveva intanto iniziato a mettergli paletti, tagliandogli l’accesso a internet e limitando fortemente le visite, per non parlare dello scandalo, su cui gli inquirenti spagnoli stanno ancora indagando, dell’impresa privata spagnola che gestiva la sicurezza dell’ambasciata, che spiava Assange e i suoi visitatori, e passava informazioni direttamente alla Cia. Nel 2019 l’espulsione violentissima dall’ambasciata: da allora il ciberattivista è rinchiuso a Belmarsh quasi in isolamento. La pena che gli toccava scontare per aver infranto la libertà vigilata era di qualche settimana di carcere: ma è ancora lì, mentre cerca di non essere estradato negli Usa che nel frattempo hanno reso pubblici i 17 capi di imputazione per cui gli vogliono mettere le mani addosso. Il fatto è che Assange, con la sua Wikileaks ha messo in luce gli abusi del potere. Con il famosissimo video Collateral murder, in cui soldati americani sparavano a civili inermi in Afghanistan, con i diari di guerra in Afghanistan, con quelli in Iraq, e con molti altri documenti (come i cablo delle cancellerie di tutto il mondo). A pagare per i crimini di guerra denunciati da Wikileaks sono solo coloro che hanno filtrato le informazioni, l’ex soldatessa Chelsea Manning, e lo stesso Assange, che le ha rese pubbliche (in collaborazione con testate giornalistiche, nessuna delle quali è stata mai accusata). Ma tant’è: a gennaio del 2021 la magistrata inglese Vanessa Baraitser non riconosce che le accuse americane siano politiche (per la legge inglese Assange non sarebbe estradabile) ma blocca l’estradizione perché considera che sia in pericolo di vita; dopo il ricorso degli Stati uniti (che hanno vinto a dicembre assicurando che avrebbe ricevuto un processo e un trattamento equo), la ministra degli interni inglese Priti Patel a giugno ha dato il suo permesso per l’estradizione. Come ha scritto Ken Loach nell’introduzione al bel libro di Stefania Maurizi “Il Potere segreto” (Chiarelettere, 2021), questa è la storia del “prezzo terribile pagato da un uomo, trattato con estrema crudeltà per aver messo a nudo un potere che non risponde a nessuno, nascosto da un’apparenza di democrazia”. Perché l’Iraq è sull’orlo di una nuova guerra civile di Mario Giro Il Domani, 31 agosto 2022 L’Iraq torna in bilico come nazione. Alla crisi interna intra-sciita che è diventata violenta, si aggiungono quella della zona autonoma curda del nord alle prese con la penetrazione turca e quella del triangolo sunnita dove si sente parlare di rinascita dello Stato islamico. La maggiore delle crisi si sta certamente dipanando a Baghdad attorno alla controversa figura di Moqtada al-Sadr, all’inizio del millennio leader dell’opposizione sciita contro l’occupazione statunitense del paese e trasformatosi da tempo in uno dei più importanti leader politici iracheni, forse il più inviso a Teheran. Moqtada ha vinto le ultime elezioni legislative del 2021 ma non è completamente soddisfatto del risultato: l’obbligo che deriva dalla costituzione irachena di creare delle “supermaggioranze” per poter governare (un modo che serve ad includere obbligatoriamente sciiti, sunniti e curdi), lo obbligava a fare delle colazioni in cui si sentiva troppo alle strette e che lo costringevano a mediare. La sua maggioranza era solo relativa e ciò non gli bastava per affermarsi come leader assoluto nell’universo sciita iracheno, una realtà molto composita. Per questo alcuni mesi fa ha dato l’ordine ai suoi di abbandonare il parlamento ed il governo, in una specie di Aventino organizzato nella speranza che gli altri gli chiedessero di rientrare cedendo alle sue rimostranze e pretese. Al contrario è sorprendentemente avvenuto che il sistema politico iracheno è andato avanti senza di lui, nominando un nuovo primo ministro e sostituendo i sadristi al governo con altre personalità. È a questo punto che, punto sul vivo, Moqtada ha ordinato ai suoi sostenitori di occupare la sede dell’assemblea e quella del governo, poste entrambe all’interno della green zone, l’area più fortificata di Baghdad. Grazie ai tanti appoggi di cui godono nella popolazione, tra i quadri amministrativi e delle forze dell’orine, i sadristi sono stati in grado di violarla facilmente alcune settimane fa e da allora hanno iniziato le loro occupazioni che ora si stanno trasformando in uno scontro cruento con decine di vittime. Il timore di un’aperta guerra civile esiste, tanto che qualche giorno fa il premier ha fatto appello all’esercito di tenersi fuori della diatriba politica e obbedire solo agli ordini delle autorità. Molti temono che anche tra le fila dei militari vi siano militanti sadristi. È noto che in Iraq il sistema è multipolare e pluralista: non esiste nessun leader che possa affermare di avere il monopolio di tutti gli sciiti iracheni, nemmeno la parte che gode dell’appoggio iraniano e che oggi sta sfidando Moqtada. Quando quest’ultimo ha tentato la sua prova di forza, agli altri protagonisti del mondo sciita è bastato collegarsi fra loro per mettere i sadristi in difficoltà, con l’unica opzione se scegliere per la violenza, cosa che nemmeno lo stesso Moqtada sembrava voler fare. Alcuni osservatori dicono che la situazione era talmente tesa che è sfuggita di mano ai responsabili ed ora diventa difficile recuperare il controllo. Il sistema iracheno è stato creato per garantire che anche i sunniti e i curdi siano inclusi nelle coalizioni di governo: per ottenere una maggioranza al parlamento ci vogliono aggregazioni molto allargate e composite. All’inizio di questa fase, ad esempio, il partito il Partito democratico del kurdistan (Pdk), che governa la regione autonoma del Kurdistan, era alleato di Moqtada al-Sadr ma se ne è allontanato quando quest’ultimo ha iniziato a parlare di cambiamento della costituzione. In realtà la carta protegge i curdi come in nessun altro paese al mondo, concedendo loro diritti politici, la regione autonoma, molte risorse, il riconoscimento della loro lingua come lingua ufficiale dell’Iraq e così via. Per ora sia gli Stati Uniti che l’Iran si sono tenuti alla larga dalla crisi politica di Baghdad, anche se non vi è dubbio che stiano aspettando il momento opportuno per influenzare al loro favore il corso degli eventi. Intanto a nord la Turchia continua a premere perché le sia concesso ancor più spazio di manovra nella sua guerra contro il Pkk che da anni ha le sue basi nell’area, la stessa che prima era stata occupata dall’Isis. Le violenze di Baghdad potrebbero favorire le manovre turche: da mesi Ankara ha annunciato un aumento della sua presenza sia in Siria che in Iraq. Dal canto suo lo Stato islamico sta aumentando i suoi attacchi in Siria ma inizia anche a compiere attentati in Iraq, un’ulteriore segno di fragilità del paese.