La decarcerizzazione è l’unica via possibile per arrestare l’aumento di suicidi di Alessandro Capriccioli* Il Dubbio, 30 agosto 2022 In carcere ci si suicida soprattutto a causa del carcere in quanto tale, dell’annichilimento esistenziale che esso porta con sé. È incredibile come le poche e timide reazioni alla strage che sta avvenendo nei nostri istituti penitenziari (dall’inizio dell’anno siamo a 58 suicidi, un record assoluto perlomeno dal 2000 in poi) si limitino al piano del contenimento del fenomeno ma non si spingano quasi mai a interrogarsi sul ruolo del carcere come istituzione totale, in quanto tale intrinsecamente destinato a produrre esiti drammatici. Eppure sono moltissimi, e ormai consolidati, gli elementi che suggerirebbero la necessità di una riflessione più ampia di quella cui ci siamo ormai abituati, e per certi versi rassegnati. Che il carcere, fatte salve rarissime eccezioni destinate a confermare la regola, sia un fallimento totale da ogni punto di vista è un fatto che come Radicali denunciamo da decenni. Il tasso di recidiva, il sovraffollamento, le condizioni di vita disumane, il ripetersi all’interno delle mura penitenziarie degli stessi meccanismi perversi che vi hanno condotto le persone sono segnali inequivocabili del disastro di un sistema obiettivamente non in grado di assolvere al compito che gli sarebbe proprio: la “rieducazione”, o per meglio dire il reinserimento sociale, di chi ha infranto la legge. Alla luce di queste evidenze, inizia a diventare stucchevole la retorica che si ostina ad addebitare quel fallimento alla mancata realizzazione delle prigioni “come dovrebbero essere” anziché, come sarebbe più appropriato, fermarsi a riflettere sul concetto di prigione in sé. Le carceri non sono soltanto luoghi nei quali le condizioni di vita possono diventare insostenibili a causa di un sistema giudiziario ormai al collasso, ma anche (e a parere di chi scrive soprattutto) luoghi che producono fisiologicamente disperazione e alienazione, determinando quelle condizioni a prescindere, perlomeno in larga parte, da ogni altra circostanza. In carcere non ci si suicida per la ristrettezza degli spazi, per l’insalubrità degli ambienti, per l’inadeguatezza delle strutture: prova ne sia il fatto che non c’è riscontro, tra la popolazione libera, di una tendenza simile tra chi vive analoghi disagi e difficoltà. In carcere ci si suicida soprattutto a causa del carcere in quanto tale, dell’annichilimento esistenziale che esso porta con sé, dell’impossibilità concettuale di essere, in quel luogo, cosa diversa dai reati commessi. In carcere ci si suicida perché il carcere è un’istituzione totale: e dunque per fermare i suicidi (che sono la punta di un iceberg gigantesco) è l’istituzione che dev’essere messa in discussione, avviando il processo che conduca finalmente a una progressiva “decarcerizzazione” della nostra società. Tutto il resto, come dire, è cura palliativa. *Consigliere regionale del Lazio + Europa Radicali Nel 2022 58 detenuti suicidi, più di tutto il 2021. Antigone: “Liberalizzare le telefonate” di Luca Cereda vita.it, 30 agosto 2022 Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella: “In un momento di sconforto, sentire una voce familiare può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario”. “Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 58 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi a Perugia e in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto abbiamo registrato 15 suicidi, più di uno ogni due giorni. 57 furono le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021. “Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione - prosegue Gonnella - ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il Governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria. Dell’importanza dell’affettività per i detenuti - continua il presidente di Antigone - ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020”. Secondo questa, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. “All’indomani di quelle chiusure - sottolinea Patrizio Gonnella - la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e consentì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali. Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” conclude Patrizio Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, Deputati e Senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato”. L’Ordine degli psicologi: “Professionisti in pianta stabile nelle carceri contro i suicidi” di Chiara Brusini Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2022 David Lazzari, presidente dell’Ordine: “La complessità del suicidio rende necessario un lavoro di staff che male si fa con chi è presente poco in termini di ore e di visibilità”. I casi più recenti: un giovane bracciante gambiano trovato impiccato nel penitenziario di Siracusa e un 44enne finito dentro per furto a Caltagirone, mentre era in attesa di essere inserito in una comunità assistita. I suicidi in carcere continuano a rappresentare un allarme, al punto che il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari, sottolinea come sia cruciale “L’inserimento degli psicologi in maniera stabile e strutturale in pianta organica nelle carceri”. Lo ha scritto in una lettera inviata al capo dipartimento del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Carlo Renoldi - a meno di due settimane dalla nuova circolare del Dap sulla prevenzione dei suicidi in carcere. “Se con la riforma della sanità in carcere, il tema del disagio mentale è rimandato ai presidi sanitari e ai colleghi dell’azienda, la complessità del suicidio rende necessario un lavoro di staff che male si fa con chi è presente poco in termini di ore e di visibilità. Inoltre, per provare a incidere sulle molteplici cause di fatti così gravi è necessario a nostro avviso saper leggere il contesto per agire anche con e sull’organizzazione”, scrive Lazzari. “Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - aggiunge Lazzari - in coda alla circolare fa riferimento all’immissione in ruolo di nuove figure e all’incremento di esperti ex art. 80. Riteniamo cruciale che parte delle risorse siano destinate all’inserimento degli psicologi in maniera stabile e strutturale in pianta organica, e che, per quanto riguarda gli ex art. 80, venga modificata la norma per consentire la possibilità di avere un monte ore più ampio, una diversa modalità di selezione e, di conseguenza, una maggiore stabilità finalizzata ad armonizzare il lavoro in equipe con gli altri operatori penitenziari e soprattutto essere di supporto ai colleghi dell’area sanitaria”. Anche l’associazione Antigone, nei giorni scorsi, aveva sollevato l’allarme sul fenomeno: negli ultimi otto mesi si sono registrati 57 casi di suicidio. “Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”, chiede Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione impegnato a lottare per i diritti dei detenuti. Nel 2022 pesa soprattutto il mese di agosto con 14 suicidi: più di uno ogni due giorni. “Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione - spiega Gonnella - ha lanciato la campagna ‘Una telefonata allunga la vita’, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti”. A sollecitare un intervento sulla scia di questa estate dei suicidi sono anche alcune detenute del carcere delle ‘Vallette’, che via Twitter hanno annunciato uno sciopero della fame “a staffetta”: fino al 25 settembre, giorno delle elezioni, a turno digiuneranno per chiedere una riforma penitenziaria. Spesso si uccidono persone giovani, dato che la maggior parte di chi si è tolto la vita quest’anno aveva tra i 20 e i 30 anni. Secondo i volontari di Antigone, in un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare una persona a desistere dall’intento di suicidarsi. “I 10 minuti a settimana previsti attualmente - aggiunge Gonnella - non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”. Ricorda come dopo la sospensione dei colloqui nel 2020, Antigone “chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet. Servì a riportare la calma negli istituti di pena” attraversati dalle proteste. “Oggi - insiste - il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi”. La pena di morte? In Italia funziona benissimo di Giulio Cavalli Left, 30 agosto 2022 L’altro ieri Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, diceva: “Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”. Eravamo a quota 57 suicidi nel 2022. Nel frattempo se n’è suicidato un altro. Nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 58 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi due in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto abbiamo registrato 15 suicidi, più di uno ogni due giorni. 57 furono le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021. “Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione - prosegue Gonnella - ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”. “Dell’importanza dell’affettività per i detenuti - continua il presidente di Antigone - ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020”. Secondo questa relazione, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. “All’indomani di quelle chiusure - sottolinea Patrizio Gonnella - la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il Paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e consentì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali”. “Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” conclude Patrizio Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, deputati e senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato. Noi auspichiamo che qualcuno abbia il coraggio di parlarne in questa brutta campagna elettorale. Non cammina, ha perso 50 chili ed è quasi cieco. Ma resta in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 agosto 2022 Condannato per truffa ha un accumulo che l’ha portato a un fine pena nel 2046. Gli hanno revocato i domiciliari per un furto di elettricità. Rigettate tutte le istanze presentate dall’avvocata Simona Giannetti. Non è recluso per mafia o terrorismo, ma per diversi reati di truffa. Un accumulo che l’ha portato a un fine pena fissato nel 2046. Di fatto, quanto una codanna all’ergastolo. Si chiama Marco Bondavalli ed è malato, dimagrito, quasi cieco e ha un insieme di patologie che non gli permettono di deambulare bene. Dal 2018 era riuscito ad ottenere la detenzione domiciliare per motivi, appunto, umanitari e rinnovabili di volta in volta. Nel mentre, però, è stato sbattuto di nuovo in cella per un arresto in flagranza per furto di corrente elettrica. In poche parole, per necessità ha commesso questo reato. Arresto non convalidato perché l’avvocata difensore Simona Giannetti obiettò che non poteva esistere il presupposto della flagranza. Ma da allora, restò in carcere perché con l’occasione gli tolsero quella misura della detenzione domiciliare. Si sono susseguite istanze su istanze per chiedere di nuovo la misura domiciliare. L’ultimo rigetto è stato depositato il 25 agosto, relativo all’udienza del 23 giugno. Un rigetto che avviene nonostante sia confermato il suo stato di salute precario. L’avvocata Giannetti, nell’ultima istanza, con tanto di cartelle cliniche ha dimostrato l’attualità della grave infermità fisica e l’incompatibilità con il carcere. In sostanza ancora oggi permane questo suo stato di salute che non solo non è mai migliorato dal 2018 ad oggi, ma semmai peggiorato in ragione delle malattie degenerative di cui è affetto. Come rivela il legale, il peggioramento è avvenuto a causa delle difficoltà del carcere a rendere operative le terapie a cui doveva sottoporsi e a cui non si sottopone. Infatti, nel “Diario clinico dell’Azienda Ospedaliera di Reggio Emilia”, si legge: “Sentite le ragioni del paziente per essere curato agli arresti domiciliari dal Suo medico Personale e dalla Medicina delle Cure Primarie, ove anche il Giudice accolga questa richiesta del Paziente, siamo totalmente d’accordo con lui e siamo già pronti a trasferire le nostre mansioni ai colleghi medici della medicina del territorio per le loro specifiche competenze e con il sussidio del personale infermieristico”. Da gennaio scorso a oggi è dimagrito di 50 kg, per l’impossibilità di mangiare cibo indicato da referto - La presente citazione nel Diario conferma, secondo il legale, l’evidente opportunità che Bondavalli sia messo in detenzione domiciliare in relazione alla sua condizione di salute, come riferito anche dal medico del carcere di Reggio Emilia. Di fatto, da gennaio scorso ad oggi è dimagrito di 50 kg, ciò dovuto dall’impossibilità mangiare cibo indicato da referto. Il vitto che riceve gli crea il vomito a causa della sua patologia. Secondo l’avvocata Giannetti, ciò è dovuto anche dalla mancata assunzione delle terapie e dei disattesi costanti controlli presso i presidi sanitari: “Sono queste le ragioni - oltre alla evidente forma di tortura nel costringerlo in stato di detenzione pur avendo un grave condizione di cecità e di difficoltà di deambulare - che rendono necessaria una misura alternativa alla detenzione: si impongono cioè sia motivazioni espressamente di salute, sia di dignità umana violata, considerato che la carcerazione per il detenuto in questione rappresenti una vera e propria sofferenza aggiuntiva contraria al senso di umanità”. Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha rigettato anche l’ultima istanza perché sarebbe monitorato - Ma c’è stato il rigetto. Per il tribunale di sorveglianza di Bologna, in realtà il detenuto è monitorato, tanto che - come dimostra la relazione medica aggiornata che hanno acquisito - nel caso di alcuni peggioramenti viene ricoverato in pronto soccorso in modo efficace e tempestivo. Assume comunque dei farmaci, ma soprattutto Bondavalli è a rischio recidiva “desunto dai precedenti penali a carico, dai carichi pendenti, dalle condotte inosservanti e potenzialmente lesive tenute nel 2020 durante l’esecuzione di misura domiciliare umanitaria”. Parliamo del furto di energia elettrica. In sostanza lo stato di salute di Bondavalli non è di tal gravità da essere considerato più urgente della necessità di tutelare la sicurezza sociale. “Il diritto alla salute come descritto nel caso di Bondavalli può davvero considerarsi dover soccombere per precedenti per truffa in soggetto con patologia degenerativa, che non deambula, quasi cieco, dimagrito della metà del peso e che non viene cibato come dovrebbe in carcere?”, chiosa amaramente l’avvocata Giannetti. Le ragazze di “Sbarre di Zucchero” scrivono al presidente Mattarella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 agosto 2022 “Chiediamo insieme alle ragazze del femminile del carcere Le Vallette di Torino, un suo intervento nell’attenzionare la classe politica alla disastrosa situazione in cui versano le carceri italiane”, così tramite pec si rivolge al presidente della repubblica Sergio Mattarella il gruppo “Sbarre di Zucchero”, il quale accompagna una lettera a firma delle detenute della sezione femminile “Le Vallette” di Torino. Parliamo di un gruppo composto dalle ex detenute compagne di carcerazione di Hodo Donatella, suicida nella Casa Circondariale di Verona il 2 agosto scorso. “In seguito al suo inspiegabile gesto abbiamo deciso di aprire un gruppo Facebook dove raccontare la detenzione femminile, spesso dimenticata e poco considerata per gli esigui numeri”, scrivono. Sottolineano che il carcere è stato costruito da uomini per uomini, per contenerne la violenza, che poco ha a che fare con loro donne. “Abbiamo un’affettività diversa, bisogni diversi, non smettiamo di essere madri, abbiamo bisogno di stare vicino alle famiglie, di poter fare colloqui con i figli, di poterli sentire maggiormente al telefono”, osservano sempre rivolgendosi a Mattarella. Le ex detenute di “Sbarre di Zucchero”, denunciano che i numerosi suicidi di questo anno (ora giunti a 58 persone) sono la tangibilità di un non funzionamento dell’esecuzione penale. Ovvero dell’inadeguatezza delle strutture, della poca presenza di educatori, psicologi, criminologi. Del bisogno di una maggior formazione del personale di Polizia penitenziaria che spesso si trova a dover fronteggiare situazioni a cui non è preparato. “Chiediamo insieme alle ragazze del femminile del carcere Le Vallette di Torino, un suo intervento nell’attenzionare la classe politica alla disastrosa situazione in cui versano le carceri italiane”, scrivono al Presidente della Repubblica, aggiungendo che “la detenzione deve essere rieducativa, riabilitativa, giusta e corretta, non umiliante e degradante, altrimenti diventa una scuola di delinquenza e si esce peggio di come si è entrati”. Tengono a ricordare che solo nella sezione femminile della Casa Circondariale di Verona Montorio, nell’ ultimo anno vi sono stati due suicidi e due tentativi di suicidio. E poi c’è la lettera delle donne del carcere di Torino. “Ci rivolgiamo a lei - scrivono - in quanto garante della costituzione chiedendole di riportare l’attenzione della classe politica sul rispetto della dignità e delle possibilità che la carta costituente sancisce per tutti i cittadini: reclusi compresi”. Sempre nella lettera rivolta al presidente, denunciano il fallimento del sistema penale, perché “pieno di storture e diseguaglianze. In questo riflette le stesse problematiche della società “libera”, non c’è niente di più pericoloso per quanto riguarda i temi sociali e del rispetto dei diritti e della libertà”. Le donne del carcere di Torino, osservano come il governo attuale non ha fatto nulla di concreto per il carcere. “Ora è in carica per “gli affari correnti”: nonostante le troppi morti, il sovraffollamento, il caldo torrido, la scarsa igiene, la carenza d’acqua, l’inesistenza di cure sanitarie e di personale adeguato in ogni sezione, non ci considera persone e non attua nessun decreto: non siamo parte degli affari correnti?”, denunciano con forza nella lettera invocando l’intervento del Presidente della Repubblica. Carceri, i diritti non abitano più qui di Milo Goj lincontro.news, 30 agosto 2022 Mentre i partiti cercano una soluzione condivisa per rispondere in tempi brevi all’allarme energia, che rischia di portare letteralmente alla fame milioni di italiani, la campagna elettorale prosegue in modo surreale. Il teatrino della politica si occupa di coalizioni e simboli - L’attenzione degli esponenti politici, almeno da quanto riportano i mass media, si concentra su aspetti da teatrino della politica, irrilevanti per il Paese e, dal mio punto di vista, emetici. Come gli accordi per decidere chi eventualmente sarebbe indicato come capo di una coalizione, la sorte degli attuali ministri o persino l’analisi del simbolo dei contendenti. …mentre il sistema delle carceri italiano è un colabrodo - In un dibattito che non disdegna di dare risalto agli argomenti più futili, c’è un tema di cui non si trova traccia: il sistema carcerario italiano. Eppure le “nostre prigioni” non hanno risolto i problemi che si trascinano da anni, o, meglio da decenni, e che coinvolgono drammaticamente non soltanto i detenuti, ma spesso anche il personale di sorveglianza, inteso in senso lato. Il tutto, con gravi e inaccettabili violazioni dei diritti, non solo civili, ma persino umani. Abbiamo prigioni indecenti - L’Incontro, ligio alla propria missione, pubblica una serie di articoli dedicati a questo tema. Da differenti punti di vista, nelle sezioni principali del giornale, potete trovare interventi del nostro editore, Riccardo Rossotto, dell’avvocato Alessandra Spagnol e dell’architetto Cesare Burdese. Insomma un numero (se questo termine si può utilizzare per una testata on line), quasi monografico. Non è accettabile che un bambino cresca in prigione - A dare il là era stato un articolo di Riccardo Rossotto, pubblicato lo scorso 21 agosto e dedicato specificamente ai bambini che si trovano in carcere, reclusi con le loro mamme. Se i numeri sono bassi (attualmente si tratta di 27 minori, di età sino a tre anni), la ferità per la nostra civiltà è di quelle profonde. Non è accettabile che si dia quasi per scontato che un bambino, la cui mamma deve restare in prigione, venga anche lui imprigionato. Un argomento trasversale che non ci può lasciare indifferenti - L’argomento “carceri”, preso sotto diversi aspetti, merita attenzione e L’Incontro continuerà a seguirlo. Del resto, alcuni dei nostri autori si sono dimostrati sensibili alla situazione dei carcerati. Ricordiamo, uno per tutti, Salvatore Garau. Il Maestro sardo, uno dei più noti contemporary artist italiani, affermatosi anche come musicista (è il batterista degli Stormy six, lo storico gruppo di rock progressivo) e scrittore, nel 2020 ha girato, come produttore (insieme alla Blue film) e regista, il film-documentario “La tela”. La “pellicola” mostra le fasi della creazione di un grande dipinto, di due metri per cinque, realizzato presso il Penitenziario di Alta sicurezza di Massama, Oristano, da tre detenuti, sotto la guida di Garau. Arte e creatività per raccontare storie difficili - L’idea non era quella di insegnare ai carcerati a dipingere, ma condividere la propria energia creativa con chi non è abituato alla libertà. Altri detenuti sono stati coinvolti e stimolati a far uscire la propria creatività, attraverso i loro racconti. Il film, già ospitato in oltre 30 festival, dovrebbe essere proiettato il prossimo anno in tutte le carceri italiane. Freedom ha cambiato casa #maipiùbambiniincarcere di Cesare Burdese lincontro.news, 30 agosto 2022 Freedom era un bambino di quasi tre anni, quando un giorno del 2013 l’ho incontrato nella sezione Nido della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, dove abitava con la sua mamma detenuta. Da circa due anni era in vigore la legge n. 62/2011, che stabilisce che le madri con figli al seguito possano, in alternativa al carcere, scontare la pena nelle Case Famiglia protette e negli Istituti a custodia attenuata (ICAM), salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Come progettare un ICAM - La finalità della legge, in sostanza, è quella di superare il problema della permanenza dei bambini ristretti con le madri negli Istituti penitenziari. Io ero in procinto di progettare l’ICAM che avrebbe sostituito quella sezione. Essa si configurava architettonicamente secondo uno schema progettuale standardizzato, per una generica utenza detenuta adulta ed era collocata al primo piano dell’edificio che ospita il reparto femminile della Casa Circondariale. Un carcere edificato alla estrema periferia della città sulla fine degli anni 70 del secolo scorso, con una capienza di circa novecento posti ed improntato alla massisma sicurezza. Ambienti inadatti e inospitali - La sezione Nido era inospitale ed incapacitante, del tutto inadatta a consentire la crescita armonica di un bambino con la propria madre, con pesanti e rumorosi cancelli a sbarre e massicce porte in ferro con spioncino per le celle. Inoltre robuste inferriate alle finestre in parte oscurate da fitte reti metalliche che impedivano di vedere fuori, ambienti costantemente illuminati artificialmente, spogli, anonimi, rumorosi e invasi da odori sgradevoli. Comprendeva l’area riservata al personale di custodia e quella destinata alle detenute, contigue e separate tra loro da un massiccio cancello a sbarre. Gli ambienti di vita della sezione consistevano in una trentina di celle, alcune da un letto, altre da più letti, con servizio igienico. Erano suddivise in parti uguali sui due lati di un lungo corridoio che comprendeva uno spazio dove soggiornare se non si restava in cella ed una piccola cucina. In carcere madri segregate e inattive per tutto il giorno - Quell’area utilizzava al piano terra una lavanderia, una stireria, una infermeria, alcuni laboratori, un locale colloqui, condivisi con le restanti sezioni femminili. In questo modo essa era fortemente frazionata, compartimentata e disomogenea e del tutto priva dei tratti di un ambiente familiare e casalingo, nel quale ritrovarsi con i propri bambini. Le madri non disponevano autonomamente degli spazi dove vivevano, rimanendo a lungo segregate ed inattive tra le celle ed il corridoio della sezione. Quindi era loro preclusa ogni possibilità di una quotidianità detentiva più simile a quella della vita libera, di tipo comunitario, autogestito e responsabilizzante. Freedom stava crescendo male in situazioni di disagio - Il bambino, quando non era portato all’asilo in città, trascorreva il suo tempo per lo più al chiuso, mortificato nella sua esperienza tattile, visiva, olfattiva e uditiva. Saltuariamente egli veniva portato a giocare su di un prato poco distante, posto nel recinto carcerario e sul quale incombevano sinistri gli edifici delle sezioni detentive maschili. La dismissione del Nido provocò un cambiamento - Il bambino stava crescendo quindi in una realtà fatta di vaste aree cementificate e prive di verde, di edifici lugubri, anonimi e fatiscenti, di lunghi corridoi, con la presenza dei rumori dei cancelli quando venivano aperti e chiusi. Inoltre segnali di allarmi improvvisi, urla, odori sgradevoli, persone in divisa, lunghi tempi di attesa prima dell?aperture delle porte, controlli prima dell’uscita… Tutto questo spaventava Freedom, provocando in lui situazioni di disagio, che lo portavano all’irrequietezza, con facilità al pianto, all’insonnia, all’inappetenza. Poco dopo il nostro incontro, Freedom con la sua mamma lasciò il carcere. Le cose cambiarono nel 2015, la sezione Nido fu dismessa, perché fu sostituita dall’ICAM. Una casa e non un carcere - L’ICAM è una casa e non un carcere, coerentemente alla ratio della norma, seppur rispettosa della sicurezza e della funzionalità penitenziaria. Determinante, per superare le criticità ambientali descritte, è il fatto che sia collocata in una palazzina di civile abitazione nell’intercinta del carcere, fuori dell’area detentiva vera e propria, in un’area delimitata da un’alta recinzione metallica allarmata. Questa cosa ha consentito di ricavare, antistante la palazzina, un’ampia area a verde recintata da una staccionata, attrezzata per poter giocare, permanere all’aperto ed incontrarsi con i parenti in visita. Spazi ideati e costruiti come per una normale abitazione - Rispettosa dei bisogni materiali, psicologici e relazionali dei suoi utenti, ICAM è dimensionata per ospitare quindici mamme, ciascuna un figlio, e si compone, senza soluzione di continuità, di zona giorno al piano terra e di zona notte al piano superiore. I due restanti piani ospitano indipendente la sezione dei semiliberi. Sezione nella quale sono presenti tutti i locali di una normale abitazione, oltre quelli per le attività trattamentali e le esigenze penitenziarie, che le circostanze richiedono. Le camere da letto sono da un posto e da due posti e dispongono ciascuna di un servizio igienico con doccia. Ambienti luminosi arredati con cura - Gli ambienti sono caratterizzati dall’uso di materiali di finizione dell’edilizia residenziale, sono luminosi perché ampiamente finestrati e per la maggior parte privi di inferriate, consentendo in questo modo viste sull’esterno libere e di non dover costantemente fare uso della luce artificiale. L’arredo è completo e curato, in parte fornito da Ikea e in parte realizzato dalla falegnameria del carcere, su mio disegno. Tutte le porte interne sono del tipo di civile abitazione e le poche inferriate hanno foggia non carceraria e sono posizionate per lo più sulle finestre del primo piano, per scongiurare cadute volontarie dall’alto. La sicurezza è garantita con soluzioni passive a basso impatto ambientale, senza venir meno a quella, integrate da telecamere a circuito chiuso. Le detenute si muovono in totale autonomia, custodite dal personale di custodia femminile in borghese. Verso le Case Famiglia per tutti - Consapevole della necessità di allontanare in maniera definitive i bambini dal carcere, nell’ottica esclusiva della “riduzione del danno”, ritengo che una struttura detentiva così concepita sia comunque certamente meglio di una sezione Nido, come descritta. Auspicabile certamente la soluzione delle Case Famiglia, come prospettata dal Pdl Siani che punta al superamento delle ICAM, a favore delle stesse, nell’ottica della tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. Anche se in presenza di strumenti giuridici di indiscussa civiltà, la convinzione è che la realtà ancora per molto non sarà tale, vista l’attuale incapacità dello Stato di dar corso alla norma in tempi tempestive, basti pensare che attualmente le Case Famiglia protette sono solamente due. Il timore è che in futuro, i bambini ristretti, anche se potranno procrastinare sino al sesto/decimo anno di età il drammatico momento del distacco dalla propria madre detenuta, difficilmente potranno evitare il trauma del carcere, per la mancanza di strutture adeguate. Giustizia, una riforma da completare: Csm e assunzioni i nodi del dopo voto di Angelo Ciancarella Il Messaggero, 30 agosto 2022 Esiste una agenda Draghi per la giustizia? E cosa consegna alla prossima legislatura? Ammesso che esista, consegnerà (forse) decreti legislativi che attuano leggi delega di riforma dello scorso anno. Insomma: consegna parole, “al comune scopo di riportare il processo italiano a un modello di efficienza e competitività”, per dirla con il Pnrr. Il quale, a sua volta, finanzia assunzioni temporanee per corrispondere ai ripetuti inviti della Commissione europea nelle cosiddette Csr, le Country Specific Recommendations. Naturalmente il dibattito sulla giustizia, sul fronte politico, è sempre vivo e rappresenta - pur confusamente - uno dei temi della campagna elettorale. In tema di garanzie nel processo penale e di ordinamento giudiziario ha importanti punti di contatto anche con le riforme organizzative e l’efficienza del processo. Insomma, per quanto si tratti di agendina, indubbiamente la prossima legislatura dovrà ripartire da lì. La legge 71/2022 del 17 giugno 2022 avrebbe dovuto ridurre l’invadenza delle correnti della magistratura e riformare profondamente il Consiglio superiore. La trasparenza previene la corruzione e contribuisce all’efficienza, ma le buone intenzioni hanno partorito un topolino. Futuri decreti legislativi dovrebbero assicurare “princìpi di trasparenza e valorizzazione del merito (nei) criteri di assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi” e, prima ancora, di “semplificazione, trasparenza e rigore nelle valutazioni di professionalità” dei consigli giudiziari, cioè i Csm locali all’origine del problema: lì si certifica, attraverso le autorelazioni, che tutti i magistrati sono eccellenti e straordinari. Non si è avuto il coraggio di ammettere a pieno titolo il voto dei componenti laici nei consigli giudiziari (avvocati e professori universitari, come al Csm). Ha invece prodotto effetti il senso unico nelle porte girevoli: forse nessun magistrato in servizio è candidato alle prossime elezioni. Per vedere all’opera il nuovo Consiglio, dato che l’attuale è in scadenza il 25 settembre, in coincidenza con le elezioni politiche, bisognerà aspettare almeno l’autunno. Il presidente Mattarella ha indetto le elezioni dei componenti togati per il 18-19 settembre e aveva invitato il presidente della Camera a convocare il Parlamento all’inizio di settembre, per eleggere i componenti laici. Lo scioglimento ha congelato questa possibilità e il Consiglio attuale dovrà probabilmente congelare le numerose nomine dei nuovi capi degli uffici. Un paradosso. Tra fine luglio e inizio agosto il Consiglio dei ministri, già dimissionario e con le Camere sciolte, ha adottato in via preliminare tre importanti decreti legislativi, in attuazione delle leggi delega di un anno fa. Le commissioni Giustizia di Camera e Senato dovrebbero dare un (dubbio) parere in settembre, poi in ogni caso potranno essere emanati. Sulla carta l’ufficio per il processo esiste da dieci anni. La vera novità - insieme a 1.550 assunzioni ordinarie e al più ampio coinvolgimento dei giudici onorari - è che ora ci sono i soldi per assumere, ma solo a tempo determinato per 2 anni o 2 e mezzo, 16.500 giovani laureati, anche in materie economiche. In realtà saranno la metà, assunti a rotazione o in parte le stesse persone, rinnovate. Il concorso si è già svolto e le assunzioni del primo scaglione sono in corso da alcuni mesi. I compiti principali dell’ufficio sono lo studio dei fascicoli e la preparazione di minute e bozze di decisioni, l’implementazione delle banche dati e l’estensione della digitalizzazione dei fascicoli, con l’obiettivo di ridurre nel 2026 la durata dei processi civili del 40% e penali del 25% rispetto al 2019; e abbattere fino al 90% l’arretrato civile. I 2,4 miliardi di euro per la giustizia rientrano nella missione M1 del Pnrr, i cui obiettivi sono la digitalizzazione, l’innovazione e la sicurezza nella Pubblica amministrazione. Ma il 95% sarà utilizzato per le retribuzioni. Solo 83,5 milioni sono previsti per estendere al penale e in Cassazione il fascicolo digitale; e appena 50 per “l’adozione di strumenti avanzati di analisi dati”. Manca un progetto tecnologico di effettiva automazione dei procedimenti e di gestione dei big data che si potrebbero costruire. La speranza è che questo avvenga nel più ampio contesto dell’automazione della Pubblica amministrazione, come lasciava presagire, un anno fa, la nomina di un esperto alla direzione generale per i sistemi informativi automatizzati. Il secondo decreto legislativo riguarda il processo civile, con incentivi anche fiscali alle soluzioni alternative, dalla mediazione alla negoziazione assistita (estesa alle cause di lavoro). Già alla prima udienza dovranno essere definite le richieste risarcitorie e le prove del danno. Viene estesa la competenza del giudice di pace e del giudice singolo, riservando al tribunale collegiale le questioni di maggior valore e complessità. Le novità scatteranno dal secondo semestre 2023 e non si applicheranno ai processi in corso. Basteranno tre anni per abbattere la durata e gli arretrati? Ulteriore step è previsto tra due anni, con l’accorpamento della materia di famiglia e di quella minorile nel tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie. Il terzo decreto legislativo modifica profondamente il processo penale e cerca un punto di equilibrio tra efficienza, ragionevole durata del processo e garanzie per gli imputati, senza perdere di vista le vittime. È il compromesso tra la sospensione della prescrizione (governo Conte) e l’improcedibilità processuale (ministra Cartabia), che tanto tempo ha portato via. Il processo telematico sarà graduale, non prima di un paio d’anni. Termini più rigorosi per le indagini preliminari e condizioni più stringenti per il rinvio a giudizio, quando sia dubbia la sostenibilità dell’accusa. Potenziati i riti alternativi e la definizione anticipata anche attraverso la messa alla prova, con sospensione della condanna; la conversione della pena sia in forma pecuniaria che di prestazione (lavori di pubblica utilità). La giustizia riparativa trova una disciplina organica con l’istituzione di Centri in ogni corte d’appello, e dovrà gradualmente coinvolgere enti locali e altre professionalità. Tutto questo, più che ridurre la durata media, potrà ridurre i carichi giudiziari o spostarli all’esterno del sistema. La scommessa potrà essere vinta solo con un mix di efficienza e di efficacia delle indagini preliminari, tra professionalità dei Pubblici ministeri e totale reinterpretazione del proprio ruolo da parte dei giudici delle indagini e dell’udienza: quel che è scritto da 33 anni nel nuovo Codice di procedura penale. Giustizia, guai a parlarne. In campagna elettorale l’unica voce è quella dell’ex toga Nordio di Simona Musco Il Dubbio, 30 agosto 2022 Tra le file di FdI l’ex procuratore aggiunto di Venezia, tra i promotori dei referendum. Guai a parlarne. Almeno a sinistra, perché parlare di giustizia, a sinistra, significa sempre mettere a rischio qualche voto. Colpa di idee spesso confuse o nelle quali si crede poco, al punto - com’è accaduto con la riforma Orlando sulle carceri - da metterle subito da parte in vista del ritorno alle urne, con la promessa (disattesa) di riparlarne se e quando sarà. In un panorama come quello attuale, nel quale la destra viene data vincente anche nel caso in cui non partecipasse alle elezioni, il silenzio vale dunque oro. Ciò nonostante la giustizia sia reduce da tre anni terribili, durante i quali la credibilità della magistratura è colata a picco, rendendo evidente la necessità di un intervento riformatore fin qui edulcorato dalla maggioranza larga del governo Draghi. Così, dopo il tentativo andato a vuoto dei referendum, che pure hanno avuto il merito di evidenziare l’urgenza di affrontare alcuni temi caldi della giustizia, a parlarne rimane chi, ormai certo di portare a casa la vittoria, non ha mai avuto paura di metterci la faccia. Succede, dunque, che l’argomento, almeno sui giornali, è diventato appannaggio della destra, che mentre litiga per la leadership dimostra di avere un’idea molto precisa, delineata della giustizia, sia dal punto di vista tecnico sia culturale. La voce principale, in questa arida campagna elettorale, è quella di Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, tra i più arguti censori dei comportamenti degli ex colleghi e tra le poche toghe di cultura liberale. Le sue idee non sono nuove: negli ultimi cinque anni, ovvero sin da quando ha appeso la toga al chiodo, non ha mai nascosto le proprie posizioni, rilanciando, tra le altre cose, l’idea di abolire il reato di abuso d’ufficio, considerato una zavorra per l’economia, l’urgenza della separazione delle carriere, della discrezionalità dell’azione penale e via dicendo. Il suo nome, piazzato in cima alla lista di un collegio uninominale del Veneto con Fratelli d’Italia, sembra essere destinato a sostituire quello di Marta Cartabia, almeno nei piani di Giorgia Meloni. Un profilo certamente di peso, che però per l’aspirante prima donna a Palazzo Chigi potrebbe anche costituire un problema: troppo garantismo in casa Nordio, contrario, ad esempio, all’inasprimento delle pene, slogan carissimo ai meloniani, e che invece l’ex toga respinge proprio in nome di quella “certezza” invocata senza sosta dall’intero centrodestra. Non solo: Nordio è stato uno dei promotori degli sfortunati referendum del 12 giugno, per i quali ha sostenuto con forza tutti e cinque i quesiti garantisti. Una posizione diversa da quella di FdI, apertamente contraria all’abolizione della legge Severino e alla limitazione dello strumento della custodia cautelare. Il programma del centrodestra, nel complesso, punta alla revisione delle riforme Cartabia nonché su giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama. Più approfondito il programma della Lega, che menziona apertamente garantismo, certezza del diritto, terzietà del giudice e responsabilità civile del magistrato. Nessuno, dall’altra parte della barricata, sembra invece essere in grado di dimostrare la stessa loquacità di Nordio, la cui voce è “accompagnata”, sempre a destra, dalle pillole di Silvio Berlusconi, che ha rilanciato l’idea dell’inappellabilità delle assoluzioni. Dalle parti dei dem, infatti, i big sono impegnati ad affrontare temi diversi, in particolare quelli legati all’economia. Le idee in tema di giustizia sono dunque da rintracciare “sulla carta”, in un programma che si pone tra le altre cose l’obiettivo di portare a compimento le riforme Cartabia, puntando su giustizia riparativa, depenalizzazione - dove necessario - e sul progetto di un’Alta Corte per i disciplinari dei magistrati e i contenziosi sulle nomine. Alza un po’ di più la voce - ma senza esagerare - il tandem Calenda- Renzi, che ha fatto proprie le proposte dei penalisti italiani, che prevedono, tra le altre cose, la separazione delle carriere, la presenza di avvocati e professori nei consigli giudiziari, la riduzione di fuori ruolo, una riforma della custodia cautelare anti- abusi, il ripristino della prescrizione sostanziale, più spazio ai riti alternativi e lo stop ai processi mediatici. Un vero e proprio programma garantista, che si contrappone a quello dei 5 Stelle, che hanno schierato anche l’ex procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho e l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato per ribadire le parole d’ordine legalità e diritti, con il completamento della riforma sull’ergastolo ostativo e un progressivo ritorno alla legge Bonafede. Della quale si sentiva proprio la mancanza... Nordio: “Il primo passo? Via l’abuso d’ufficio e tutte le norme che rallentano la giustizia” di Davide Varì Il Dubbio, 30 agosto 2022 L’ex pm di Venezia candidato con FdI: “Il mio piano per la Giustizia fa risparmiare 36 miliardi”. Le riforme più urgenti? “Quelle della giustizia che impatta sull’economia, che oggi è l’emergenza più grave. Secondo studi accurati e indipendenti, la lentezza della giustizia civile e penale ci costa circa un due per cento di prodotto interno lordo”. Così Carlo Nordio, magistrato in pensione e candidato nelle liste di Fratelli d’Italia, in un’intervista a Libero. “Quindi la prima cosa da fare è la radicale eliminazione e semplificazione di una serie di norme sostanziali e procedurali complesse e contraddittorie, che rallentano i processi e paralizzano l’amministrazione”, aggiunge. “L’esempio più emblematico è il reato di abuso di ufficio, che ha creato la cosiddetta amministrazione difensiva, per cui nessun sindaco o assessore firma più con tranquillità, non firma affatto. E gli investitori italiani e stranieri preferiscono produrre in altri Paesi”. Sulla proposta di Berlusconi di abolire l’appello del pm, Nordio spiega: “La prova della colpevolezza grava sull’accusa, e deve sussistere al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Facciamo un esempio: un imputato viene assolto dopo mesi di udienze, dove i giudici hanno ascoltato gli investigatori, i consulenti, i testimoni. Ebbene, oggi quello stesso imputato può esser condannato in appello dopo poche ore di discussione senza nuove prove a suo carico, solo sulla base dei verbali del dibattimento nel quale è stato assolto. Non mi pare ragionevole”. In questa fase il dibattito sulla riforma della Costituzione riguarda soprattutto l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Crede che sia possibile una riforma come quella voluta in Francia da Charles De Gaulle, che segnò la fine dei governi deboli e l’inizio del “semipresidenzialismo”? “Credo che il nostro sistema - risponde Nordio - abbia mostrato tali e tante criticità da dover essere mutato. Tanti governi, alcuni pessimi come il Conte 2, altri buoni come quello di Draghi, non hanno avuto una legittimazione elettorale. Da dieci anni si vive nell’emergenza situazionale, il cittadino pensa che il suo voto sia ormai inutile e se ne disaffeziona. In più c’è bisogno di stabilità. La Francia ha adottato una costituzione semipresidenziale nella grave crisi innestata dalla guerra in Algeria e sotto l’impulso di uno statista come De Gaulle. Da noi la situazione è un pò diversa, ma credo che dovremmo adottare le stesse misure. E poiché non mi pare che la Francia sia una dittatura, le obiezioni sul punto mi sembrano “betises”, sciocchezze”. Garantismo addio: pure Nordio vuole la galera! di Iuri Maria Prado Il Riformista, 30 agosto 2022 Non è scandaloso, anzi è del tutto armonico, che un partito legittimamente antiliberale candidi un proibizionista in argomento di droga. Ma il fatto che la candidatura di Carlo Nordio da parte di Fratelli d’Italia si segnali oltretutto per ambizioni ministeriali obbliga a qualche urgente considerazione. Non solo quel partito, infatti, ma nemmeno chi, come Nordio, ha deciso di militarvi con tanta prospettiva, può ignorare che l’incivile situazione del nostro sistema penal-carcerario, a cominciare dal sempre deprecato e mai fattivamente affrontato problema del sovraffollamento, dipende in notevolissima misura dal persistere dei due bastioni del proibizionismo italiano: quello costituito dalle leggi sull’immigrazione clandestina e quello rappresentato, appunto, dalle normative proibizioniste sugli stupefacenti. E’ anche possibile sorvolare sull’inadeguatezza tecnico-politica di cui offre prova Carlo Nordio - lo diciamo con tutto il rispetto dovuto a una persona stimabilissima - quando argomenta, come ha fatto ieri in un’intervista rilasciata al quotidiano Libero, che l’impostazione proibizionista sarebbe giustificata dal nocumento arrecato alle persone dall’uso delle droghe: un’impostazione che soffre di qualche incoerenza alla luce delle statistiche sui morti e sugli invalidati dall’alcol e dal tabacco. Per non dire del principio liberale comprensibilmente estraneo alle sensibilità di un partito, si ripete, legittimamente quanto indiscutibilmente antiliberale - per cui non sta al potere pubblico di comandare su base salutista i comportamenti individuali. Il problema, se questi altri fossero trascurabili, è un altro: e cioè che il regime proibizionista sulle droghe, come quello sull’immigrazione, in modo inutile e ingiusto affolla di povera gente le nostre carceri. È un sistema letteralmente criminale, un sistema di forsennata e inefficace intransigenza ideologica che mentre non risolve il problema che vorrebbe affrontare - quello dell’uso degli stupefacenti, come quello dell’immigrazione - ne determina uno ulteriore, vale a dire l’oscena condizione delle carceri: questi campi di contenimento di urgenze sociali ben altrimenti gestibili, demagogicamente finanziati dalla coppia retorica del “No a tutte le droghe” e del “Prima gli italiani”. Riguardati o rinnegati da destra o da sinistra, i problemi restano quelli: non l’immigrazione clandestina, ma ciò che la rende tale, cioè una legge sbagliata; non la droga, ma la legge a sua volta sbagliata che pretende di arginarne la diffusione con presidio protezionista. Piacerebbe che i liberali, per quanto acquisiti in ambito illiberale, ne fossero consapevoli. Bongiorno: “La pena va scontata in carcere. Capisco chi teme pm politicizzati” di Francesco Grignetti La Stampa, 30 agosto 2022 La senatrice leghista all’alleato Nordio: “No al ritorno dell’immunità parlamentare. La riforma Cartabia è il punto di arrivo, non quello di partenza: va cambiata”. Giulia Bongiorno è l’avvocato difensore di Matteo Salvini, ma anche la voce più ascoltata nella Lega in materia di giustizia. Il programma elettorale è in larga parte farina del suo sacco. E pur facendo tutti gli scongiuri del caso, Bongiorno si prepara a governare. Il che fa rima con rivoluzionare. “La mia esperienza parlamentare sulle grandi riforme in tema di giustizia - dice - finora è stata deludente. Per accontentare tutti i partiti, alla fine non si fa niente o quantomeno nulla di davvero incisivo. E invece noi vogliamo incidere”. Significa che volete la separazione delle carriere? “Sì, ma con la premessa che non saranno assolutamente riforme vendicative o punitive nei confronti dei magistrati. So bene che la grande maggioranza dei magistrati italiani lavora in silenzio e con carichi di lavoro enormi. Perciò, il primo degli interventi deve riguardare le assunzioni. Servono nuovi magistrati e personale perché sennò i fascicoli non camminano, i testimoni non vengono convocati, le notifiche non partono, e la giustizia s’ingolfa. Le vittime attendono giustizia e gli imputati restano ostaggio della giustizia per decenni. Non ha senso discutere di massimi sistemi se è tutto bloccato”. Però poi il programma è rivoluzionare tutto, o no? “Le cose devono marciare in parallelo. Da una parte, bisogna velocizzare i processi, combattere efficacemente la criminalità organizzata, la violenza nei confronti delle donne, il fenomeno delle baby gang. Solo se c’è una giustizia che funziona, c’è sicurezza. Dall’altra, occorre una riforma di tipo costituzionale per la separazione delle carriere e un doppio Csm. Una mezza separazione delle funzioni non basta. E prevengo subito la domanda: entrambe le carriere devono restare autonome e indipendenti dal governo. Non esiste che il pubblico ministero dipenda dall’esecutivo”. Conosce l’obiezione: volete smantellare la magistratura com’è oggi. “No, vogliamo smantellare le degenerazioni del correntismo. Sono i magistrati autonomi a chiedere tutela rispetto al potere delle correnti. Per questo torniamo a proporre il sorteggio temperato per accedere al Csm. Ne avevo parlato con il ministro Cartabia, ma occorreva una legge di rango costituzionale e non c’era il tempo”. Il suo nuovo alleato, Carlo Nordio, candidato di Fratelli d’Italia, pensa al ritorno all’immunità parlamentare, cioè l’articolo 68 vecchia maniera della Costituzione che era uno scudo per gli eletti dalle inchieste penali... “Guardi, il tema non è nel programma del centrodestra, tanto meno in quello della Lega. A dirla tutta, non mi sembra proprio una priorità in questo momento storico. Meglio pensare ai cittadini prima che ai parlamentari”. Colpito e affondato. Nordio vorrebbe rimettere in discussione anche l’obbligatorietà dell’azione penale... “Una riflessione va fatta. Così come vanno le cose oggi, l’obbligatorietà è una finzione. È sulla carta, ma non nella pratica quotidiana. Ci sono persino gli ordini di priorità per l’azione penale che differiscono da procura a procura. E io vedo donne che non denunciano le violenze perché poi l’obbligatorietà per i loro persecutori non vale. Quindi parliamone, purché si decida: o l’obbligatorietà c’è sul serio, oppure aboliamola”. Volete rimettere in discussione la riforma Cartabia prima che entri in funzione... “Ho sempre detto che quella riforma era un punto di partenza e non di arrivo”. Salvini teme che i magistrati facciano qualche brutto scherzo al centrodestra. Lo dicono anche Guido Crosetto e Stefano Candiani. Lei che i magistrati li conosce sul serio, teme qualcosa? “Io credo nella giustizia, non potrebbe essere altrimenti con il lavoro che faccio. Credo nell’imparzialità del magistrato salvo prova contraria. Ma ogni tanto qualche indizio salta fuori. Abbiamo letto tutti la famosa chat di Luca Palamara, quella in cui l’ex presidente dell’Anm scriveva a un suo collega critico sugli attacchi a Salvini, “hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo”. Nel leggere quella chat, sono rabbrividita. Se si fosse trattato di un attacco di un avversario politico sarebbe stato comprensibile. Ma Palamara era un importante magistrato, membro del Csm, dominus di una corrente. E poi, puntualmente, contro Salvini sono partite due inchieste in Sicilia. Per risponderle francamente, non vorrei che Crosetto o Candiani passassero per pazzi visionari. Il timore di qualche azione sconsiderata da parte di magistrati politicizzati, c’è sempre”. Giorgia Meloni dice di ritenersi una garantista, ma che la a pena va scontata, e non con pene alternative. In carcere... “Lo sostengo da sempre. Per me garantismo e certezza della pena si integrano perfettamente. Ci vuole il massimo delle garanzie per tutti e tre i gradi di giudizio, però poi la pena va scontata. E se è previsto il carcere va scontata in carcere. Non in un carcere sovraffollato però, altrimenti è una tortura. È essenziale investire su nuove strutture carcerarie. La cosa strana in Italia è che lo Stato impiega denaro, energie e tempo per fare i processi, e poi molla quando si tratta di far scontare la pena. La pena deve servire alla rieducazione del condannato, ma anche come deterrente. Un governo di centrodestra dovrà avere il coraggio di far scontare le pene ai condannati”. In America l’assoluzione inappellabile già esiste di Giuseppe Di Federico* Il Riformista, 30 agosto 2022 Nel 2007 la Consulta ha bocciato l’inappellabilità perché violerebbe il principio dell’eguaglianza tra le parti nel processo. Ma è dagli anni 60 che accoglie le eccezioni che riguardano la tutela degli interessi corporativi delle toghe. E nella Corte oltre 30 magistrati lavorano come assistenti dei giudici. Diversi giornali hanno criticato Berlusconi per la sua proposta, ma occorre ricordare che il divieto di appellare le sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero è un istituto creato 231 anni fa. Fa parte di un insieme di diritti costituzionali riconosciuti al cittadino statunitense nei confronti del governo. Si tratta del Bill of Rights approvato nel 1791. Questa previsione costituzionale muove dalla costatazione che il Pm ha a sua disposizione molti più poteri e risorse del cittadino e che per ciò stesso non vi sia né possa esservi di fatto una eguaglianza tra le parti del processo penale. Che sia quindi necessario tutelare la parte più debole. Il ritardo dell’Italia è plurisecolare. Negli Usa l’hanno stabilito già 231 anni fa con il Bill of Rights, riconoscendo che nel processo non c’è parità tra accusa e difesa perché il pubblico ministero ha molte più risorse. Ma per la Corte costituzionale sembra essere irrilevante. Diversi giornali e programmi televisivi hanno criticato Berlusconi per aver proposto di impedire al PM di fare appello contro le sentenze di assoluzione pronunziate da un giudice penale di primo grado. Hanno anche indicato come questa proposta non possa comunque essere attuata perché la Corte costituzionale ha già dichiarato incostituzionale una legge che la proponeva. Ritengo che queste critiche siano frutto di un acuto provincialismo e di una errata concezione del ruolo delle corti Costituzionali in un paese liberal democratico. Occorre innanzitutto ricordare che il divieto di appellare le sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero (PM) è un istituto creato 231 anni fa. Fa parte di un insieme di diritti costituzionali riconosciuti al cittadino statunitense nei confronti del governo. Si tratta del Bill of Rights approvato nel 1791 che oltre a riconoscere ai cittadini diritti come quelli riguardanti la libertà di parola, di stampa, di associazione, di religione e così via elenca anche i diritti del cittadino ad avere un giusto processo (due process of law) e tra questi anche il diritto del cittadino a non essere processato due volte per lo stesso reato (quinto emendamento). Questa previsione costituzionale muove dalla costatazione che il PM ha a sua disposizione molti più poteri e risorse del cittadino (si pensi solo ai poteri di indagine) e che per ciò stesso non vi sia né possa esservi di fatto una eguaglianza tra le parti del processo penale. Che sia quindi necessario tutelare la parte più debole, cioè il cittadino giudicato innocente da ulteriori iniziative penali di natura persecutoria da parte del PM. Ciò che dovrebbe meravigliare non è, quindi, la proposta di adottare questo istituto anche in Italia ma piuttosto che questa tutela processuale a protezione del cittadino, vigente in numerosi paesi, venga proposta da noi con un ritardo plurisecolare. Un ritardo, occorre ricordarlo, interrotto “temporaneamente” solo nel 2006 da una legge (la n. 20 del 2006) che introduceva quell’istituto anche nel nostro processo penale. Ho detto “temporaneamente” perché quell’istituto venne subito cancellato dalla nostra Corte costituzionale che accolse con sorprendente celerità le eccezioni di costituzionalità sollevate dai pubblici ministeri di Roma e Milano (sentenza n. 26 del 2007). Ad avviso della nostra Corte costituzionale quell’istituto violerebbe il principio costituzionale dell’eguaglianza tra le parti nel processo in quanto consentirebbe al cittadino di fare ricorso in caso di condanna ma non al PM in caso di assoluzione. Per la nostra Corte, a differenza del Costituente degli USA, è assolutamente irrilevante che di fatto non esista, né possa esistere nel processo penale eguaglianza tra accusa e difesa a causa della sproporzione tra i poteri e le risorse di cui dispone il PM rispetto a quelle di cui dispone il cittadino, una sproporzione, peraltro, ancor più marcata in Italia di quanto non sia che negli altri paesi democratici ove l’indipendenza del PM non è così assoluta, irresponsabile e incontrollata come da noi. Che dire della sentenza della Corte Costituzionale? Frutto di un formalismo giuridico che ignora anche le più evidenti realtà fattuali? Forse sì, ma a mio avviso vi è anche un fattore che condiziona i giudizi della Corte ben al di là del caso appena considerato e che deriva da uno dei molteplici aspetti della sua anomala composizione. Le nostre ricerche mostrano, infatti, che a partire dagli anni ‘60 la nostra Corte costituzionale ha con continuità accolto le eccezioni di costituzionalità sollevate dai magistrati riguardanti la tutela dei loro interessi corporativi e dei loro poteri. Mostrano anche che oltre ai giudici della Corte eletti dai magistrati (5 su 15) lavorano nella Corte oltre trenta magistrati (a tempo pieno o parziale) che fungono da assistenti di studio di tutti i giudici Costituzionali ed il cui compito è quello di collaborare con essi per le decisioni che riguardano le questioni di costituzionalità sollevate proprio dai loro colleghi che operano negli uffici giudiziari. Non dovrebbe quindi sorprendere più di tanto la regolarità con cui la Corte tutela gli interessi economici ed i poteri della magistratura. Se anche si volesse considerare questo fenomeno come frutto di una strana, fortuita coincidenza mi sembra innegabile che la presenza dei magistrati ordinari come assistenti di studio costituisca un evidente caso di conflitto di interessi che andrebbe sanato, stabilendo che i magistrati ordinari non possano più svolgere le funzioni di assistente di studio dei giudici costituzionali. È una riforma che suggerisco da tempo ma che sinora non ha avuto ascolto. Aggiungo una postilla che può essere di interesse per il lettore. Le nostre ricerche sulle Corti costituzionali dei paesi democratici mostrano che le anomalie della composizione della nostra Corte rispetto a quella degli altri paesi vanno ben al di là di quelle riguardanti gli assistenti di studio. Per sanarle e dare anche alla nostra Corte maggiore funzionalità, legittimazione democratica e trasparenza non basterebbe una legge ordinaria ma sarebbero anche necessarie profonde riforme di ordine costituzionale (“L’anomala struttura della Corte Costituzionale italiana, giudici e assistenti di studio: proposte di riforma”, www.archiviopenale.it, 2021, 3). *Professore emerito di ordinamento giudiziario, Università di Bologna Immunità, la destra si spacca. Bongiorno “azzoppa” Nordio di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2022 “Limitare l’ingerenza delle toghe”. La Lega dice no, Meloniani in forte imbarazzo: “Non è una priorità”. La proposta di Carlo Nordio, ex pm di Venezia in pensione e candidato alle Politiche con Fratelli d’Italia, di ripristinare l’immunità parlamentare divide il centrodestra. I tre partiti della coalizione hanno tre posizioni diverse sull’idea dell’ex magistrato che Giorgia Meloni vorrebbe portare al ministero della Giustizia: la Lega è contraria al ritorno dello scudo per il membri di Camera e Senato, Forza Italia è favorevole mentre Fratelli d’Italia sta nel mezzo, senza dirsi né favorevole né contraria. Una spaccatura che potrebbe riflettersi anche su altri temi che riguardano la giustizia: basti pensare alla divisione verificatasi in occasione del referendum del giugno scorso quando, sui quesiti per limitare la custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino, Fratelli d’Italia si è separata dagli alleati facendo campagna per il “no”. “Sulla giustizia abbiamo idee molto diverse tra gli alleati, così dovremo cercare di fare poche cose su cui siamo d’accordo”, spiega un dirigente del partito di Meloni. La proposta che cos’è l’immunità parlamentare - Nordio, candidato con i legittimi eredi del Movimento Sociale nell’uninominale in Veneto e autore del capitolo sulla giustizia degli Appunti per un programma conservatore presentato alla convention di Milano, domenica ha presentato il suo manifesto politico in un’intervista al Quotidiano Nazionale rispolverando l’immunità parlamentare, cioè il divieto per i pubblici ministeri di indagare su deputati e senatori senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. La proposta di Nordio è quella di tornare alla vecchia formula dei Costituenti (articolo 68) eliminando la modifica che nel 1993, in piena Tangentopoli, aveva limitato l’autorizzazione del Parlamento solo ai casi di perquisizioni, arresti (non in flagranza), intercettazioni e sequestro di corrispondenza. Dietro la proposta dell’ex magistrato si cela uno scudo nei confronti della magistratura: “I Padri costituenti l’hanno voluta proprio come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura - ha detto al Qn -. Sapevano benissimo che qualcuno se ne sarebbe servito a suo vantaggio, ma hanno accettato il rischio, perché quello della sovrapposizione di poteri era enormemente maggiore, come poi si è dimostrato”. Allo stesso tempo, però, l’ex pm ha spiegato che una modifica di questa portata andrebbe “spiegata bene ai cittadini affinché non sembri un privilegio di casta”. Fratelli d’Italia “In altri paesi parlamentari tutelati” - Anche se nell’intervista Nordio ha spiegato che “queste mie idee sono in grandissima parte condivise” da Meloni, in Fratelli d’Italia la sua proposta ha creato più di qualche imbarazzo. La posizione del partito infatti non è né favorevole, né contraria al ritorno all’immunità per i parlamentari. Una via di mezzo. Il responsabile giustizia di FdI, Andrea Delmastro Delle Vedove, non ha risposto a richieste di commenti. Ma Giovanbattista Fazzolari, responsabile del programma di FdI e molto vicino a Meloni, spiega così la posizione del partito: “Per noi il ritorno all’immunità per i parlamentari non è una priorità e non l’abbiamo inserita nel programma di governo - dice -. Detto questo, capiamo la proposta di Nordio visto che in Italia c’è un’anomalia che non esiste negli altri Paesi, nei quali i parlamentari sono protetti”. La posizione a metà del guado espressa da FdI riflette un certo imbarazzo nel partito. A diversi dirigenti le molte interviste di Nordio (che ha replicato ieri con Libero) non sono piaciute per una questione di merito e di metodo: sia perché considerate troppo “garantiste”, sia perché alcune di esse irrealizzabili, con il rischio di irritare l’establishment. Il pericolo, dice un dirigente di FdI, è che Nordio una volta al ministero della Giustizia diventi un “battitore libero” senza rispondere più a logiche di governo e di coalizione. Lega, Bongiorno: “noi siamo contrari” - Un secco “no” alla proposta di Nordio arriva invece da Giulia Bongiorno, responsabile giustizia della Lega di Matteo Salvini. “La Lega non è favorevole al ripristino dell’immunità parlamentare” dice al Fatto Quotidiano. Poi la senatrice, candidata nel Lazio per Palazzo Madama, elenca le vere priorità del centrodestra sulla giustizia: “Il prossimo governo dovrà affrontare sin da subito altri problemi come quello del funzionamento dei tribunali, della velocizzazione dei processi, della lotta alla criminalità, della tutela delle donne vittime di violenza. Per ciò che riguarda l’indipendenza dei giudici è prioritaria una profonda riforma del Csm”. Nel centrodestra si parla anche di Bongiorno come una possibile ministra della Giustizia per succedere a Marta Cartabia. La posizione di Bongiorno è condivisa da Andrea Ostellari, presidente leghista della commissione Giustizia del Senato: “L’immunità non è una priorità per gli italiani, quindi non lo è per la Lega”. Forza Italia Sì convinta: “È il momento di cambiare” - Diversa la posizione di Forza Italia, che invece condivide in pieno la proposta di Nordio. A dire “sì” è Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro in commissione Giustizia della Camera e capolista in Veneto: “Siamo assolutamente d’accordo con Nordio - spiega -. Io sono un uomo della Prima Repubblica ed è necessario tornare all’immunità prevista dai Costituenti che avevano scritto questo principio proprio per limitare le ingerenze dei pm”. La magistrata sorteggiata come candidata al Csm: “Le correnti dominano ancora” di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 agosto 2022 Intervista a Gabriella Pompetti, giudice civile del tribunale di Ancona, tra le candidate estratte a sorte alle prossime elezioni del Consiglio superiore della magistratura: “Non esiste neanche un elenco degli indirizzi e-mail dei magistrati, difficile fare campagna elettorale”. “Sto portando avanti la campagna elettorale soltanto con i miei mezzi, perché ovviamente non ho l’aiuto delle strutture di cui dispongono le correnti. Si tratta di un’attività complicatissima. Mi sono accorta che non esiste neanche un elenco ufficiale degli indirizzi e-mail dei magistrati che lavorano nei tribunali dei distretti che fanno parte del mio collegio. Sto cercando di recuperarli dai siti dei tribunali, ma spesso questi non sono aggiornati. Alcuni siti addirittura non hanno neanche l’elenco dei magistrati che prestano servizio presso l’ufficio giudiziario”. A parlare, intervistata dal Foglio, è Gabriella Pompetti, giudice civile del tribunale di Ancona, candidata alle prossime elezioni del Consiglio superiore della magistratura, previste il 18 e 19 settembre. Pompetti, 48 anni, è stata sorteggiata come candidata in applicazione della riforma voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che prevede l’estrazione a sorte delle candidature mancanti per garantire la parità di genere nei collegi. Pompetti è tra le magistrate candidate ex lege. Una scelta non facile per una giudice che nel corso della propria carriera ha sempre pensato soltanto a fare il giudice, non a ottenere incarichi apicali o ruoli di potere tramite raccomandazioni correntizie: “Sono un magistrato di provincia dedito al lavoro, fuori da qualsiasi circuito delle correnti”, dichiara Pompetti. Accettata la candidatura, però, Pompetti ha scoperto quanto sia difficile portare avanti una campagna elettorale senza le risorse di cui dispongono le correnti, in termini sia economici che di networking. “C’è un lavoro enorme da fare. Ho stilato un mio breve profilo in cui racconto la mia figura di magistrato e di mamma, ed elenco i principi a cui dovrebbe ispirarsi l’attività del nuovo Consiglio superiore: imparzialità, trasparenza, indipendenza di giudizio, meritocrazia, innovazione, rigore verso le sacche di inefficienza, sensibilità anche verso i temi della tutela della genitorialità, della salute e del benessere organizzativo dei magistrati”. Il problema è far conoscere le proprie idee ai colleghi elettori. Pompetti, in particolare, è candidata nella categoria giudici nel Collegio 3, che comprende Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Marche, Molise e Sardegna. “Sto provando a contattare i colleghi via e-mail e telefonicamente, oltre che attraverso il passaparola. E’ un lavoro complicatissimo. La concomitanza con il periodo feriale dei magistrati di certo non aiuta”. In altre parole, una campagna elettorale improvvisata, amatoriale e svolta “sotto l’ombrellone”, che difficilmente potrà intaccare il potere delle correnti. Uno smacco ulteriore per chi ha vissuto lo scandalo Palamara come un’offesa al proprio lavoro: “Mi ritengo io stessa vittima di questo scandalo - confida Pompetti - Percepisco ogni giorno nel diretto contatto con le parti, non solo avvocati ma anche cittadini, un profondo sentimento di sfiducia. Devo convincere le parti della mia autorevolezza. Tutto questo crea un grande dispiacere, perché ho sempre vissuto il mio ruolo con un senso alto della giurisdizione”. Insomma, se l’obiettivo del sorteggio era quello di scardinare il potere delle correnti, difficilmente si può dire che sia stato raggiunto. “Sicuramente nelle sue intenzioni la legge è positiva, la parità di genere è un elemento da coltivare e da proteggere”, afferma Pompetti. “Certo, il meccanismo è da rivedere sotto molti aspetti. In primo luogo la disparità di strutture e risorse rispetto ai candidati delle correnti. Già soltanto avere un elenco degli indirizzi e-mail dei magistrati sarebbe qualcosa. Il secondo elemento fondamentale riguarda la tempistica. Occorre tempo per farsi conoscersi dai colleghi, anche tramite la presenza fisica. Infine, c’è anche una questione di definizione dei collegi. Ad esempio, il mio collegio comprende la Sardegna, che è molto lontana. Non conosco i colleghi sardi e credo proprio che le mie e-mail rimarranno fine a se stesse”. Veneto. Fondazione Esodo: aiuti per reinserirsi a 3.500 detenuti, già siglati 60 contratti di lavoro di Francesco Oliboni genteveneta.it, 30 agosto 2022 Uno degli ambiti che sta sopportando un grave peso in questo periodo di crisi è il mondo carcerario. Sì, un mondo, sempre più a sé stante, dimenticato e che viene ricordato quasi esclusivamente per l’alto tasso di suicidi. Accanto ad esso ci sono altri mondi paralleli come quello del personale carcerario, degli ex detenuti, dei loro familiari. Se c’è una emergenza che riguarda tutto il Paese, queste categorie fanno parte anche loro di quanti meritano attenzione e qualche provvedimento di aiuto in più. Se ne occupa da 10 anni la Fondazione Esodo Onlus con un progetto fondamentale nell’assistenza e nella promozione di persone che si trovano ad affrontare problematiche di vario genere con la giustizia, fuori e dentro il carcere, vivendo in situazioni di marginalità sociale. La Fondazione Esodo è nata per iniziativa dei Vescovi di Verona, Vicenza e Belluno-Feltre, a cui si sono successivamente aggiunte le Diocesi di Venezia e Vittorio Veneto, e ad essa aderiscono 23 enti del Terzo settore. Sommando le persone raggiunte ogni anno, il numero complessivo dei destinatari di interventi di inclusione sociale e lavorativa e? di 3.550 persone. I beneficiari sono nel 91% dei casi uomini e per il 9% donne; nel 47% dei casi si è trattato di italiani, per il 32% di persone provenienti da altri Paesi Ue e per il 21% da Paesi extra Ue. L’età media delle persone raggiunte e? di circa 40 anni, sia per i maschi che per le femmine. Le azioni di accoglienza residenziale in totale sono state 965 per un ammontare di 132.421 giornate di presenza nelle residenzialità. I percorsi di formazione professionalizzante hanno coinvolto circa un migliaio di persone; 218 di queste hanno effettuato successivamente anche un percorso di inserimento lavorativo, al termine del quale ben 60 avevano un contratto di lavoro. Ancora maggiori i numeri riguardanti i percorsi di inserimento lavorativo, con quasi circa mille persone coinvolte, ma ben 245 di loro al termine del percorso di inserimento lavorativo avevano ottenuto almeno un contratto di lavoro. “Sta ad ogni società fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento”. Queste parole di papa Francesco servono a far capire quanto siano importanti percorsi di inclusione sociale e lavorativa per i detenuti. Tre sono i cardini del progetto Esodo emersi durante un convegno svoltosi a Verona nel maggio scorso al quale hanno partecipato, oltre ai responsabili del Triveneto, il ministro per le Disabilità, Erika Stefani; il direttore generale Esecuzione penale esterna di messa alla prova del Ministero della Giustizia, Lucia Castellano; il presidente di Caritas italiana, mons. Carlo Maria Redaelli. Il primo è la rete, costituita dalle Caritas diocesane, dagli enti del Terzo settore partecipanti alla Fondazione e dalle istituzioni della Giustizia. Poi c’è l’accompagnamento delle persone, che significa stare al loro fianco in modo concreto durante l’esecuzione penale e nel primo periodo dopo il fine pena, con particolare attenzione al momento d’uscita dal carcere, che è la fase più delicata in termini di recidiva. Infine, l’agire con le persone: condividere assieme ai beneficiari proposte di attività, obiettivi e tempi in modo da lasciare loro lo spazio di decidere se aderire o meno. In questo modo si cerca di favorire un maggior coinvolgimento nel percorso intrapreso e di stimolare un senso di responsabilità più pieno. Viene data particolare attenzione a chi è privo di risorse abitative proprie o familiari e precario nei mezzi economici; si punta su inserimenti lavorativi, formazione, inclusione sociale e, appunto, abitativa. Gli obiettivi finali: offrire l’opportunità di acquisire competenze utili per un’autonomia di vita nel rispetto delle regole; ridurre il senso di solitudine e l’esclusione di chi termina di scontare una pena; far vivere esperienze che permettano di conoscere modi diversi di affrontare i problemi quotidiani e di stare in relazione con le altre persone; supportare e stimolare una progettualità di vita basata sui valori più profondi della persona. Ecco le parole del presidente di Fondazione Esodo, nonché direttore di Caritas diocesana veronese, mons. Gino Zampieri: “In questi dieci anni la volontà e la possibilità di attivare una pronta compartecipazione tramite una rete solidale di sinergie e competenze, ci ha resi capaci di valorizzare le relazioni e i singoli progetti a favore delle persone detenute, ex detenute o in esecuzione penale esterna. Tale rete relazionale, che si è estesa negli ultimi anni alle Diocesi di Venezia e Vittorio Veneto, esprime e rappresenta il valore qualitativo principale della nostra Fondazione” La Caritas, espressione dell’attenzione verso i poveri della Chiesa italiana, riesce a portare avanti questo e numerosi altri progetti grazie alla sua capacità di mettere in rete tantissimi attori che positivamente opera nel territorio, al sostegno economico di enti e fondazioni e, non dimentichiamolo, grazie anche ai fondi che arrivano dallo Stato tramite l’8 mille dei redditi delle persone fisiche destinato alla Chiesa cattolica. Ravenna. Donne e madri nelle carceri italiane, la mostra fotografica di Gianpiero Corelli ravenna24ore.it, 30 agosto 2022 Inaugurazione in programma il 2 settembre alle 18.30. Inaugura a Ravenna negli spazi di Palazzo Rasponi dalle Teste venerdì 2 settembre alle 18.30 (a seguito del convegno “Recluse, donne nelle carceri italiane”) la mostra fotografica di Giampiero Corelli “Domani faccio la brava. Donne, madri nelle carceri italiane”. Il percorso espositivo raccoglie 50 immagini che fanno parte di un grande lavoro di fotoreportage realizzato da Corelli in numerose carceri italiane dal 2008 a oggi. Un progetto focalizzato sulle sezioni e carceri femminili per cogliere la vita delle donne detenute ma anche delle addette di polizia penitenziaria, includendo anche chi le carceri le dirige. Un affondo in un mondo fatto di sofferenza, ma anche di tanta voglia di riscatto. Le donne colte dallo sguardo del fotografo sono spesso anche madri che si sono volute fare riprendere per dare una testimonianza forte della loro vita da recluse. L’esposizione è suddivisa in due sezioni: la prima parte in bianco e nero e riguarda il reportage effettuato dal 2008 al 2018; la seconda parte conterrà le immagini a colori del nuovo reportage effettuato dal 2021al 2022 in tredici carceri presenti su tutta la penisola italiana. Visibile in esclusiva anche il video reportage con inedite interviste a diverse detenute. In occasione dell’inaugurazione uscirà il nuovo libro fotografico “Domani faccio la brava” edito da Danilo Montanari con un importante testo critico di Renata Ferri. Il lavoro di Giampiero Corelli, in seguito verrà presentato in altre città italiane. La mostra è visibile a Palazzo Rasponi dalle Teste con ingresso gratuito fino al 18 settembre 2022 con orari: 17-20 per i giorni feriali e 11-20 di domenica. Lunedì chiuso. Il progetto è promosso dal Comune di Ravenna e Regione Emilia-Romagna. Carlo Maria Martini, dieci anni dalla morte: che cosa di lui oggi ci porterebbe un po’ di luce? di Marco Garzonio Corriere della Sera, 30 agosto 2022 Intuizioni, riflessioni e inquietudini del cardinale arcivescovo di Milano. A Basilea con Aleksi fu protagonista nel 1989 del primo incontro ecumenico dopo 500 anni. Durante Tangentopoli fu un salvagente morale. Per fare memoria di Carlo Maria Martini, morto il 31 agosto 2012, dobbiamo chiederci cosa di lui oggi sarebbe utile avere per prospettare qualche punto fermo nel disorientamento che offusca individui, governi, relazioni internazionali e un po’ di luce sul cammino di persone e comunità. È un modo per rispettare lui e assumere su di noi il riferimento al Salmo che il cardinale volle inciso sulla tomba in Duomo: “Lampada per i miei passi è la tua Parola”. Sempre nello spirito che Martini ha disseminato negli oltre 22 anni di magistero immaginiamo sette (numero biblico per eccellenza cui infinite volte l’Arcivescovo fece riferimento) possibili nessi tra memoria viva del cardinale e attualità cocente. Casa Europa - Non c’era evento piccolo o grande di cui Martini non cercasse consonanze nella Scrittura. Dalla liturgia del giorno o dal brano che gli balzava all’occhio aprendo la Bibbia si chiedeva “Che cosa mi dicono queste parole”. Dio non ha parlato una volta per tutte e non ha abbandonato l’uomo al suo destino. La creatura è chiamata ogni giorno a continuare l’opera del Creatore con altri uomini, ambiente, cultura. Martini fu protagonista nel 1989 del primo incontro ecumenico dopo 500 anni: a Basilea guidò i cristiani d’Europa insieme ad Aleksi, Metropolita di Leningrado poi Patriarca della Russia. Niente scontri di civiltà ma la Parola (il titolo di Basilea, “Giustizia, pace, salvaguardia della Creazione”, era sintesi del vangelo delle Beatitudini) rende fratelli. Il progetto d’una casa comune europea coi cristiani al lavoro fianco a fianco contribuì al crollo del Muro di Berlino. Il senso della storia - Allo scoppio di Tangentopoli Martini fu un salvagente morale nello sfarinamento di politica, istituzioni, economia (Romiti chiese scusa in pubblico al cardinale per il coinvolgimento della Fiat nello scandalo). Ma punto di riferimento per tutti, credenti e non, divenne perché propose una visione del vescovo estraneo a beghe pratiche e logiche di potere. Riportò d’attualità il patrono Ambrogio, “defensor civitatis”, capace di negare la comunione all’Imperatore per comportamenti dispotici. Potenzialità individuali - La prima lettera pastorale di Martini “La dimensione contemplativa della vita” stupì i laici e mise in crisi i cattolici. I primi trovarono un uomo di Dio che esponeva pensieri, idee, valutazioni in modo molto laico, con una libertà invece poco praticata nelle “chiese ideologiche” dei tempi (marxiste, liberal); i secondi, affetti ancora da dosi di clericalismo e rendite di posizione d’un Paese che si credeva cattolico, vennero riportati alla coscienza individuale. “Cristiani adulti” era leit motiv della pastorale martiniana. Il ruolo della politica - Alla morte di Lazzati (1986) Martini istituì le Scuole di formazione al sociale e al politico. Le intitolò all’ex rettore della Cattolica che, tornato dalla prigionia in Germania, aveva scritto un manifesto “I fondamenti di ogni ricostruzione” ed era stato Padre Costituente (si attende che Roma sblocchi la causa di beatificazione di Lazzati). La politica come servizio ispirata al bene comune procurò guai a Martini. La Lega ne chiese la rimozione da Milano. Ma anche molti cattolici faticarono ad accettare il senso di liberazione che lui espresse finita l’esperienza storica della Dc: la fede poteva essere lievito, granello di senape, animare un piccolo gregge nel sociale e non strumento di governo o di favori. Iniziava la traversata del deserto che dura oggi: la Chiesa di Francesco non dice per chi votare e che tratterà con chi andrà a palazzo Chigi. Resta il punto fermo del vangelo. Le braci - Nell’intervista postuma pubblicata dal “Corriere” l’1 settembre 2012 Martini evocò l’icona delle braci. Torna il senso della storia, arricchito dal riferimento al possibile apporto ricreatore della Spirito. Il vento soffia e i tizzoni fan sprigionare il fuoco. Il cardinale non si arrese anche se la Chiesa si mostrava arretrata di 200 anni. Preghiera, non sogni - Nel libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme” Martini fa una confidenza a padre Spoerschil: prima aveva sogni sulla Chiesa, ma adesso (2007, l’ultimo anno a Gerusalemme) lui “prega per la Chiesa”. Sembra una distonia con un Papa che da quasi dieci anni sprona a sognare. Forse è l’abbandono fiducioso alla “lampada per i miei passi” che conta più delle parole. Pensieri e inquietudini - Quando Martini compì 80 anni Tettamanzi guidò un pellegrinaggio a Gerusalemme per portargli gli auguri della città. Ai Getsemani Martini si congedò dai fedeli così: “L’importante è che impariate a pensare, a inquietarvi”. Riprendeva un’antica preghiera cristiana che lui aveva ripreso: “Dona Signore al tuo popolo Pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze”. Coscienza, idee, libertà, responsabilità: quattro virtù senza tempo né casacche, attualità per la città e per il mondo. Quei ragazzi travolti dagli ubriachi al volante di Monica Serra La Stampa, 30 agosto 2022 In 7 giorni una scia di lutti. Nel corso del 2020, 25.902 conducenti sanzionati. Di notte gli incidenti causati dallo stato di ebbrezza raggiungono il 23,4%. Stella, Giovanni, Flavia e Simone sono solo le ultime quattro giovanissime vittime. Vite spezzate, tra i 15 e i 22 anni, in incidenti stradali causati da ubriachi al volante. Una lunga scia di sangue che anni di politiche e progetti italiani e dell’Unione europea non riescono a fermare. Secondo l’Osservatorio nazionale alcol dell’Iss, infatti, “a livello europeo, un incidente su quattro, il 25%, è attribuibile all’alcol” e sono “almeno 10 mila ogni anno” le vittime. I dati raccolti in Italia, a partire dal 2009, sono solo parziali. Secondo il ministero della Salute, nel 2019, 42 mila 485 persone sono state multate in tutta Italia per guida in stato di ebbrezza. Un numero che si è ridotto nel corso del 2020, arrivando a 25 mila 902 sanzioni effettuate tra polizia stradale, carabinieri e polizia locale. Cui si aggiungono 3 mila 831 persone multate perché alla guida dopo aver fatto uso di droghe. La relazione presentata nel 2021 dal ministro della Salute Roberto Speranza al Parlamento, in materia di alcol e problemi correlati, analizza i dati dell’attività condotta da polizia e carabinieri, intervenuti complessivamente in un terzo degli incidenti stradali con feriti in Italia: gli altri sono di competenza della polizia locale. Nel 2020, su 40 mila 310 incidenti con lesioni, sono stati 3 mila 692 quelli in cui almeno uno dei conducenti aveva bevuto più del consentito, mentre in 1391 si erano messi alla guida dopo aver consumato droghe. Una quota pari al 9, 2 per cento nel caso dell’alcol e al 3,5 per cento nel caso degli stupefacenti, che fa registrare “un aumento rispetto al 2019, seppure il periodo sia stato caratterizzato da una forte diminuzione degli incidenti e delle vittime”. Percentuali che salgono di notte, quando gli incidenti causati dagli ubriachi al volante arrivano al 23,4 per cento. Numeri alti, lontani dalla media europea secondo il Ministero della Salute solo perché incompleti, che si traducono nei terribili episodi di cronaca raccontati in questi giorni di agosto. L’ultima vittima si chiamava Stella Mutti, aveva 19 anni e viveva a Nuvoletto, nel Bresciano. Nella notte tra giovedì e venerdì scorsi, dopo il concerto del rapper Ernia - che le ha anche dedicato la sua hit “Bella” su Instagram - Stella tornava a casa in moto col fidanzato. È morta sul colpo dopo un violento impatto con una Jeep: la guidava un 27enne con un tasso alcolemico risultato tre volte superiore al limite e ora indagato dalla procura per omicidio stradale. Poche ore prima era successo a Roma: un poliziotto di 46 anni, già sospeso dal servizio, ubriaco e drogato al volante, aveva investito il diciannovenne Simone Sperduti sulla Prenestina. “Ho il cuore in pezzi, dovevo morire io”, ha scritto l’agente in una lettera al giudice che ha convalidato il suo arresto in carcere. Lunedì 22 agosto la stessa tragica sorte è toccata alla studentessa 22enne dell’Accademia di Belle Arti Flavia Di Bonaventura, travolta e uccisa in bicicletta a Scerne di Pineto, in provincia di Teramo, sulla statale 16 Adriatica, da un 34enne ubriaco e senza la copertura assicurativa dell’auto, ora ai domiciliari. La vittima più giovane si chiamava Giovanni Zanier e aveva soltanto 15 anni: è stato ucciso sulla pista ciclabile di Porcia, vicino Pordenone, dall’auto di una soldatessa americana ventenne con un tasso alcolemico di 2,09 grammi per litro, quattro volte superiore al consentito. Elezioni politiche. È scomparso il partito della pace di Stefano Iannaccone Il Domani, 30 agosto 2022 La campagna elettorale ha messo da parte la guerra in Ucraina. Per mesi battaglie e crisi geopolitica ha monopolizzato il dibattito politico, creato tensioni nella maggioranza che ha sostenuto Mario Draghi, ma ora viene lasciata sullo sfondo. Ci si sofferma solo sulle conseguenze per l’Italia: i rincari della bolletta energetica, e più in generale l’aumento dei costi delle materie prime. Anche il tema dell’invio delle armi a Kiev è praticamente sparito. Pure la Lega, scesa dalle barricate disarmiste, ha ripreso a parlare di investimento del settore della difesa, per esportare il know how italiano. Tra cui le armi che produce il nostro settore. Sembrano lontani i tempi in cui i suoi dirigenti ipotizzavano addirittura la nascita di un “partito della pace”. Nei programmi non c’è quasi più traccia del tema. L’amico di Berlusconi - Un esempio significativo arriva da Forza Italia. Silvio Berlusconi è stato sempre riottoso ad affrontare la questione visto l’amicizia di vecchia data con Vladimir Putin. Sono trascorse settimane prima che condannasse l’aggressione ordinata dal Cremlino. Nel progetto elettorale del suo partito manca qualsiasi riferimento a quanto sta accadendo in Ucraina, il paese attaccato non viene mai citata nel documento di 36 pagine degli azzurri. Così come non viene menzionato mai Putin. La guerra e l’ambizione per la pace sono fuori dai radar. La Russia compare una sola volta, in merito alla riduzione dell’import di gas. L’unico lontano riferimento che si può cogliere riguarda la collocazione geopolitica per cui, secondo Forza Italia, “l’Italia è, a pieno titolo parte dell’Europa, dell’Alleanza atlantica e dell’occidente”. Lega militare - Ma se per Berlusconi la vicenda non sorprende, è molto diverso per Matteo Salvini, che aveva vestito i panni del pacifista ad oltranza. È innegabile che nel corposo programma, la guerra in Ucraina viene citata in varie occasioni, e non solo per le conseguenze sul sistema economico italiano. La Lega prevede infatti di “promuovere una grande conferenza di pace che ridefinisca interessi e regole di pacifica convivenza”. Un impegno generico, ma in linea con quanto portato avanti dal suo leader. Lo sforzo pacifica però si infrange contro i progetti sull’industria bellica. Fin dall’inizio, Salvini aveva assunto una postura critica nei confronti del governo, citando il papa come modello. “Ho parlato di cessate il fuoco e di disarmo, dunque questi passano da uno stop di invio di armi”, diceva il 16 maggio dopo un vertice con il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Un’idea ripetuta costantemente nei giorni successivi, fino all’auspicio di non dover votare in parlamento una nuova richiesta sugli equipaggiamenti militari da inviare all’esercito ucraino. Una linea intransigente, che tuttavia nel programma elettorale leghista sembra sfumare. E lascia spazio ad altre idee sulle armi. “Gli investimenti per la difesa sono necessari al fine di dare attuazione al principio di deterrenza, lo stesso che ha garantito la sicurezza in Europa dal secondo dopoguerra”, si legge nel testo. Nessuna contrarietà all’aumento della spesa militare. La richiesta di un incremento viene celata dietro il ragionamento che gli stanziamenti “comprendono anche il finanziamento dell’arma dei carabinieri”. Ci sono altri passaggi significativi, nonostante gli estensori del documento si siano guardati bene dall’impiego della definizione di “industria bellica”, preferendo includerla nel macro settore della difesa. Si chiede comunque di “sostenere l’industria nazionale di settore”. Il motivo addotto è “che vale attualmente lo 0,90 per cento del Pil, corrispondente a oltre 15 miliardi di euro e garantisce occupazione diretta a oltre 50mila addetti qualificati, concentrati perlopiù nelle aree del nord ovest (22mila) e nel Mezzogiorno (14mila)”. Inoltre “tale sostegno andrà particolarmente orientato nelle possibilità di esportazione, attraverso la previsione di una cabina di regia al massimo livello istituzionale”. Niente armi all’Ucraina, quindi, ma nessun problema all’esportazione verso altri paesi. Fratelli d’Italia ha assunto una linea molto più equilibrista, nel documento pubblicato sul proprio sito e contenente le linee guida del programma. Lo scopo è quello di mostrare un profilo atlantista ed evitare allo stesso tempo malumori con gli alleati. Dunque, si parla di “sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione della Federazione russa” e allo stesso tempo “sostegno ad ogni iniziativa diplomatica volta alla soluzione del conflitto”. Conte e la pace perduta - Anche il Movimento 5 stelle, alfiere per qualche settimana delle posizioni pacifiste, ha relegato la questione in un angolino. Nel sintetico programma di 13 pagine, infatti, non viene menzionata l’Ucraina. C’è solo una riga dedicata al “no alla corsa al riarmo” e un generico richiamo alla “pace e la sicurezza” nell’ambito del progetto di difesa comune europea. Certo, in qualche uscita il presidente del M5s, Giuseppe Conte, a specifica domanda ha chiarito il suo “basta armi” a Zelensky. Ma l’argomento resta più sfumato. Non sorprende che nemmeno il terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi non faccia menzione del conflitto, né degli equipaggiamenti destinati a Kiev. Non è mai stato infatti argomento centrale del progetto politico e così nel programma c’è solo il riferimento a come modulare la spesa per il comparto della difesa, con la volontà di aumentare e razionalizzare i finanziamenti. Come prevedibile, invece, nel centrosinistra il tema è più sentito, l’alleanza Sinistra-Verdi dedica un’ampia porzione del programma così come fa Unione popolare. E ne parla pure il Pd, nel solco del sostegno all’Ucraina e della ricerca di un negoziato, affrontando in altri passaggi la necessità di garantire la pace. Centrodestra diviso sui migranti: cos’è il blocco navale proposto da Meloni di Valeria Forgnone La Repubblica, 30 agosto 2022 Salvini intende ripristinare i decreti sicurezza: “Bastano quelli”. E così la gestione dei flussi migratori si trasforma nella bandiera contesa dai due leader alleati. Nel centrodestra la partita per la leadership si gioca anche sui migranti. Il nuovo record di sbarchi a Lampedusa (ieri sono approdati altri 50 barchini e il centro ospita ora 1600 persone) sta animando la campagna elettorale, infiammando soprattutto il centrodestra. La leader di FdI, Giorgia Meloni, ha proposto il blocco navale mentre il segretario della Lega, Matteo Salvini, spinge per il ritorno dei suoi decreti sicurezza: quel pacchetto di norme che aveva emanato quando era ministro dell’Interno durante il governo Conte I e dichiarate in parte incostituzionali dalla Consulta: “I blocchi non servono, basta ripristinare i miei decreti”. La gestione dei flussi migratori si trasforma così nella bandiera che i due leader alleati si contendono. La presidente di FdI su Facebook posta un nuovo manifesto con quanche riga di spiegazione: “Uno Stato serio controlla e difende i propri confini. Non mi stancherò mai di ribadire che l’unico modo per fermare l’immigrazione clandestina è il blocco navale: una missione europea in accordo con le autorità nordafricane. Solo in questo modo sarà possibile mettere fine alle partenze illegali verso l’Italia e alla tragedia delle morti in mare. È giunto il momento di voltare pagina. Avverrà il 25 settembre se gli italiani ci daranno fiducia. Ma cosa si intende per blocco navale invocato da Meloni per fermare i flussi migratori? Cos’è il blocco navale proposto da Meloni? “Blocchi navali per difendere i confini”, sostiene Giorgia Meloni. Con l’idea della leader di FdI alle imbarcazioni con a bordo i migranti verrebbe militarmente impedito l’accesso e l’uscita dai porti. C’è un però. Per l’Onu, questa tecnica è ammessa per legittima difesa solo tra Paesi in guerra. Da una parte, quindi, Meloni con la sua proposta del blocco nvale per gestire l’immigrazione. Dall’altra, Matteo Salvini, che torna a invocare i suoi decreti sicurezza già nel primo Cdm dopo le elezioni (in caso di vittoria). La questione divide i due partiti del centrodestra con la Lega che non ha intenzione di lasciare questo tema a FdI qualora dovessero andare al governo. Il segretario del Carroccio, infatti, ha già detto più volte che in caso di vittoria alle elezioni del 25 settembre al Viminale siederà un uomo o una donna della Lega. Oggi da Reggio Calabria, parlando della situzione legata ai migranti sbarcati sulle coste italiane, ha aggiunto: “Ho dimostrato, pagando sulla mia pelle, che si possono contrastare gli scafisti. Oggi mi sono arrivate immagini da Lampedusa impressionanti e drammatiche. Duemila sbarcati in poche ore. Mi domando se l’attuale ministra dell’Interno Lamorgese sia stata avvistata su un’isola deserta, se sia in vacanza, su altro pianeta. Stiamo registrando numeri preoccupanti”. Il governo faccia il possibile per dare una svolta al processo Regeni di Filippo di Robilant Il Foglio, 30 agosto 2022 Dopo essersi costituita parte civile, la presidenza del Consiglio dovrebbe ricorrere alla Convenzione Onu contro la tortura, denunciando la mancata cooperazione giudiziaria da parte dell’Egitto. Un ricorso che, in base al parere di eminenti internazionalisti, non avrebbe ostacoli tecnico-giuridici. Al direttore - Cosa si può fare per ravvivare il procedimento penale per l’omicidio di Giulio Regeni finito su un binario morto? La difficoltà di portare avanti l’azione penale si è resa evidente nell’ottobre scorso quando la terza sezione della Corte d’assise ha rinviato gli atti al gup motivando la decisione con il rischio di nullità delle procedure notificatorie ai quattro indagati egiziani. La Procura di Roma ha quindi fatto ricorso alla Cassazione ritenendo gli indagati “finti inconsapevoli”. La Cassazione, il 15 luglio scorso, ha dichiarato il ricorso inammissibile valutando la sospensione “non abnorme”. Se con la sospensione del procedimento abbiamo impartito una lezione di diritto e di garantismo agli egiziani (per quel che vale, cioè zero), come evitare che diventi anche la tomba del processo? A parte notificare gli atti di comparizione direttamente all’Ambasciata egiziana a Roma, per il quale occorrerebbe un intervento legislativo, non si vede perché ulteriori rogatorie o pressioni politiche mirate a ottenere l’elezione di domicilio degli indagati dovrebbero in futuro dare un esito diverso da quelle precedentemente ignorate, anche alla luce della lettera del ministro Cartabia del 20 gennaio scorso al suo omologo egiziano, rimasta addirittura senza risposta, e la posizione della Procura del Cairo secondo cui l’indagine è chiusa. L’ipotesi, poi, di un ricorso contro l’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo, come ha fatto capire l’avvocato della famiglia Regeni, appare prematura in quanto il procedimento penale non è formalmente chiuso, oltre a essere indubbio che la Procura di Roma abbia fatto di tutto e di più per portare gli indagati a giudizio e che un ramo del Parlamento abbia fatto la sua parte con una commissione d’inchiesta la cui relazione finale è stata approvata all’unanimità. Va allora ricordato che nell’autunno scorso la presidenza del Consiglio si è costituita parte civile nel procedimento, manifestando così la volontà di non rimanere estranea all’iniziativa giudiziaria avviata dalla famiglia. Si è trattata di una scelta tardiva e anche un po’ di comodo: far vedere al paese che il governo non rimaneva inerte ma senza aprire un vero contenzioso con l’Egitto. Al punto in cui siamo, il ricorso del governo alla Convenzione Onu contro la tortura appare ineludibile. Materia del contendere: mancata cooperazione giudiziaria e d’indagine da parte dell’Egitto. Visto il periodo di autolimitazione del governo Draghi, tale ricorso rispetterebbe il principio di continuità dell’azione amministrativa? Da discutere ma senza dubbio rappresenta il logico e naturale corollario della sua volontà di costituirsi parte civile. Di che si tratta? Il primo comma dell’art.30 della Convenzione stabilisce che ogni controversia tra stati parte “relativa all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione che non possa essere composta per via di negoziato verrà sottoposta ad arbitrato su domanda di uno di essi”. Una fase consensuale per l’organizzazione dell’arbitrato si apre nei sei mesi successivi alla domanda. Se in questi sei mesi l’Egitto non dimostra alcuna volontà ad accordarsi, l’Italia “può sottoporre la controversia alla Corte internazionale di giustizia, depositando una richiesta in conformità allo Statuto della Corte”. Ottenere dall’Egitto, di fronte al mondo intero, la conferma esplicita della sua volontà di non voler cooperare ma di preferire coprire i quattro esponenti dei servizi di sicurezza incriminati dalla Procura di Roma per gravi reati, incluso l’omicidio per uno di essi, sarebbe già un bel risultato. Se poi si dovesse andare in Corte, questo potrebbe spingere l’Egitto, di fronte al giudizio del diritto internazionale, a cominciare a cooperare realmente, fino all’estradizione degli imputati (anche in assenza di un Trattato bilaterale di estradizione, secondo la previsione dell’ex art.8, comma 2, della Convenzione). Va rilevato che lo stesso articolo 30 non rinvia alle specifiche clausole sull’accettazione della giurisdizione obbligatoria della Corte, che nel 1957 l’Egitto ha limitato alle sole questioni relative al Canale di Suez, ma al suo Statuto relativamente alla procedura da seguire per inoltrare una richiesta in caso di fallimento del tentativo di organizzare un arbitrato. In sintesi: una controversia tra Italia ed Egitto è in essere da tempo, la materia del contendere è limpida e, in base anche al parere di eminenti internazionalisti, non ci sono ostacoli tecnico-giuridici alla formalizzazione del ricorso all’arbitrato. Attivare strumenti offerti dal diritto internazionale è un’azione concreta che ha il potenziale di smuovere le acque senza rappresentare, nel contempo, un atto ostile. Anzi, tali strumenti esistono proprio a salvaguardia delle relazioni amichevoli tra Stati contendenti. Ricorrervi, di fronte alla gravità di quanto accaduto, continua ad apparire come il minimo sindacale da parte dello stato italiano, a prescindere da chi lo guida. Una nuova udienza è stata fissata per il 10 ottobre prossimo. Prima, quindi, della formazione del nuovo governo. Per evitare l’ennesimo nulla di fatto, il governo in carica, ancorché per il disbrigo degli affari correnti, se la sente di gettare il cuore oltre l’ostacolo oppure lascia che sia il prossimo governo a salvare l’onore dell’Italia? La terza battaglia di Tripoli persa da Bashagha rafforza Dabaiba, che accusa le potenze straniere di Marco Boccitto Il Manifesto, 30 agosto 2022 Caos Libia. Almeno 32 morti e 159 feriti nei violenti scontri armati esplosi nella capitale libica nella notte tra sabato e domenica. Dopo i combattimenti che in 24 ore hanno provocato almeno 32 morti e 159 feriti - tra cui il popolare attore e personaggio tv Mustafa Baraka, uscito per filmare gli scontri e ucciso in diretta Instagram da un proiettile vagante - a Tripoli le forze fedeli al premier del Governo di unità nazionale (Gun) Abdulhamid Dabaiba hanno ristabilito il controllo sulla città. Ma trattasi di calma gravida di conseguenze, dopo le misure poco più che amministrative prese nell’immediato. Sul terreno resta anche il terzo colpo di mano andato a vuoto dell’ex ministro dell’Interno Fathi Bashagha, oggi premier designato del Governo di stabilità nazionale (Gsn). La marcia sulla capitale che aveva in mente dando l’ordine di attaccare è finita in una carneficina e nella conseguente ritirata dei suoi. Un passo falso rovinoso, che stavolta rischia di risultargli fatale. In campo il solito affollamento di brigate militari e milizie irregolari. Su quelle guidate o almeno affiliate a Bashagha alla fine prevalso i gruppi armati che controllano la capitale e tengono in piedi il governo di Dabaiba, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale: la Forza di sostegno alla stabilizzazione guidata da Abdel Ghani al Kikli, la forza Rada guidata da Abdel Raouf Kara e la Brigata 444 guidata da Mahmoud Hamza. La procura militare ha revocato il permesso di viaggiare a Bashagha, al presidente del Partito democratico che lo sostiene nel parlamento di Tobruk, Muhammad Sawan, al portavoce del governo Osman Abdul Jali e al generale Osama Juwaili. Ma dai toni di Dabaiba, che annuncia punizioni esemplari per i militari e i “civili” coinvolti, è facile dedurre che non finisce qui. Il premier di Tripoli ha parlato di soggetti “manovrati dall’esterno da chi non vuole la stabilità della Libia”, con riferimento velato ma non troppo all’appoggio - con diversi livelli di trasparenza e influenza - che Russia, Egitto e Francia hanno garantito fin qui alle manovre di Bashagha. Dabaiba ne esce in piedi, quindi rafforzato. Secondo fonti libiche citate da Agenzia Nova ora potrebbe anche passare all’attacco, uscire dalla capitale e regolare i conti con gli avversari. E in tal senso va considerata anche l’incognita rappresentata del terzo primattore della crisi libica, il generale Haftar, con i suoi appoggi e le sue velleità mai soddisfatte. Il caos libico che si rinnova è così completo. E la partita internazionale per il controllo delle sue risorse energetiche si avvita ancora di più. Pessime notizie per chi affolla il più grande campo di detenzione di migranti affacciato sul Mediterraneo. Iraq sull’orlo della guerra civile: assalto ai palazzi del governo e granate davanti ambasciata Usa Corriere della Sera, 30 agosto 2022 Il leader al-Sadr annuncia il ritiro e i suoi sostenitori scendono in piazza e chiedono elezioni anticipate. Iran e Kwait chiudono le frontiere. Una giornata di ordinaria violenza è andata in scena ieri a Baghdad, in un Iraq sempre più dilaniato dalla contesa intersciita tra il leader Muqtada al-Sadr, vincitore delle ultime elezioni, e i partiti armati filoiraniani, sconfitti alle urne ma da anni parte del sistema egemonico iracheno. Il bilancio provvisorio delle violenze sale col passare delle ore: 15 persone sono morte e decine sono rimaste ferite da spari di arma da fuoco. Alcune fonti accusano membri delle milizie jihadiste sciite filoiraniane, altre puntano invece il dito contro le forze di sicurezza governative. La spirale di violenza si era innescata a metà giornata quando i sadristi si sono mobilitati in massa nella Zona Verde dopo che il loro leader aveva annunciato di ritirarsi dalla vita politica. Momenti di paura anche davanti all’ambasciata degli Stati Uniti. Almeno cinque colpi di mortaio hanno preso di mira le vicinanze dell’ambasciata americana nella Green Zone, a Baghdad. Lo rende noto l’agenzia Shafaq News riferendo fonti della sicurezza. Violenti scontri armati sono già in corso nella Green Zone, dove i manifestanti stanno usando, pistole Pkc e fucili Kalashnikov. Ed è salito a 15 il numero dei manifestanti rimasti uccisi negli scontri nella Zona Verde a Baghdad. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha “seguito con preoccupazione le proteste in corso in Iraq, durante le quali i manifestanti sono entrati negli edifici governativi, ed e’ particolarmente preoccupato per le notizie di vittime”. Lo comunica in una nota il portavoce del Palazzo di Vetro, Stephane Dujarric. Guterres, si legge, “fa appello alla calma e alla moderazione ed esorta tutti gli attori interessati a prendere provvedimenti immediati per ridurre l’escalation della situazione ed evitare qualsiasi violenza”. Inoltre, esorta “tutte le parti a superare le proprie differenze e ad impegnarsi, senza ulteriori indugi, in un dialogo pacifico e inclusivo su una via da seguire che sia costruttiva”.