Se volete cambiare l’Italia guardate prima quelle celle di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 agosto 2022 Un suicidio ogni 5 giorni, 25mila persone l’anno in cella senza processo: il rapporto di Antigone potrebbe essere la base di un programma di governo se solo si spostasse lo sguardo sulle prigioni. L’estate calda del nostro sudore e quella della crisi di governo e delle elezioni anticipate, sono nulla più di noccioline se poste al confronto con l’estate bollente delle carceri. Il rapporto dell’associazione Antigone potrebbe essere la base di un programma di governo, di un vero governo del cambiamento, se qualcuno dei partiti che si dichiarano garantisti, e che in queste ore paiono molto impegnati a decidere con chi stare o più spesso con chi non stare, ne avesse voglia. E soprattutto se riuscisse a spostare lo sguardo su quel luogo - quello in cui esseri umani vengono messi in cattività da tanti definito come il punto principale su cui si misura la civiltà di un popolo o di uno Stato. Se un suicidio ogni cinque giorni vi pare poco, provate voi a stare in prigione. Se vi sembrano poche 25.000 persone che ogni anno stanno in carcere senza processo, e metà di loro verrà poi assolta, provate voi a subire questa violenza. Potremmo andare avanti così. Perché l’estate calda del nostro sudore e quella della crisi di governo e delle elezioni anticipate, sono nulla più di noccioline se poste al confronto con l’estate bollente delle carceri. Per fortuna c’è qualcuno a ricordarci, ogni anno, del dramma di chi sta rinchiuso. Ci sono quelli di “Nessuno tocchi Caino” che ogni 15 agosto, proprio come facevano con Marco Pannella, vanno a verificare le condizioni di vita, o di sopravvivenza, di detenuti e operatori, in diversi istituti penitenziari. E c’è l’associazione Antigone che non manca mai di presentare il proprio rapporto di metà anno. “La calda estate delle carceri” è ben più di una fotografia o di una stanca ripetitiva denuncia, di quelle che durano meno dello spazio di un mattino. Potrebbe essere la base di un programma di governo, di un vero governo del cambiamento, se qualcuno dei partiti che si dichiarano garantisti, e che in queste ore paiono molto impegnati a decidere con chi stare o più spesso con chi non stare, ne avesse voglia. E soprattutto se riuscisse a spostare lo sguardo su quel luogo -quello in cui esseri umani vengono messi in cattività- da tanti definito come il punto principale su cui si misura la civiltà di un popolo o di uno Stato. Se il concetto fosse reale, se le condizioni di vita dei prigionieri fossero il metro di misura della civiltà, l’Italia sarebbe il fanalino di coda in Europa. E molto vicino a quei Paesi in cui esiste la tortura. Del resto ce lo ha già detto la Cedu nel 2010, quando ha condannato l’Italia per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, proprio per il sovraffollamento e l’angustia delle celle. Cui va aggiunta anche l’esistenza di condanne, come quelle all’ergastolo ostativo, considerate forme di tortura in quanto non consentono vie d’uscita, vere forme di pena capitale mascherata. I numeri dell’associazione Antigone lasciano poco scampo. E ci costringono a sperare, insieme al presidente Patrizio Gonnella, che il prossimo ministro di giustizia non abbandoni il percorso riformatore avviato da Marta Cartabia. Ma non basteranno le buone intenzioni, ci vorranno anche le donne e gli uomini in grado di attuare una vera svolta. Per le conquiste più banali, prima di tutto. Per quelle cose come il diritto all’acqua e all’aria che noi da fuori neanche consideriamo più come obiettivi da conquistare. Ma ci sono carceri in cui manca l’acqua, e il diritto a bere e a lavarsi, il che vuol dire salute e dignità, è frustrato da razionamento. E ci sono anche luoghi di detenzione con finestre schermate, in cui la speranza di sopravvivenza ha l’immagine di un ventilatore, per il cui acquisto il ministero ha già dato l’autorizzazione ma c’è sempre qualcosa di burocratico, o a volte di sadico, a impedirne la concretizzazione. Così come la questione dell’affettività. Ci sono Paesi del mondo occidentale che rispettano questo diritto, mentre da noi pare una grande conquista una telefonata al mese, e non parliamo delle videochiamate, che paiono sparite insieme all’emergenza da Covid. “Una telefonata allunga la vita”, quel fortunato spot pubblicitario parlava proprio di pena di morte, di fucilazione scampata. Qualche minuto di colloquio in più con i propri cari, che si potrebbe concedere almeno d’estate, sarebbe anche qualche suicidio in meno, visto che in carcere ci si toglie la vita sedici volte in più che fuori. Ma naturalmente quando si parla di carcere si parla di giustizia. Due elementi inseparabili. Non si arriva in carcere senza esser passati dalle mani di un giudice, e soprattutto di un pm. È di lì che nascono i famosi “errori giudiziari”, che spesso hanno poco dell’errore e molto di altre mancanze, che vanno dall’incapacità alla trascuratezza e all’imperizia, fino a quel mondo doloso che va dall’ideologia alla politica e all’esibizionismo del singolo. Solo 565 risarcimenti per ingiusta detenzione in custodia cautelare nell’ultimo anno non significano che sia questa la percentuale vera sui 24.126 provvedimenti, ma solo che le maglie per ottenere giustizia sono ancora troppo strette. E il fatto che il 34,8% dei detenuti sia accusato o condannato per la violazione della legge sugli stupefacenti (il doppio della media europea) non significa che siamo un Paese di drogati, ma che troppo spesso la magistratura italiana, con una mentalità intrisa di moralismo, confonde il reato con il peccato e sanziona i comportamenti con l’uso della detenzione in carcere trascurando tutte le forme alternative, che andrebbero privilegiate, come disposto dalla legge di riforma dl 2015. Giustizia, riforme sospese tra diritto e mediazione politica di Valentina Stella Il Dubbio, 2 agosto 2022 In settimana Consiglio dei ministri sui decreti attuativi, ma Lega e M5S sono pronti alle barricate. Questa settimana è previsto un Consiglio dei Ministri durante il quale la ministra della Giustizia Marta Cartabia metterà sul tavolo anche i decreti attuativi della riforma del processo penale. Si tratta di un passaggio tanto atteso quanto problematico politicamente perché, come sottolineato nei nostri precedenti pezzi, Movimento 5 Stelle e Lega sarebbero pronti ad alzare le barricate su alcuni comma dell’articolo 1. Quali strade ha davanti a sé la Guardasigilli? Ambire alla maggioranza in Cdm, a maggior ragione che ora il M5S ha perso anche Federico D’Inca che potrebbe schierarsi con Draghi e Cartabia su questo provvedimento. Non ne è sicuro il professore emerito di procedura penale alla Sapienza di Roma, Giorgio Spangher: “Credo sia difficile, in una fase di ordinaria amministrazione, procedere a maggioranza. Giuridicamente forse sì, politicamente no”. Per il giurista, “bisogna capire se le opposizioni reciproche si saldano o si elidono. Nel primo caso l’attuazione della delega rischia, nel secondo caso no perché ognuno potrà dire di aver ottenuto qualcosa”. Qualsiasi considerazione resta un’ipotesi senza avere davanti i testi. Quello che è certo è che “i lavori delle cinque commissioni istituite a Via Arenula sono stati consegnati tra fine aprile ad inizio maggio: in tutti questi mesi sono rimasti nelle mani dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Allora mi chiedo - prosegue Spangher - tutta questa ampia forbice temporale sta servendo solo per armonizzare il dettato normativo o anche per sminare, temperare quelle parti divisive della delega, per giungere senza troppi intoppi ad un compromesso politico?”. Se così fosse ci sarebbe il rischio di una riforma depotenziata: “Già nel passaggio tra le conclusioni della originaria Commissione Lattanzi e il progetto portato dalla ministra in Parlamento per l’approvazione dell’intera riforma del penale abbiamo assistito ad un cambiamento molto ampio. Lo stesso potrebbe verificarsi adesso sull’altare del compromesso politico”. Alle istanze delle ex forze di maggioranza non bisogna dimenticare che si aggiungono anche quelle dell’Anm e dell’Unione delle Camere Penali: “Certo, si tratta di una riforma che tocca l’attività della magistratura requirente, di quella giudicante e della difesa. Pensiamo, ad esempio, alla videoregistrazione in caso di riassunzione della prova. Le Camere Penali chiedono che venga riprodotta in udienza ma se la ministra immaginasse solo che venga acquisita, ma non per forza pubblicamente, ci troveremmo in una violazione della delega? Non credo. Basta aggiungere o togliere una parola per specificare in un senso o nell’altro. Si tratta di un lavoro molto complesso quello della scrittura dei decreti”. Ma chiediamo al professor Spangher a cosa però non si può abdicare: “Non si può rinunciare agli strumenti deflattivi considerato che ogni anno entrano nel sistema giustizia oltre 2 milioni di notizie di reato e la macchina giudiziaria, nonostante la digitalizzazione e l’Ufficio per il Processo, non è comunque in grado di smaltirle. Faccio un esempio: per velocizzare i processi si potrebbe paradossalmente fare a meno dell’udienza preliminare o dell’appello, ma si pagherebbe un prezzo molto alto in termini di garanzie. Allora bisogna scavare all’interno dei meccanismi del processo e allargare l’utilizzo della premialità deflattiva”. Per Spangher “il punto di forza della riforma è quello che concerne il sistema sanzionatorio (non punibilità per particolare tenuità del fatto, sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, misure alternative al carcere per pene sotto i 4 quattro irrogate direttamente dal giudice di cognizione)”. Si incentiva anche il ricorso al patteggiamento al fine di ridurre il numero e la durata dei procedimenti celebrati con rito ordinario. “Tutto questo, non essendo previste depenalizzazioni né amnistie, né l’archiviazione meritata, rappresenta uno dei massimi profili atti a deflazionare il processo e indirettamente il sovraffollamento carcerario. Si tratta di un importante volano per gli istituti processuali, ma allo stesso tempo è un elemento su cui giustizialisti e garantisti potrebbero dividersi”. In questo contesto, ha concluso il processual penalista, “si inserisce anche la giustizia riparativa pensata nell’interesse della vittima e dell’autore del reato. Sull’estendere o meno l’accesso per tutti i reati ci sarebbero stati dei contrasti proprio all’interno della commissione istituita a Via Arenula”, figuriamoci se non riguarderà anche i partiti. All’interno di questa cornice si cambiano alcune regole del processo. In sintesi, si prevede, tra l’altro, che, “quando non sono soddisfatte le condizioni per procedere in assenza dell’imputato, il giudice pronunci sentenza inappellabile di non doversi procedere”. Inoltre il difensore dell’imputato assente può impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato. Si intende anche modificare “la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna” e accorciare “i termini di durata delle indagini preliminari”. Inoltre in caso di mutamento del giudice si “disponga, a richiesta di parte, la riassunzione della prova dichiarativa già assunta”. Per quanto concerne le impugnazioni, si immagina “l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato” e di “prevedere la celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore richiedano di partecipare all’udienza”. Insomma tra la purezza del diritto e la mediazione politica chi la spunterà? Elezioni per il Csm già nella bufera: i conflitti di interessi dei big della giustizia tributaria di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 agosto 2022 Il caso di De Matteis e Cilenti, candidati al rinnovo del Consiglio superiore della magistratura, ma allo stesso tempo membri del comitato di presidenza del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Non è iniziata nei migliori dei modi la campagna elettorale per l’elezione del nuovo Consiglio superiore della magistratura, quello che dovrebbe portare al cambiamento dopo lo scandalo Palamara. Le correnti sono ancora tutte lì, con i loro candidati, pronte a sfruttare a proprio vantaggio le peculiarità del nuovo sistema elettorale elaborato dalla ministra Marta Cartabia (in particolare il meccanismo dello scorporo per la selezione dei giudici nella parte proporzionale). Ma ad animare le polemiche fra le toghe negli ultimi giorni sono anche alcuni evidenti conflitti di interessi che riguardano alcuni candidati di rilievo. Due in particolare: Stanislao De Matteis, sostituto procuratore generale in Cassazione e candidatosi come indipendente, ed Edoardo Cilenti, giudice di corte d’appello a Napoli e candidato per Magistratura indipendente. Entrambi, infatti, fanno parte del comitato di presidenza del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (Cpgt), cioè dell’organo di governo autonomo dei magistrati tributari. Tradotto: il Csm della giustizia tributaria, incaricato di gestire tutto ciò che riguarda l’organizzazione e il funzionamento delle commissioni tributarie. Sia De Matteis (che del Cpgt è anche vicepresidente) che Cilenti, insomma, rivestono un ruolo di potere importante su un pezzo di magistratura italiana. Il principio di opportunità avrebbe suggerito un loro passo indietro prima di candidarsi al Csm, così da fugare ogni dubbio circa lo sfruttamento di una posizione di vantaggio e di influenza sui colleghi magistrati in occasione delle elezioni. Non a caso, in senso lato, la legge istitutiva del Csm vieta ai consiglieri uscenti di ricandidarsi, proprio per evitare che questi possano approfittare del ruolo di potere esercitato fino a quel momento (si pensi soprattutto alle nomine dei magistrati agli uffici giudiziari o ai procedimenti disciplinari). Sia De Matteis che Cilenti non si sono dimessi prima di correre per un posto al Csm. Anzi, fonti consultate dal Foglio rivelano che personalità autorevoli delle commissioni tributarie in questi giorni stiano sponsorizzando, tramite telefonate e messaggi, proprio la candidatura di Cilenti ai vari magistrati chiamati a occuparsi di contenziosi tributari. La situazione sta determinando non poche tensioni tra le toghe candidatesi per altre correnti, ma soprattutto tra quelle che hanno deciso di correre come indipendenti, senza alcun gruppo o particolari risorse alle spalle. Uno di questi è Giuseppe Cioffi, giudice del tribunale di Napoli Nord, che al Foglio dichiara: “Conosco bene Cilenti, di cui ho grande stima. Certo, c’è da dire che ora sta facendo campagna elettorale anche attraverso quella rete di magistrati che compongono le commissioni tributarie. E’ fisiologico, ma il conflitto d’interessi c’è. In questo modo ovviamente approfitta della sua condizione di vantaggio”. “Io mi presento come indipendente perché ho alle spalle una storia ultraventennale di indipendenza, che mi ha spinto già da giovane ad allontanarmi dai metodi correntizi. La nuova legge elettorale mi ha indotto a muovermi in maniera autonoma”, spiega Cioffi, che aggiunge di essere stato spinto a candidarsi anche dalle novità introdotte dalla riforma del Csm (che dovranno essere attuate attraverso decreti legislativi ad hoc), a dispetto degli allarmi lanciati dall’Anm: “Più rapidità, più attenzione al merito, più qualità nella valutazione dei magistrati. I fatti dicono che oggi ci sono una serie infinita di nomine effettuate dal Csm che vengono annullate dai giudici amministrativi. Non solo, sono pendenti centinaia di richieste di trasferimento. Nel mentre, il Consiglio superiore si diletta nell’adozione di circolari e di indicazioni di buone prassi che debordano dalle proprie competenze”. “Queste, insieme al correntismo e al carrierismo, sono le logiche che hanno fatto male al Csm e alla magistratura, e che noi candidati indipendenti puntiamo perlomeno a controbilanciare”, conclude Cioffi. Bologna, l’associazione dei familiari: “La legge che tutela le vittime di terrorismo e stragi va sbloccata” di Paolo Colonnello La Stampa, 2 agosto 2022 Il presidente della Regione Bonaccini: “Quarantadue anni dopo chiediamo ancora piena verità: il lavoro non è terminato”. È partito da Piazza del Nettuno, a Bologna, per poi dirigersi a Piazza Medaglie d’Oro, in Stazione, il corteo commemorativo per il 42esimo anniversario della Strage del 2 agosto. Sono presenti, tra gli altri, il sindaco Matteo Lepore, la vicesindaca Emily Clancy, il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. Il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano De Maria, il deputato del Pd, Andrea De Maria, il presidente dell’associazione dei parenti delle vittime, Paolo Bolognesi. Quando il Corteo ha iniziato a sfilare è partito un applauso da parte delle persone presenti. “Finalmente quest’anno c’è stato il processo ai mandanti, in primo grado ha dato una sentenza importante, che ha confermato quelle che per noi erano intuizioni. Adesso la Corte di assise ha confermato che la strage di Bologna è stata finanziata dalla loggia massonica P2, protetta dai vertici dei servizi segreti e eseguita da terroristi fascisti. Cominciamo ad avere sentenze è sempre più difficile confondere le acque con piste assurde”. Sono leparole pronunciate dal presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della Strage del 2 agosto 1980, Paolo Bolognesi, nel suo intervento nel cortile del Comune nel giorno del 42/o anniversario. E ha aggiunto: “Sbloccare la legge che tutela le vittime di terrorismo e stragi. Lo ha ribadito il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980 Paolo Bolognesi. “Da 18 anni - ha detto - c’è una legge licenziata in parlamento nell’agosto del 2004. Diciotto anni per farla funzionare sono troppi. Finalmente avevamo una legge che stava concludendo l’iter con il favore governo del e tutti i partiti hanno firmato”. Ma “in tutto questo iter” ci sarebbero problemi con “i ministeri economici che sembrano fare i furbetti”. “Qual è un motivo primo per affossare una legge? Dire che costa troppo”, ha detto Bolognesi, secondo cui bisogna evitare che le vittime “debbano fare causa per ottenere quello che gli spetta”, ha aggiunto, criticando “l’ottusità di quei ministeri”. “Diciott’anni senza normativa sono troppi, per qualche parruccone che vuole una corretta interpretazione”. L’intervento del sindaco Lepore - Da settembre Palazzo d’Accursio sarà la sede dell’Associazione familiari vittime del 2 agosto, perché era giusto dare una sede degna a questa associazione, abbiamo scelto uno spazio importante quello che era riservato alla collezione Morandi, per ospitare l’archivio e accogliere le scuole e portare avanti l’attività didattica. Significa tenere vicino al cuore l’associazione, proteggere questa istituzione della città”. Lo ha ricordato il sindaco di Bologna Matteo Lepore, dal cortile d’onore di Palazzo d’Accursio, dove sono iniziate le commemorazioni del 42mo anniversario della strage alla stazione di Bologna. “Oggi è molto attuale proteggere chi si batte per verità e giustizia, sono troppo recenti i depistaggi, dobbiamo proteggere e promuovere la memoria, ecco perché da settembre sarete qui nella casa di tutti i cittadini”, ha concluso il sindaco, rivolgendosi ai tanti familiari delle vittime presenti nel cortile d’onore con le loro gerbere bianche appuntate al petto. Il ministro dell’Istruzione Bianchi - “Siamo qui a ricordare a tutti noi che la lunga scia di sangue che ha attraversato Bologna e lasciato tante vittime e piaghe nel nostro popolo, era diretta a colpire la Bologna antifascista e democratica, diga contro il dilagare di tendenze eversive che volevano colpire la nostra democrazia. Tentativi tutti, Strage del 2 agosto, Italicus, 904, Ustica, Uno Bianca, fino al corpo di Marco Biagi, messi insieme da un infame impasto di fascismo, terrorismo, criminalità comune e istituzioni deviate che volevano minare nella profondità la nostra democrazia”. Così il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi. Bonaccini: “Chiediamo ancora piena verità” - “Noi vi siamo a fianco non in modo formale, siamo con voi perché crediamo nella democrazia e non c’è democrazia se non c’è verità”. Lo ha detto il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini durante l’incontro con i familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980, dal cortile d’onore di Palazzo d’Accursio. “Non contano tanto le parole, ci interessa la presenza, che significa l’abbraccio della comunità di questa regione ai familiari delle vittime e tutti coloro che desiderano sia fatta piena verità e giustizia - ha proseguito - sono stati fatti passi importanti in avanti, non è ancora terminato ciò che vorremmo, la piena verità per rendere giustizia a chi non c’ è più, a tutti coloro che sono animati da valori di libertà, giustizia democrazia e vogliono la verità”. “Insieme all’associazione dei familiari abbiamo contribuito ad un unicum, abbiamo versato presso l’Archivio di Stato tutti i fascicoli dei processi dal 1971 in poi, per terrorismo eversivo, stragismo, che hanno permesso di terminare il lavoro della strage del 2 agosto, dell’Italicus e Uno bianca, un contributo molto importante per avere un patrimonio a disposizione per conoscere la verità e fare memoria”. L’esilio civile della strage più grave della Repubblica di Davide Conti Il Manifesto, 2 agosto 2022 2 agosto 1980. La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 racconta molto dello spaccato storico dell’Italia di allora, interrogando gli assetti del nostro difficile e convulso presente. Una democrazia compiuta non avrebbe dovuto permettere che il tragico peso della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti e 200 feriti) ricadesse interamente per decenni sulle spalle e sulla memoria personale delle vittime e dei loro familiari. Tuttavia, pur rappresentando un prisma con cui poter leggere non solo le tante sfaccettature complesse e contraddittorie del nostro tempo ma anche i caratteri, le forme e la china assunta dalla democrazia nata dalla Resistenza (o forse proprio per questo), il più grave eccidio di civili della storia della Repubblica ha subìto per quaranta anni una sorta di esilio confutativo dal discorso pubblico. Da un lato l’attentato della stazione di Bologna è stato spesso separato, per circostanza e finalità, dalle altre “stragi di Stato” della fase 1969-1974, come fosse un fatto a sé stante privo di contesto e radici storiche e non piuttosto “figlio” degli eventi pregressi. Dall’altro lato, attorno ai suoi responsabili è stata costruita una campagna innocentista (ammantata di un improbabile garantismo) che non registra eguali rispetto alle vicende processuali delle stragi di Piazza Fontana, Peteano, questura di Milano, Piazza della Loggia, treno “Italicus”. In ognuna di queste operazioni paramilitari di stampo neofascista si sono registrati depistaggi, infondatezze giudiziarie o arbitrii di potere. Ma mai i riconosciuti autori materiali hanno potuto godere di un così esplicito sostegno nel dibattito pubblico da parte tanto di larghe porzioni della politica (la destra ma non solo) quanto di settori non marginali della stampa nazionale. Eppure il 2 agosto 1980 racconta molto dello spaccato storico dell’Italia di allora, interrogando gli assetti del nostro difficile e convulso presente. Nella strage sono coinvolti direttamente i servizi segreti militari nelle persone (condannate in via definitiva per depistaggio) del generale Pietro Musumeci, del colonnello Giuseppe Belmonte e dell’agente del Sismi Francesco Pazienza; i servizi segreti civili nella persona del capo dell’Ufficio Affari Riservati Federico Umberto D’Amato (ritenuto, secondo sentenza di primo grado, uno dei mandanti dell’eccidio assieme al capo della Loggia P2 Licio Gelli); il senatore del Msi e direttore de “Il Borghese”, Mario Tedeschi; i neofascisti dei Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini (in via definitiva), di Ordine Nuovo Gilberto Cavallini (primo grado), di Avanguardia Nazionale (Paolo Bellini, condannato in primo grado e già collegato con il Ros dei carabinieri di Mario Mori e con la ‘ndrina calabrese della famiglia Vasapollo). Vi sono, infine, un fiduciario del Sisde (Domenico Catracchia) e un altro colonnello dei carabinieri (Piergiorgio Segatel) condannati in primo grado per depistaggio e false informazioni. Un quadro che rappresenta e colloca la natura della democrazia italiana all’interno di quel particolare contesto della Guerra Fredda che caratterizzò tutto il corso della vicenda repubblicana fino al 1989 e che in nome dell’anticomunismo di Stato permise l’emergere di un fenomeno unico nell’Europa occidentale: lo stragismo come forma paramilitare della politica di atlantismo oltranzista. È attorno a quella interpretazione del conflitto bipolare che non solo è rintracciabile la logica operativa delle stragi di Milano, Brescia e Bologna o le menzogne sull’abbattimento del DC9 di Ustica ma anche il realismo che spinse il segretario del Pci Enrico Berlinguer alla dichiarazione (oggi strumentalizzata in funzione propagandistica pro-guerra) di sentirsi “più al sicuro sotto l’ombrello della Nato”. Non già e non certo per convincimento quanto, nella volontà di lottare per allargare il processo democratico, nella grave consapevolezza della limitazione della sovranità politica dell’Italia che in nome delle ragioni dell’Alleanza Atlantica non avrebbe mai permesso ai comunisti l’accesso al governo del Paese. I mancati conti con quella stagione mantengono oggi un’anomalia che interessa l’intera struttura istituzionale, trasformando e deformando ogni elezione politica in una “chiamata” alla difesa della Costituzione contro una destra che, dal Berlusconi ex iscritto alla P2 fino ai Fratelli d’Italia eredi del Msi, non solo è ostile all’eredità della Resistenza ma si richiama senza remore a figure come il fondatore di Ordine Nuovo, Pino Rauti o come Giorgio Almirante (già segretario di redazione della Difesa della Razza, poi esponente di Salò ed infine segretario missino amnistiato per il reato di favoreggiamento nell’inchiesta sulla strage di Peteano). La stessa destra che da anni, contro ogni evidenza, cerca di deviare le responsabilità del massacro. In attesa della Consulta, si consolida il diritto “vivente” sull'ergastolo ostativo nel tempo della pena di Gabriele Terranova* Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2022 Con una recente decisione (Ord. 16/06/2022, n. 9092), il Tribunale di Sorveglianza di Bologna si conforma all’orientamento giurisprudenziale già percorso da altre decisioni di merito (in particolare Trib. Sorv. Firenze, 29/10/2020, n. 3341), in attuazione delle due decisioni della Consulta (Sent. nn. 32/2020 e 193/2020) che hanno modificato il tradizionale approccio interpretativo in materia di successione di leggi in materia di esecuzione penale. Quest’ultimo, muovendo dall’affermazione della natura processuale delle norme relative all’esecuzione penale, ne regolava la successione, in caso di modifiche normative (prive di disciplina transitoria), alla luce del principio tempus regit actum. La Consulta ha invece riconosciuto la necessità di estendervi l’applicazione del divieto di retroattività sancito dall’art. 25 c. 2 Cost. “allorché la normativa sopravvenuta comporti una trasformazione della natura della pena”. L’intervento dei giudici bolognesi scaturisce dall’istanza di un condannato all’ergastolo in espiazione di un cumulo comprendente più titoli riconducibili a reati ostativi di prima fascia (associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, omicidi qualificati da connotazione mafiosa, pur in difetto di formale contestazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. 152/1991). Il condannato, che non risultava avere mai collaborato attivamente con la giustizia, chiedeva il riconoscimento della collaborazione inesigibile ai sensi dell’art. 4 bis c. 1 bis O.P., in funzione dell’ammissione alla semilibertà, oggetto di altra istanza già pendente dinanzi allo stesso Tribunale di Sorveglianza, ma il collegio ha ritenuto di dover preliminarmente stabilire se il riconoscimento della collaborazione, nelle sue varie possibili accezioni normative (effettiva, impossibile o inesigibile), dovesse necessariamente porsi quale condizione per l’accesso al beneficio richiesto. Ciò in quanto le due già citate decisioni della Consulta avevano già riconosciuto natura di norme penali peggiorative, seppure formalmente operanti solo sul regime dell’esecuzione, delle modifiche normative operate sull’art. 4 bis O.P. dalla l. 09/01/2019, n. 3, c.d. spazzacorrotti (Sent. n. 32/2020), e dal d.l. 18/02/2015, n. 7, in materia di immigrazione clandestina (Sent. n. 193/2020). Analogamente la Corte di Cassazione (Sez. I, 20/03/2020, n. 12845), senza necessità di ulteriori interventi costituzionali, si era pronunciata sull’irretroattività di altre interpolazioni della stessa disposizione operate dalla l. 23/04/2009, n. 38, in materia di reati sessuali. In tutti questi casi, allungando il catalogo dei reati ostativi, si era esteso l’ambito di applicazione della preclusione all’accesso alle misure alternative ed ai benefici penitenziari per i condannati che non risultassero avere collaborato con la giustizia. Ovvio quindi, secondo il Tribunale di sorveglianza di Bologna, che allo stesso modo – ovvero con divieto di retroattività - si debbano applicare anche le modifiche apportate dal d.l. 08/06/1992, n. 306, che aveva per la prima volta introdotto la medesima preclusione, individuando nella sola collaborazione con la giustizia lo strumento per superare la presunzione assoluta di pericolosità sociale che attingeva, in quel caso, le persone condannate per reati a connotazione mafiosa, come quelli accertati nel caso esaminato. E dunque, poiché l’istante aveva riportato condanna all’ergastolo per fatti antecedenti all’entrata in vigore di tale disposizione (e non rilevando le condanne a pena temporanea, oramai tutte integralmente espiate), nessuna preclusione poteva essere ravvisata nei suo confronti in conseguenza delle restrizioni introdotte con quell’intervento normativo. La conclusione, in realtà, pur nella sua linearità, tale da farla apparire perfino scontata, presenta aspetti meritevoli di attenzione, dal momento che la valutazione rimessa al giudice, al fine di stabilire se debba ritenersi o meno operante il divieto di retroattività della norma sfavorevole successiva, non interessa la materia riguardata dalla modifica normativa (ovvero la tipologia di reati aggiunti al catalogo di quelli ostativi), ma il fatto che la normativa successiva comporti una modificazione della natura della pena, il che si verifica quando le modalità esecutive di questa influiscano sostanzialmente ed in misura significativa sulla concreta afflittività. É questo un punto su cui i giudici bolognesi non si soffermano esplicitamente, ma che presentava una qualche delicatezza. Se è vero infatti che è parte integrante del decisum del giudice delle leggi che ciò si verifichi allorquando vengono modificati in termini peggiorativi i presupposti per l’accesso alle misure alternative alla detenzione o alla liberazione condizionale, occorre tenere presente che, nel caso di specie, la misura alternativa cui il condannato chiedeva di accedere, la semilibertà, è caratterizzata dal fatto di non incidere sullo status detentionis. Il semilibero, per quanto sia – per definizione – libero a meta, è in realtà considerato a tutti gli effetti dalla normativa penitenziaria un detenuto. Inoltre, il suo concreto regime trattamentale, potrebbe risultare anche non molto dissimile rispetto a quello di altri detenuti nei cui confronti sia stato disposto più semplicemente il lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 O.P., che però non è annoverabile fra le misure alternative alla detenzione. Il rischio è dunque che, seguendo le linee guida della giurisprudenza costituzionale, si possa giungere a conclusioni difformi nella disciplina di situazioni le cui peculiarità presentano differenze in realtà decisamente sfumate, dovendosi necessariamente tracciare confini netti in un ambito in cui, al contrario, proprio la gradualità e la progressione costituiscono valori primari. Non resta che auspicare che venga finalmente dettata un nuovo statuto, come oramai da tempo avrebbe imposto la stessa Corte costituzionale, con l’ord. n. 97/2021, e prima ancora dalla Corte E.D.U., con la sentenza Viola c. Italia, all’intera materia dei reati ostativi, specie (ma non solo) se puniti con la pena dell’ergastolo, che riconosca finalmente la possibilità di un percorso di risocializzazione e di ravvedimento anche a chi, per scelta più o meno libera, non abbia prestato collaborazione con la giustizia. Di certo, affinché ad intervenire possa essere il Parlamento, occorrerà attendere la prossima legislatura, non potendosi ammettere che l’iter del disegno di legge già approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati possa rientrare fra le limitate attribuzioni delle Camere già sciolte. Toccherà dunque alla Corte costituzionale dare intanto una risposta che consenta di porre fine all’inedita attesa di quei quasi 1300 cittadini condannati all’ergastolo ostativo, di cui da oltre un anno è stata certificata la condizione di persone sottoposte a trattamento inumano e degradante, senza che a ciò abbia corrisposto un immediato intervento di ripristino della legalità costituzionale. *Presidente Camera Penale di Prato e componente Osservatorio Carcere UCPI Lazio. Due brutte giornate: tre decessi in due giorni nel sistema penitenziario di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 2 agosto 2022 Sono brutte giornate, queste, per il sistema penitenziario del Lazio. Oggi la notizia di un suicidio a Rebibbia femminile, di una donna con problemi di dipendenza e che aveva manifestato insofferenza e aggressività nei confronti degli operatori penitenziari, ma mai di sé stessa. Ieri, nel reparto di medicina protetta dell’Ospedale Pertini, è morto un uomo di cinquantasei anni, già detenuto a Velletri, dove gli era stato trovato un tumore in stadio avanzato contro cui non è stato possibile fare nulla, se non accompagnarlo verso la fine, sperando (peraltro senza riuscirci, per le solite farraginosità burocratiche) di consentirgli di spegnersi in un hospice, in condizione di detenzione domiciliare. A Viterbo, invece, in carcere è stato trovato morto un uomo di trentotto anni, probabilmente per un abuso di alcol e farmaci. In ciascun caso, com’è di prassi, ci saranno accertamenti disposti dall’autorità giudiziaria. Per ognuno di essi ne ho avuto notizia dai dirigenti sanitari che, in particolare nel caso della morte annunciata del paziente del Pertini, hanno fatto di tutto per alleviargli le sofferenze e per consentirgli di morire (quasi) in libertà. Certo, per ognuna di queste morti bisognerà rivedere cosa è stato fatto e cosa di meglio si sarebbe potuto fare, e rivedere i protocolli conseguenti, ma salvo che dalle indagini disposte dall’autorità giudiziaria non emergano fatti nuovi, non serve cercare colpevoli a goni costo di tragedie che, purtroppo, sono all’ordine del giorno nelle nostre carceri. Il problema sono, appunto, le nostre carceri, costrette a essere luoghi di contenzione del disagio e della sofferenza psichica, ospizi dei poveri, spesso insopportabili fino all’abuso di sostanze. Inizia nei prossimi giorni una nuova campagna elettorale per le elezioni politiche nazionali. Speriamo in parole misurate che siano anticipazioni di politiche sagge, che restituiscano alla società i suoi problemi di accoglienza e di sostegno sociale e riportino il carcere a quella condizione di extrema ratio che sola ne può consentire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e l’impegno al reinserimento sociale dei condannati. Lombardia. Carceri: due suicidi a pochi giorni di distanza a Brescia e Bollate agi.it, 2 agosto 2022 Due detenuti, uno nel carcere di Brescia e uno a Bollate, si sono tolti la vita nelle ultime ore in Lombardia. La notte passata, un recluso italiano, in isolamento Covid e in regime di massima sorveglianza, è stato trovato impiccato alle 3 del mattino dalle guardie che stavano facendo la conta notturna. La settimana scorsa, a quanto apprende l’Agi, un anziano detenuto si è ucciso nella casa circondariale di Bollate, uno degli esempi meglio riusciti di istituto di pena che rende effettivo il fine costituzionale della rieducazione. L’appello del sindacato di Polizia penitenziaria: “Condizioni ulteriormente peggiorate” - “Il Presidente Draghi nel suo discorso di insediamento si era impegnato a migliorare le condizioni di coloro che operano e vivono nelle carceri - commenta Gennarino De Fazio, sindacalista della Polizia penitenziaria. Questo impegno è stato totalmente disatteso e le condizioni di vivibilità sono ulteriormente peggiorate. Continuando così temiamo che prima ancora delle prossime elezioni politiche del 25 settembre la situazione possa degenerare. Per questo invochiamo, seppur in zona Cesarini, un intervento dell’esecutivo che possa consentire di prendere tempo in attesa di soluzioni strutturali da parte di un Governo nella pienezza dei poteri”. Nelle ultime ore si è tolta la vita anche una donna a Rebibbia. Salgono a 42 le persone che hanno scelto di uccidersi dietro le sbarre dall’inizio dell’anno. Roma. Detenuta si impicca a Rebibbia, il Garante: “Cresce il numero dei suicidi in carcere” di Alessia Rabbai fanpage.it, 2 agosto 2022 Intervista a Stefano Anastasìa sui suicidi nelle carceri di Roma e Lazio. Il numero è in crescita nel 2022, a Rebibbia una detenuta si è impiccata. Una detenuta si è suicidata con un cappio al collo nella Sezione femminile del carcere di Rebibbia a Roma. Si tratta di una trentaseienne con problemi di tossicodipendenza, che stava per essere trasferita nel carcere di Civitavecchia, dove si trova il compagno. Un trasferimento che le avrebbe consentito anche di avvicinarsi alla famiglia. Ma la donna senza alcun preavviso si è tolta la vita. Sono tre i casi di donne morte suicide nelle carceri italiane da inizio 2022, per un totale di quaranta di entrambi i sessi sul territorio nazionale, un numero in crescita rispetto agli anni passati. Nel carcere di Rebibbia si conta un caso di donna morta suicida, mentre al Regina Coeli si sono tolti la vita quattro uomini, per un totale di cinque casi di suicidi nel Lazio da inizio anno. Anastasìa: “Caso della detenuta di Rebibbia andrà analizzato” - Fanpage.it ha intervistato il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa: “Rispetto alla detenuta suicida a Rebibbia il caso andrà studiato e analizzato, per capire se questo evento si sarebbe potuto prevenire e come. La donna era nota al mio ufficio in quanto ci eravamo interessati per consentirle colloqui con il compagno che si trova anche lui in carcere a Civitavecchia. Era seguita sia dal Sert, che dagli altri servizi sanitari in carcere e aveva manifestato dei comportamenti aggressivi nei confronti degli operatori sanitari. Sicuramente era una persona che stava male, ma non aveva manifestato atti autolesionisti, che potessero far pensare ad un’imminente intenzione di togliersi la vita”. Suicidi in aumento nel Lazio: già a 5 nel 2022 - Anastasìa ha spiegato che: “Da inizio 2022 ci sono altre cinque cause di morte di detenuti per altri motivi, che non riguardano il gesto volontario, due dei quali risalgono a ieri. La prima nel carcere Mammagialla di Viterbo, le cui cause sono ancora in fase di accertamento, ma pare si sta trattato di un abuso di farmaci e alcol e la seconda all’ospedale Sandro Pertini di un paziente oncologico all’ultimo stadio”. I suicidi, che in carcere riguardano sia uomini che donne, mostrano dei numeri significativi e in aumento, sui quali va posta attenzione sia a livello regionale che nazionale: “Per quanto riguarda il Lazio siamo a poco più della metà del 2022 e ci troviamo già a cinque casi a fronte dei tre casi registrati in tutto il 2021 e dei cinque nel 2020”. “Carcere luogo patogeno che induce al suicidio” - “Esistono dei piani di prevenzione del rischio suicidario - spiega Anastasìa - Bisogna però prendere atto che lo stesso ambiente penitenziario è tale da aumentare episodi del genere, perché è un luogo patogeno che induce al suicidio, perché genera sofferenza che può anche non manifestarsi in una precedente richiesta d’aiuto o in comportamenti che possano essere in qualche modo interpretabili”. A complicare la vita in carcere sono anche altri fattori che pesano sul vissuto dei detenuti, “come il caldo del periodo estivo, la riduzione delle attività, le relazioni con l’esterno - continua il garante - Serve l’impegno da parte della Regione Lazio e dell’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria nel rivedere e aggiornare il piano di prevenzione suicidaria anche sulla base delle esperienze di questi anni”. Brescia. Suicidio a Canton Mombello, detenuto si impicca nella cella di Andrea Cittadini Giornale di Brescia, 2 agosto 2022 Ancora una situazione difficile nelle carceri bresciane, in cui le problematiche di sovraffollamento sono oramai note da tempo e le situazioni di disagio vissute da operatori di polizia penitenziaria e detenuti segnano spesso momenti di forte tensione. Domenica 31 luglio l’ultimo dramma, in ordine di tempo, si è consumato al Nerio Fischione: nella notte, un detenuto italiano di 47 anni, originario della provincia di Foggia, pluripregiudicato, in isolamento Covid e in regime di massima sorveglianza (era stato arrestato in un’indagine parallela a quella del blitz di polizia e carabinieri che aveva sventato il tentato assalto al caveau di Cazzago San Martino, nel corso del quale erano state arrestate una trentina di persone, facenti parte di una banda di malviventi della zona di Cerignola), è stato trovato impiccato alle 3 del mattino dalle guardie. “Il Presidente Draghi nel suo discorso di insediamento si era impegnato a migliorare le condizioni di coloro che operano e vivono nelle carceri - ha commentato Gennarino De Fazio, sindacalista della Polizia penitenziaria -. Questo impegno è stato totalmente disatteso e le condizioni di vivibilità sono ulteriormente peggiorate. Continuando così temiamo che prima ancora delle prossime elezioni politiche del 25 settembre la situazione possa degenerare. Per questo invochiamo, seppur in zona Cesarini, un intervento dell’esecutivo che possa consentire di prendere tempo in attesa di soluzioni strutturali da parte di un Governo nella pienezza dei poteri”. Il sindaco Emilio Del Bono, nei mesi scorsi, ha incontrato la ministra della Giustizia Marta Cartabia, il vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Carmelo Cantone, e il direttore generale personale e risorse del Dap, Massimo Parisi, per parlare della realizzazione di un nuovo carcere a Brescia. Si è discusso di un possibile ampliamento della casa circondariale di Verziano, con la conseguente chiusura di Canton Mombello, per creare una struttura efficiente ed efficace che risponda alla necessità rieducativa della popolazione carceraria, oggi non garantita, viste le difficili condizioni di vita. Firenze. Caos Sollicciano, Nardella: sarò lì a Ferragosto di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 agosto 2022 Il sindaco Dario Nardella andrà a far visita al carcere di Sollicciano nel giorno di Ferragosto. “Andrò a trovare i detenuti, gli agenti penitenziari e la direzione di Sollicciano per parlare con loro dei problemi del carcere, perché anche dalle carceri si vede lo stato di civiltà e di democrazia di un Paese” ha detto il primo cittadino di Firenze. “C’è da dire una cosa - ha aggiunto - è il sistema carcerario italiano che non funziona. A parte il fatto che sul totale delle spese per il detenuto si spende una percentuale risibile, tutto il resto serve a far funzionare il sistema burocratico del modello carcerario. Per il recupero, per l’inserimento lavorativo del detenuto non si spende niente. Gli italiani devono sapere che le loro tasse, non servono a recuperare i detenuti che anzi escono con molti più problemi psichiatrici, sociali”. Intanto Fratelli d’Italia rilancia la proposta di un Consiglio straordinario all’interno del carcere: “Le problematiche degli agenti della polizia penitenziaria, dei lavoratori e dei detenuti nella struttura - afferma il capogruppo in Consiglio Comunale, Alessandro Draghi - non siano argomento di parte ma di riflessione di tutte le forze politiche”. Proprio nei giorni scorsi circa trecento detenuti hanno presentato un esposto-denuncia sulle condizioni del carcere fiorentino. Ad accogliere con soddisfazione l’imminente visita del sindaco è il cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo: “Accoglierò Nardella a braccia aperte, mi farà piacere dialogare con lui e gli altri attori del penitenziario in ottica migliorativa”. Intanto ieri a Sollicciano c’è stata un’altra aggressione, stavolta nel reparto femminile da parte di una trans ai danni di una agente, colpita al petto e al viso e costretta a recarsi al pronto soccorso. A renderlo noto Giuseppe Proietti Consalvi, vicesegretario generale Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), secondo cui “andrebbe ripristinato il reparto riservato ai trans, chiuso dal dicembre 2020 per ristrutturazione”. Parlare di nuovo di carcere, di persone e raccontarle di Domenico Chirico gliasinirivista.org, 2 agosto 2022 Quest’anno si è tornato a parlare di carcere con la giusta attenzione e finalmente riaccendendo un faro sulla quotidianità devastante del nostro sistema di detenzione. Sia dal punto di vista dei saggi sia con il magistrale Ariaferma di Leonardo di Costanzo, che ne ha restituito tutto il dramma umano ed il significato profondo nelle relazioni tra detenuti e corpo delle guardie carcerarie, sia con un saggio-racconto di Alessandro Capriccioli, “Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere”, edito da People. L’autore come consigliere regionale radicale ha svolto nel suo mandato numerose visite nei centri di detenzione del Lazio, avvalendosi delle prerogative riconosciutegli dalla legge. Come giustamente ricorda Luigi Manconi, che firma una importante introduzione al testo di Capriccioli, il carcere vive di contraddizioni: pone in conflitto poliziotti, penitenziari e detenuti, provoca tragedie e disumanizza. I suicidi tra i detenuti sono in media 17-18 volte quelli tra le persone in libertà. Anche i suicidi dei poliziotti penitenziari sono superiori alla media nazionale. Il sistema carcerario costa, nel 2022, quasi 3 miliardi e 200 milioni di euro, per gestire circa 55mila detenuti con una spesa giornaliera di circa 160 euro a detenuto. Meno di un terzo delle persone che escono dal carcere ci ritorna di nuovo per aver commesso un altro reato. Il carcere così come è non funziona: è una macchina da oltre tre miliardi di euro applicata a circa 55mila persone che mediamente vivono in circa tre metri quadrati a testa. Peraltro è noto che in Italia, a differenza di ogni altro paese d’Europa, le misure alternative alla pena sono molto limitate ed appunto l’intero sistema non mira in nessun modo alla rieducazione dei detenuti. Ma ne peggiora lo stato. Il saggio di Capriccioli ci ricorda esattamente questi dati ma lo fa parlando di persone. Di guardie carcerarie che guardano con sospetto i monitoraggi, di amministrazione penitenziaria che punisce in contesti già del tutto disumani. E anche di operatori sensibili ed attenti, ma provati da un sistema che non aiuta nessuno di chi ci vive. E poi al centro ci sono sempre detenute e detenuti. Nei loro tre metri quadri, nell’impossibilità spesso di studiare o lavorare. A conquistarci ogni giorno sopravvivenze precarie. Colpisce del saggio la figura dei malati che sono in carcere. E che non dovrebbero rimanerci. O la storia di trasferimenti fatti in massa per problemi di ordine interno che interrompono interi percorsi di studio. Su tutti a chi scrive rimangono impresse le storie del centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria. Non perché peggiore o migliore ma perché la detenzione amministrativa dei migranti in attesa di espulsione è il massimo del nonsense in questo sistema punitivo e repressivo. Le battaglie per chiudere quel luogo sono tutte fallite negli anni ed è sempre lì che anche se mezzo vuoto continua a generare suicidi, detenzioni assurde e quasi nessuna espulsione. Il racconto poi delle irriducibili di Rebibbia, le ex brigatiste, è molto interessante. Perché va a toccare chi in carcere ci deve passare l’intera esistenza e come si è organizzato per sopravviverci. Anche diventando meno aggressivo nel tempo, come in questo caso. E poi ci sono le madri con i figli, altra assurdità tutta italiana. Con bimbi detenuti loro malgrado e senza che il sistema sia in grado di produrre misure alternative. Il saggio in realtà ci racconta tutte le tipologie di strutture detentive presenti nel Lazio arrivando alla conclusione che il carcere va abolito. Tema storico delle battaglie radicali ma di cui il lettore anche si comincia a convincere dopo le descrizioni delle condizioni di vita dei detenuti. Ci si rende conto di come questo sistema costoso e punitivo non vada da nessuna parte. Non produca nulla per la società e spesso aumenti anche i rischi. È noto come peraltro in molte carceri gli immigrati provenienti da paesi dove è prevalente la religione islamica spesso diventino credenti e si radicalizzino. O come si possa entrare in giri criminali peggiori di quelli di provenienza. Anche se i tempi in Italia non sono maturi per aprire un dibattito politico sull’abolizione del carcere, il libro ci aiuta a capirne l’assurdità. E lo fa con un linguaggio diretto e semplice che sarebbe estremamente utile anche per le scuole superiori e più in generale ad un pubblico più ampio di chi è già sensibile. Sarebbe utile diffondere questo saggio invece di affidare la conoscenza del reale a Netflix, che alla fine è altro strumento consolatorio. Mentre una consapevolezza diffusa di come sia - mal - ridotto il mondo carcerario oggi aiuterebbe a creare una coscienza collettiva che favorisca il superamento di molte strutture e realtà retaggio di una cultura ottocentesca. Inutili inoltre perché anche il fuori dal carcere oggi è iper-controllabile e controllato, tra dati di telefonia mobile, telecamere ovunque e droni. Speriamo che “Tre metri quadri” sia uno strumento reale di cambiamento e riflessione. Perché alla fine, come dice l’autore, quando in un paese le cose funzionano, funzionano per tutti. Altrimenti rischiano di non funzionare per nessuno. E il carcere non può essere una discarica che fingiamo di non vedere e di non essere prossimi a ciò che sta producendo il tempo presente. Le nostre dieci anomalie di Sabino Cassese Corriere della Sera, 2 agosto 2022 Le peculiarità con le quali saremo costretti a convivere a cominciare dalla crisi: il governo Draghi continuerà a gestire il Paese almeno fino a ottobre, che fretta c’era visto che la legislatura sarebbe finita a marzo? Che cosa ci riservano le prossime elezioni? Provo a immaginare quali possano essere svolgimenti ed esiti di questa crisi, partendo da modalità e cause della caduta del governo Draghi. Primo: il governo Draghi gestirà il Paese fino almeno ad ottobre, se non fino a dicembre, e dovrà occuparsi di affari correnti in un senso molto ampio (ad esempio, come potrebbe non rispettare i termini e vincoli europei e costituzionali relativi alla procedura di bilancio e quelli legislativi per l’approvazione dei decreti delegati?). C’era bisogno della crisi, visto che la fine della legislatura era fissata per marzo prossimo? Il motivo della discontinuità stava nel bisogno della destra di dare prova di unione. Altrimenti, sarebbe arrivata a ridosso delle elezioni, a marzo 2023, con una coalizione separata, un vero ossimoro, con due forze al governo e una all’opposizione. La campagna elettorale sarebbe stata più difficile, in queste condizioni. Secondo: chi ha fatto precipitare la crisi ha impedito una eventuale riforma della formula elettorale (cioè del metodo con cui i voti si traducono in seggi). Quindi, si andrà a votare con la legge Rosato, approvata da Pd, FI e Lega nel 2017 e sperimentata nel 2018, con la modifica del numero dei parlamentari (ridotti di un terzo) votata nel 2020 e l’allineamento dei requisiti di età per votare, approvato nel 2021. L’esperienza fatta nell’ultimo quinquennio con questa legge è stata negativa, perché abbiamo avuto un Parlamento con tre maggioranze, tre indirizzi politici diversi, tre governi di durata poco più lunga di un anno. Peggio della cosiddetta Prima Repubblica, quando i governi erano altrettanto brevi, ma la costante presenza della DC assicurava almeno coerenza dell’indirizzo politico. Terzo: la circostanza che vi sia concorrenza non solo tra le coalizioni, ma anche nelle coalizioni lascia presagire che queste possano servire a vincere elezioni, non a governare il Paese. Ci si mette insieme per andare al governo, non per governare. Anche la campagna elettorale sarà strabica, perché le forze politiche, frammentate e all’interno divise, debbono correre in squadra per il 37 per cento dei seggi, separate per il 61 per cento dei seggi (ma, a causa della frammentazione, la chiave per vincere sarà nei collegi uninominali/maggioritari, nonostante che ad essi sia assegnata una percentuale minore di seggi). Quarto: il fatto che a sinistra si sia discusso di un “accordo tecnico” e si sia ora alla ricerca di ciò che possa unire; e che la destra si sia messa al lavoro sul programma a meno di due mesi dalle elezioni, è la prova del vuoto di politiche. I programmi saranno frutto di improvvisazione preelettorale, non di una collaborazione tra forze politiche con ideali comuni, maturati con l’esperienza e il tempo. Possiamo immaginare che vi saranno elencati i temi meno divisivi, come nel “contratto di governo” tra Lega e M5S del 2018, scritto e rapidamente dimenticato. Nelle piazze o in televisione, ogni evento quotidiano offrirà lo spunto per battibecchi che finiranno nel dimenticatoio con la stessa rapidità dell’evento che li avrà provocati. Abbiamo quindi politici senza politiche. Quinto: la scelta dei candidati e la formazione delle liste sarà l’operazione più verticistica immaginabile, nelle mani delle singole persone-segretari dei partiti: questi debbono spartirsi, mediante accordi, i collegi uninominali e formare da soli le liste per la parte proporzionale. Sesto: tutto lascia pensare che saranno i nuovi votanti e gli astenuti a decidere. Circa il 6 per cento degli aventi diritto al voto sarà costituito da giovani che partecipano per la prima volta a una elezione politica nazionale. Quanto agli astenuti, si può temere che possano essere più del 27 per cento registrato alle elezioni politiche nazionali del 2018. Quale affidamento può, infatti, fare l’elettorato su una classe politica così incostante, nella quale, nel corso di una legislatura, un terzo dei parlamentari ha cambiato schieramento? Settimo: per differenziarsi dinanzi all’elettorato, vengono evocati il pericolo fascista e quello russo. Ma coloro che nutrono questi timori hanno ben poca fiducia negli anticorpi della nostra democrazia (il pluralismo, la varietà di voci con cui può parlare il popolo, l’esistenza di poteri contrapposti) e nella maturità della nostra opinione pubblica. Ottavo: c’è il serio timore che gli italiani rimarranno in attesa di avere risposte sui problemi di fondo del Paese. La pandemia ha posto in luce le debolezze della sanità territoriale. Gli indicatori segnalano il basso tasso di scolarizzazione del Paese: La scuola bloccata è il titolo della bella sintesi fatta da Andrea Gavosto in un densissimo libro pubblicato ad aprile scorso da Laterza. Da anni viene lamentata la bassa produttività italiana e la prospettiva che la nostra diventi, anche per gli andamenti demografici, una società, più che di lavoratori, di pensionati. É stata avviata, è vero, una robusta ripresa, finanziata dall’Unione europea, ma occorre realizzarne gli obiettivi in quattro anni. Le forze politiche dovrebbero indicare le loro idee e proposte su questi temi, e, quando propongono minori tasse (che vuol dire minori entrate), dovrebbero dire quali spese vogliono tagliare. Nono: con un Parlamento di 600 membri, invece di 945, le defezioni (definite anche riposizionamenti o cambi di casacca) avranno un peso molto maggiore. Quindi, coalizioni poco omogenee e coese come quelle che si preparano (a destra, tra tre forze politiche di cui due fino a ieri al governo e una all’opposizione; a sinistra, tra sei o sette forze politiche) non lasciano presagire governi stabili. Decimo: le incertezze dei risultati attesi non dipendono solo dalla formula elettorale, ma anche, e principalmente, da due fattori, tra di loro connessi: la scarsa capacità aggregativa delle forze politiche e la fluidità dell’elettorato. La prima dipende dalla quasi inesistente democrazia interna dei partiti, dalla debolezza della loro offerta politica, dalla loro propensione ad interessarsi all’aggregazione solo nei periodi preelettorali. La seconda si è accentuata negli ultimi anni, con flussi di opinione pubblica ed elettorali che hanno in breve tempo premiato o sanzionato le forze politiche (si pensi all’andamento, in sondaggi ed elezioni, del M5S, di FdI, e della Lega, sul più lungo periodo anche del PD, passato dal 40 al 20 per cento). Ong, la Corte Ue contro i fermi arbitrari: “Salvare vite è un dovere” di Simona Musco Il Dubbio, 2 agosto 2022 La sentenza dopo il ricorso al Tar della Sea Watch contro l’Italia: “Una vittoria di tutti”. Ispezionare una ong è possibile, ma per adottare provvedimenti di fermo lo Stato d’approdo può procedere solo “in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l’ambiente”, cosa che va adeguatamente dimostrata. E il dovere di salvare vite umane, in ogni caso, viene al primo posto. A stabilirlo è la Corte di Giustizia Ue, nella sentenza relativa a due casi che riguardano la ong tedesca Sea Watch. Una decisione che arriva in un momento molto delicato per il dibattito sull’immigrazione, dato l’avvio scoppiettante della campagna elettorale dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, legata proprio alla gestione dei flussi migratori. I fatti oggetto della sentenza risalgono all’estate del 2020 - quindi in epoca post “salviniana” al Viminale - quando la Sea Watch 3 e la Sea Watch 4, dopo aver soccorso centinaia di persone in pericolo nel Mediterraneo, si sono dirette rispettivamente a Palermo e Porto Empedocle, dove sono state autorizzate a far sbarcare i migranti. Ma al termine delle procedure di pulizia e disinfezione, le Capitanerie di porto delle due città hanno effettuato ispezioni a bordo, certificando “carenze tecniche e operative” tali da giustificare il fermo delle due navi. La Sea Watch ha dunque proposto due ricorsi davanti al Tar per la Sicilia, chiedendo l’annullamento dei provvedimenti di fermo, sostenendo che le Capitanerie avrebbero violato la direttiva Ue 2009/ 16, interpretata alla luce del diritto internazionale, superando i poteri che ha lo Stato di approdo. I giudici amministrativi hanno deciso di interrogare la Corte di Giustizia sull’interpretazione delle norme, anche considerando che sono due gli Stati coinvolti: quello di bandiera - in questo caso la Germania - e quello dove avviene lo sbarco. Secondo i giudici europei, riuniti in Grande Sezione, la direttiva deve essere interpretata tenendo conto delle norme del diritto internazionale che gli Stati sono tenuti a rispettare. In particolare due: la Convenzione sul diritto del mare, che sancisce l’obbligo di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare; e quella per la salvaguardia della vita umana in mare, secondo cui le persone che si trovano a bordo di una nave, comprese quella della Ong Sea Watch, non devono essere computate ai fini della verifica del rispetto delle norme di sicurezza. Il solo numero delle persone a bordo, anche se molto superiore a quello autorizzato, dunque, non può costituire una ragione che giustifichi un controllo. Controllo che lo Stato di approdo, una volta messe in sicurezza le persone portate in salvo, può effettuare, ma solo a patto che dimostri in modo “concreto e circostanziato” che esistono “indizi seri” di un pericolo. Sarà il giudice a verificare il rispetto delle prescrizioni e, in caso di carenze, lo Stato di approdo può adottare delle azioni, purché “necessarie, adeguate e proporzionate”. Inoltre, la Corte sottolinea l’importanza del principio di leale cooperazione tra i due Paesi, quello di approdo e quello di bandiera, che devono cooperare e coordinarsi nell’esercizio dei rispettivi poteri. A commentare la sentenza è stata Anitta Hipper, portavoce della Commissione europea per gli Affari interni, la migrazione e la sicurezza interna, intervenuta durante una conferenza stampa a Bruxelles. “Assistere chi è in pericolo è un dovere morale e allo stesso tempo un obbligo giuridico. Questa è la posizione della Commissione Ue, in particolare in vista del fatto che le rotte del Mediterraneo continuano a essere fra le più trafficate in termini di migrazioni, dove vite innocenti sono costantemente in pericolo”, ha dichiarato. “Abbiamo preso nota della sentenza della Corte di giustizia europea. Il procedimento dovrà ora proseguire alla Corte italiana, che aveva presentato una richiesta preliminare alla Corte Ue. Spetta a loro assicurare il rispetto della sentenza”, ha aggiunto. Un concetto ribadito anche da Sea Watch, che ha lamentato le ragioni “assurde” dietro al blocco imposto alle navi: “Una certificazione che non esiste e troppe persone soccorse a bordo”. La Corte di giustizia europea, fa sapere ora la ong, “ha stabilito che il salvataggio in mare è un dovere e che i controlli dello Stato di approdo non devono essere utilizzati arbitrariamente contro le ong in futuro per arrestare le navi e impedire loro di svolgere il proprio lavoro. Il verdetto di oggi è una vittoria non solo per noi, ma per tutte le navi civili di soccorso in mare che salvano persone dall’annegamento nel Mediterraneo centrale”. La protezione dei minori va sempre garantita, anche se si tratta di extracomunitari di Emanuele Bonini La Stampa, 2 agosto 2022 La Corte di giustizia dell’Ue fa chiarezza con due sentenze che coniugano diritti dell’infanzia e protezione internazionale. I minori sono sempre minori, e la loro protezione va sempre garantita, anche se si tratta di extracomunitari. La Corte di giustizia dell’Ue fa chiarezza, con due sentenze che coniugano diritti dell’infanzia e protezione internazionale. Due casi diversi, quelli esaminati dai giudici di Lussemburgo, ma entrambi con un elemento in comune, i minorenni non accompagnati. Si tratta di persone sole, che arrivano a bussare alle porte dell’Europa senza i genitori, ma con parenti già su suolo comunitario. Per loro si chiarisce che le regole Ue in materia di asilo non possono prevedere l’automatica chiusura delle porte dell’Unione. In un primo caso, si stabilisce che di fronte a un rifiuto delle autorità, si può fare appello contro tale decisione se un membro della famiglia, anche uno zio o un cugino, soggiorna già regolarmente nel Paese membro dell’Unione europea dove il minore chiede di essere accolto e protetto. Nel secondo caso, se si vuole raggiungere qualcuno altrove in Europa, non si può dire in modo automatico, “no, mi spiace”. Nel primo caso, quello di un minore che si vede respinto al momento dell’arrivo su suolo europeo, si stabilisce che non vale solo ed esclusivamente il regolamento di Dublino, il dispositivo che regola il funzionamento del sistema di asilo. Questo va “letto in combinato” con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In virtù di questo, va riconosciuto sempre “un diritto di ricorso giurisdizionale al minore non accompagnato”. Nel secondo caso, invece, si opera dunque la distinzione tra il Paese di primo ingresso, responsabile per la gestione del migrante, e il Paese di destinazione finale. Qui, se un cittadino non europeo arriva in Italia per chiedere di ricongiungersi al parente che si trova in Germania, o in Belgio, le autorità italiane non possono dichiarare inammissibile la domanda di protezione per il fatto che i genitori o i parenti del minore non accompagnato hanno ricevuto protezione nell’altro Paese. Solo se il richiedente asilo ha già beneficia già di tutela la richiesta può essere considerata come “inammissibile”. In nome del diritto della famiglia e del ricongiungimento famigliare, anche se i parenti che avessero ottenuto protezione in Spagna e poi si fossero spostati in un altro Stato membro dell’Ue, come ad esempio il Portogallo o la Francia, la condizione di divieto di ammissibilità della domanda del minore “non può essere annullata”. Stati Uniti. A scuola con la pistola: migliaia di insegnanti pronti a tornare in classe armati di Massimo Basile La Repubblica, 2 agosto 2022 Dopo le stragi, dal Texas all’Ohio ventinove Stati hanno accolto l’invito delle lobby delle armi e dei Repubblicani ad armarsi e al personale scolastico è stato chiesto di addestrarsi per essere in grado di usare le armi in caso di attacco. Matematica e proiettili calibro 9. Manuali di storia e pistole semiautomatiche Glock. Migliaia di insegnanti e personale tecnico delle scuole americane, dagli asili nido ai licei, si preparano a tornare al lavoro con una novità: saranno armati. Quello dei maestri Rambo è il primo effetto Uvalde, la città del sud del Texas dove il 24 maggio un ragazzo armato di fucile da guerra uccise diciannove bambini e due insegnanti in una scuola elementare. Una parte del Paese aveva chiesto di mettere al bando le armi, l’altra aveva invocato la libertà di portarle in classe. Mentre alla Camera i Democratici hanno votato un testo che mette fuori legge i fucili d’assalto - ma la legge è destinata a cadere al Senato per l’opposizione dei Repubblicani - in molte scuole hanno scelto la seconda opzione. Mettere una libreria vicino all’ingresso dell’aula, da usare come blocco della porta in caso d’emergenza, non vale più. O almeno, non ovunque. Dal Texas all’Ohio, al personale scolastico è stato chiesto di addestrarsi per essere in grado di usare le armi in caso di attacco. Dieci anni fa era raro vedere qualcuno armato nei campus, fino a cinque anni fa la percentuale di dipendenti armati era il 2,6 per cento. La cifra è destinata a crescere in modo verticale. Ventinove Stati hanno accolto l’invito delle lobby delle armi e dei Repubblicani ad armarsi. Le scuole saranno piene di “good guys”, i bravi ragazzi, pronti a intervenire, anche se nella strage di Uvalde quattrocento ‘bravi ragazzi’ armati non erano intervenuti, e l’unico good guy in servizio al liceo di Parkland, in Florida, si era nascosto per paura di essere colpito dal killer, che avrebbe ucciso diciassette tra studenti e staff tecnico. In Texas è stato approvato il The Guardian Plan, che permette dall’1 agosto a tutti i dipendenti scolastici di armarsi. Un distretto su tre partecipa a un programma che individua chi deve presentarsi in classe con la pistola. In Florida sono più di 1300 le persone autorizzate in 45 distretti scolastici. In Ohio a luglio il governatore Mike Dewine ha firmato una legge analoga. Le perplessità, secondo le organizzazioni contrarie alle armi, è che agli insegnanti viene richiesto, in genere, un addestramento minimo, di neanche ventiquattr’ore, il tempo di andare al poligono e sparare e di studiare velocemente le leggi che regolano l’uso della forza. Se negli Stati conservatori non viene più riconosciuto agli insegnanti il diritto di scegliere i libri, si assegna loro il compito di proteggere i ragazzi con le armi. In molti Stati la decisione finale spetterà al board di ogni scuola o a al distretto scolastico. “Ognuno - ha spiegato il governatore dell’Ohio - deciderà ciò che è meglio per gli studenti”. Stesso percorso in Mississippi, dove è stato aggiornato il protocollo. In altri Stati si è scelto un approccio a metà: in un distretto della Georgia hanno autorizzato ad armarsi il personale scolastico ma non gli insegnanti e i supervisori delle classi. Kosovo. Sul confine dell’odio: “Belgrado invia squadracce” di Fabio Tonacci La Repubblica, 2 agosto 2022 La denuncia di Pristina. Ma su pressione di Usa e Ue i kosovari rinviano a settembre la stretta sulle targhe serbe che aveva acceso gli scontri. Non è mai una buona idea sparare colpi di fucile lungo un confine. Soprattutto quando quel confine è uno dei più fragili e nervosi d’Europa, e a premere il grilletto sono uomini incappucciati di cui poco o niente si sa. Alle sette della sera, quando il sole scende dietro la collina, il valico kosovaro di Jarinje, uno dei due passaggi per la Serbia bloccati dalle barricate, riapre al traffico. È un sospiro di sollievo, ma troppo corto per essere tranquillizzante. Non foss’altro perché quel che è accaduto nel pomeriggio di domenica - le sirene che strillano per tre ore nei comuni settentrionali a maggioranza serba, i cittadini che scappano a casa, altri che mettono pullman e ruspe di traverso nelle strade per i valichi di Jarinje e Brnjak, gli spari, le ambulanze, i poliziotti antisommossa e i soldati Nato pronti a intervenire - per qualche ora ha precipitato il Kosovo nell’incubo di un nuovo conflitto. Il giallo degli spari - Chi ha sparato? “Non lo sappiamo”, dicono due camionisti serbi con il tir fermo a lato della strada, nei pressi di Jarinje. “Noi non abbiamo sentito niente. Forse hanno sparato per aria. Sono quelli di Pristina che esagerano sempre...”. Quelli di Pristina, cioè il governo del Kosovo che la Serbia si rifiuta di riconoscere perché ancora oggi, nonostante l’indipendenza proclamata nel 2008, considera questa una provincia usurpata, e la frontiera la chiama “linea amministrativa”. Una fascia di terra complicata e irrisolta, dunque interessante per Putin, alleato storico di Belgrado e influente in qualsiasi regione che generi instabilità alle porte dell’Unione Europa. Siamo nel nord del Kosovo, dove anche una questione di targhe automobilistiche può essere la scintilla in una polveriera. L’insofferenza verso il governo - Il valico di Jarinje riprende a funzionare. Le macchine, poche, sfilano lungo i container dove fanno il controllo documenti, sotto la pensilina blu. I volti sono tesi. Camionisti, kosovari di etnia serba aizzati dal partito Lista Serba e gli incappucciati avevano interrotto la rete viaria in nove punti. Tatjana, 39 anni, serba di Raska, sta andando con la figlia a Kosovksa Mitrovica, la cittadella per metà serba, per metà kosovaro-albanese. “Perché noi dovremmo cambiare la targa della macchina? E perché devo avere un documento kosovaro per andare a Mitrovica, che è città nostra?”, si domanda polemica sotto la pensilina blu. “Qualcuno ha sparato contro la polizia? Ha fatto bene...”, ridacchia, mentre chiude il finestrino della sua Golf. L’accusa del ministro - Il ministro dell’Interno kosovaro Xhelal Svecla comunica che le barricate innalzate dalle “strutture parallele illegali” sono state rimosse. Aggiunge un particolare di non poco conto: “Gruppi mascherati armati di fucili, arrivati dalla Serbia e guidati da Belgrado, hanno attaccato i nostri cittadini, li hanno pestati, e sia domenica sia lunedì hanno sparato ai poliziotti con l’obiettivo di ucciderli”. Strutture parallele, targhe, confini: per capire di cosa stiamo parlando bisogna tornare alla fine di giugno, quando il premier Albin Kurti - sfruttando il momento di debolezza della Serbia isolata per il suo appoggio all’invasione russa dell’Ucraina e ancora senza governo a quattro mesi dalle elezioni generali - annuncia l’entrata in vigore, dal primo agosto, di due provvedimenti solo all’apparenza banali. La decisione del governo sulle targhe - Il primo stabilisce che i serbi residenti in Kosovo possessori di auto con targhe serbe debbano presentarsi alla motorizzazione per cambiarle in targhe kosovare. Nelle municipalità a nord come Mitrovica e Leposavic circolano macchine immatricolate negli uffici non convenzionali: le “strutture parallele” citate dal ministro Xhelal Svecla, tra cui figurano anche ospedali e tribunali. Il governo di Pristina vuole uniformare, l’Unione Europa gli dà ragione nel merito ma non nella tempistica: devono dare più tempo per fare la modifica. Fino ad oggi funziona col metodo degli adesivi: se si va in Serbia con targa kosovara, al valico si è obbligati a coprire i segni distintivi del Kosovo, e lo stesso avviene per chi arriva. Il secondo provvedimento riguarda i documenti di identità provvisori rilasciati a chi attraversa la frontiera tra i due Paesi che non si riconoscono. È burocrazia pura, ma quando il nervo è scoperto anch’essa è sinonimo di patria e indipendenza. Il ruolo della Russia - Ci sono volute le pressioni congiunte dell’ambasciatore americano e dell’Alto rappresentante Ue Josep Borrell per convincere Kurti a rinviare al primo settembre l’entrata in vigore dei provvedimenti. L’intenzione del premier è portare simmetria nel rapporto con la Serbia. Putin osserva con attenzione. La Nato, non a caso, è presente con la sua missione più grande a cui partecipa l’Italia con un contingente di 630 militari. “Sicuramente alla Russia fa comodo un momento di instabilità politica nei Balcani”, ragiona con Repubblica Giorgio Fruscione, analista dell’Ispi esperto della regione. “Oltre a questo, però, non andrei: non vedo possibilità di intervento armato del Cremlino. Mi aspetto che la tensione rimanga alta sul piano della retorica, ma con la mediazione delle cancellerie occidentali la crisi può rientrare”. Nella via che porta a Jarinje, si sente il muezzin chiamare alla preghiera. Le sirene tacciono. Ci sono ruspe ai lati della strada. Il primo settembre non è poi così lontano. Afghanistan. Ucciso da un drone Usa il leader di Al Qaeda Ayman Al Zawahiri La Stampa, 2 agosto 2022 Il leader di al-Qaeda era succeduto al fondatore di al-Qaeda Osama bin Laden dopo l’uccisione di quest’ultimo nel blitz delle forze speciali statunitensi il 2 maggio del 2011 in Pakistan. I talebani condannano l’operazione. Il leader di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri è stato ucciso da un drone Usa in Afghanistan. Lo confermano fonti AP a conoscenza dell’operazione. La notizia dell’uccisione di Al Zawahiri ha cominciato a circolare all’interno dell’Amministrazione Usa domenica pomeriggio, ma si è rimandato l’annuncio della sua morte in attesa della conferma definitiva. Secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, nell’operazione non ci sono state vittime civili. L’operazione, riferiscono altre fonti, sarebbe stata condotta dalla Cia a Kabul. Chi era - Il leader di al-Qaeda era succeduto al fondatore di al-Qaeda Osama bin Laden dopo l’uccisione di quest’ultimo nel blitz delle forze speciali statunitensi il 2 maggio del 2011 in Pakistan. Nato in una famiglia di magistrati e medici egiziani, era considerato il numero due di al-Qaeda fino all’uccisione di bin Laden, dopo essere stato al suo fianco per oltre un decennio. Da quando, in nome della comune lotta contro ‘‘gli ebrei e i crociati’’, l’ala egiziana del jihad si unì a quella che faceva capo al miliardario saudita. Entrato nei Fratelli musulmani (il gruppo radicale sunnita che ha ispirato Osama Bin Laden sin dall’inizio dei suoi studi in una scuola religiosa di Gedda) a 14 anni, al-Zawahiri fu tra le centinaia di persone arrestate a seguito dell’assassinio del presidente egiziano Anwar al Sadat, il 6 ottobre del 1981. Rilasciato poco dopo, si recò in Afghanistan, dove si unì alla resistenza dei mujaheddin contro l’occupante sovietico: fu allora che per la prima volta entrò in contatto con bin Laden, con cui diede vita ad al-Qaeda. Già nel 1996 gli Stati Uniti lo ritenevano la minaccia più seria e credibile contro gli obiettivi americani. Come poi dimostrato dagli attacchi alle ambasciate degli Stati Uniti in Kenya e Tanzania, nell’agosto del 1998, costati la vita a oltre 250 persone. Le autorità del Cairo lo ritengono responsabile anche dell’attentato nel novembre del 1997 a Luxor, nel quale morirono 62 turisti, per il quale è stato condannato a morte in contumacia. Volto e voce di al-Qaeda con numerosi messaggi video e audio che ha registrato per incitare al Jihad, denunciando “i crociati, le cospirazioni sioniste e gli arabi traditori”, al-Zawahiri nel 2012 aveva invitato i musulmani a rapire i turisti occidentali nei paesi musulmani. Nel 2006 fu obiettivo di un raid americano. Il 13 gennaio, la Cia lanciò un attacco a Damadola, un villaggio pakistano al confine con l’Afghanistan, dove credeva si trovasse il medico egiziano invitato a una cena di leader militanti. Nel raid morirono 18 persone, tra cui cinque donne e cinque bambini, mentre al-Zawahiri, la cui presenza a quella cena non venne mai in realtà confermata, sfuggì all’attacco aereo americano. Dopo gli attentati dell’11 settembre il Dipartimento di Stato Usa mise una taglia di 25 milioni di dollari per informazioni utili alla sua cattura.