Papa Francesco ai detenuti: “Nelle carceri ci sono troppe vittime” Giornale di Sicilia, 29 agosto 2022 Il Papa ha salutato i detenuti presenti alla sua visita all’Aquila. “Voglio salutare e ringraziare la delegazione del mondo carcerario abruzzese, qui presente. Anche in voi saluto un segno di speranza, perché anche nelle carceri ci sono tante, troppe vittime - ha sottolineato il Pontefice. Oggi qui siete segno di speranza nella ricostruzione umana e sociale”. Le parole del Papa arrivano il giorno dopo la situazione esplosiva denunciata dall’associazione Antigone. In questi giorni infatti un giovane bracciante gambiano è stato trovato impiccato nel penitenziario di Siracusa e un 44enne finito dentro per furto si è tolto la vita nel carcere di Caltagirone, mentre era in attesa di essere inserito in una comunità assistita. Sono gli ultimi due nomi in un lungo elenco di suicidi: 57 in otto mesi ne conta l’associazione Antigone, che lancia un Sos. “Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”, chiede Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione che si batte per i diritti dei detenuti. Da inizio anno 57 persone si sono tolte la vita nelle carceri, lo stesso numero registrato in tutto il 2021. Agosto è un mese tragico con 14 suicidi, significa in media più di uno ogni due giorni. “Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione - spiega Gonnella - ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti”. A sollecitare un intervento sulla scia di questa estate dei suicidi sono anche alcune detenute del carcere delle “Vallette”, che via Twitter hanno annunciato uno sciopero della fame “a staffetta”: fino al 25 settembre, giorno delle elezioni, a turno digiuneranno per chiedere una riforma penitenziaria. Ad uccidersi sono persone spesso giovani, la maggior parte di chi si è tolto la vita quest’anno aveva tra i 20 e i 30 anni. Tra loro Donatella, che a 27 anni si è tolta la vita nel carcere di Verona, e la cui storia ha avuto forte eco per la lettera di scuse del magistrato che si è occupato del suo caso, o il 25enne che a Ferragosto ha infilato la testa in un sacchetto nel carcere delle Vallette. Secondo i volontari di Antigone, in un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare una persona a desistere dall’intento di suicidarsi. “I 10 minuti a settimana previsti attualmente - aggiunge Gonnella - non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”. Ricorda come dopo la sospensione dei colloqui nel 2020, Antigone “chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet. Servì a riportare la calma negli istituti di pena” attraversati dalle proteste. “Oggi - insiste - il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva”. L’ultimo suicida migrante e l’assenza di mediatori e psicologi di Andrea Aversa Il Riformista, 29 agosto 2022 Non ha fine la mattanza di Stato. Un altro suicidio avvenuto tra le mura di un penitenziario. Questa volta è successo nel carcere di Terni. Lo ha annunciato il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (SPP) Aldo Di Giacomo. L’ultima vittima della strage è un giovane di origini marocchine. “Un’altra terribile faccia della medaglia dei suicidi - ha spiegato Di Giacomo - Per i detenuti extracomunitari, circa 12mila, l’assenza di mediatori culturali e psicologi è ancora più pesante”. Dei 55 suicidi, questo ha rappresentato il 22esimo che ha avuto per vittima una persona extracomunitaria. “Lo sciopero della fame che ho iniziato la scorsa settimana insieme al tour tra le carceri italiane, tra cui quelle in Umbria dove ci sono alcune centinaia di detenuti extracomunitari (tunisini e marocchini in maggioranza) è ormai l’ultima possibilità per riaccendere l’attenzione sul fenomeno dei suicidi, la spia estrema del profondo malessere che vive la popolazione carceraria. Si pensi solo che l’età media è notevolmente abbassata con un numero maggiore di giovani”, ha affermato Di Giacomo che ha poi continuato: “Purtroppo, l’emozione provocata nell’opinione pubblica, grazie alla grande attenzione di giornali e media e della sensibilità dei giornalisti che ringraziamo, non basta. Come non basta una circolare del Dap o una task force istituita dal Ministero ad intercettare il grave disagio, soprattutto psicologico, diffuso in particolare tra detenuti tossicodipendenti e con problemi psichici trasferendo ogni responsabilità ai Provveditori e ai direttori di istituto”. Di Giacomo ha inoltre dichiarato: “Ringrazio quanti da giorni mi fanno pervenire messaggi di solidarietà e sostegno. Purtroppo è troppo facile il classico ‘scarica barile’ delle responsabilità pur sapendo che né provveditori né direttori dispongono di risorse umane (psichiatri, psicologi) e finanziarie, strumenti e strutture per intervenire. Così come è troppo facile, come fa il capo del Dap, invitare i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico dei detenuti”. Ha concluso il Segretario: “L’estate si conferma dunque stagione problematica da gestire nelle carceri, mentre l’unica Regione che ha attivato, sia pure solo di recente, un piano di prevenzione suicidi è la Regione Lombardia che ha provveduto in questi giorni ad un aggiornamento. Come sostengono gli esperti, la pandemia se in generale ha accentuato situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid”. La comunità penitenziaria è allo stremo. Il sovraffollamento continua ad essere una piaga per detenuti ed agenti. L’assenza di personale sanitario e di risorse per i tribunali di sorveglianza, rende il contesto ancora più complesso e difficile. È difficile accedere alle pene alternative e al lavoro. Ci sono ritardi per i pronti interventi clinici e per consentire ai reclusi di poter fare delle visite mediche. La burocrazia su questo è nemica del Diritto. Pratiche ferme per mesi, mentre la salute delle persone peggiora giorno dopo giorno. La mancanza di educatori preclude ai detenuti la possibilità di poter svolgere le attività trattamentali e rieducative. Le istituzioni sono lontane anni luce dalla Costituzione e continuano a mortificare lo Stato di Diritto. E la politica è indifferente: a quale dei partiti in campo interessa davvero riformare il carcere? Quasi a nessuno, basta assistere a questa vergognosa campagna elettorale. Mancano 1.600 magistrati: scoperture fino al 30% negli uffici di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2022 Così la riforma Cartabia va verso il flop (e i processi andranno in fumo). I numeri preoccupano soprattutto in vista dell’entrata a regime della riforma del processo penale voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, che renderà “improcedibili” i procedimenti che durano più di due anni in grado d’Appello e un anno in Cassazione. anche se dal ministero tentano di rassicurare, sembra evidente che la mancanza di toghe - se non risolta - farà estinguere migliaia di processi. Agli uffici giudiziari italiani mancano 1.617 magistrati, il 15,3% dell’organico. Una scopertura che arriva a punte del 17,9% a Bologna, del 23,3% a Roma, del 24,3% a Reggio Calabria. E che in tutto il Paese sta causando ingolfamenti e rinvii di processi anche a distanza di anni, scatenando le sollevazioni degli avvocati. I numeri riportati da Repubblica, però, preoccupano soprattutto in vista dell’entrata a regime della riforma del processo penale voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, che renderà “improcedibili” (cioè estinti) i procedimenti che durano più di due anni in grado d’Appello e un anno in Cassazione (con un periodo “cuscinetto”, per le impugnazioni proposte fino al 2024, in cui i termini sono prorogati rispettivamente di un anno e di sei mesi). La nuova legge si applica ai reati commessi dal 1° gennaio 2020, perciò gli effetti inizieranno a vedersi nei prossimi anni. E anche se dal ministero tentano di rassicurare, sembra evidente che la mancanza di toghe - se non risolta - manderà in fumo migliaia di processi per l’impossibilità di portarli a termine nei tempi previsti. A Roma, per esempio, la scopertura ammonta a trecento magistrati (compresi gli onorari) e più di cinquecento amministrativi. E a Ferragosto il presidente del Tribunale ha dovuto formalizzare in un provvedimento quella che era già una situazione di fatto: dal prossimo 15 ottobre, i processi penali collegiali (cioè quelli per i reati più gravi) non inizieranno prima di sei mesi dal rinvio a giudizio. “È l’ammissione che ad oggi i procedimenti non hanno, da parte della giurisdizione, tutto il tempo di cui necessitano”, la reazione infuriata della Camera penale. Secondo i dati ottenuti da Repubblica sulle altre grandi città italiane, nel distretto della Corte d’Appello di Torino (che comprende gli uffici giudiziari del capoluogo e della provincia) mancano 96 magistrati su 612, in quello di Milano 145 su 924, in quello di Palermo 76 su 480. Per quanto riguarda il personale di cancelleria, si segnala un -26% a Milano e un -30% a Firenze. Poi c’è il caso Genova: l’assegnazione di tre giudici in via esclusiva al maxi-dibattimento sul crollo del ponte Morandi ha aggravato una situazione già drammatica nel settore dibattimentale penale, dove mancano sette giudici su 19. Così capita che le prime udienze dei processi per i reati considerati “a bassa priorità” vengano fissate al 2025. “Un aprioristico diniego di giustizia” e “una violazione del principio della ragionevole durata del processo” per la Camera penale regionale, che ha proclamato uno sciopero proprio in occasione della prossima udienza del processo sul Morandi, il prossimo 12 settembre. Di fronte a questo quadro, dal ministero rispondono vantando successi sull’edilizia giudiziaria e soprattutto rivendicando l’assunzione di oltre ottomila addetti all’ufficio del processo, figure ausiliarie dei magistrati previste dal Pnrr, che hanno preso servizio negli scorsi mesi. Anche qui, però, non è tutto liscio: le retribuzioni non eccezionali scoraggiano i giovani ad accettare gli incarichi nelle città con maggiore costo nella vita (che spesso sono anche quelle dagli uffici più in difficoltà) come Venezia, Roma o Milano. Ossessione toghe: il centrodestra unito dal timore dei giudici di Francesco Grignetti La Stampa, 29 agosto 2022 Il leghista Candiani: “Temiamo i conservatori ma faremo le riforme”. L’Anm: “Una caricatura”. Dice Matteo Salvini: “Non vorrei che da qui al 25 settembre qualcuno si svegliasse male e pensasse di cambiare in un tribunale il risultato della cabina elettorale”. Un incubo. Un’ossessione. O meglio, considerando che il giovane Matteo iniziò la sua carriera politica con i “comunisti padani”, uno spettro che si aggira per le segreterie dei partiti del centrodestra: le cattivissime toghe rosse. Al solo sentire la frase, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il pacato Giuseppe Santalucia, sospira: “È una rappresentazione romanzata e fantastica della situazione. L’idea di una magistratura che interviene con i suoi poteri di controllo di legalità per favorire gli uni e danneggiare gli altri, se vogliamo dirla tutta, è un po’ caricaturale”. In verità, lo scandalo Palamara non aiuta. Nei suoi libri, tanto citati da Salvini, l’ex presidente dell’Anm racconta proprio di magistrati in guerra continua tra loro e contro i “nemici” politici. Altro sospiro di Santalucia: “In effetti lo scrive, ma non è affatto così. E anche se qualcuno ci specula, e accredita queste letture, insomma, non è questo un motivo di rafforzamento della loro veridicità. Queste affermazioni purtroppo sono il frutto del deterioramento del dibattito pubblico”. Eppure la paura di una magistratura ostile è un comune sentire di Fdi e Lega. Da quelle parti non hanno dimenticato alcuni casi illustri: l’avviso di garanzia a Berlusconi che fece cadere il suo primo governo (1994), l’indagine su Clemente Mastella che smottò il governo Prodi (2008), il caso Consip che fu la prima seria picconata contro Matteo Renzi (2016). Perciò Guido Crosetto, che nasce berlusconiano, è stato uno dei fondatori di Fratelli d’Italia, ed è ancora uno dei principali consiglieri di Giorgia Meloni, ragiona a voce alta, con tono sarcastico: “Non penso ci saranno “sorprese” perché sorpresa si definisce un fatto inaspettato, non ordinario. Nel caso della magistratura italiana l’intervento (della parte militante) a piedi pari nella politica italiana è un elemento purtroppo frequente, quasi “dovuto”. I libri di Renzi e Palamara lo dimostrano. Abbiamo a che fare con alcune persone che si sentono militanti, chiamati alla battaglia e legittimati (nella loro testa) ad usare qualunque strumento pur di “eliminare” il nemico. La sproporzione di potere che si è creata tra loro e le altre istituzioni, gli ha consentito finora di essere l’ago della bilancia, di far cadere governi, incidere sulla dialettica politica, avvelenare la competizione democratica. Da noi dura da quasi 30 anni ed ormai tiene sotto scacco potere politico, legislativo, economico, industriale ed esecutivo”. Va da sé che stavolta il nemico sono loro, i futuri nuovi potenti. Crosetto è convinto che da qualche parte abbia cominciato a ticchettare qualche bomba giudiziaria: “Sono certo che da oltre un mese ci siano persone al lavoro, giorno e notte, per costruire le armi che si scateneranno a breve. Lo dico con profonda tristezza. Non pensando al risultato o ai possibili vincitori ma pensando alla democrazia”. Ragionamento simile lo fa anche il leghista Stefano Candiani, sottosegretario uscente all’Interno, molto vicino a Salvini: “Purtroppo siamo in Italia e ci siamo malamente abituati a vedere qualche frangia politicizzata della magistratura che entra a gamba tesa nella politica ad ogni tornata elettorale importante”. Candiani pensa che stavolta la miccia sia l’annunciata riforma costituzionale. “C’è una larga parte della magistratura che lavora onestamente e in silenzio. Poi ci sono quelli politicizzati. E questi ultimi sanno che, vincendo il centrodestra, si faranno quelle riforme che erano prefigurate dal nostro referendum e su cui gli italiani si sono già espressi”. Candiani intende dire la riforma più radicale: la separazione delle carriere, come raccontata anche da Carlo Nordio su questo giornale pochi giorni fa. Forse anche la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale. Più l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Sarebbe una rivoluzione della giustizia più che una riforma. A dire il vero, però, a votare per quel referendum sono andati in pochini, o no? “Vero, non abbiamo raggiunto il quorum. Ma quelli che sono andati a votare, in massa avevano detto sì. Il segnale politico c’è stato. Quelle riforme adesso le vogliamo portare a casa. E allora, tornando alla magistratura, noi temiamo un riflesso condizionato di chi vuole conservare l’esistente. Non ci sarebbe da stupirsi se ci fosse un’azione proditoria di quelle frange politicizzate di cui sopra”. Lo schema, dunque, è questo. Da una parte c’è uno schieramento che sente la vittoria elettorale in tasca e pensa (e dice) che solo la magistratura può impedirgli il pieno successo. Dall’altra c’è chi sente profumo di intimidazione. “Dopo condoni fiscali, ingiusta flat tax, donne regine del focolare, attacco alla sanità pubblica - replica Valter Verini, Pd - non poteva mancare un altro evergreen: l’attacco alla magistratura. Ecco puntuale Salvini dare il via. Non gli è bastata la debácle dei referendum. Invece di applicare le riforme e pensare a magistrati e cancellieri che mancano, a una giustizia davvero giusta ed efficace, si lanciano improbabili proclami, e più o meno velate intimidazioni alla magistratura. Sempre più vicini a Orban e Putin, sempre più lontani dagli italiani”. Giustizia: la destra rivuole l’impunità per i parlamentari di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2022 L’ex pm Nordio (FdI) propone lo scudo per deputati e senatori. Salvini-Meloni agitano il complotto delle Procure. Energia, Draghi dice “no” ai partiti: il decreto è rinviato. Carlo Nordio, ex pm di Venezia in pensione da sei anni, non è solo un candidato qualunque di Fratelli d’Italia: ha scritto il capitolo sulla giustizia degli “Appunti per un programma conservatore” presentato dal partito alla convention di aprile a Milano e, secondo due dirigenti di FdI, sarebbe il candidato ministro della Giustizia di Giorgia Meloni in caso di vittoria del centrodestra. Ieri Nordio, in corsa nell’uninominale e capolista in Veneto per la Camera, ha presentato il suo manifesto politico in un’intervista al Quotidiano Nazionale rispolverando due battaglie che potrebbero diventare realtà in caso di suo approdo a via Arenula: eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale ma soprattutto ripristinare l’immunità parlamentare, cioè il divieto di indagare su deputati e senatori senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. La proposta di Nordio è quella di tornare alla vecchia formula sull’immunità parlamentare dei Costituenti (articolo 68) eliminando la modifica che nel 1993, in piena Tangentopoli, aveva limitato l’autorizzazione del Parlamento solo ai casi di perquisizioni, arresti (non in flagranza), intercettazioni e sequestro di corrispondenza. Dietro la proposta di Nordio si cela uno scudo nei confronti della magistratura: “I padri costituenti l’hanno voluta proprio come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura - ha detto al Qn - Sapevano benissimo che qualcuno se ne sarebbe servito a suo vantaggio, ma hanno accettato il rischio, perché quello della sovrapposizione di poteri era enormemente maggiore, come poi si è dimostrato”. Allo stesso tempo, però, l’ex pm spiega che una modifica di questa portata andrebbe “spiegata bene ai cittadini affinché non sembri un privilegio di casta”. La proposta ieri non è stata commentata dai vertici di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia che non vogliono certo sventolare la bandiera del ritorno all’immunità parlamentare - un tema molto impopolare - a un mese dalle urne. Per tutto il giorno i responsabili giustizia dei tre partiti del centrodestra hanno preferito non commentare. Nordio ha anche proposto di rendere “discrezionale” l’azione penale modificando il principio costituzionale secondo cui ogni volta che un magistrato viene a conoscenza di una notizia di reato deve aprire un’indagine. L’ex pm ha anche fatto riferimento ad altre battaglie che sono state inserite nel programma del centrodestra: la separazione delle carriere, il ritorno alla prescrizione superando la legge Bonafede, l’eliminazione del reato di abuso d’ufficio e l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. La giustizia è un tema che sta agitando la coalizione di centrodestra. Martedì Meloni ha detto che l’inchiesta sulla pubblicazione del video dello stupro di Piacenza serviva “a mandare qualche avviso di garanzia” nei suoi confronti. Sabato Salvini, che ieri ha proposto di approvare i decreti Sicurezza nel primo Cdm, ha rincarato la dose: “Non vorrei che qualche pm cambiasse l’esito del voto”. Il ritorno della “giustizia ad orologeria” berlusconiana cela il timore di un “complotto”, anche se agitato soprattutto ad uso esterno (individuare un nemico) per ricompattare il fronte interno (i leader divisi sulla premiership). Oggi Salvini e Meloni saranno entrambi in Sicilia, alle 12 a Messina, per iniziare la contesa elettorale anche sull’isola. E anche sulla premiership ci sono veleni nella coalizione. Dopo le parole di Meloni (“se vince FdI non vedo come Mattarella non possa indicarmi premier”), il Colle ha smentito ilCorriere che parlava di “stupore” di Mattarella. I partiti però si occupano anche dell’emergenza energia. Ieri Salvini ha chiesto agli altri leader un “armistizio” per “dare pieno mandato a Draghi” di trovare risorse per combattere i rincari su luce e gas: un modo per evitare che sia il governo di centrodestra a trovare le macerie. Anche Letta, Conte e Calenda vogliono un intervento “tempestivo”. Ma da Palazzo Chigi rispondono picche: fonti di governo dicono all’AdnKronos che il decreto non sarà questa settimana e che non si farà uno scostamento di bilancio. Nel frattempo si cercheranno le coperture. Letta: “Con noi più giustizia, la destra ci porterà alla bancarotta” di Marco Iasevoli Avvenire, 29 agosto 2022 Il segretario dem a tutto campo dal caro-gas allo sprint elettorale: “All’estero aleggia l’incubo del 2011. Con questa legge elettorale non c’è pareggio. Diritti civili e sociali sono complementari” Segretario Enrico Letta, partiamo dalla stretta attualità: si voterà sotto la nube nera del caro-gas: cosa deve fare il governo in questi giorni, insieme alle forze parlamentari? La nube nera del caro-gas l’ha portata Putin con una guerra feroce a un Paese sovrano. Oggi è la prima emergenza nazionale. Il Pd ha proposto 5 azioni immediate: primo, un tetto europeo al prezzo del gas; secondo, per 12 mesi, un regime di prezzi amministrati per l’energia elettrica con il disaccoppiamento tra fonti fossili e rinnovabili; terzo, il raddoppio del credito d’imposta per gli extra-costi energetici delle imprese; quarto, un nuovo contratto “bolletta luce sociale” per microimprese e famiglie con redditi medi e bassi; quinto, un grande piano per le rinnovabili e il risparmio energetico. Sul disaccoppiamento proprio da ieri la Germania sembra voler procedere nella stessa direzione. Quanto al governo, sono convinto che interverrà con efficacia e auspico che accolga tutte o alcune delle nostre proposte. Noi come sempre lo sosterremo con lealtà. Ma chiedo: con che credibilità chi, in spregio a serietà e senso dell’interesse nazionale, ha fatto cadere Draghi, oggi gli intima di agire? La risposta la diano gli elettori. E sui bivi secchi, come i rigassificatori, il Pd da che parte sta? Sta dalla parte dei rigassificatori come soluzione di transizione in questa emergenza. Con compensazioni per i territori coinvolti. Non è un caso che si facciano in regioni, l’Emilia Romagna e la Toscana, ben governate da noi. Piuttosto, giro la domanda a Giorgia Meloni: il sindaco di Piombino, di FDI, è contrario. Lei da che parte sta? La situazione che va configurandosi, tra choc energetico e speculazione, a suo avviso richiederebbe un nuovo sforzo di unità nazionale, a prescindere da chi mette la testa avanti il 25 settembre? Questa pessima legge elettorale ha una parte maggioritaria che rende impossibile il pari e patta. O vince la destra o vinciamo noi. Chi vagheggia il pareggio vive in una realtà parallela. E ha smarrito qualsiasi principio di realtà. Draghi è troppo ottimista quando dice che qualsiasi governo ce la farà? Draghi è stato giustamente molto istituzionale parlando di “qualunque governo”. La verità è che all’estero oggi aleggia un incubo. Tutti ricordano il baratro del 2011, con il governo Berlusconi - e Tremonti e Meloni ne erano ministri - costretto a dimettersi perché il Paese era sull’orlo della bancarotta. Dieci anni dopo l’Italia si è rialzata ed è risanata. Ma ecco che loro si ripresentano nella stessa formazione pronti per una nuova bancarotta. La preoccupazione evidentemente c’è tutta ed è legittima. I protagonisti sono gli stessi tre di allora, con dieci anni di più e nessuna lezione imparata dagli errori fatti. Nel caso toccasse a lei governare, riuscirebbe a garantire soluzioni realistiche insieme ai suoi alleati della sinistra ecologista contraria agli impianti gas e, eventualmente, con M5s? Noi possiamo ribaltare i pronostici e vincere. Dobbiamo convincere il 10% di indecisi. Con i Verdi già governiamo in Europa, dove ad esempio la stessa Ursula Von der Leyen porta avanti posizioni radicalmente diverse da quelle di Meloni e Salvini e molto più compatibili con quelle nostre e di Bonelli. È la destra italiana a non essere “europea”. Vale a dire avanzata, civile, moderna. Sono, piuttosto, al fianco dell’Ungheria e di quel regime reazionario e negazionista, a partire dai temi ambientali. Lo stesso può dirsi sulle questioni sociali o su quelle migratorie e della cittadinanza. L’ostilità pregiudiziale di questa destra a una misura di civiltà come lo ius scholae, per fare un altro esempio, è dichiarata e intollerabile. Se vincessero loro si arresterebbe ogni possibilità di progresso. Di nuovo o di qua o di là: da una parte, discriminazioni e politiche reazionarie; dall’altra, integrazione, inclusione e politiche progressiste. È qui la scelta. Riavvolgiamo il nastro e torniamo alle liste: polemiche, rimostranze, territori che si sentono sottorappresentati, anche alcuni addii al Pd. Cosa risponde a chi dice che il suo partito ha ridotto l’apporto del cattolicesimo democratico e dei liberali riformisti? Non crede che ciò avvantaggi il Terzo polo? Noi siamo un partito vero. Ne sono orgoglioso. Siamo gli unici che hanno deciso le liste in trasparenza e con metodo collegiale. Con il voto di una Direzione Nazionale di 200 persone espressione di tutti i territori e di tutte le anime del partito. Gli altri hanno delegato tutto a scelte private, arbitrarie, del leader rispettivo. Per quanto mi riguarda, non ho imposto alcun nome “mio”, nessun cooptato per fidelizzazione come invece accadde nel Pd del 2018. Quanto al cattolicesimo democratico, io stesso, che guido il partito, vengo da quella storia nobile e ne sono onorato. Semmai, sono altre tradizioni politiche e culturali a potersi sentire meno rappresentate. Ma mi sono impegnato a garantire il pluralismo interno e lo sto facendo. Anche sui contenuti la sensazione è che il Pd sia sbilanciato sui “diritti individuali” rispetto alla questione sociale. Sulla “protezione” i dem possono essere scavalcati a sinistra da Conte e, per certi versi, anche dalla destra? Non ci si inventa progressisti. Noi, anche grazie a uno straordinario processo di democrazia partecipativa dal basso che con le Agorà democratiche ha coinvolto 100 mila persone in 10 mesi, ci presentiamo con un programma a tre pilastri: lavoro e diritti sociali, diritti civili, ambiente. Sono complementari, non alternativi. E l’ispirazione è anche in quella ecologia integrale - sostenibilità sociale e ambientale insieme - di cui parla Papa Francesco. Penso al salario minimo, alla lotta alla precarietà del lavoro, al no ai finti stage, alla riduzione delle tasse sul lavoro per i ceti medi e bassi, al grande piano di edilizia popolare e rigenerazione urbana per le periferie. Accanto a questo un welfare moderno basato sul potenziamento dell’assegno unico, con revisione ISEE, sulla valorizzazione del terzo settore e sulla riforma della non autosufficienza. Giustizia sociale è questo: protezione dei più vulnerabili, delle persone sole e fragili. Soprattutto è scelte strutturali, non spot o bandierine. Lei ha scelto, almeno così pare, di polarizzare lo scontro con Giorgia Meloni. Si sente l’unico antagonista delle destre e ritiene indispensabile essere il primo partito? La polarizzazione è nei fatti. Più di un terzo dei collegi sono uninominali. Tradotto: è eletto solo chi arriva primo. Per arrivare primi in un collegio bisogna prendere almeno il 30/40% dei voti e può essere primo o il nostro candidato o quello della destra. Chi sceglie altre liste avvantaggia oggettivamente Giorgia Meloni. È bene chiarirlo una volta per tutte. Sul presidenzialismo e sulle posizioni di politica estera non nette verso Putin avete già alzato un muro verso il centrodestra. Tuttavia le chiedo: a partire da questa legge elettorale liberticida, c’è una agenda di riforme istituzionali condivise che proponete? E non ritenete che dopo sei mesi di conflitto in Ucraina vadano intensificati gli sforzi negoziali anche al fine di proteggere l’economia nazionale? Noi difendiamo la Costituzione. A destra non fanno mistero di volerla stravolgere. Il ruolo di terzietà e garanzia del capo dello Stato è una delle intuizioni più lungimiranti e assennate dei Padri costituenti, sulla cui difesa saremo inflessibili. Come pure lo siamo stati e continueremo a esserlo sul posizionamento europeo e atlantico dell’Italia. Quando diciamo “o di qua o di là” fotografiamo la realtà. Il tentativo sfacciato di inferenza del Cremlino nella vita politica europea è un fatto. La penetrazione aggressiva della propaganda organizzata per anni da Mosca è un fatto. Le minacce dei diplomatici russi alla libera stampa italiana sono un fatto. Nonostante tutto questo, Salvini non ha mai stralciato il patto con Russia Unita. Nonostante tutto questo Berlusconi resta l’amico di Putin per definizione. E ciò mentre in Ucraina continuano morti, devastazioni, dolore e sofferenze indicibili. Noi vogliamo la pace e sosteniamo con ogni strumento tutti gli sforzi di pace della diplomazia europea, dell’Onu e degli organismi multilaterali. Però vogliamo la pace, non la resa di chi è stato aggredito da una nazione nemica della libertà, della democrazia e dei diritti umani. A ragion veduta, considerando l’intesa raggiunta dal centrodestra pur partendo da forti divergenze, era davvero così impossibile tessere un fronte da Calenda e Conte? O almeno compattare in un’alleanza organica chi è rimasto con il premier sino all’ultimo secondo? A dirla tutta la critica più feroce che mi è rivolta è proprio aver spinto troppo per allargare. Non me ne pento. Le responsabilità di chi ha tradito accordi o, come nel caso di Conte, ha provocato con Berlusconi e Salvini la caduta del governo in uno dei tornanti più delicati della storia repubblicana ed europea sono lampanti e sotto gli occhi di tutti. La verità l’hanno vista gli italiani. Infine, segretario: il Pd è saldo o dopo il voto rischia l’ennesima resa dei conti? Grazie soprattutto alla compattezza interna il Pd ha vinto due difficilissime tornate amministrative e superato lo scoglio Quirinale. Quando 18 mesi fa ho lasciato Parigi per guidare il Pd il partito era attraversato da lacerazioni e lotta tra correnti. Un avvitamento pericolosamente prossimo all’implosione. Il Pd oggi è unito ed è l’unica vera alternativa a Meloni e alle destre. Da quando faccio politica al centrosinistra una cosa chiedono prima di tutto gli elettori: unità. Vinciamo se e soltanto se li ascoltiamo. Pene certe e semplificare le norme: il piano di Nordio sulla giustizia di Luca Sablone Il Giornale, 29 agosto 2022 L’ex magistrato, candidato con Fratelli d’Italia, traccia le priorità: “Eliminare le norme che rallentano i processi. Le pene devono essere certe e devono essere eseguite”. Quello della giustizia sarà uno dei tanti temi principali su cui il prossimo governo dovrà intervenire. Il centrodestra sperava di muovere i primi passi già con i referendum di giugno, che però non hanno raggiunto il quorum. Si tratta di una delle urgenze non più procrastinabili. Non a caso Carlo Nordio ha deciso di candidarsi con Fratelli d’Italia, proprio per porre fine alle criticità della giustizia italiana e apportare rimedi in senso garantista e liberale. Alcune indiscrezioni di diversi quotidiani indicano l’ex magistrato come possibile prossimo ministro della Giustizia. Lui al momento non si espone in tal senso e si limita a far notare che, oltre agli esiti elettorali, bisogna tener conto che comunque la squadra dei ministri viene nominata dal presidente della Repubblica. Il piano di Nordio - Nordio, nel corso dell’intervista rilasciata a Libero, ha indicato le riforme che reputa più urgenti. Ovvero quelle della giustizia che hanno un impatto sull’economia, che allo stato attuale rappresenta l’emergenza più grave: “Secondo studi accurati e indipendenti, la lentezza della giustizia civile e penale ci costa circa un 2% di prodotto interno lordo”. Che fanno circa 36 miliardi di euro l’anno. Per il candidato di FdI occorre innanzitutto procedere verso una “radicale eliminazione e semplificazione di una serie di norme sostanziali e procedurali complesse e contraddittorie, che rallentano i processi e paralizzano l’amministrazione”. E su questo fronte ha citato l’esempio emblematico del reato di abuso di ufficio. “Ha creato la cosiddetta amministrazione difensiva, per cui nessun sindaco o assessore firma più con tranquillità, o non firma affatto”, ha fatto notare. In un’ottica di riforma Nordio sarebbe favorevole alla diminuzione delle pene, oltre che alla depenalizzazione dei reati minori. Il che sembra essere in contrasto con le tesi di Fratelli d’Italia (che invece vuole aumentare e inasprire le pene), ma in realtà alla base c’è un comune denominatore: “Le pene devono esser diminuite perché devono esser rese certe e devono essere eseguite. E per i reati più piccoli e non depenalizzabili le pene possono esser convertite, ma anch’esse devono essere eseguite”. In tal senso ha rispolverato la filosofia della pena nel progetto della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale da lui presieduta anni fa: “Oggi se uno imbratta i muri dei palazzi rischia sei mesi, ma anche qui il giudice gli dà la condizionale e tutto finisce lì. Io dico: quel condannato non deve andare in prigione, ma deve pulire le strade per un anno. E se non lo fa, allora scattano le manette”. L’inappellabilità delle assoluzioni - L’ex magistrato si è espresso anche per l’inappellabilità delle assoluzioni in primo grado, un’idea rilanciata di recente da Silvio Berlusconi. Sostiene che difesa e accusa non devono essere sullo stesso piano e quindi avere identica possibilità di ricorso in appello: “La prova della colpevolezza grava sull’accusa, e deve sussistere al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma”. Le droghe leggere - Nordio infine è stato interpellato sul consumo e il possesso di droghe leggere, da lui giudicate dannose al cervello e il primo passo verso l’assunzione di quelle pesanti. Dunque niente sconti, visto che la depenalizzazione verrebbe vista come un incentivo allo spaccio. Bocciata inoltre l’ipotesi della liberalizzazione: “Comporterebbe l’arrivo in Italia di tutti i tossicodipendenti che vivono in Paesi dove la droga è illegale”. Dal Csm alla riforma penitenziaria: le proposte di Costa (Azione) di Riccardo Pieroni publicpolicy.it, 29 agosto 2022 Intervenire su alcuni aspetti contenuti nella riforma del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Approvare in Parlamento la separazione delle carriere tra giudici e magistrati. Mettere a punto una riforma organica del sistema penitenziario. Sono queste alcune delle proposte avanzate da Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione. Membro della commissione Giustizia, Costa sarà candidato come capolista alle prossime elezioni del 25 settembre nel collegio plurinominale Lombardia 1 della Camera, nella lista unitaria tra Azione e Italia viva. D. Onorevole Costa, tra i punti sulla giustizia contenuti nel programma di Azione e Italia viva vi è la revisione della riforma del Csm. R. È evidente che è stata una riforma di compromesso perché c’era una maggioranza composita e forze che avevano valutazioni diverse dalle nostre. Ci sono degli elementi su cui occorre intervenire: il testo va migliorato. Noi avevamo presentato degli emendamenti che erano molto più rigorosi, nel senso di rendere non decisive - l’auspicio è ininfluentI - le correnti nell’ambito del Consiglio superiore della magistratura. Abbiamo ottenuto anche dei risultati, come il fascicolo di valutazione del magistrato perché esso consentirà di avere un punto di riferimento per l’analisi sulle valutazioni di professionalità. Ci sono dei profili che vanno ancora accentuati, come ad esempio il tema della legge elettorale, sul quale si è raggiunto un compromesso. Altro tema è quello dei fuori ruolo, un aspetto significativo che è stato affrontato in termini che avrebbero potuto essere stati più netti. Penso ai casi del magistrati che si candidano e non vengono eletti. Altro tema è quello degli illeciti disciplinari, che vengono archiviati de plano dal procuratore generale senza un vaglio di nessuno che possa dire se questa è una valutazione giusta o sbagliata. Il ministero della Giustizia sotto questo profilo, diciamo, non ha fatto da filtro. D. Proponete anche l’approvazione del ddl di iniziativa popolare promosso dalle Camere penali sulla separazione delle carriere tra giudici e pm. Quali altri provvedimenti intendete portare avanti nella prossima legislatura? R. Questa iniziativa è molto importante perché noi abbiamo visto l’ostilità palese del Partito democratico e del Movimento 5 stelle anche solo a discutere. Siamo riusciti a portarla in aula e poi ce l’hanno fatta tornare in commissione. Secondo me questa è una proposta di legge che è la chiave di tutto il sistema. Abbiamo il giusto processo davanti a un giudice, terzo e imparziale, declamato. Non abbiamo però l’esecuzione pratica di quello che dovrebbe essere appunto avere due carriere: l’una per il giudice terzo e imparziale l’altra per l’avvocato dell’accusa. Ci sono una serie di proposte che già in questa legislatura abbiamo avanzato, come per esempio sul tema dell’inappellabilità delle sentenze di primo grado. Questo è un principio a nostro giudizio da tenere in considerazione. Io penso che si possa arrivare ad una soluzione magari articolando la proposta e rendendola “approvabile” da tutti, anche da quelli che in prima battuta non sono favorevoli. D. E in merito alle riforme del processo civile e penale promosse dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia? R. Adesso siamo in una fase di analisi visto che a settembre è convocata, pur a Camere sciolte, la commissione (Giustizia; Ndr) per la valutazione dei decreti. Dei passi avanti ne sono stati fatti ma ci sono tante situazioni che potevano essere affrontate con maggiore coraggio. Bisogna evitare che per accelerare il processo si sottraggano delle garanzie e si facciano venir meno delle categorie. Sul tema della presunzione d’innocenza noi abbiamo ottenuto dei risultati con il recepimento della direttiva europea ma teniamo conto che per esempio oggi abbiamo ancora delle cose da migliorare, come il risalto che viene dato alle notizie di assoluzione rispetto alle indagini sui giornali, al rapporto con i media. Non è soltanto un aspetto formale ma sostanziale: su questo profilo è necessario intervenire. C’è poi la questione della custodia cautelare: in carcere abbiamo più del 30% dei detenuti senza una condanna definitiva. Molto spesso c’è l’abuso di questa misura. Con i tempi lunghi del processo la custodia cautelare diventa un po’ una situazione che si stabilizza nell’immagine collettiva. D. Sulla situazione delle carceri italiane è possibile portare avanti qualche intervento in Parlamento? R. Una proposta che avevo fatto è che ci fossero delle situazioni diverse tra coloro che sono in custodia cautelare - che sono presunti innocenti - e coloro che hanno una condanna definitiva. Lo Stato deve porsi questa questione perché sono situazioni completamente differenti. Inoltre il condannato definitivo deve essere messo in condizioni di lavorare. Abbiamo delle statistiche che ci dicono che i detenuti lavorano e in percentuali magari anche alte. Ma non è così: quelli che lavorano sono alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e quindi non è che apprendono un’attività da poter “sfruttare” nel momento in cui escono. Per cui il tasso di recidiva è particolarmente alto. Questi sono aspetti da affrontare in una riforma organica del sistema penitenziario. Noi continuiamo ad avere dei testi fatti da commissioni su questioni che sono certamente significative. Non abbiamo invece mai avuto il coraggio di affrontare in modo determinato questo profilo. (Public Policy) Femminicidi. Lo sconforto del “se l’è cercata” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 29 agosto 2022 Non usciremo mai dalla cappa opprimente della violenza di genere se non faremo quel salto culturale di cui parliamo da così tanto tempo (senza i risultati sperati) da vederne depotenziato il senso. È scoraggiante. Non ce la faremo mai. Ci sembra di fare passi avanti, delle volte. Ci sentiamo autorizzati a sperare che stavolta sì, dai, forse siamo sulla strada giusta. Ma poi arrivano il tizio o la tizia di turno con parole e pensieri fuori posto ed eccoci qui daccapo: non ce la faremo mai. Non usciremo mai dalla cappa opprimente della violenza di genere se non faremo quel salto culturale di cui parliamo da così tanto tempo (senza i risultati sperati) da vederne depotenziato il senso. Alessandra Matteuzzi viene uccisa a martellate da un uomo che aveva pretese di controllo e di possesso. Pretese che gli sembravano persino diritti da riscuotere in quanto uomo e in quanto geloso. Uno che chiamava tutto questo amore, ovviamente. Se davanti alla notizia dell’omicidio il primo commento che ti viene in mente è: “Comunque anche lei come andava conciata…Ovvio che il ragazzo era geloso” vuol dire che non ci siamo. Non ci siamo proprio. Donatello Alberti, che lavora per la Croce Bianca dell’Emilia Romagna e che magari nella vita ha pure soccorso qualche donna finita negli artigli di un uomo violento, ha rimosso il post e ha chiesto scusa travolto da critiche e insulti. Ma il punto non sono le scuse, accompagnate tra l’altro da un “sono stato frainteso”. Il punto è che sia ancora tempo di esprimere l’idea di quel post; è il fatto che ancora adesso, nel 2022, nella mente di qualcuno attecchisca - consapevolmente o no - un germoglio di giustificazione per lui, l’assassino. Che certo, ha sbagliato, Epperò, pure lei… Ma davvero siamo ancora a questo punto? Davvero dobbiamo tornare indietro per la millesima volta a ripetere quanto sia odioso il “se l’è un po’ cercata” nascosto fra le parole di quel post? E quanto ci vorrà per andare oltre quest’abc dell’antiviolenza? Eppure non sarebbe difficile quel salto culturale che farebbe la differenza. La sua parola magica è: rispetto. Si può coltivarlo nelle scuole ma soprattutto sarebbe finalmente ora di renderlo “materia obbligatoria”, diciamo così, nelle famiglie. L’obiettivo sarebbe crescere bambini gentili, amorevoli, rispettosi perché diventino uomini illuminati e non scelgano mai la violenza. Per non ritrovarci fra x anni in un momento di sconforto a pensare e a scrivere che non ce la faremo mai. Perché DOBBIAMO farcela. “Sulla violenza contro le donne giustizia troppo lenta. Attesa stressante, in molte rinunciano” di Federica Cravero La Repubblica, 29 agosto 2022 L’avvocata Silvia Lorenzino, diventata punto di riferimento per i reati da codice rosso: “Di certo non è un effetto voluto ma si è capito subito, con la nuova legge, che si sarebbe verificato questo problema”. Ci sono due velocità nei procedimenti per le donne vittime di violenze e maltrattamenti. “Il codice rosso ha generato una grande accelerazione nella fase iniziale delle indagini, ma poi il processo si trasforma in un incubo lunghissimo e a volte le donne preferiscono uscirne per il troppo stress”, spiega Silvia Lorenzino, avvocata diventata un punto di riferimento per le donne vittime di violenza. Il rallentamento dei processi è stato un effetto imprevisto del codice rosso? “Certamente non era un effetto voluto, tuttavia si era capito fin dalla prima lettura del testo che queste sarebbero state le conseguenze”. Quali sono i problemi in concreto per le vittime? “Moltissimi processi ora sono collegiali ma la carenza di magistrati comporta una grande difficoltà a trovare tre giudici per comporre i collegi. Poi è complicato fissare le udienze perché tutti e tre a loro volta hanno impegni con altri processi quindi i rinvii sono molto lunghi se l’imputato non è sottoposto a misura cautelare. E quando si trova un giorno libero per i magistrati, per gli avvocati è praticamente impossibile chiedere un rinvio, anche di fronte a esigenze motivate. Inoltre per ottimizzare le udienza si fanno istruttorie lunghissime, che durano diverse oree sono molto difficili da affrontare per le vittime. A volte, poi, capita che un giudice debba essere sostituito per varie ragioni e l’istruttoria subisce un altro rallentamento”. Prima del codice rosso non era così? “Prima i maltrattamenti erano solitamente monocratici, ora quandoi c’è l’aggravante della violenza assistita dei figli sono collegiali. Inoltre il codice rosso, accompagnando maggiormente le donne a fare denuncia, ha fatto emergere anche violenze sessuali che prima restavano sommerse e anche quelle sono ovviamente collegiali”. Come reagiscono le donne? “Patiscono, quasi tutte si lamentano e alcune, se non supportate dai centri antiviolenza, cercano di uscire dal processo. Le parti offese vivono uno scossone quando passano dall’accelerazione durante le indagini a questi tempi che invece sono estremamente dilatati poiché dopo l’udienza preliminare passa moltissimo tempo prima della fissazione del dibattimento. Sia chiaro: per le donne il rito collegiale è una tutela maggiore piuttosto che essere esposte alla valutazione di un solo giudice, ma stando così le cose diventa un peso”. Lombardia. Carceri lombarde, raddoppiati i suicidi Il Giorno, 29 agosto 2022 La situazione sta diventando sempre più insostenibile all’interno delle carceri lombarde, in assenza di veri e propri interventi strutturali volti a migliorare l’organizzazione e la convivenza tra detenuti. I dati parlano chiaro: nel 2022 il numero di persone che si sono tolte la vita nelle prigioni lombarde sono il doppio rispetto al 2021, con a rischio soprattutto coloro i quali entrano per la prima volta all’interno del carcere. Codacons interviene con una nota: “Il problema si interseca con quello del sovraffollamento, infatti in Lombardia si registra una popolazione carceraria del 190% superiore a quella prevista, pensiamo a Monza dove si registra un’elevata presenza di detenuti affetti da patologie psichiatriche e il 50% della popolazione soffre di tossicodipendenze. Emblematico il caso di Pavia con cinque suicidi negli ultimi 9 mesi. afferma il Presidente Nazionale del Codacons, Marco Donzelli - la situazione così non può andare avanti, devono essere fatti degli interventi e devono essere fatti adesso. Lo specchio di un Paese è dato dal modo in cui viene trattata la popolazione carceraria, con persone che devono essere risocializzate e reinserite nella comunità non punite ulteriormente per i loro crimini. Ci rivolgeremo al Ministero della Giustizia chiedendo un intervento urgente sul tema”. Perugia. Detenuto di 34 anni si uccide a Capanne La Nazione, 29 agosto 2022 Il Garante, Giuseppe Caforio: “Migliorare le condizioni di esecuzione della pena”. Secondo suicidio nelle carceri umbre nel giro di tre giorni. Nella tarda serata di sabato un uomo di 34 anni, di origini marocchine, in attesa di giudizio, si è tolto la vita a Capanne. Solo poche ore prima, un 49enne era deceduto all’ospedale di Terni in seguito agli atti di autolesionismo che si era procurato in cella. “Un conto la certezza della pena e un conto sono le condizioni di esecuzioni della pena - sottolinea l’avvocato Giuseppe Caforio (nella foto), Garante dei detenuti dell’Umbria. Nell’ultimo caso, ad esempio, dovrebbe trattarsi di solitudine. Nelle carceri sono in aumento i suicidi, ma anche gli episodi di autolesionismo. Oltre, naturalmente, agli attacchi al personale penitenziario. Sono cambiate le vittime: prima i suicidi erano tra i “colletti bianchi”, per così dire, ultracinquantenni, ora si tratta di ragazzi giovani, stranieri, isolati e senza relazioni. Persone che hanno bisogno di un sostegno psicologico e che, magari, in carcere non ci dovrebbero stare, perché dovrebbero essere ospitati nelle Rems, struttura che in Umbria ancora non c’è”. “Ho informato la presidente della Regione, Donatella Tesei - continua il Garante dei detenuti - e abbiamo deciso di visitare insieme, nei prossimi giorni le carceri umbre. C’è carenza di personale, di agenti di polizia penitenziaria, ma anche di operatori, psicologi e assistenti. C’è molto da fare, anche in Umbria, per migliorare la condizione carceraria. Ripeto - conclude l’avvocato Giuseppe Caforio: un conto è la certezza della pena e un conto è la condizione di esecuzione della pena. Su quest’ultimo aspetto c’è ancora molto da lavorare”. Torino. “Il vero crimine è stare con le mani in mano”: la protesta delle detenute di Matteo Chiarenza riforma.it, 29 agosto 2022 A Torino le detenute in sciopero della fame fino al 25 settembre. “Scriviamo da una cella della sezione femminile delle Vallette. Ognuna di noi, dal 24 agosto al 25 settembre, farà alcuni giorni di sciopero della fame. A staffetta ognuna di noi vuole esprimere solidarietà per tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente. Ognuna di noi, aderendo a questa iniziativa non violenta, vuole esprimere lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica, e delle istituzioni”. Questo l’incipit di una lettera scritta dalle detenute della sezione femminile dell’istituto penitenziario Lo Russo Cotugno di Torino dal titolo “Il vero crimine è stare con le mani in mano”. La protesta prende le mosse da un dato inquietante: il 2022 ha infatti rappresentato un anno record per i suicidi in carcere da gennaio a oggi, addirittura 57. Un numero esorbitante che mette in luce la realtà degradata delle carceri italiane, di cui quella di Torino rappresenta un esempio particolarmente problematico, soprattutto in relazione al sovraffollamento, forse la principale anche se non l’unica criticità. L’iniziativa dello sciopero della fame è stata iniziata, la scorsa settimana, dalla presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” Rita Bernardini che, proprio, nel carcere torinese, lo scorso 19 agosto aveva incontrato le detenute le quali avevano annunciato l’adesione all’iniziativa. “Lo scopo dello sciopero della fame - spiega Bernardini - è di arrivare al cuore e alle intelligenze dei rappresentanti delle istituzioni che possono e, a nostro parere, devono intervenire per porre rimedio a una situazione che da anni è fortemente trascurata e che quest’anno ha fatto registrare un numero di suicidi senza precedenti. Abbiamo incontrato le ragazze del carcere di Torino che da anni si sono mobilitate con iniziative non-violente, ma sappiamo anche che diverse detenute di Rebibbia aderiranno allo sciopero”. Nell’immediato la richiesta è di provvedere ad allentare la pressione “demografica” degli istituti, in particolare attraverso lo strumento della libertà anticipata speciale. “Chiediamo al Governo ancora in carica che possa essere previsto un decreto che permetta l’utilizzo, già avvenuto in passato, della libertà anticipata speciale, che consente a chi già usufruisce della liberazione anticipata di ottenere un ulteriore sconto di 30 giorni ogni semestre. Vale la pena sottolineare che la misura è applicabile soltanto a chi, nel corso della detenzione, si sia distinto per buona condotta partecipando attivamente ai programmi di recupero. Su questo fronte c’è già una proposta di legge che prevede inoltre una procedura accelerata per venire incontro alle difficoltà dei magistrati di sorveglianza che si trovano in difficoltà con l’enorme mole di lavoro da svolgere” Più a lungo termine, invece, la richiesta generale è quella di una piena e concreta adesione ai dettami costituzionali della giustizia in generale e delle carceri in particolare, in un contesto che ha visto l’Italia condannata dalla Corte Europea dei diritti umani per trattamenti disumani nei confronti dei detenuti. “Per riportare la giustizia entro i parametri previsti dalla costituzione sarebbero necessari, tra le altre cose, un provvedimento di amnistia, ormai assente da oltre 30 anni, che riporti il numero di processi a una quota ragionevole, dal momento che spesso gli stessi non vengono neanche celebrati a causa del numero eccessivo di cause aperte. In seconda battuta sarebbe necessario anche un provvedimento di indulto per far ripartire le carceri con criteri più aderenti al perimetro costituzionale”. Alessandria. Un apiario e il luppoleto: così miele e birra si fanno in carcere di Paola D’Amico Corriere della Sera, 29 agosto 2022 Le piante di luppolo sono cresciute fino a 8 metri di altezza lungo tutto il perimetro dell’istituto di pena San Michele. Saranno prodotti 9mila litri di birra. La coop dà lavoro a detenuti dentro e fuori dal cercere. Si festeggia con una cena sotto le stelle il successo del luppoleto “Fuga di sapori” nel carcere San Michele di Alessandria. Due anni fa la coop sociale Idee in Fuga ha pensato di creare all’interno delle mura dell’istituto di pena una coltura che potesse crescere e dare “buoni frutti” per alimentare un settore in forte espansione, quello brassicolo italiano per birre artigianali di qualità, ma soprattutto creare lavoro per i detenuti. L’obiettivo è stato centrato. L’11 settembre lungo i filari del luppoleto Galeotto si terrà una cena di beneficenza. “Siamo partiti grazie ad un crowdfunding co-finanziato da più di 100 donatori e da Fondazione Crt e dopo un anno e mezzo, grazie al supporto di Hopera di Luca Bonelli, abbiamo creato l’impianto e piantato 300 piantine di luppolo che vengono quotidianamente curate da Mustafa, Jerry e Nunzio. Nel giro di pochi mesi sono cresciute fino a raggiungere gli 8 metri di altezza creando corridoi verdi lungo il campo perimetrale del carcere di San Michele e ben visibile ai passanti”, racconta Carmine Falanga presidente della coop sociale. Lavoro fuori dal carcere - Il luppoleto raccolto sarà inviato a un micro birrificio in provincia di Cuneo, che ha sposato il progetto di Idee in fuga. Ma l’obiettivo dei giovani titolari è più avanti aprire un birrificio in carcere. Obiettivo: una produzione di 9mila litri quest’anno. Con la coop sociale oggi lavorano 11 detenuti coordinati da tre ragazzi esterni. Ma Idee in fuga ha dato vita anche a un apiario, due negozi e una falegnameria ad Alessandria che sono gestiti da detenuti e ex detenuti, in totale altre 14 persone. “Siamo nati 5 anni fa - aggiunge Falanga -e dal primo giorno ci è stato chiaro che la vera sfida non è dare lavoro all’interno del carcere, dove ci sono tante coop, ma soprattutto fuori. Quando si esce dall’ ambiente ristretto ma anche protetto, le persone si trovano spesso senza un lavoro. Grazie alla coop ho avvicinato molte aziende e c’è chi ha iniziato ad assumerli. Un esempio arriva dal nostro produttore di crema spalmabile. Questa è la vera sfida”. La festa prima del raccolto - Prima del raccolto, era tassativa una cena sotto le stelle e con un particolare tocco green. “Il nostro obiettivo è far conoscere attraverso i nostri progetti e iniziative il buono che viene da dentro e essere da esempio ad altre realtà che potrebbero aprirsi al mondo del carcere”, spiega Falanga. Il progetto Fuga di Sapori nasce con l’intento di creare lavoro dentro e fuori le mura, “unico strumento - continua -per ridurre la recidiva e dare dignità a chi ha pagato una pena e vuole rifarsi una vita”. Il menu della cena spazierà da un fresco aperitivo di benvenuto, passando a diversi antipasti con i prodotti Fuga di Sapori, a una portata principale a sorpresa e dulcis in fundo una vera e propria anteprima: il panettone “Il Maskalzone” con una nuova ricetta per il Natale 2022 abbinato alla Brigantella e piccola pasticceria. Il vino rosso del Carcere di Alba. Il direttore degli Istituti di Pena di Alessandria, la dottoressa Elena Lombardi Vallauri, spiega: “È sempre importante per l’istituzione penitenziaria potersi rendere conoscibile e trasmettere alla comunità anche la propria - normalità -: sebbene il carcere sia, infatti, un posto assolutamente diverso da tutto ciò che le persone libere conoscono, il tentativo di rendere parte della vita reclusa “normale” è quanto di più prezioso sia affidato come compito agli operatori. Il lavoro, l’impegno per raggiungere un risultato tangibile e visibile, la realizzazione delle proprie competenze ed abilità, possedute precedentemente o acquisite durante l’esecuzione della pena, sono elementi imprescindibili di qualsiasi percorso di ritorno alla vita libera ed alla serena esistenza di cittadino libero che ha concluso il proprio percorso con la giustizia dello Stato”. Nuoro. Ritorna il classico concerto nel carcere di Badu e Carros per Nuoro Jazz sardegnareporter.it, 29 agosto 2022 Si avvia verso la conclusione la trentaquattresima edizione di Nuoro Jazz che mercoledì 31 agosto completerà il suo percorso, iniziato dieci giorni prima, con il tradizionale saggio-concerto finale che coinvolge allievi e docenti dei seminari promossi dall’Ente Musicale di Nuoro. Un evento che quest’anno andrà in scena nel centro storico di Onifai, il borgo della Baronia a una quarantina di chilometri dal capoluogo barbaricino. Ma domani lunedì 29 intanto, mentre a Nuoro proseguono le lezioni alla Scuola Civica di Musica in via Tolmino, in mattinata (ore 11) ritorna, dopo due anni di interruzione per l’emergenza covid, un “classico” di Nuoro Jazz: il concerto nel carcere di Badu ‘e Carros. Un evento che si rinnova per la diciassettesima volta grazie alla collaborazione della direzione e dei lavoratori della casa circondariale nuorese. Protagonisti in questa occasione due musicisti sardi, entrambi docenti dei seminari jazz: la cantante Francesca Corrias e il chitarrista Bebo Ferra. In serata, a Nuoro, il festival che ogni sera fa da corollario spettacolare alle attività didattiche, propone domani - lunedì 29 - un concerto strettamente legato ai seminari: nel Giardino della Biblioteca Satta, con inizio come sempre alle 21, è di scena infatti il Nugara Trio, composto dagli allievi che nella passata edizione dei corsi hanno ricevuto l’apposita borsa di studio per la formazione di un gruppo ad hoc: Francesco Negri al pianoforte, Viden Spassov al contrabbasso e Francesco Parsi alla batteria, tre giovani musicisti con storie e trascorsi diversi, che si sono ritrovati insieme a Nuoro Jazz uniti dalla passione per la musica e da uno stesso desiderio di ricerca. Riflesso diretto di questa unione, la musica del Nugara Trio fonde sonorità moderne con l’anima più traditional del jazz e con influenze che toccano per certi aspetti la musica classica e il rock. Anche l’appuntamento che precederà il concerto nel tardo pomeriggio è legato in qualche modo ai seminari nuoresi: è infatti Emanuele Cisi, docente da quasi dieci anni ai corsi di Nuoro Jazz, al centro dell’incontro con il pubblico in programma alle 18.30 a Casa Ruiu, in via Grazia Deledda. Il sassofonista torinese presenta il suo esordio letterario, “A cosa pensi quando suoni?”: una traduzione in parole di un rapporto di amore e dipendenza con la musica, storie, epifanie, incontri, un racconto in presa diretta di oltre trent’anni di vita nel jazz. Classe 1964, miglior nuovo talento per la critica al referendum annuale della rivista Musica Jazz nel 1995, Emanuele Cisi conta all’attivo un centinaio di album come leader, co-leader o sideman, e ha suonato e inciso con musicisti come Clark Terry, Jimmy Cobb, Albert Tootie Heat, Walter Booker, Joe Chambers, Ron Carter, Nat Adderley, Jack McDuff, Jimmy Owens, Branford Marsalis, Joe Lovano, Billy Hart, Adam Nussbaum, Billy Cobham, Joey Calderazzo, Kenny Wheleer, Aldo Romano, Daniel Humair, Enrico Pieranunzi, Enrico Rava, Paolo Fresu, Sting, tra i tanti. In uscita nei prossimi giorni il suo nuovo album, “Far Away”, registrato su una barca a vela in navigazione nelle acque della Toscana, con la partecipazione dell’attore Filippo Timi. I biglietti per il concerto del Nugara Trio si possono acquistare online sul sito Ciaotickets e a Nuoro al CTS (Centro Turistico Sardo) in piazza Mameli, 1 (tel. 078432490). Dieci (intero) e otto euro (ridotto) il prezzo nei primi posti numerati; otto (intero) e cinque euro (ridotto), nei secondi e terzi posti numerati. Per informazioni la segreteria dell’Ente Musicale di Nuoro risponde al numero 078436156 e all’indirizzo di posta elettronica nuorojazz@entemusicalenuoro.it; per altre notizie e aggiornamenti: www.entemusicalenuoro.it e www.facebook.com/nuorojazz2014. La trentaquattresima edizione dei Seminari e del festival Nuoro Jazz è organizzata dall’Ente Musicale di Nuoro con il contributo del MiC • Ministero della Cultura, della Regione Autonoma della Sardegna (Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport e Assessorato del Turismo) del Comune di Nuoro e del Comune di Onifai, con il supporto della Biblioteca Sebastiano Satta, dello Spazio Ilisso, del Museo MAN e del CTS (Centro Turistico Sardo) Nuoro. Perché il web non è un pianeta per donne di Lilia Giugni La Repubblica, 29 agosto 2022 “La rete non ci salverà” è il saggio scritto dalla ricercatrice napoletana a Cambridge Lilia Giugni, fondatrice di un think tank che si occupa di questioni di genere. Ecco un’anticipazione. Quando parliamo di processi partecipati, di democratizzare le scelte riguardanti la tecnologia, e più di tutto di mettere le donne al centro di questa partecipazione e di questa democratizzazione, ci scontriamo con due barriere grandi quanto una casa. La prima si chiama molestia sul lavoro e nello spazio pubblico, e continua a essere un formidabile strumento di controllo delle donne e delle loro rivendicazioni. Suppongo non abbiate dimenticato le vicende, così diverse eppure così simili, delle varie lavoratrici del tech prese di mira mentre tentavano di svolgere il proprio compito, o magari di rimediare ai lati più oscuri della rivoluzione digitale. E che concordiate con me che mai come in questo caso il serpente la coda se la morde proprio bene. Violenze e discriminazioni minano il diritto delle donne ad avere una voce nei dibattiti e nelle attività concernenti la tecnologia. Le loro istanze e le loro necessità vengono, così, costantemente spinte ai margini. Et voilà, il tutto si traduce nella creazione di tecnologie escludenti, e in una frustrante inerzia su abusi e sfruttamento di genere. Di conseguenza, ci sono alcune cose che è tassativo fare senza se e senza ma. I luoghi di lavoro e di confronto politico (aziende tech, uffici pubblici, partiti, parlamenti e gruppi politici) richiedono tutti procedure rapide, sicure ed efficaci di denuncia delle molestie e di gestione dei reclami. Seri interventi educativi di prevenzione, a livello organizzativo come sociale, vanno condotti con urgenza. E si sono decisamente esaurite le scuse per non costruire reti di supporto professionale e per non erogare aiuti finanziari a sostegno delle donne vittimizzate, e delle comunità che le appoggiano. L’altro ostacolo che ormai proprio non possiamo più nascondere sotto il tappeto è il gap digitale di genere che affligge l’intero pianeta, il cui influsso sulla scarsa partecipazione delle donne (e soprattutto di alcune di loro) alla costruzione di un diverso futuro digitale ha a stento bisogno di spiegazioni. Come può una qualunque decisione presa in materia di tecnologia dirsi realmente partecipata se milioni di donne e ragazze manco hanno accesso a Internet? Come possiamo sperare di rendere più equa la progettazione e la regolamentazione tecnologica se un sostanzioso segmento della popolazione mondiale ha consistentemente meno probabilità di sapere come la tecnologia funziona, di familiarizzare con essa, di sentirla parte della propria vita? A contribuire al differenziale digitale di genere sono fattori alquanto intricati: i costi ancora relativamente alti di tante tecnologie; l’assenza di connessione in vaste zone territoriali di tutti e cinque i continenti; la mancanza di seri piani per far fronte a oscene disuguaglianze economiche. Mi permetto di riaffermare una verità abbastanza auto-evidente: anche in quest’area, i modelli di tassazione dell’industria tech e i provvedimenti redistributivi male certamente non farebbero. Come non fanno male - e anzi, sono di primaria importanza - gli sforzi di sensibilizzazione finalizzati a sfatare stereotipi sul rapporto tra donne e digitale, specie se condotti a beneficio di gruppi caratteristicamente esclusi dalla tecnologia. Mi vengono in mente le borse di studio per le giovani che vogliano studiare materie STEM (già esistenti in alcuni Paesi del sud globale), e le iniziative di formazione permanente per donne di una certa età, adattate a seconda delle loro esigenze e dei loro interessi. E mi vengono in mente, più di tutto, le scuole di programmazione aperte nelle periferie di varie città del mondo, e la community internazionale Lesbians Who Tech, che, tra le sue diverse attività, sovvenziona diplomi in “coding” a donne queer e persone non binarie. Menziono questi specifici esperimenti non perché si debba giocare alle Olimpiadi del politicamente corretto, dove per far bella figura dimostriamo di non aver dimenticato nessuno nella foto di gruppo. Ma perché, vari fenomeni di marginalizzazione si rinforzano a vicenda, e suppurano poi le nostre tecnologie. Per tutelare tutte, la lotta per la giustizia digitale di genere non può quindi lasciar fuori nessuna. Viviamo un periodo storico in cui garanzie, tutele e persino basici principi in difesa di chi lavora sono costantemente sotto attacco. E non appena si inizia a parlare delle lavoratrici più vulnerabili del tech, ecco che d’un tratto si innalzano gli scudi. “È l’economia globale, baby”. “Se diamo maggiori diritti alla forza lavoro, le nostre imprese delocalizzeranno altrove. E se non delocalizzano loro, lo farà qualcun altro”. O persino: “Ma che colpa ne abbiamo, noi, se ci sono Paesi con scarsissime protezioni sindacali? E cosa possiamo farci se questo scatena una corsa al ribasso a livello globale?”. Intendiamoci: non è che le complessità legate alla globalizzazione della nostra economia non siano penosamente reali. Solo che una civiltà degna di questo nome quelle complessità avrebbe il santissimo dovere di interrogarle, e di impedire che esistenze umane vengano stritolate per costruire uno smartphone o far funzionare una app. Tanto più che molte lavoratrici del tech hanno le idee ben chiare su come ci si dovrebbe muovere per soddisfare i loro bisogni. Ha le idee chiarissime, ad esempio, la moderatrice social Isabella Plunkett che, insieme a un’avvocata specializzata in lavoro digitale, Cori Crider, ha recentemente presentato al Parlamento irlandese delle raccomandazioni molto persuasive sulla regolamentazione della moderazione di contenuti. Tra le altre proposte, Isabella e Cori consigliano di vietare la pratica degli accordi di riservatezza, sempre più diffusa nell’industria digitale, e sempre più utilizzata per dissuadere moderatori e altri impiegati dal denunciare i torti che subiscono. Questa loro visione si aggancia a un principio riconosciuto dalla legislazione d’impresa in molti regimi giuridici: il presupposto che le compagnie abbiano un duty of care (dovere di cura) nei confronti dei componenti della propria forza lavoro. Indubbiamente, e specie in campi nuovi e in continua evoluzione come il digitale, quella del “dovere di cura” aziendale rimane troppo spesso una formula vacua, che va sancita e inquadrata mediante discipline stringenti. Nel caso di moderatrici e moderatori social, però, è facile intravedere come si potrebbe far leva su questo principio negli ordinamenti nazionali, e adoperarlo per limitare la durata dei turni di lavoro e obbligare le imprese a fornire allo staff assistenza psichiatrica professionale. Come sappiamo, infinite complicazioni derivano poi dalla tendenza delle multinazionali tech a delegare gran parte delle proprie operazioni a compagnie intermediarie, spesso dislocate in Paesi non occidentali. E sì, anche stavolta è innegabile che, come ci si muove ci si muove, rischiamo di mettere a repentaglio forze lavoro già fragili in vari angoli del pianeta. Ciò detto, una parziale soluzione ce l’abbiamo davanti agli occhi: spingere le piattaforme (con la carota e se necessario anche a colpi di bastone) a mantenere in house almeno le attività che vanno al cuore stesso del loro business (vedi la moderazione di contenuti), evitando così di creare forze lavoro di serie A e di serie B. Il libro - La rete non ci salverà di Lidia Giugni (Longanesi, pagg. 300, euro 19) Se l’idea è un campo base. Lezioni gratis ai ragazzi per vincere le disuguaglianze di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 29 agosto 2022 A Roma, Palermo, Catanzaro e Napoli il progetto di Enel Cuore per contrastare la povertà educativa. Laboratori, eventi e confronti dedicati a giovani dai 12 ai 17 anni di quartieri disagiati. Un “campo base”, ispirato a quelli degli alpinisti in vetta, dove però poter studiare, crescere, imparare e conoscere il mondo. Il tutto divertendosi e sentendosi al sicuro, come in tenda quando fuori soffia forte il vento. Si potrebbe raccontare così l’idea dietro al progetto “Base Camp - Presidi educativi Territoriali”, sostenuto da Enel Cuore e dall’Impresa Con i Bambini, per contrastare la povertà educativa degli adolescenti. Un’iniziativa a livello nazionale animata da lezioni gratuite, eventi e occasioni di confronto per ragazzi tra i 12 e i 17 anni. Si va dai tandem linguistici, conversazioni con giovani madrelingua da diversi Paesi del mondo, fino ai laboratori di Pop Art o le visite guidate per le strade delle città. Senza dimenticare l’aiuto quotidiano per lo studio e i compiti a casa offerto ai ragazzi. Un’attività che in estate vuol soprattutto dire sostegno a studentesse e studenti chiamati a sostenere gli esami di recupero dei debiti scolastici. Ma andiamo con ordine. Base Camp nasce dall’esperienza maturata in piena pandemia, tra il 2019 e il 2021, dalle organizzazioni Laudes, Parsec, Dedalus, e Cesie (Centro Studi e Iniziative Europeo) nell’ambito del progetto “Base Camp for Future Education”, già sostenuto da Enel Cuore onlus. Un programma che ha consentito la riqualificazione e l’abbellimento di tre spazi educativi denominati appunto “Base Camp” a Roma, Napoli e Palermo e l’inaugurazione del nuovo centro a Catanzaro, coordinato dal Centro Calabrese di Solidarietà all’interno dell’IIS Petrucci Ferraris Maresca. L’ambizione dell’iniziativa è quindi ridurre e contrastare, attraverso il lavoro di alcune istituzioni scolastiche nelle quattro città, l’abbandono tra i banchi di scuola, dando nuove prospettive ai giovanissimi in difficoltà. I Base Camp, infatti, si trovano in quartieri in cui è alta la percentuale di famiglie in condizioni di disagio socio-economico e in cui mancano servizi educativi e culturali attivi con continuità. Spiega il consigliere delegato di Enel Cuore, Filippo Rodriguez, che ha seguito passo dopo passo il progetto: “In Italia troppi ragazzi e ragazze vivono in una condizione svantaggiata in termini sociali ed educativi rispetto ai propri coetanei e non hanno gli strumenti per contrastarla. È necessario quindi offrire loro l’opportunità di colmare queste disuguaglianze attraverso iniziative e programmi che contribuiscono a valorizzarne il potenziale, i talenti e le abilità”. Nelle quattro sedi Base Camp, nel triennio di progetto, si prevede così il coinvolgimento di circa 550 studenti e studentesse nelle attività di studio e 1.500 nelle iniziative di animazione culturale e territoriale. A livello complessivo (e con l’idea di favorire l’inclusione anche delle famiglie) si prevede il coinvolgimento in attività più continuative di almeno 120 docenti e 120 tra i familiari dei ragazzi. Percorsi personalizzati - Ma come vengono aiutati in concreto i giovanissimi? In ognuno dei Base Camp, coordinati a Roma da Parsec all’interno del Liceo Classico e Linguistico Aristofane, a Napoli da Dedalus all’interno dell’ICS R. Bonghi e a Palermo dal Cesie all’interno dell’IMS Regina Margherita, vengono attivati dei “percorsi di educazione personalizzata”. Grazie a team di specialisti, sotto la supervisione didattica di Laudes, e a una programmazione di eventi culturali in collaborazione con la casa editrice Laterza, i ragazzi vengono seguiti costantemente e accompagnati in un percorso di crescita. Una formazione cucita su misura che tiene anche conto delle competenze oggi fondamentali per i giovanissimi. Ad esempio, con Med - Associazione Italiana per l’Educazione ai Media e alla Comunicazione, sono stati organizzati corsi e webinar di sensibilizzazione e rafforzamento delle competenze di cittadinanza digitale dei giovani. Che sono coinvolti anche in dibattiti e lezioni sull’attualità. Momenti di scambio che affrontano temi vicini agli adolescenti dal cyberbullismo al sessismo fino all’integrazione dei migranti. La volontà conclude Rodriguez è “contrastare la povertà educativa minorile e l’abbandono scolastico attraverso la creazione di un campo base che sia punto di riferimento aperto e inclusivo dal quale ogni adolescente potrà partire, con il sostegno di équipe di esperti, per affrontare al meglio il proprio percorso”. Ovunque porti il sentiero. Il sabato fascista e i giovani deviati di Paolo Crepet La Stampa, 29 agosto 2022 Assisto sbigottito alle ultime invenzioni di partiti in convulsione tra ricerca di consenso e turbamento per il futuro. Eppure ogni volta che lambiscono la “questione giovanile” emergono proposte sorprendenti che svelano un intreccio di insipienza e fastidio. Si comincia con il pretesto energetico proponendo di chiudere le scuole un giorno alla settimana, accorciare l’ora di lezione, accrescere il ricorso alla Dad (che ha massacrato gli adolescenti: basterebbe leggere il recente saggio di Anya Kamenetz, “L’anno rubato”). C’è chi pensa di reintrodurre il servizio militare per “tonificare” una generazione invece di riflettere sull’utilità di un periodo “servizio civile” per ragazzi e ragazze che li aiuterebbe a capire la fecondità delle relazioni con persone in difficoltà, ad adoperarsi per curare l’ambiente, a comprendere non solo i diritti di una comunità ma anche i suoi doveri. Né manca nell’arrembaggio politico il tantra della monetizzazione della gioventù. Tra “una tantum” al diciottesimo e salario di cittadinanza, emerge un’indicibile opera di “downgrade” generazionale. Asili intesi come parcheggi per genitori lavoratori e privi di nonni (meglio se a pagamento), non come necessaria pedagogia primaria -Montessori docet-, obbligo scolastico fermo a 16 anni, fine medie superiori un anno oltre i coetanei europei. Viene citata con preoccupante frequenza la necessità di cancellare i test universitari e di facilitarne i corsi rendendoli online. Rimane da capire chi saprà operare in un ospedale o chi fare i calcoli per costruire un ponte. Tuttavia il dato più inquietante riguarda un’idea desueta di educazione che si traduce grossolanamente in disciplina, ordine. A qualcuno ha seriamente proposto che l’attività fisica non debba essere un gioco, un modo per crescere, ma lo strumento per uniformare comportamenti e modi di essere. Forse a molti non dispiacerebbe una riedizione del “sabato fascista”. Come se, sotto divise sportive, tra salti e giravolte, il disagio adolescenziale potesse magicamente scomparire e con esso ogni forma linguaggio divergente. C’è un modo speciale per detestare la giovinezza: non voler comprendere che è fatta di nei, di anomalie, di imprevedibilità. Così si arriva a pensare che lo sport debba essere una terapia di massa contro ogni forma di fragilità e di deviazione da una normalità approvata per legge, una camicia di forza per le anime più inquiete e inquietanti: ossessione per il controllo, tipologia di ogni dittatura. Bertolt Brecht scrive: “Dove niente sta al posto giusto, c’è disordine; dove al posto giusto non c’è niente c’è ordine”. Spero che le ragazze e i ragazzi intuiscano in tempo l’immenso inganno cui una nuova ideologia li sta trascinando. Psichiatria. L’urgenza violenta del cambiamento nella quotidianità di Franco Basaglia di Peppe Dell’acqua Il Domani, 29 agosto 2022 Ho conosciuto Franco Basaglia che l’esperienza dell’ospedale psichiatrico di Gorizia era già finita; lavorava da qualche anno a Parma ed era nell’aria “il principio dell’avventura triestina”. Sono andato a trovarlo a Colorno, con alcuni compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di malattie nervose e mentali. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto L’istituzione negata. Stavamo già ereditando dal 1968 interrogativi e problemi: il rapporto tra la professione e gli apparati del potere, il ruolo subalterno del medico, la dissociazione tra professione e impegno politico. Era la prima volta che entravamo in un manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con familiarità, ci mise a nostro agio. Nel manicomio di Colorno, quel giorno stesso, partecipammo perfino a una riunione con gli operatori. Nessuno indossava il camice. Discutevano con calore, non risparmiando toni duri. Tutto alla luce del sole. Un altro mondo! Il contrasto con l’esperienza universitaria era stridente, ci disorientava, ma eravamo già conquistati, affascinati. Basaglia ci disse che sarebbe andato a lavorare a Trieste e che cercava medici freschi di laurea. Più semplice - diceva - formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto che tentare di cambiare testa e cultura a vecchi psichiatri. E il rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro. Appena arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito “al fronte”, nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto immediato con tensioni e durezze che ci mettevano alla prova. Passavamo giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni quotidiane, affrontavamo con lui i problemi della giornata, i rapporti non facili con gli infermieri, le storie degli internati e i bisogni che emergevano. Quando ci cacciavamo in vicoli ciechi, Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a darci un altro punto di vista, a capovolgere le situazioni. Riuscì a capovolgere anche la nostra vita. Eravamo avviati a una vita professionale forse frustrante e dissociata: da un lato la professione medica, con i suoi rituali, le sue distanze dalla realtà, dalla concretezza dei bisogni; dall’altro l’impegno politico, quello che restava del Sessantotto. Quanti di noi si sono persi drammaticamente nel carrierismo esasperato o al contrario in scelte politiche estreme e senza sbocco! Con Basaglia abbiamo trovato la nostra strada, senza dissociazioni: è stata la lenta “lunga marcia attraverso le istituzioni” vivendo quotidianamente l’urgenza violenta del cambiamento. Basaglia ci ha fatto scoprire orizzonti sconosciuti: abbiamo abbandonato le sicurezze della formazione universitaria; abbiamo imparato che le persone con disturbo mentale sono e non sono capaci di vivere la dimensione relazionale; abbiamo imparato che anche chi vive l’esperienza del disturbo schizofrenico si muove su terreni diversi di capacità, e che mai la malattia in sé può condizionare totalmente le sue facoltà di scelta; abbiamo imparato quanto sia importante la tutela della soggettività, l’attenzione a ogni singolare esistenza che diventa la condizione indispensabile per la costruzione e lo sviluppo della guarigione sempre possibile. È accaduto così che la malattia ha potuto assumere una diversa visibilità in relazione alla persona, ai suoi bisogni, alle sue capacità, ai suoi desideri. E che il pessimismo della diagnosi poteva venire arginato. Smarrimento - Negli ultimi anni la presenza delle buone pratiche basagliane si è fatta sporadica. Ovunque sono tornate prepotenti le parole delle psichiatrie dei farmaci, della pericolosità, dell’inguaribilità, del posto letto, delle smisurate “strutture residenziali”. Nella solitudine e nella frammentazione di oggi è difficile, specie per i più giovani, resistere all’omologazione, al richiamo dell’indifferenza e alle suggestive certezze delle psichiatrie. E, nella smemoratezza generale, smarrire il senso delle scelte di campo che hanno avviato il radicale cambiamento nel nostro paese. Il campo delle contraddizioni si è fatto più aspro. La miseria e l’inefficienza dei servizi mette alla prova quotidianamente persone che vivono l’esperienza, familiari, operatori. La disattenzione e la sciatteria dei governi regionali e delle direzioni aziendali, e spesso degli stessi direttori dei dipartimenti, è ormai intollerabile. Per non dire delle accademie. Negli ultimi mesi abbiamo dato nuovo impulso al Forum salute mentale, una piazza in cui persone che per ragioni e a titolo diverso frequentano i luoghi delle psichiatrie e della salute mentale si incontrano, si riconoscono, parlano, convinti dell’urgenza di arginare lo smantellamento della sanità pubblica e della rete dei servizi territoriali ormai ridotta a miseria e fragilità. Ora, con le elezioni alle porte, la piazza del Forum vuole adoperarsi perché la salute mentale entri in una qualche agenda, ché venga colta la drammaticità in cui versano i servizi di salute mentale. Bisogna iniziare a bussare forte alle porte della politica. Due disegni di legge sono depositati in parlamento e pensiamo possano essere la via d’uscita che andiamo cercando. Le “Disposizioni in materia di salute mentale”, firmato da Nerina Dirindin nel 2017 e riproposto nell’ultima legislatura, che darebbe piena attuazione alla legge 180, e il disegno di legge a firma Riccardo Magi, che permetterebbe di superare le vecchie norme del codice Rocco, a proposito di irresponsabilità penale, misure di sicurezza e tutto ciò che ne deriva, restituendo, insieme alla responsabilità penale, dignità a chi ne viene privato. “Bisognerà andare per strada a gridare la nostra presenza contro tanta sordità, gridare il dolore dei fatti che ogni giorno accadono”, l’ultimo appello dal Forum. Ancora oggi, nell’Occidente ricco e agiato, come nel nostro paese, un ragazzo che vive l’esperienza dell’esordio psicotico rischia, nell’attimo stesso della diagnosi, di diventare invisibile. Viene rinchiuso in unità psichiatriche bunker, svanisce la sua storia, la sua voce diventa muta. Smarrisce il senso della sua vita. Le psichiatrie, che ormai dominano il campo, con le loro porte chiuse, i loro letti di contenzione, le loro riduttive farmacologie cancellano la dimensione umana che rende appena dignitoso questo nostro mestiere. E noi facciamo nostre le parole di Eugenio Borgna, grande vecchio, voce struggente e drammatica, che col suo ultimo libro L’agonia della psichiatria continua a invocare una psichiatria gentile. E, finalmente, la terza rivoluzione. Il populismo irreversibile della destra che vuole “fermare l’immigrazione” di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 agosto 2022 Sognano di richiudere i porti, evocano il blocco navale, si rifiutano di chiedere più Europa per governare fenomeni strutturali: l’estremismo nazionalista non è parte delle soluzioni ma è parte dei problemi dell’Italia. Abbiamo già visto dove vogliono andare a parare. Abbiamo già visto su cosa vogliono puntare. Abbiamo già visto cosa vogliono dire quando usano quell’espressione lì: “Fermare l’immigrazione”. Il tentativo dei partiti nazionalisti di presentarsi agli elettori con un volto moderato mostra tutta la sua fragilità quando i leader delle forze sovraniste si ritrovano a ragionare su un loro storico cavallo di battaglia: cosa fare con gli immigrati. La logica con cui anche in questa campagna elettorale i sovranisti affrontano il tema è una logica tanto chiara quanto autolesionista. Funziona così. I sovranisti individuano un nemico da combattere, l’immigrato brutto, sporco e cattivo, e piuttosto che offrire soluzioni per gestire l’immigrazione tendono a offrire soluzioni per non governare il fenomeno sostenendo in modo approssimativo che l’unico modo per affrontare il tema dell’immigrazione è uno e uno soltanto: fermarla. L’approccio dogmatico al tema dell’immigrazione, e l’incapacità da parte dei populisti di trovare soluzioni non per aggirare un problema ma per governarlo, è la spia dell’incapacità assoluta da parte dei nazionalisti di ragionare sull’immigrazione con un approccio non estremistico. E’ estremistico l’approccio del bloccare l’immigrazione piuttosto che governarla perché bloccare l’immigrazione significa aggirare un problema. E il problema del governo dell’immigrazione viene sistematicamente aggirato perché i populisti sanno che la gestione dell’immigrazione può avvenire solo a condizione che i populisti accettino di far propria l’oscena agenda degli antipopulisti, che prevede due punti precisi: scommettere su un’Europa più integrata, capace cioè di redistribuire i migranti nel resto del Continente, e scommettere anche sulla gestione dell’immigrazione attraverso canali diversi rispetto alla semplice lotta contro l’illegalità. I populisti non possono dire che l’immigrazione va regolata chiedendo all’Europa di essere più forte perché alla base delle loro agende vi è la necessità di non rafforzare l’integrazione dell’Europa e non possono neppure dire che il modo migliore per combattere l’illegalità è costruire legalità, perché ragionare sui percorsi della legalità, mettendo in campo corridoi umanitari per svuotare immediatamente i centri dei migranti, canali per gli ingressi legali dei migranti economici, rimpatri volontari assistiti verso i paesi di origine, significherebbe dover ammettere che l’immigrazione non è un’emergenza, ma è un fenomeno strutturale del pianeta. Ammettere questo, per i populisti, significherebbe riconoscere che gli immigrati non sono furfanti, fino a prova contraria, che l’Europa solidale non è una minaccia per gli interessi nazionali, che l’immigrazione è un fenomeno che si può gestire e che l’unico sovranismo compatibile con la difesa della nostra sovranità è quello europeo e non quello nazionalista. L’immigrazione, in questo senso, è una spia del populismo irreversibile delle forze politiche nazionaliste, e quando Giorgia Meloni evoca lo scenario del blocco navale, altro non fa che voler derogare all’obbligo di rispettare i trattati internazionali e al dovere da parte di un governo di ricordare che salvare le vite umane non è un dovere negoziabile, mettendo la sovranità di un paese come l’Italia in competizione con la sovranità di un’istituzione come l’Europa. Ma è anche la spia, tutto questo, di un altro problema che hanno le forze sovraniste quando si ritrovano a offrire soluzioni per accontentare i propri follower: l’incompatibilità tra la tutela del proprio consenso e la tutela dell’interesse di un paese. Vale, naturalmente, come abbiamo già detto, quando si parla della necessità mostrata dalle piccole, medie e grandi imprese italiane di avere immigrati da formare per poter farli lavorare laddove gli italiani non vogliono lavorare (nella fascia tra i 24 e i 34 anni l’Italia tra il 2006 e il 2021 ha perso circa 2 milioni e 100 mila giovani, andati via dal nostro paese, e buona parte dei problemi legati all’assenza di manodopera nasce più da questa ferita che dalla ferita del Reddito di cittadinanza). E vale però ancor di più quando si parla di un altro problema che pure dovrebbe stare a cuore agli stessi populisti: il welfare e le pensioni. Anche qui la questione è ovvia: in un paese a bassa natalità, con un numero significativo di giovani che ogni anno lasciano l’Italia, non c’è altra soluzione per finanziare il nostro stato sociale se non quella di accogliere giovani immigrati. Come ricordato spesso negli ultimi anni da Tito Boeri, ex presidente dell’Inps, un italiano su quattro ha più di 65 anni, mentre solo un immigrato ogni 50 è ultrasessantacinquenne. E dunque, dice Boeri, “chi ha a cuore la tenuta dei conti pubblici e delle nostre pensioni, dovrebbe temere che gli immigrati se ne vadano dal nostro paese invece del contrario. E i calcoli sono ovvi: gli immigrati regolari versano ogni anno 8 miliardi di contributi sociali e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi per le casse dell’Inps. E non ridurre la platea dei contribuenti significherebbe molto semplicemente rendere ancora più pesante il fardello che grava su chi oggi lavora”. Nella nuova stagione del populismo incipriato, per osservare l’estremismo residuo, residuo per così dire, è sufficiente osservare dunque cosa c’è dietro le idee sull’immigrazione per rendersi conto che il populismo è irreversibile e per rendersi conto che lo schema utilizzato in campagna elettorale, in Francia, da Marine Le Pen rischia di essere lo stesso utilizzato in campagna elettorale dalle destre diversamente europeiste. In Francia, Le Pen ha nascosto una serie di mini frexit all’interno della sua campagna elettorale, dalla preferenza nazionale per posti di lavoro e alloggi sociali riservati ai soli francesi (che è contro il principio di non discriminazione dei cittadini dell’Ue) alla soppressione del permesso di soggiorno per gli stranieri che non hanno lavorato in Francia per almeno un anno (che è contro le regole dell’Ue sulla libera circolazione delle persone, oltre che contro la logica), e lo ha fatto seguendo una logica precisa: usare l’immigrazione per ricordare agli antieuropeisti quanto i progetti dei populisti siano incompatibili con i progetti di crescita dell’Europa. E se si sceglie di osservare con attenzione le parole dei leader della destra quando parlano di immigrazione e se si tenta di capire con cura cosa vogliono dire quando i populisti chiedono di “fermare” l’immigrazione, quando sognano di richiudere i porti, quando evocano il blocco navale, quando si rifiutano di chiedere più Europa per governare fenomeni strutturali, si capirà con chiarezza perché anche su questo terreno l’estremismo nazionalista non è parte delle soluzioni ma è parte dei problemi dell’Italia. Governare, non fermare. Gestire, non bloccare. Ragionare, non urlare. Integrare, non respingere. E la domanda, in fondo, anche quando si parla di immigrazione, è sempre quella. E’ compatibile o no il nazionalismo con la tutela dell’interesse nazionale? La risposta, purtroppo, anche quando si parla di immigrazione rischia di essere scontata e anche quando si parla di immigrazione è difficile non vedere sotto lo strato di cipria moderata il vero volto delle leadership nazionaliste: quello del populismo irreversibile. Don Geremia Acri: “Così convinco la gente a dare in affitto le case ai migranti” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 29 agosto 2022 Il prete di Andria che lavora per l’inclusione degli stranieri: “Gli immigrati si sono rivelati i più puntuali nei pagamenti. Tanto che i proprietari mi chiedono se ho ragazzi da sistemare”. Il mudir è l’amico più amato e l’autorità più temuta. Uno scappellotto sul collo è un avvertimento, lo sguardo di ghiaccio è l’ultimo avviso prima della cacciata. Perché sulle regole non si transige: vanno rispettate, chi non ci sta è fuori. In piazza Catuma, come tutti qui ad Andria chiamano la centralissima piazza Vittorio Emanuele II, il mudir (termine che in arabo indica un potente funzionario di governo) ha il volto di don Geremia Acri, 54 anni, il sacerdote che dell’inclusione dei migranti ha fatto una missione. E ha messo a punto un sistema di accoglienza tale da far sì che, qui, i proprietari di case vuote non abbiano alcuna remora ad affittarle agli extracomunitari. Ma guai a chiamarlo prete di strada. Don Geremia, perché non le piace essere chiamato così? “La trovo una definizione priva di senso. Ho scoperto che esiste persino un link con i nomi dei cosiddetti preti di strada e c’è anche il mio. Io sono un uomo scelto da Dio tra gli uomini, mi batto per rendere giustizia e dignità all’umanità ai margini. La strada è quella del sacerdozio che ho trovato tardi, a 30 anni, una vocazione nata da una vita che ha conosciuto l’emarginazione”. Perché emarginazione? Ci racconti la sua storia... “Sono di Andria, sono cresciuto in un quartiere degradato, il “Monticelli”, dove vigeva la legge del più forte e la legalità era all’ultimo posto della scala dei valori. Un quartiere abitato da ragazzi di strada, bulli e quando credi di essere il più forte ti scopri solo e ti pervade la tristezza. Ragazzi arrabbiati, come lo ero io. Se oggi sono questo lo devo agli incontri che ho fatto, diversamente sarei diventato un delinquente pure io”. E invece è diventato il “mudir”... “Mi chiamano così, riconoscendomi un’autorità che è necessario esercitare. In arabo mudir è una persona importante, che si rispetta. È quello che interviene nelle controversie quando i precedenti gradini della scala gerarchica non sono stati sufficienti. È un modello sociale che abbiamo ricostruito nelle nostre case di accoglienza, prima c’è la “mamma”, poi il mediatore culturale, alla fine chi non rispetta le regole della convivenza finisce dal mudir. E lì chi sgarra è fuori”. Questo modello di accoglienza qui ha dato grandi frutti. La gente di solito è restia ad affittare casa agli immigrati, che finiscono con il rimanere in ghetti disumani... “Noi siamo per la gerarchia educativa, se rispetti le regole sei una persona libera. E siamo contro l’assistenzialismo, che è un mostro. I poveri fanno comodo a tutti, sono il bacino elettorale della politica, la manna degli sfruttatori. I poveri, e quindi anche gli immigrati che arrivano qui, vanno liberati con strumenti che li rendano indipendenti: la casa, il lavoro, le relazioni sociali”. Mica facile. Lei ci riesce? “Posso dire di sì. Naturalmente la condizione è adottare l’accoglienza per piccoli numeri. Bastano sei mesi per familiarizzare con la lingua, poi io e i miei collaboratori ci mettiamo alla ricerca di un lavoro per questi ragazzi, in campagna o nella ristorazione. Spieghiamo loro le regole, sanno che se vogliono avere una casa devono mettere da parte dei soldi perché c’è un anticipo da dare ai proprietari. La maggior parte di loro lavora seriamente e si fa apprezzare. Alla fine sono gli stessi datori di lavoro a dare ai proprietari di casa le referenze che servono. E poi c’è un meccanismo di garanzia”. Ci spieghi come funziona... “Diciamo ai ragazzi di girare per le strade e di fotografare i cartelli “affittasi”. Le prime volte che telefonavano la risposta era sempre “no”, ma poi i prorietari chiedevano: “Ma chi è, il ragazzo che lavora lì?”. E pian piano hanno cominciato a convincersi. I ragazzi sanno che la casa è la loro assicurazione per il futuro, hanno bisogno della residenza per lavorare, per il permesso di soggiorno. Nei primi mesi, i miei collaboratori fanno visite periodiche per assicurarsi che la casa sia tenuta bene e che siano rispettate le regole della convivenza: non si va in giro per strada a torso nudo, non si sta con le scarpe sui divani. Insomma: alla fine gli immigrati si sono rivelati i più puntuali nei pagamenti e i più attenti a tenere le case. Tanto che adesso, se qualche proprietario ha la casa sfitta, chiama me per sapere se ho qualche ragazzo da sistemare”. Saliamo insieme a casa di John, 30 anni, nigeriano, in Italia ormai da molti anni. Ci guida per le stanze, poi sul balcone dove Felice e Maria, i vicini, lo salutano con calore. “Mi vogliono tanto bene”, sorride John. “Quello che succede qui - aggiunge don Geremia - è la dimostrazione che l’accoglienza non si fa con un tetto e un piatto”. La maggior paret di questi immigrati è musulmana. È mai stato un problema per la loro integrazione? “No. Ma lo sa che in quasi tutte le case ci sono crocifissi alle pareti e non li hanno mai rimossi? Anzi, qualcuno di loro, anche se musulmano, viene persino a messa. Non i maghrebini, ma i centroafricani sì. Ho chiesto loro perché e mi hanno detto che non è un problema: nel loro Paese, magari, avevano un genitore musulmano e l’altro cattolico. È un modo di partecipare anche quello. Mi lascia dire un’ultima cosa cui tengo molto?” Prego... “Come avrà capito, qui siamo molto severi e rigorosi. Ma io, oltre a lavorare per il diritto alla dignità di queste persone, lavoro anche per un diritto di cui non si occupa quasi nessuno: il diritto alla gioia. Anche i poveri, gli ultimi hanno diritto alla gioia. Quest’anno abbiamo affittato per due settimane una villa con piscina a Castel del Monte e li abbiamo portati in vacanza. Una piccola gioia, ma anche loro ne hanno diritto”. La sorveglianza europea parte da un’azienda italiana di Crofton Black, Riccardo Coluccini e Gabriel Geiger* Il Domani, 29 agosto 2022 Mentre l’Unione europea fa i conti con lo spyware israeliano Pegasus, intanto anche in Europa c’è chi sfrutta una vulnerabilità della rete telefonica per monitorare persone in tutto il mondo. Si tratta di una azienda italiana che offre i propri strumenti in tanti paesi, compresi quelli con una storia recente di corruzione e violazione dei diritti umani. Domani, con un’inchiesta guidata da Lighthouse Reports insieme a Irpimedia, Der Spiegel, Mediapart e EUobserver, è in grado di svelare per la prima volta la scala di queste operazioni. L’Unione europea si è resa conto che il fatto che il fatto che il settore della sorveglianza sia fuori controllo è una minaccia, e al momento ha nel mirino l’azienda israeliana Nso e il suo spyware Pegasus. Ma mentre il Parlamento europeo si prepara a riprendere le sue audizioni sullo scandalo Pegasus, intanto un’ azienda di sorveglianza europea offre i propri strumenti in quasi tutto il mondo, inclusi paesi con una storia recente di corruzione e violazione dei diritti umani. Domani, con un’inchiesta guidata da Lighthouse Reports insieme a Irpimedia, Der Spiegel, Mediapart e EUobserver, è in grado di svelare per la prima volta la scala di queste operazioni. Tykelab, una compagnia italiana, è collegata a RCS Lab, la nota azienda di intercettazioni, e insieme stanno offrendo una potente tecnologia di sorveglianza a clienti dentro e fuori l’Ue. Vantano il fatto che in grado di “tracciare gli spostamenti di quasi chiunque abbia un telefono con sé, sia che si trovi a pochi isolati di distanza che in un altro continente”. Dati riservati da noi visionati, e fonti del settore delle telecomunicazioni, rivelano come le due aziende stiano usando diversi strumenti per tracciare e hackerare un dispositivo - inclusi attacchi alla rete telefonica e sofisticati malware che permettono l’accesso remoto a uno smartphone - contro vittime che si trovano nel sudest asiatico, in Africa, in America Latina e in Europa. Eurodeputati, esperti di telecomunicazioni e attivisti per la privacy si dicono sgomenti, sottolineano i rischi per la privacy e la sicurezza, e chiedono ai governi di impegnarsi di più per regolare queste aziende europee. “Si tratta di una vicenda che riguarda un grande fornitore di spyware che viola la legge, e in questo caso risiede proprio in Europa”, commenta la europarlamentare olandese Sophie In’t Veld. “È giunta l’ora che nell’Ue l’intera industria degli spyware, che al momento opera in una sorta di zona grigia di legalità, venga regolamentata e esposta completamente. È necessario imporre dei limiti altrimenti la nostra democrazia è rotta”. Le attività di Tykelab si sommano alle recenti rivelazioni che hanno investito il settore della sorveglianza. Lo scorso anno un consorzio di giornalisti ha rivelato che lo spyware Pegasus è stato usato contro giornalisti, attivisti e politici anche da paesi dell’Ue. Recentemente, spyware simili sono stati usati contro un giornalista e un politico in Grecia. Durante l’estate la Commissione Pega del Parlamento Ue ha audito esperti della società civile e ha messo alle strette un rappresentate di Nso durante un’audizione pubblica. Ma le attività di Tykelab mettono sotto i riflettori il ruolo dell’Europa stessa in questo scandalo che non si arresta. Contattata per un commento, RCS Lab ha confermato di controllare Tykelab e che i propri “prodotti e servizi sono forniti alle forze dell’ordine a supporto delle attività di prevenzione e indagine nei casi di gravi reati come atti di terrorismo, commercio di droga, crimine organizzato, casi di abuso su minori, corruzione, eccetera”. L’azienda ha dichiarato di seguire le leggi italiane e europee sull’export e che i propri dipendenti non sono autorizzati a svolgere attività operative a supporto dei clienti. RCS si è rifiutata di fornirne dettagli sui propri clienti. Esperti di sicurezza delle telecomunicazioni -disposti a parlare solo a condizione di garantirne l’anonimato per via del tema trattato - hanno raccontato di come Tykelab stia mettendo in atto una sorveglianza su larga scala. L’azienda ha noleggiato decine di punti di accesso alla rete (noti anche come global titles nel settore delle telecomunicazioni) da operatori telefonici legittimi in giro per il mondo e li sta usando per testare vulnerabilità nelle reti di vari paesi e per raccogliere di nascosto informazioni personali - in particolare la posizione delle persone connesse alla rete telefonica. Le operazioni dell’azienda hanno coinvolto paesi come Libia, Nicaragua, Malesia e Pakistan - ma anche la stessa Italia e altri paesi dell’Unione europea. “Stanno diventando sempre più attivi”, dice un esperto che ha accesso a dati riservati del settore e che ha monitorato per mesi l’operato di Tykelab su diversi network. “Dall’inizio di quest’anno hanno aumentato il numero di attacchi e ora sono costanti”. Tykelab ha sede a Roma, in un palazzo in una zona residenziale non troppo distante dall’Eur. All’ingresso dell’edificio non c’è alcun logo dell’azienda: lo si intravede solo salendo al secondo piano, dietro una porta oscurata con bande orizzontali. Al campanello non risponde nessuno; secondo il portiere è per le ferie. Ma gli esperti di sicurezza l’hanno subito notata quando lo scorso anno hanno visto che inviava grandi quantità di traffico sospetto da un gruppo di reti telefoniche situate a 15 mila chilometri di distanza, nel sud del Pacifico. Questo era solo uno di una serie di diversi campanelli d’allarme. Dati riservati visionati da Lighthouse Reports mostrano che, in un solo giorno del 2022, Tykelab ha usato un operatore telefonico - situato in un remoto arcipelago a est dell’Australia - per inviare migliaia di richieste sospette a un network in Malesia. Con queste richieste, che colpiscono una rete poco o per nulla protetta, è possibile scoprire la posizione di un cellulare. Sul dispositivo della vittima non rimane alcuna traccia e non ci sono modi per l’utente per prevenire questo attacco. Ulteriori dati mostrano che, in un periodo di circa dieci giorni a giugno, l’azienda ha sfruttato undici diversi accessi alla rete telefonica provenienti da paesi nella regione del Pacifico per colpire persone che si trovano in Costa Rica, Nicaragua, Libia e Pakistan, ma anche Iraq, Mali, Macedonia, Grecia e Portogallo, oltre che la stessa Italia. “Li vediamo testare le reti, cercando in maniera sistematica e insistente modi per bypassarne le protezioni, e li vediamo anche compiere palesi attacchi mirati per localizzare singoli individui”, spiega l’analista che ha fornito il set di dati. “Sebbene molti di questi attacchi abbiano lo scopo di forzare il rilascio di informazioni relative alla posizione, nel caso della Libia si notano attività coerenti con quelle necessarie a intercettare chiamate o sms”, dice l’esperto. Spiega inoltre che oltre ai palesi casi di sorveglianza, l’azienda sembra interessata anche a esplorare in modo sistematico le vulnerabilità della rete telefonica mondiale. Una mappa delle attività dell’azienda mostra come in un periodo di due giorni a giugno Tykelab abbia testato le reti di quasi ogni paese del mondo. “Ci sono tutti i segni distintivi tipici di una scansione di grande portata con l’obiettivo di individuare quali sono le reti meno protette”, dice. Jean Gottschalk, fondatore e consulente di sicurezza dell’azienda statunitense Telecom Defense, che ha visionato le informazioni da noi ottenute, ha descritto i dati come “chiaramente traffico indesiderato”. “I messaggi specifici osservati sono solitamente inviati da piattaforme di geolocalizzazione il cui obiettivo è monitorare gli spostamenti di target di alto interesse”, spiega. Le vulnerabilità nei protocolli di comunicazione sono note già dai primi anni successivi al 2010. Il Signaling System 7 (SS7) è un protocollo antiquato che tiene però ancora insieme le reti di comunicazione globale, permettendo agli operatori di sapere sempre dove si trova un proprio cliente quando è in viaggio ma che può essere sfruttato anche a fini di sorveglianza. Aziende specializzate offrono la possibilità di sfruttare queste vulnerabilità per conto dei clienti, che di solito sono forze dell’ordine o agenzie di intelligence. Alcuni gestori telefonici hanno introdotto sofisticati sistemi di firewall per contrastare queste minacce ai danni dei propri clienti. Ma in generale il settore reputa questo problema troppo difficile e costoso da risolvere. Dietro le quinte, però, i professionisti delle telecomunicazioni hanno iniziato a lanciare l’allarme riguardo le attività di Tykelab. Un report riservato destinato a un forum privato del settore attribuisce oltre 27mila attacchi da parte di Tykelab alla rete in alcune zone del continente africano, nel sudest asiatico e in Europa, tutte avvenute nella prima metà del 2022. E in Canada, secondo un’email da noi ottenuta, il Cyber Security Center (CCCS) del governo canadese ha recentemente identificato come “ad alto rischio per colpa di un uso malevolo” diversi punti di accesso alla rete di Tykelab. I risultati del CCCS hanno fatto scattare una richiesta di scollegare parzialmente Tykelab da una piccola porzione di accessi alla rete telefonica globale. Ma secondo Pat Walshe, ex direttore del dipartimento privacy presso l’associazione di categoria della telefonia mobile GSMA, c’è da fare molto di più: “Queste rivelazioni richiedono un’indagine immediata da parte degli enti di controllo e azioni immediate dell’industria”. Uno degli esperti, che ha monitorato le attività di Tykelab, sottolinea come l’azienda stia lavorando chiaramente senza alcun rispetto per le norme del settore delle telecomunicazioni. “Non c’è alcuna giustificazione per il fatto che un’azienda italiana utilizzi global titles dal sud del Pacifico per inviare pacchetti di dati con l’obiettivo di tracciare persone in Libia e Nicaragua - non c’è alcuna motivazione a parte quella più ovvia”, ha dichiarato. Nessuna traccia sul sito web, eppure Tykelab è collegata a RCS. Il legame è emerso ufficialmente solo a dicembre 2021, quando un’altra azienda di intercettazioni, Cy4gate, ha deciso di acquisire tutto il gruppo societario di RCS, capitanato dalla holding Aurora S.p.A.. Prima dell’acquisizione Aurora ha preso il controllo di Tykelab e l’informazione è stata resa nota nei documenti di Cy4gate. L’accesso di Tykelab al network telefonico ha permesso a RCS di offrire sofisticati servizi di intelligence ai propri clienti tramite un prodotto chiamato Ubiqo. Un opuscolo informativo di RCS descrive la possibilità di “tracciare gli spostamenti di quasi chiunque abbia un telefono con sé, sia che si trovi a pochi isolati di distanza che in un altro continente” e “generare informazioni analizzando pattern degli spostamenti, luoghi di incontro e durata”. Queste informazioni “rivelano abitudini e pattern” e possono anche essere combinate con dati ottenuti dai social network. L’azienda confida nell’espansione in mercati esteri, cosa che potrebbe essere facilitata dalle difficoltà che hanno colpito NSO. RCS è tra i leader italiani nel settore delle “intercettazioni legali” grazie al suo sistema di monitoraggio che collega l’infrastruttura telefonica italiana alle Procure. In parallelo, però, RCS si sta espandendo anche nel settore degli spyware con un proprio prodotto - dopo essere già stata rivenditrice dei software della controversa Hacking Team. Queste nuove informazioni - insieme a altri recenti sviluppi - indicano che RCS sta investendo in un approccio più aggressivo al mercato globale della sorveglianza. A giugno 2022, un report dell’azienda di sicurezza informatica Lookout e uno del Threat Analysis Group di Google hanno trovato tracce di RCS e Tykelab in uno spyware fino a quel momento sconosciuto, chiamato dai ricercatori Hermit, attivo in Italia ma anche in Kazakhstan - un paese con una lunga storia di attacchi informatici contro figure dell’opposizione e membri dell’élite. Lookout ha inoltre dichiarato di aver recentemente individuato un caso di attacco da parte di Hermit in Romania. Le vittime installano Hermit dopo essere state persuase con link ricevuti tramite messaggio da quelli che sembrano essere i propri fornitori di servizi di telefonia. Sia Google che Lookout hanno pubblicato una lista di finti siti web utilizzati come esca per indurre le persone a scaricare il software spia. Alcuni di questi indirizzi fingono di impersonare Apple e Facebook, ma anche operatori telefonici italiani come Wind, TIM, Kena, Iliad e Ho Mobile. Un’ulteriore analisi, utilizzando il database di domini internet WhoIsXML, ha permesso di individuare un sito aggiuntivo che simula l’operatore Vodafone. RCS ha acquistato alcuni di questi domini a partire dal 2015 mentre i più recenti sono di marzo 2022. Una volta installato, Hermit può registrare di nascosto l’audio in una stanza ma anche accedere ai contatti, foto, messaggi, eventi sul calendario e file salvati. Justin Albrecht, ricercatore del Threat Intelligence team di Lookout, ha dichiarato che nel caso di Hermit, malgrado i metodi di infezione siano meno sofisticati rispetto a quelli di Pegasus, le sue capacità sono simili. “Pegasus e Hermit sono entrambi potenti strumenti di sorveglianza in grado di superare le protezioni di sicurezza di dispositivi Android e iOS con lo scopo di monitorare tutte le attività della vittima. Pressoché tutte le comunicazioni e i dati personali presenti su un dispositivo infettato da uno dei due malware sarebbero esposti al soggetto che sta gestendo la sorveglianza”, dice Albrecht. “Questo tipo di spyware offre un accesso impareggiabile al network di relazioni della vittima, alle sue attività quotidiane e ai pattern della sua vita”. Tykelab però è solo una delle varie consociate di RCS controllate da Aurora. Anche un’altra azienda poco pubblicizzata, Azienda Informatica Italiana (Azinit), si occupa degli spyware di RCS. Dai documenti aziendali si legge che Azinit “si occupa di ricerca e sviluppo di servizi in supporto della Spyware unit”. Dai profili social di attuali e ex dipendenti emerge un focus sullo sviluppo di software per le intercettazioni per iPhone e dispositivi Android. Un manager dell’azienda ha scritto di essersi dedicato al facilitare la vendita dei prodotti all’estero e che, il risultato, è stata la vendita sia in Italia che “in diversi paesi stranieri”. Il nuovo colosso delle intercettazioni Cy4gate-RCS punta a una continua espansione nel mercato estero. Le due aziende combinate hanno “relazioni commerciali con governi nell’area del Golfo, Asia centrale e America Latina”, secondo quanto riportato in alcuni report di Cy4gate, con piani per “diversificare maggiormente la clientela grazie a un’espansione del segmento corporate e rafforzando la nostra posizione all’estero”. Questa espansione però rischia di essere controversa e mettere RCS e la sua nuova proprietà sotto la lente d’ingrandimento. “Le autorità italiane che monitorano l’export devono confermare se stanno supervisionando l’azienda, verso quali clienti è stato concesso di vendere e i motivi per cui ritengono che ciò non rappresenti una minaccia chiara e diretta ai diritti delle persone nel mondo”, dice Edin Omanovic, advocacy director dell’associazione Privacy International. Interpellato da Domani, un portavoce del Ministero degli affari esteri, dicastero incaricato del rilascio delle licenze di export per questo tipo di tecnologie, dichiara che RCS era stata autorizzata all’export verso il Kazakhstan prima della fine del 2019, ma una successiva richiesta per una licenza temporanea è stata ritirata dall’azienda nel 2021 dopo un iniziale parere negativo del ministero; un anno prima di quando l’uso di Hermit è stato individuato da Lookout. Al momento non sono state fornite altre informazioni in merito agli altri paesi. “Le tecnologie commerciali di cybersorveglianza vendute di nascosto a chiunque sia disposto a pagare sono una minaccia alla sicurezza globale per tutti noi, dentro e fuori dall’Unione europea”, dice Markéta Gregorová, europarlamentare che si occupa di controllo delle esportazioni di tecnologie di sorveglianza. “Attivisti per i diritti umani e giornalisti sono torturati e uccisi per colpa di queste tecnologie”. L’inchiesta è coordinata da Lighthouse Reports in collaborazione con Der Spiegel, Domani, EUobserver, Irpimedia e Mediapart Stati Uniti. I danni della Corte suprema americana sulle armi Il Foglio, 29 agosto 2022 Il Texas cancella il bando statale che vieta alle persone tra i 18 e i 21 anni di portare pistole in pubblico. Subito dopo la sparatoria nella scuola di Uvalde, in cui hanno perso la vita diciannove bambini e due adulti, il governatore del Texas Greg Abbott aveva permesso che si aprisse a Houston, come se nulla fosse accaduto, la fiera delle armi, mentre l’America discuteva di leggi sulle armi da cambiare e per l’ennesima volta diceva: mai più. A tre mesi da quella sparatoria, proprio in Texas il giudice federale Mark Pittman ha cancellato il bando statale che vieta alle persone tra i 18 e i 21 anni di portare armi: l’attentatore di Uvalde aveva 18 anni. La decisione di Pittman è in linea con la sentenza trasformativa di giugno della Corte suprema che ha ampliato in modo significativo i diritti di chi possiede armi di portarle fuori casa e ha innalzato la soglia che le autorità devono rispettare quando difendono le restrizioni sulle armi. La sentenza della Corte suprema aveva annullato una legge di New York per la restrizione al trasporto delle armi: nella decisione, il giudice Clarence Thomas ha cambiato lo standard con cui tali leggi devono essere considerate, affermando che devono essere “coerenti con la tradizione storica di questa nazione” e “con il testo del secondo emendamento e la comprensione storica”. Pittman ha così stabilito che una legge del Texas che vieta alle persone di età compresa tra i 18 ei 20 anni di portare pistole in pubblico è incostituzionale perché il secondo emendamento stesso non stabilisce un limite di età e i minori facevano parte delle milizie statali che esisteva negli anni formativi della storia americana. Le sentenze della Corte suprema hanno degli effetti dirompenti sulla società americana. Non sono testi legulei destinati a rimanere nei faldoni dei tribunali, hanno effetti sulla vita delle persone e sulla stabilità dell’America stessa, scossa come mai prima d’ora. Le sentenze camminano per gli Stati Uniti e fanno danni, potenzialmente anche mortali. La Corte suprema cambia l’America. India. Proteste per la liberazione di 11 uomini condannati per stupro di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 29 agosto 2022 Centinaia di persone hanno manifestato sabato 27 agosto in diverse parti dell’India contro la recente decisione del governo di liberare 11 uomini che erano stati condannati all’ergastolo per aver violentato Bilkis Bano, una donna musulmana durante le rivolte religiose del 2002. Lo riportano i media locali e internazionali. Nella capitale Nuova Delhi i manifestanti hanno cantato slogan e chiesto all’amministrazione dello Stato occidentale del Gujarat di revocare la decisione. Proteste simili si sono svolte anche in molti altri Stati indiani. “Quello che è successo a Bilkis Bano e alla sua famiglia non può essere tollerato. Per questo dobbiamo unirci e far sentire le nostre voci” ha detto all’Afp l’attrice indiana Shabana Azmi. Tra le proteste c’è da registrare quello di 100 funzionari pubblici in pensione che hanno scritto al ministro della Giustizia per sottolineare come il rilascio degli stupratori avrà avuto un impatto agghiacciante sulla sicurezza di tutte le donne. “Questa misoginia è cresciuta così tanto che è diventata normale al punto che lo stupro di una persona ci sembra un fatto ordinario” ha detto una studentessa scesa in piazza per protestare. Gli 11 uomini sono stati rilasciati con la sospensione della pena il 15 agosto, quando l’India ha celebrato i 75 anni di indipendenza: erano stati condannati nel 2008 per stupro e omicidio. Bilkis Bano, che oggi ha circa 40 anni, ha chiesto al governo di tornare sui suoi passi come racconta lei stessa qui. La ragazza era incinta quando è stata violentata. “Quando ho sentito che i detenuti che avevano devastato la mia famiglia e la mia vita erano stati rilasciati sono rimasta annichilita - detto la donna - Come può essere considerata questa giustizia? Mi fidavo dei tribunali e delle istituzioni. Mi fidavo del sistema e stavo imparando lentamente a convivere con il mio trauma. Il rilascio dei miei assalitori mi ha tolto la pace e ha scosso la mia fede nella giustizia”. I fatti risalgono alle violenze del 2002 in Gujarat, in cui oltre 1.000 persone, per lo più musulmani, sono rimaste uccise: una delle peggiori rivolte religiose che l’India ha vissuto dalla sua indipendenza nel 1947 dal Regno Unito. Anche sette membri della famiglia di Bano, inclusa la figlia di tre anni, sono stati uccisi nelle violenze. Funzionari del Gujarat, dove detiene il potere il partito Bharatiya Janata del primo ministro Narendra Modi, hanno affermato che la domanda di scarcerazione dei detenuti è stata accolta perché avevano trascorso più di 14 anni in galera ed erano scarcerabili in base a un condono del 1992 in vigore al momento della loro condanna. Una versione più recente della legge adottata nel 2014 dal governo federale vieta il rilascio per coloro che sono stati condannati per determinati reati, tra cui stupro e omicidio.