Dramma carceri, 57 suicidi in 8 mesi: 14 solo ad agosto, uno ogni 2 giorni di Piero Sansonetti Il Riformista, 28 agosto 2022 Quello che sta succedendo nelle carceri italiane è una silenziosa mattanza. Nel 2022 si contano già 57 suicidi, lo stesso numero registrato in tutto il 2021, anno di un drammatico primato. “Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”, ha detto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. I numeri ricordati dall’associazione sono drammatici: nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 57 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi due in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto abbiamo registrato 14 suicidi, più di uno ogni due giorni. Furono 57 le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021. Un dramma che è la fotografia della terribile situazione delle carceri. “Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione - prosegue Gonnella - ha lanciato la campagna ‘Una telefonata allunga la vita’, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il Governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”. “Dell’importanza dell’affettività per i detenuti - continua il presidente di Antigone - ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020”. Secondo questa, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. “All’indomani di quelle chiusure - sottolinea Patrizio Gonnella - la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e constì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali”. “Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” conclude Patrizio Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, Deputati e Senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato. I suicidi in carcere sono un problema serio, ma in campagna elettorale non ne parla nessuno di Adil Mauro rollingstone.it, 28 agosto 2022 57 persone si sono tolte la vita in carcere quest’anno, 1.280 dal Duemila a oggi. La politica, però, sembra averlo dimenticato: i programmi dei partiti, infatti, non dedicano molto spazio a una questione delicata come quella carceraria. Alessandro Gaffoglio, 24 anni. Mohamed Siliman, 24. Francesco Iovine, 44. Donatella Hodo, 27. E non solo: 57 persone si sono tolte la vita in carcere quest’anno. 1.280 dal Duemila a oggi, come ricorda il Centro Studi di Ristretti Orizzonti. Ogni tanto una storia riesce a scavalcare - almeno per qualche giorno - il muro dell’indifferenza che circonda, rendendoli invisibili, i 55mila detenuti presenti nelle sovraffollate carceri italiane. I casi più recenti sono quelli di Alessandro Gaffoglio e Donatella Hodo. Gaffoglio si è suicidato a Ferragosto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Era recluso dal 2 agosto per due rapine nel quartiere di San Salvario. A colpire l’opinione pubblica il fatto che il giovane fosse incensurato e con problemi psichiatrici. Aveva già provato a togliersi la vita cinque giorni prima della morte, compiendo un gesto considerato “dimostrativo”. La notte tra l’1 e il 2 agosto Hodo si è uccisa inalando del gas dal fornello della cella, nel carcere veronese di Montorio. La donna si trovava nell’istituto penitenziario per alcuni furti in negozi per procurarsi la droga. Ad accendere i riflettori sulla vicenda è stata la lettera aperta del giudice di sorveglianza Vincenzo Semeraro letta durante il funerale di Hodo. “Ogni volta che una persona detenuta si toglie la vita significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io ero parte del sistema visto che seguivo il suo caso da sei anni. Quindi, come il sistema, anche il sottoscritto ha fallito”. Una testimonianza senz’altro importante, ma come denunciano le donne della sezione femminile della casa circondariale Lorusso e Cutugno “il vero crimine è stare con le mani in mano”. Per questo motivo, il 23 agosto le detenute hanno annunciato una protesta non violenta contro i suicidi dietro le sbarre che durerà fino al 25 settembre, data delle elezioni politiche. “Scriviamo da una cella della sezione femminile delle ‘Vallette’… Ognuna di noi, dal 24 agosto al 25 settembre, farà alcuni giorni di sciopero della fame: ‘a staffetta’ ognuna di noi vuole esprimere solidarietà per tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente… Ognuna di noi, aderendo a questa iniziativa non violenta vuole esprimere lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica e delle istituzioni! Per noi e per i tutti i reclusi la ‘cattività’ in cui ci vorreste tenere a vita è inaccettabile. Mentre voi non ci nominate, noi vi accompagniamo fino al giorno delle elezioni, poi dopo si aprirà l’ennesimo capitolo… Ci negate una riforma da anni… Ciononostante non ci zittiamo! Chiediamo il supporto e la solidarietà di tutti coloro che si occupano di diritti di far arrivare le nostre voci ovunque… Serva! Le voci nostre e dei compagni che non ce l’hanno fatta! Un abbraccio prigioniero. Le ragazze di Torino”. Le preoccupazioni delle detenute riguardo il disinteresse di una certa politica appaiono più che fondate. I programmi elettorali delle principali forze politiche non dedicano molto spazio alla questione carceraria. Il centrodestra (Fratelli d’Italia - Lega - Forza Italia) si limita a promettere - com’era d’altronde prevedibile - una “maggiore attenzione alla polizia penitenziaria e accordi con gli stati esteri per la detenzione in patria dei detenuti stranieri”. Il Partito Democratico si concentra sul lavoro penitenziario in Italia. Per i dem “il carcere deve diventare un luogo dove intraprendere percorsi formativi mirati e garantire sbocchi occupazionali certi”. Viene anche menzionata la necessità di destinare “quote significative di fondi per assicurare supporto psicologico”. L’alleanza Verdi - Sinistra Italiana vuole “ridurre il sovraffollamento e migliorare la qualità della vita delle persone detenute”. Fratoianni e Bonelli chiedono un “miglioramento della qualità di preparazione del personale penitenziario adibito alla custodia a qualsiasi livello gerarchico”, e il pensiero va alle violenze di Santa Maria Capua Vetere. Un’altra proposta consiste in “un nuovo regolamento che preveda più possibilità di contatti telefonici e visivi”. Azione e Italia Viva promuovono un “rafforzamento del sistema dell’esecuzione penale alternativa alla detenzione in carcere”. Per contrastare il sovraffollamento raccomandano “interventi di riforma dell’ordinamento penitenziario e di edilizia carceraria”. Renzi e Calenda chiedono, inoltre, l’approvazione di una nuova legge sulle detenute madri per non avere più bambini in carcere. Unione Popolare propone una “riforma dell’istituto della detenzione soprattutto per i reati minori, attraverso un più ampio utilizzo delle misure alternative e investimenti nel reinserimento sociale dei detenuti”. Nessun riferimento alla situazione degli istituti penitenziari, invece, nelle tredici pagine del programma elettorale del Movimento 5 Stelle. Tra le proposte dei partiti politici una attuabile subito, con una ricaduta diretta sul benessere psicofisico delle persone recluse, è quella dei contatti telefonici. Il regolamento penitenziario al momento concede una telefonata a settimana per soli dieci minuti. Un limite superabile, come segnala l’Associazione Antigone che dal 1991 si occupa di giustizia penale, carceri, diritti umani e prevenzione della tortura. In seguito alle rivolte del marzo 2020, figlie dell’emergenza sanitaria, il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) fece arrivare negli istituti oltre mille telefoni e tablet, consentendo ai detenuti di videochiamare i familiari ben oltre i dieci minuti settimanali previsti. Antigone chiede l’adozione di misure simili per prevenire i suicidi, citando a sostegno della propria richiesta la relazione finale sulle rivolte del 2020 presentata dalla Commissione ispettiva del Dap. Il gruppo di esperti, presieduto dall’ex procuratore Sergio Lari, è arrivato alla conclusione che a provocare le proteste non fu una cabina di regia criminale, ma la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. In un’intervista a Redattore Sociale l’attivista e giurista Patrizio Gonnella, presidente di Antigone dal 2005, ha chiamato direttamente in causa l’esecutivo. “Sappiamo che il governo può solo fare atti di ordinaria amministrazione. Ma allargare con un atto amministrativo il diritto alle telefonate si può fare. Una telefonata, in un momento di disperazione, può salvare una vita. Ci rivolgiamo al ministro perché solleciti una disposizione regolamentare di questo tipo e alle forze politiche non di maggioranza perché non si oppongano”. Il diritto all’affettività, per quanto impopolare o comunque di scarso interesse da un punto di vista elettorale per molte formazioni politiche, è un tema fondamentale se si vogliono preservare le vite delle persone ristrette. Papa Francesco a L’Aquila: “Troppe vittime nelle carceri” agensir.it, 28 agosto 2022 “Voglio salutare e ringraziare la delegazione del mondo carcerario abruzzese, qui presente”. È il saluto speciale del Papa, da piazza Duomo a L’Aquila, prima tappa del suo viaggio apostolico. “Anche in voi saluto un segno di speranza, perché anche nelle carceri ci sono tante, troppe vittime”, la denuncia di Francesco: “Oggi qui siete segno di speranza nella ricostruzione umana e sociale. Grazie! A tutti rinnovo il mio saluto e benedico di cuore voi, le vostre famiglie e l’intera cittadinanza. Jemonnanzi!”. Nell’inferno delle carceri di Simone Alliva L’Espresso, 28 agosto 2022 In 22 anni sono morti suicidi 1.280 detenuti. Una strage. Il numero dei suicidi nel 2022 uguaglia già il totale dello scorso anno e il sovraffollamento tocca punte vicine al 200 per cento. L’ultimo, al momento in cui scriviamo, è un trentenne di Cerignola morto a Foggia nel giorno del suo compleanno. Si è impiccato, come l’italiano di 52 anni che l’ha fatta finita all’interno del reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Piacenza. Arrestato per reati comuni, era in attesa di una decisione del magistrato di sorveglianza e delle autorità sanitarie. Prima di lui era toccato a Alessandro Gaffoglio. Ventiquattro anni e un’infanzia complessa, affetto da disturbi psichici, talvolta faceva uso di droghe. Il 2 agosto, a Torino, coltello alla mano, ha rapinato due supermercati. La polizia lo ha arrestato ed è finito davanti al giudice per la convalida del fermo. Il primo arresto, il primo giorno in carcere. Una misura cautelare, non una condanna. In cella, Alessandro ha resistito due settimane, poi si è tolto la vita soffocandosi con un sacchetto di nylon. Qualche giorno prima aveva provato a impiccarsi con le lenzuola. Il contatore delle persone che si sono ammazzate in carcere soltanto negli ultimi otto mesi arriva a 57. Come il totale dell’anno scorso, su 148 decessi. In 22 anni, sono morti suicidi 1.280 detenuti. Una strage. Ma la statistica è una scienza sgarbata, parla per numeri e lascia fuori tutto il resto. Cinquantaquattro suicidi tra le sbarre dovrebbe suggerirci qualcosa, riportarci brutalmente allo stato delle cose. Ma i numeri non dicono tutto. Non raccontano di chi c’era prima, cosa pensava, come è arrivato spalle alle fiamme di cui David Foster Wallace parla quando dice chi si uccide, chi si butta di sotto è perché ha le fiamme alle spalle, e gettarsi è un sollievo al cospetto del fuoco. I numeri non spiegano nulla. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario per tradurli in un pensiero. E del resto un pensiero ai detenuti non lo dedica neanche questa campagna elettorale che su queste morti non ha speso neanche una parola. Ma le storie ci parlano. Le storie somigliano tutte a qualcosa che conosciamo bene e che ci riguarda. Dalla casa circondariale di Sollicciano a Firenze arrivano a L’Espresso le voci dei detenuti del reparto maschile. Si differenziano solo nel timbro, nell’intonazione e nelle cadenze. Quelle di Giulio, Yassin, Klodjan, Dorian, Emiliano, Tommaso esprimono tutte lo stesso dolore. Appartengono alle 589 persone costrette in un edificio aperto nel 1983 e che ne dovrebbe contenere massimo 491. Con una popolazione reclusa straniera pari al 70 per cento, a Sollicciano non ci sono mediatori culturali. Solo una persona presta, su base volontaria, un servizio di mediazione destinato a chi arriva dal Maghreb. Come sottolinea l’associazione Antigone Onlus sono carenti le attività culturali, ricreative e sportive, così come il lavoro. Secondo la relazione del garante per i detenuti Giuseppe Fanfani (relativa al 2021), la situazione di Sollicciano vede un totale di 589 detenuti (meno rispetto al picco di 791 del 2019 ma comunque tanti): di questi 395 sono stranieri. Nel carcere fiorentino la presenza di detenuti tossicodipendenti è a quota 182, il sovraffollamento totale del 120 per cento ín un Paese che conta strutture penitenziarie con indici di sovraffollamento che sfiorano il 200 per cento (Latina 194,5, San Vittore 190,1). Per tentati suicidi, Sollicciano è al primo posto in Toscana, così come per atti di autolesionismo: ben 591. Perché? Per capirlo bisogna affidarsi a chi il carcere “Io abita”. I reclusi ci prendono per mano e ci accompagnano fin dentro i corridoi curvi, oltre le inferriate azzurre e ci mostrano quello che sempre resta fuori dal cono di luce dell’hashtag trending topic. “Molti di noi hanno capito che con rivolte aggressive, sommosse anche motivate, peggiorano le cose e la riabilitazione che cerchiamo si allontana. Dunque, proviamo a tenerci informati, leggere, costruire contatti, a scrivere. Abbiamo trovato un decreto del presidente della Repubblica (n. 230 del 30 giugno 2000) che istituisce il trattamento penitenziario”, spiegano a L’Espresso. Ma la distanza che separa quel regolamento della vita in carcere è un baratro e sono gli stessi detenuti a misurarla. All’arrivo vengono fornite due lenzuola pulite e una coperta, polverosa, bucata dall’odore sgradevole: “Neanche un cane ci dormirebbe sopra”. Cuscini strappati, materassi già pieni di cimici. Non ignifughi. “Qui i detenuti che entrano sani, iniziano ben presto a lamentare dolori alla schiena o alla cervicale. Il cambio del materasso è addirittura un’impresa epocale”. Entriamo nelle sezioni, con le celle che si affacciano nei corridoi: “Sono piene di scarafaggi, topi, cimici, insetti nei letti. Le docce ricoperte di funghi e parassiti. Ci fanno ammalare. A queste si aggiungono infiltrazioni d’acqua, muri scrostati e muffe”. Molte celle restano al buio. “Non ci sono nemmeno le plafoniere, né le televisioni. Reparti come il transito e l’accoglienza o la sezione numero 1. Mangiamo senza luci, viviamo così, con i cavi elettrici scoperti” Le condizioni igieniche sono oltre il limite: “In celle di pochi metri quadrati, tre persone si devono lavare faccia e denti. E dopo i pasti nello stesso lavandino i piatti e le posate. L’acqua calda permetterebbe un’igiene più accurata, e in inverno una sofferenza minore: ma non c’è”. “Qui a Sollicciano persino le guardie fumano all’interno del carcere. Ci sono detenuti che hanno fatto battaglie contro il fumo passivo: perse ovviamente”. Non solo blatte, guano e muffe nelle celle. “Le cucine versano in un degrado spaventoso: sporcizia, pozze d’acqua stagnante, insetti, scarafaggi. Difficile mangiare il cibo sapendo dove viene preparato”. Difficile anche sapere cosa si mangia: “I generi in vendita qui allo spaccio presentano prezzi assurdi. Ma non è solo questo: le vaschette che vengono distribuite sono prive di etichette. E questo ci impedisce di capire anche semplicemente che tipo di carne stiamo preparando”. Non va meglio all’aperto: “Gli spazi somigliano a discariche. Spazzatura, sporcizia, ratti e scarafaggi. Ma cerchiamo di cavarcela, abbiamo costruito attrezzi sportivi con bidoni, pezzi di legno e di scopa”. “Non si può neanche lavorare. Nel mese di maggio hanno lavorato 59 detenuti su circa 600. Le attività alternative al lavoro per tutti gli altri sono consistite in questo: catechismo che ha coinvolto 20 persone, attività teatrale 15 e musicale dieci. Qui ci si ammala”. È una chiosa costante nelle parole dei detenuti di Sollicciano. Fanno riferimento a un male invisibile e devastante, quello che arriva nel tempo sospeso e che accentua il senso di inadeguatezza, l’inutilità e che porta spesso al suicidio: “Il tempo in carcere è un alternarsi di speranza e rassegnazione. Ci abituano a non decidere nulla, ci deresponsabilizzano. Quando si esce ci si rende conto di quanto in carcere il tempo sia immobile, di fatto i rapporti con la società, con le persone, con i parenti sono come congelati. Fuori si cambia e dentro si rimane fermi. Per questo al momento dell’uscita non mancano le catastrofi: le separazioni, l’allontanamento dei figli, i drammi personali che sfociano a volte addirittura nel suicidio”. L’ultimo a Sollicciano si è consumato 1’8 luglio. Un uomo di 47 anni, aveva chiesto di essere spostato nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Alle spalle già un tentato suicidio. Era assistente capo della polizia di Stato in custodia cautelare con l’accusa di aver sparato a un gambiano alle Cascine: una volta a casa aveva tentato di togliersi la vita (lo aveva riferito lui al giudice) e altre volte in cella. Ci è riuscito mentre a pochi metri, al Giardino degli Incontri per i colloqui c’erano i vertici del Dap, la politica, il tribunale di sorveglianza a discutere del “senso di umanità” della giustizia. Si è impiccato usando le lenzuola della cella. È stata la polizia penitenziaria a trovarlo privo di vita, durante il giro del pomeriggio. L’istituto, infatti, come segnala Antigone Onlus nel suo ultimo report, non ha un sistema di sorveglianza dinamica e non è attiva la videosorveglianza per il controllo da remoto. La decisione di non adottare questo sistema è stata giustificata elencando una serie di problemi relativi ai costi di attivazione, al fatto che le telecamere possano essere oggetto di atti vandalici e a precedenti eventi critici che il personale reputa incompatibili con la ratio della sorveglianza dinamica. “Di questo suicidio abbiamo avuto notizia dai media. Fa riflettere che sia avvenuto durante un convegno sul carcere e su di noi, senza di noi. È la misura esatta di quello che vogliamo far capire. Non vogliamo essere un altro grado di giudizio su questa persona. Ci interessa segnalare la sua solitudine al momento del gesto, in solitudine maturato e lucidamente attuato, c’era indifferenza intorno alla sua disperazione che non ha trovato ascolto. Mani tese. Ci interessa sottolineare le responsabilità di coloro a cui era affidato la sua sicurezza così come la nostra. Sono sempre impegnati sul futuro, ma il dramma è oggi”. Seconda Chance di Silvia Perdichizzi L’Espresso, 28 agosto 2022 Dopo anni in cella hanno un lavoro all’esterno. Grazie agli incentivi previsti dalla Legge Smuraglia. “Calati junco chi passa la china”, così Marcello riassume la sua storia, perché in questo proverbio siciliano c’è il senso della sua vita: “Piegati giunco che la piena del fiume passa”. Adattati, non opporre resistenza, che poi ti rialzerai più forte di prima. Marcello è uno dei detenuti che grazie al progetto “Seconda Chance” sta avendo la sua seconda occasione, la possibilità di riscatto da una vita “segnata”. Tutto nasce nel gennaio del 2021 dalla forza di volontà di una giornalista di cronaca giudiziaria del TgLa7, Flavia Filippi, che a furia di sentire racconti di vite sprecate per mancanza di altre opportunità, decide di rimboccarsi le maniche, rivitalizzando una legge che vivacchiava nei cassetti della burocrazia. La legge Smuraglia del 2000 - voluta fortemente dal partigiano Carlo Smuraglia, da poco scomparso - prevede sgravi fiscali e contributivi per le aziende che assumono detenuti, ma al di fuori delle carceri ha trovato applicazioni circoscritte. A Roma e a Velletri, con la collaborazione della Garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, e con l’allora provveditore alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone, “Seconda Chance” è diventata realtà: oggi è un’associazione del terzo settore, ha un suo sito e ha trovato lavoro a un’ottantina dí detenuti, facendo da cerniera tra le aziende e il carcere. E si sta espandendo. Grandi marchi come Nespresso e Tsg Group stanno assumendo personale dagli istituti di Monza, Opera e Bollate e varie offerte stanno arrivando da altre Regioni. Marcello - I colori rievocano la Palermo dei Normanni. E di siciliano ha tutto, anche lo sguardo schivo di chi ti scruta e ci mette un po’ a fidarsi. Quarantasette anni, 21 dei quali vissuti in carcere tra Italia e Francia, accusato di narcotraffico da alcuni collaboratori di giustizia, Marcello passa la sua prima detenzione nella sezione di massima sicurezza. “Otto anni, ma io ero innocente e questo lo deve scrivere”, ripete. Prima del carcere aveva tre edicole e gestiva un ristorante nel centro di Palermo. Nel 2001 viene arrestato e da quel momento la sua vita cambia completamente. Dal 2015 vive dietro le sbarre di Rebibbia e dall’aprile scorso è aiuto cuoco nel Bistrot Le Serre by ViVi, a Roma Nord. La sua grande occasione per prepararsi a tornare alla vita, un’occasione in cui non credeva più dopo anni passati nella sfiducia più totale verso il sistema “di uno Stato che mi ha abbandonato”, dice. Per capire sino in fondo Marcello, bisogna partire dalla sua mentalità da “uomo d’onore”, nel senso più letterale del termine. “Nella giustizia italiana a differenza della Francia, se tu detenuto non vuoi essere visto, non ti vedono. Se tu non vuoi metterti nei guai, non ti ci metti. E se non chiedi aiuto, nessuno te ne dà. Nessuno si interessa a te. Non esisti”, spiega. E Marcello non ha mai chiesto niente, “per dignità”, precisa. “Non ho mai voluto lavorare, per esempio, per un carcere che non mi ha insegnato nulla. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto da solo”. All’inizio la sua salvezza sono stati i libri, il corso di laurea in Lettere e filosofia all’Università di Tor Vergata, e la musica. Ma senza speranza per il futuro: “Vedevo buio, qui si fanno tanti sogni sul “dopo”, ma prima o poi ci si scontra con la realtà”. Una realtà che per lui, però, prende una strada inaspettata. Come se avesse deciso di fare pace con il passato, di piegarsi alla piena del fiume per poi rialzarsi più forte. “Ad un certo punto mi sono detto: ma perché io non devo prendere soldi dallo Stato, quando lo Stato si è preso la mia vita? E ho iniziato a lavorare in carcere, prima come lavapiatti, poi come cuoco”. E li che forse Marcello si sente “visto” e accetta di aderire al progetto “Seconda Chance”. Ad aprile esce da Rebibbia e si trova catapultato in una città che non conosce, in un’epoca che non ha mai vissuto: quella dell’euro e dei cellulari che fanno le foto e i video. “Ho pensato di essere pazzo, vedevo la gente parlare da sola e non sapevo dove andare. Mi sono sentito perso, un alieno in preda alla follia”. Ma la brigata della cucina delle Serre by ViVi lo ha accolto a braccia aperte, “sono arrivato con dei fogli tenuti da un elastico, mi hanno regalato uno zaino e l’abbonamento della metro”. Le proprietarie, Cristina e Daniela, il primo giorno di lavoro hanno fatto il tragitto dell’andata con lui. “Quando esco la mattina prendo a morsi la vita, ma quando torno mi sento morire, perché entrare, sulle mie gambe, in quell’inferno è come consegnarmi ogni sera”. Una volta, dice, non lo avrebbe mai fatto, ma ora lo ha accettato, “mi sono rassegnato, il passato è andato e la vita non si spreca. Anche perché io ho un “fine pena”, e non è nemmeno così lontano. Calati junco chi passa la china. La mia sta passando”. Alessio - Chi, invece, è senza dubbio grato al carcere è Alessio: romano, 24 anni appena compiuti, il più piccolo del suo reparto. Riservato, silenzioso, chiuso in un mondo tutto suo, non si fida di nessuno e si fatica anche a sentirlo parlare. “Se oggi sono qui lo devo alle educatrici, alle psicologhe, ai detenuti e alle guardie. E alla mia forza di volontà”. Racconta: “Quando sono arrivato, stavo talmente “fuori” che non capivo nulla”. Non sentiva nemmeno il peso della condanna: 21 anni (poi scesi a 4 anni e 10 mesi), lui che di anni ne aveva solo 20. Ma Alessio voleva essere “beccato”, lo confida, dietro quello sguardo criptico, impossibile da decifrare ma anche da dimenticare. La sua disperazione era estrema ed estrema è diventata la sua richiesta di aiuto. È arrivato a Rebibbia una notte del 2019, colto sul fatto e accusato di aggressione a mano armata, tentato omicidio e violenza. Dopo un anno in sezione di media sicurezza è finito in regime punitivo per tornarci dopo quattro mesi, in piena emergenza Covid-19. “Il carcere può piegarti, stai lì, in quelle quattro mura, con un paio d’ore d’aria e una convivenza forzata”, dice. Eppure ai suoi occhi quella era la sua unica salvezza. “Quando mio padre è andato via di casa avevo sette anni, dopo tre ho smesso di parlargli. Ho sentito il dovere di indossare i panni dell’uomo di casa, ma ero troppo protettivo nei confronti di mia madre e delle mie sorelle”. Un peso eccessivamente grande per un bambino. “A un certo punto non c’ho avuto più il cervello pe’ regge’, me so’ sentito un fallito e ho sbroccato”, dice tutto d’un fiato. Eppure Alessio non si sbilancia mai, pesa bene le parole. Più volte sottolinea il valore che per lui ha avuto la psicologa, così come un suo compagno di cella, che ora non c’è più. “E morto poco dopo essere uscito”, racconta. Anche per lui ha accettato di entrare in art. 21, ovvero tra i detenuti lavoranti. E poi di aderire al programma “Seconda Chance”. Da meno di un mese fa il cameriere presso Eggs, ristorante nel cuore di Trastevere, “io tutto sto’ lusso non l’avevo mai visto”, sorride. Uno di quei pochi sorrisi furtivi che concede. Ha riallacciato i rapporti con suo padre e la sua famiglia è venuta a vederlo lavorare in quella che per lui rimane la “Roma dei ricchi”. “Ho realizzato che mio padre ha cinquant’anni e non deve pagare per stupidaggini che non ha commesso. Lui è innocente, il colpevole sono io. E sto pagando”, sussurra salutando. Alessio oggi ha ripreso a disegnare, sogna un futuro da tatuatore. È l’unico modo che conosce per parlare di sé. Giovanni - “Giannetto er matto”, così lo chiamavano per come guidava durante le rapine. Giovanni, 47 anni, “romano de Roma”, una vita consumata tra una cinquantina di istituti penitenziari, 11 dei quali in Romania. A vederlo così sembra, se così si può dire, lo stereotipo del carcerato: 110 chili di muscoli e tatuaggi. Ma, come capita a ogni persona, anche lui si scioglie nelle emozioni. E lo fa mentre si racconta, ansioso di poter dire che lui vuole rifarsi una vita. Che la vergogna per come ha vissuto è forse la spinta che l’ha fatto cambiare. Insieme alla voglia di non deludere le due donne che gli hanno offerto un’altra possibilità, l’ispettrice di reparto. E soprattutto sua figlia. Giovanni è dietro le sbarre dal 1998 per diverse accuse di tentato omicidio, rapina a mano armata ed estorsione. Da poche settimane lavora come manovale da Botw, un’agenzia che organizza grandi eventi, con sede a Pomezia. “Nella mia vita ho fatto tanti impicci. Vivevo coi miliardi, cd le macchine di lusso. Mi credevo Dio e davo importanza alle cose che non contano niente. Ho buttato 24 anni della vita mia”. Parla di un’infanzia in collegio, di una vita difficile tra droga e alcool, di un padre padrone a cui non dà colpe. Racconta del passato con amarezza mista a orgoglio. Il perché lo si capisce quando apre il capitolo Romania: “In quei posti la gente è povera e pe’ fa’ du’ spicci è disposta a tutto, anche a prostituirsi. Quello che gira nelle carceri sono per lo più anabolizzanti e cellulari, Prima Pagina per cui so’ tutti lottatori... capitava allora che le guardie la sera passassero per le celle e dicessero: “tu, tu e tu domani a intervallo”. E se tu eri tra quelli, sapevi già che il giorno dopo eri su un ring a lotta’ per la vita tua che per loro valeva i du’ spicci che avevano scommesso”. Giovanni ci tiene a precisare che sta raccontando solo le cose “che non fanno vomitare”: “Di notte ti rifilavano 20-30 pasticche per dormire e la mattina ti svegliavi nudo, a pancia sotto”. Poi, di colpo, lo sguardo fiero: “Però quando Giannetto er matto è uscito dal carcere, gli hanno battuto le mani e gli hanno urlato: “Ecco il mafioso se ne va”. Perché io ho resistito pure in Romania. E ho resistito da leone, non da pecora”. Cade il silenzio per qualche secondo. Si torna al presente con un po’ di imbarazzo. “Giannetto er matto” se ne è andato. Ora tocca a Giovanni che non vuole deludere nessuno, che sogna una sua impresa edile, una macchina normale e un rapporto con una figlia che solo da qualche mese lo chiama papà. Sorride timidamente: “Solo che io er papà nun so come se fa’“. Ermini: “Nuovi magistrati solo nel 2024, prepariamoci all’emergenza nei tribunali” di Liana Milella La Repubblica, 28 agosto 2022 Il vice presidente del Csm: “Purtroppo sulla giustizia si è investito sempre troppo poco. Negli ultimi decenni l’efficienza non è stata la priorità. E adesso se ne paga il prezzo”. “Siamo a corto di giudici e lo saremo fino al 2024, quindi prepariamoci ad affrontare un’emergenza grave che chiama tutti al senso di responsabilità. Anche chi, in questa campagna elettorale, sventola solo bandierine che centrano poco i veri problemi”. Il vice presidente del Csm David Ermini lascia da parte il savoir faire e affronta a brutto muso il caso giustizia. Fondi del Pnrr (2,3 miliardi), concorsi per le toghe (oltre 800), assunzioni di cancellieri (2.700 nel 2021), ma da Roma, e non solo, l’allarme per i processi bloccati proprio perché mancano i giudici è fortissimo. Di chi è la colpa? “Purtroppo sulla giustizia si è investito sempre troppo poco. E negli ultimi decenni l’efficienza non è stata la priorità. E adesso se ne paga il prezzo. Sulle assunzioni il Csm non ha alcuna competenza, però siamo coinvolti lo stesso. Gli ultimi governi hanno tentato di recuperare sul fronte della mancanza sia del personale che dei magistrati. Ma purtroppo, vuoi per la lentezza delle procedure, vuoi per la necessità di assicurare una selezione accurata, il numero delle toghe in servizio è in perenne discesa”. Non mi dica che i concorsi in itinere da 310 e 500 posti non risolveranno la situazione... “Dico soltanto che da qui al 2024 non potranno entrare in ruolo i nuovi giudici....”. Non è possibile, così si va verso la catastrofe... “Purtroppo tutti voi non sapete come funzionano questi concorsi. Adesso glielo spiego. Quello da 310 posti del 2020 è stato falcidiato allo scritto, sono rimasti in lizza 200 candidati che stanno ancora sostenendo le prove orali. Anche ammesso che la gran parte venga promossa, poi dovranno affrontare il tirocinio, e poi chiedere la sede. Quindi fino al 2024 non se ne parla. Quello da 500 posti è ancora fermo alla correzione degli scritti”. Incredibile, ma così, con i prossimi pensionamenti, i tribunali chiuderanno... “Sono soprattutto preoccupato degli effetti che ciò produrrà sulla funzionalità delle corti d’appello chiamate ad applicare la regola dell’improcedibilità. Qui si rischia la falcidia dei processi”. E che fa adesso? Attacca anche lei la ministra Cartabia proprio sulla norma più contestata delle sue leggi, quella sull’improcedibilità? “Ho sempre espresso un giudizio positivo sull’insieme delle riforme, ma ho pure detto che senza un adeguato numero di magistrati, che pure vantano un eccellente tasso di produttività, il rischio era di finire nei guai. Ma qui non posso nascondere la verità: perché la politica non ha affrontato il problema dei concorsi? È chiaro che così come sono adesso non vanno perché ci vogliono 4 anni tra il bando e la presa di possesso della nuova toga. Un tempo assolutamente inaccettabile. Sarebbe necessario, almeno in questa fase emergenziale, ridurre i tempi del tirocinio”. Un attimo, lo sa che così verrà accusato dal centrodestra di voler mandare in aula giudici impreparati? “Questa sarebbe una critica incomprensibile oltre che del tutto infondata nel merito; è necessario porre mano a riforme che accelerino le procedure selettive senza però ridurre né il rigore delle prove né la completezza e l’approfondimento che è proprio del periodo di tirocinio”. Una via non potrebbe essere quella, come chiede proprio la destra, di bloccare i magistrati fuori ruolo? “Si può arrivare a una razionalizzazione, ma non a eliminare l’istituto. Oggi sono circa 200. E spesso é la politica che li richiede non solo fuori ruolo ma anche a tempo parziale che comunque sottraggono tempo al lavoro ordinario”. Allora ha ragione il presidente del tribunale di Roma Reali a bloccare le udienze collegiali per sei mesi? “Innanzitutto ho preso atto di questa misura organizzativa esclusivamente dalla stampa. Al Csm non è ancora arrivata alcuna comunicazione. E comunque ho già allertato la settima commissione e faremo di tutto per evitare il blocco dei processi a Roma”. E come? Ci anticipa la soluzione? “Nel caso di Roma la percentuale di scopertura, pari al 14,5%, non risulta allarmante ma è in linea con quella di molti altri tribunali nei quali non sono state adottate analoghe misure draconiane. Parliamo però di un ufficio gigantesco, qui sta il suo unicum, la cui gestione è difficilissima, se non addirittura impossibile. Quando si è messo mano alla revisione della geografia giudiziaria bisognava pensare a creare due differenti cittadelle della giustizia. Ma purtroppo, come sappiamo bene, questi argomenti sono intoccabili per la politica perché quando si parla di modificare la geografia giudiziaria tende a prevalere la tutela del proprio collegio”. L’indagine di Repubblica rivela che molti tribunali sono in affanno, anche se Cartabia insiste sul cambio di passo. Lei da che parte sta? “Io so quanto Marta Cartabia ha lavorato, ne sono un buon testimone, e il Csm ha condiviso tanti passaggi difficili, ma qui la coperta è corta da sempre. E sappiamo bene che tanti tribunali vanno avanti grazie al lavoro dei magistrati onorari. La strada riformista, dal ministro Orlando in poi, è stata imboccata, ma se la politica, come vedo anche adesso, non mette da parte le bandierine che servono solo in campagna elettorale, e non s’impegna su assunzioni ed edilizia giudiziaria il bubbone non sarà mai sanato”. Ancora oggi Berlusconi chiede di separare le carriere, Nordio vuole il sorteggio per il Csm, la Bongiorno la responsabilità civile diretta dei giudici... “Ognuno ha la sua bandiera da sventolare, ma poi non ci si lamenti se i processi durano anni e quindi, già per ciò solo, sono ingiusti, e sono una pena”. Nordio: “La giustizia inceppata affonda l’economia. Via l’abuso d’ufficio” di Raffaele Marmo La Nazione, 28 agosto 2022 L’ex pm, candidato con Fratelli d’Italia, traccia la sua idea di riforma. “L’immunità parlamentare va reintrodotta, ma serve spiegarla alla gente. C’è bisogno di carriere separate e dell’inappellabilità delle assoluzioni”. Quale è l’impostazione di fondo del Piano Nordio per una giustizia garantista e liberale? “Oggi la vera emergenza è l’economia - esordisce Carlo Nordio, magistrato di lungo corso, in pensione, candidato indipendente con Fratelli d’Italia, possibile ministro della Giustizia di un futuro governo di Giorgia Meloni -. Ebbene, la lentezza della giustizia civile e penale ci costa, secondo studi accurati e indipendenti, circa un due per cento di Pil: quindi la prima cosa da fare è la radicale eliminazione e semplificazione di una serie di norme sostanziali e procedurali complesse e contraddittorie che rallentano i processi e paralizzano l’amministrazione”. Quali, per cominciare? “L’esempio più emblematico è il reato di abuso di ufficio, che ha creato la cosiddetta amministrazione difensiva, per cui nessun sindaco o assessore firma più con tranquillità o non firma affatto. Poi, con un disegno di più ampio respiro, vanno cambiati il Codice penale e quello di procedura penale”. Quali sono i capisaldi del suo progetto di Codice penale? “Il nostro codice rispecchia bene la confusione e le contraddizioni della nostra giustizia. È del 1930, ed è firmato da Mussolini e dal re. Nella sua relazione di accompagnamento si legge che esso rappresenta la sacralità dell’ideologia fascista. E infatti, ispirandosi alla filosofia hegeliana dello Stato etico, mette al centro quest’ultimo e non il cittadino. Un Codice penale liberale rovescia il rapporto, con conseguenze importanti sia per la certezza della pena sia per la presunzione di innocenza, che peraltro richiede interventi anche sul Codice di procedura. L’ennesimo paradosso è che questo codice firmato dal professor Vassalli, partigiano decorato della Resistenza, è stato demolito dalla Corte costituzionale”. Come e perché introdurre la separazione delle carriere? “La separazione delle carriere è una conseguenza necessaria del codice del 1989 che ha recepito i principi del rito anglosassone e non per nulla è stato definito alla Perry Mason. Ebbene, in tutti quei Paesi le carriere sono separate. Negli Usa il pm è addirittura elettivo”. Basta questo per riequilibrare il rapporto politica-cittadini-giustizia? “No. Occorre che sia la politica, intendo tutti i partiti, a riappropriarsi del ruolo primario che le deriva dalla legittimazione delle urne. Negli ultimi trent’anni essa è stata subalterna alla magistratura, salvo strumentalizzare le inchieste contro avversari che non riusciva a battere nella competizione elettorale. È stata una sorta di democrazia dimezzata, di cui la stessa politica è in gran parte responsabile. Lo scrivevo anche quando indossavo la toga”. Serve anche il ripristino dell’immunità parlamentare? “Secondo me si, anche se riconosco che andrebbe spiegata bene ai cittadini, affinché non sembri un privilegio di casta. I padri costituenti, Togliatti, De Gasperi, Nenni, Calamandrei, l’hanno voluta proprio come garanzia dalle interferenze improprie della magistratura. Sapevano benissimo che qualcuno se ne sarebbe servito a suo vantaggio, ma hanno acettato il rischio, perché quello della sovrapposizione di poteri era enormemente maggiore, come poi si è dimostrato”. Come dovrebbe cambiare la custodia cautelare anche per impedire la gogna mediatica per gli indagati? “Dovrebbe essere decisa non da un giudice monocratico, com’è il gip, ma da uno collegiale, magari lontano anche topograficamente dal pm che ha formulato la richiesta. Penso a una sorta di ‘chambre d’accusation’ presso la Corte d’Appello, che assicurerebbe anche una omogeneità di indirizzi. Quanto alla stampa, nessuno può imporle regole cogenti, ma sarebbe bene che tutti riflettessero che la presunzione di innocenza non è solo prevista dalla Costiuzione, ma è il fondamento della civiltà giuridica liberale e moderna”. Come accelerare i processi e ridurre le indagini a vita? “Semplificando le procedure, depenalizzando una serie di reati bagatellari e rendendo discrezionale l’azione penale, anch’essa consustanziale a un sistema accusatorio anglosassone”. La prescrizione va cambiata? “Quella del ministro Bonafede era una mostruosità e per fortuna la Cartabia l’ha mutata, anche se l’ha spostata nell’ambito processuale con conseguenti problemi applicativi. Credo che un buon compromesso sarebbe di farla decorrere non dal moneto della commissione del reato, spesso scoperto assai tardi, ma da quello dell’esercizio dell’azione penale”. È favorevole all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado? “Si, certo. Il principio della inappellabilità della sentenza di proscioglimento deriva da quello che una condanna può intervenire solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Nel sistema anglosassone una riforma in peius non esiste, salvo che emergano nuove prove a carico della persona assolta, ma entro certi limiti, e rifacendo i processi daccapo”. Come concilia il suo garantismo con le tesi in parte giustizialiste di Fratelli d’Italia? “Non definirei in questo modo la posizione attuale di FdI. Parlando con Giorgia Meloni ho visto che queste mie idee sono in grandissima parte condivise. Certo, una parte dell’ elettorato è più sensibile alla certezza della pena che non alla tutela della presunzione di innocenza. La mia idea è che entrambe abbiano pari valore: lo scopo dello Stato è quello di non lasciare impunito il delitto e di non condannare l’innocente”. Possiamo tornare alla normalità dopo trent’anni di predominio dei pm in Italia? “Spero e credo proprio di sì. Mi piacerebbe che su questo fossero d’accordo tutti, nell’interesse della preminenza e della nobiltà della politica”. Matone: “Il vero male è l’abolizione del merito. Rompere l’asse tra Procure e stampa” di Anna Maria Greco Il Giornale, 28 agosto 2022 Simonetta Matone, ex magistrato e capogruppo della Lega in Campidoglio è candidata a Roma per la Camera. Di giustizia si parla poco in questa campagna elettorale ma Berlusconi la riporta in primo piano. È tutto fermo al 12 giugno, dopo il flop dei referendum? “Berlusconi è stato la prima vittima del sistema giudiziario, se non ne parla lui ... Io ho partecipato alla campagna per i referendum, alla luce del caso Palamara che ha aperto uno squarcio su una realtà a noi ben nota. Il suo libro andrebbe studiato nelle scuole per spiegare come non amministrare la giustizia. Io non ho mai avuto il suo numero né lui il mio. Ho avuto incarichi in governi politici e tecnici senza passare per le correnti, solo per chiamata diretta, con Vassalli, Nitto Palma, Severino, Cancellieri. Purtroppo tutto questo fa dimenticare che la stragrande maggioranza dei magistrati sgobba, non fa politica e sacrifica la vita privata. Io sto dalla loro parte”. Come si impedisce l’intreccio politica-magistratura? “Affrontando i problemi con serenità non con toni esasperati, perché il fine ultimo è tutelare i cittadini. L’approccio ideologico impedisce di trovare soluzioni. La commistione politica-giustizia c’è quando si abolisce il merito e si sostituisce con l’intrallazzo”. A settembre si eleggerà il nuovo Csm, la riforma Cartabia cambierà le cose? “È necessario modificare il sistema di accesso al Csm con il sorteggio tra chi ha inequivocabili caratteristiche. Purtroppo, la riforma non ha avuto il coraggio di farlo e ha introdotto correttivi minimi. Dobbiamo lavorare perché il successivo Csm sia eletto diversamente e garantire ai vertici degli uffici giudiziari dei manager capaci di organizzare il lavoro, non lottizzati dalle correnti”. Che pensa della separazione delle carriere? “Sono favorevole, ma è propria dei sistemi anglosassoni dove il pm è sganciato dal resto dell’ordine giudiziario mentre noi abbiamo un sistema misto con percorsi diversi tra giudici e pm ma con l’unicità delle carriere. Il vero problema è rompere l’asse scellerato tra procure e stampa, che crea la cassa di risonanza per certe inchieste, operazioni di killeraggio raccontate da Palamara”. Se si interviene sull’informazione si grida al bavaglio... “Macché, una stampa veramente libera non si fa usare dai pm per colpire questo o quello per motivi estranei alla giustizia”. Tempi dei processi: le riforme Cartabia su penale e civile serviranno? “I tempi sono scandalosi, spero che con i fondi del Pnrr si riescano a velocizzare. Delle riforme è scontenta gran parte degli avvocati e dei magistrati, perché vanno coinvolti gli operatori di giustizia più dei professori universitari. La teoria serve a poco se non si ha l’esperienza di tribunali e uffici”. Berlusconi propone l’inappellabilità delle assoluzioni di primo e secondo grado... “Dobbiamo ragionare perché il problema è complesso. Serve uno strumento deflattivo e i filtri per l’ammissibilità dei ricorsi in Cassazione possono servire. Certo, una doppia sentenza conforme di assoluzione potrebbe evitare il terzo grado. Io da un anno sono uscita dalla Procura generale della Corte d’appello di Roma, dove avevamo 46 mila fascicoli pendenti. Vuol dire una depenalizzazione di fatto. Credo che vada potenziato il concordato in appello, che cerca l’accordo con la parte su una pena. Io ero la regina di questo strumento meraviglioso, ma altri lo usano poco o niente, molti Pg non lo amano, c’è un’eccessiva discrezionalità”. Della politica penitenziaria sia parla poco... “Invece è fondamentale. C’è tanto da fare nei tribunali di sorveglianza, per recuperare ritardi enormi ai danni di chi sta in carcere”. Palamara: “Sul sistema giustizia potrei scrivere altri tre libri...” di Massimiliano Scagliarini Gazzetta del Mezzogiorno, 28 agosto 2022 L’ex magistrato: “Nel prossimo Parlamento commissione di inchiesta sullo scandalo Csm”. Non ha raccolto le firme e quindi il suo simbolo, “Oltre il sistema”, non sarà sulle schede. Ma Luca Palamara, che oggi sarà sul palco della Piazza con Matteo Salvini ed Ettore Rosato, promette di non mollare: l’ex magistrato romano, ex componente del Csm, più giovane presidente nella storia dell’Anm e finora unico ad esserne espulso, dopo i due libri che hanno raccontato i retroscena delle correnti e della magistratura ha scelto la politica. Partendo dalla giustizia: “Io racconto i fatti e le vicende da me direttamente vissuti. Le storie del sistema hanno tutte le stesse caratteristiche. E quello che sta emergendo conferma appieno la validità del mio racconto. C’è’ materia per scrivere un terzo, un quarto, un quinto libro”. Adesso per chi voterà Luca Palamara? “L’associazione “Oltre il sistema” sosterrà quei candidati che a prescindere dalle appartenenze politiche sapranno battersi per squarciare il velo di ipocrisia che ha caratterizzato il racconto sulla correntocrazia e sulle lobby, e che intenderanno riformare senza infingimenti il mondo della giustizia ma non solo. Penso alla sanità e alla economia”. Aveva annunciato una candidatura mirata a riformare la giustizia con una agenda in 10 punti. Che ne sarà di quel programma? “In giro per l’Italia continuerà quotidianamente il contatto con quei tanti cittadini che già si stanno iscrivendo all’associazione “Oltre il sistema” e che vogliono comprendere i meccanismi interni e le logiche clientelari del mondo della politica e delle istituzioni”. Berlusconi ha ritirato fuori l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione che fa storcere il naso all’Anm… “Quello della inappellabilità delle sentenze di assoluzione è un principio di civiltà giuridica che serve anche a spezzare il corto circuito mediatico-giudiziario, e che pretende di portare la magistratura sul terreno della contrapposizione politica, idea dalla quale questo Paese si deve liberare. Altrimenti sarà impossibile ripristinare l’autorevolezza della magistratura. La moglie di Cesare non deve solo essere onesta, ma deve apparire tale”. Sulla giustizia chi ha fatto peggio in questi anni, secondo lei? “Difficile stilare delle classifiche. Ma di certo raggiungere i livelli del ministro Bonafede penso sia impossibile”. In Puglia in due anni sette magistrati sono stati arrestati con accuse di corruzione. Come spiega le differenze di trattamento tra magistrati radiati mentre sono sotto indagine e altri che restano nell’ordine giudiziario nonostante condanne definitive? “A breve finirà la consiliatura del Csm. Il mio impegno, insieme a tanti altri magistrati ma soprattutto cittadini comuni, sarà comprendere come e perché le chat ed i procedimenti di disciplinari siano stati utilizzati per colpire il nemico di turno ma soprattutto per comprendere come sia stato possibile che componenti del Csm presenti nelle mie chat abbiano poi giudicato altri colleghi. Per loro finisce la consiliatura. Per noi inizia la ricerca della verità. Per questo sarebbe importante che il prossimo Parlamento istituisse una commissione d’inchiesta per fare luce su tutto quanto è accaduto”. Ma i magistrati in politica? La Puglia è governata da un ex pm, Michele Emiliano. Che opinione ne ha? “Al netto del giudizio politico su Emiliano, la vicenda disciplinare che lo ha riguardato fa permanere intatte tutte le problematiche dei rapporti tra politica e magistratura, soprattutto quando gli enti locali vengono guidati da magistrati che hanno svolto funzioni in quello stesso distretto”. Dopo 40 anni, il nostro grazie a Dalla Chiesa di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2022 A Palermo, in via Carini, esattamente 40 anni fa, il 3 settembre 1982, la mafia uccideva, con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’autista Domenico Russo, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Un “singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali” (così Giorgio Bocca nella storica intervista che il Generale rilasciò a Repubblica il 10 agosto, forse presagendo quanto stava per accadere). Dalla Chiesa aveva contribuito in maniera decisiva alla sconfitta del terrorismo brigatista e aveva accettato con entusiasmo l’incarico - ancor più esposto e pericoloso - di Prefetto di Palermo, con la promessa (mai mantenuta) che gli venissero concessi i poteri e i mezzi necessari - anche sul piano del coordinamento - per un’efficace lotta alla mafia. Un eroe come non mai attuale, cui il nostro Paese dev’essere profondamente grato. Innanzitutto per il coraggio. Sapeva che, insieme alla mafia, avrebbe avuto contro anche quel potente ambiente politico inquinato che in lui - capace, determinato e incorruttibile - vedeva una minaccia alla propria impunità. Quel mondo, Dalla Chiesa, lo conosceva bene. Ma sapeva anche che “ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per poter continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli” (così, nel libro Delitto imperfetto del 1984, il figlio Nando). Andare a Palermo fu dunque una straordinaria lezione di coraggio nei fatti, non con le prediche, per di più rinunciando a scorte e sirene a rischio della propria stessa vita. Il nostro Paese deve essere riconoscente a Dalla Chiesa anche per il modo in cui interpretò il suo ruolo in relazione alla società civile. Era convinto che se il problema della mafia viene vissuto dalla gente solo come una questione tra “guardie e ladri”, vince la mafia. Perciò, forte anche dell’esperienza dell’antiterrorismo, decise che “come nella lotta al terrorismo dobbiamo fare in modo che i piraña della mafia (quei pesci che spolpano un essere umano in pochi secondi) restino senza acqua. Fare in modo che boccheggino. E che la gente sia calamitata dalla credibilità dello Stato”. Dalla Chiesa impiegò buona parte dei suoi cento giorni a Palermo per andare nelle scuole, tra gli operai dei cantieri navali e le famiglie di tossicodipendenti, “per far capire ai giovani che lo Stato è lì a offrirsi loro come punto di riferimento nelle loro aspirazioni di libertà. Creò, insomma, un’antitesi concreta al potere mafioso. Lui, lo Stato, spiegò loro che la mafia sfrutta e toglie dignità e che era ora che essi vi si ribellassero. Orientò le coscienze, parlò alla gente, aggiunse alle qualità investigative un potenziale inedito: ‘fece’ cultura, fece ‘politica’ nel senso più nobile” (ancora Delitto imperfetto). Anche in questo caso, ecco un insegnamento di speciale attualità, a fronte del tentativo, da anni in atto, di “ingessare” la società civile, dimenticando che il suo coinvolgimento è sempre indispensabile per evitare l’isolamento, o peggio, derive delle istituzioni. C’è ancora un’altra ragione di civile gratitudine. Il suo mandato a Palermo iniziò con i funerali di Pio La Torre, tra i più convinti sostenitori della designazione del Generale come prefetto di Palermo. Segretario regionale del Pci, da parlamentare La Torre aveva presentato un progetto di legge che prevedeva l’introduzione nel nostro ordinamento del delitto di “associazione mafiosa” e di misure specificamente mirate a colpire il potere economico della mafia. Ebbene, l’assassinio di dalla Chiesa fu la spinta decisiva (anche se la più tragica) perché questo disegno diventasse effettivamente legge dello Stato. La disperazione che si diffuse dopo l’omicidio La Torre e più ancora dopo la morte di dalla Chiesa si trasformò in irrefrenabile indignazione e rabbia (emblematica, al riguardo, la famosa scritta “Qui muore la speranza di ogni cittadino onesto” tracciata su un cartello in via Carini). Svegliandosi da un torpore di decenni, per la prima volta il nostro Paese riconobbe l’esistenza della mafia e inserì nel codice penale un articolo bis (il 416 bis) che cancellava finalmente la vergogna dei proclami secondo cui la mafia era soltanto un’invenzione di “comunisti” in vena di provocazioni. Per la prima volta veniva messo a disposizione degli inquirenti uno strumento efficace, pensato con riferimento alla concreta e specifica realtà della mafia, grazie al quale il pool di Falcone e Borsellino poté costruire il primo maxi-processo, dimostrazione tangibile che la mafia esisteva e poteva essere sconfitta. Verona. “Le portarono via il figlio per darlo in adozione. La sua morte è iniziata lì” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 28 agosto 2022 Donatella Hodo si è tolta la vita nel carcere di Montorio la notte tra l’1 e il 2 agosto. La famiglia e le amiche: “Rivoleva il figlio ma quando vide che non c’era nulla da fare ci fu il crollo”. “Nel 2014 le strapparono Adam, il bimbo che aveva appena dato alla luce. Lei non si riprese mai più, la morte di Dona iniziò in quel preciso momento di 8 anni fa”. Il male oscuro di Donatella Hodo, il trauma mai superato che le rabbuiava la mente gettandola nello sconforto? Il dolore profondo che l’ha sopraffatta nella solitudine della sua cella del carcere veronese di Montorio, portandola a togliersi la vita la notte tra l’1 e il 2 agosto scorsi ad appena 27 anni, nonostante stesse per tornare in libertà e il fidanzato Leonardo la stesse aspettando nella casa dove sarebbero andati a convivere? Amiche ed ex compagne di cella di Dona non hanno dubbi: perché la 27enne, assalita improvvisamente dalla tristezza, ha scelto di andarsene così? “Le portarono via quel figlioletto che aveva atteso con tanta felicità, un trauma immane che non ha mai superato”. Quando lo concepì aveva quasi vent’anni. La gravidanza portata avanti in carcere - Donatella portò avanti la gravidanza, la prima e unica della sua vita, mentre si trovava reclusa in una cella di quel carcere di Montorio da cui già allora entrava ed usciva per qualche furtarello nei negozi. “Non vedeva l’ora che il piccolo nascesse, lo aspettava con impazienza e gioia, aveva già scelto il nome”, ricordano le compagne di detenzione della 27enne che due settimane fa si è lasciata morire nel penitenziario scaligero di Montorio inalando del gas dal fornelletto, in preda a una crisi notturna di solitudine e sconforto. Con il suo gesto estremo e la sua storia di sofferenza, con la sua lotta per liberarsi dalla droga e quell’ultima dichiarazione d’amore lasciata in cella al fidanzato (“Perdonami Leo, sei stato la cosa più bella”), Donatella ha lasciato il segno. Fu lei, “lei e nessun altro” a scegliere il nome del nascituro: lo chiamò Adam. Il figlio portato subito via alla ragazza che aveva 20 anni - Lo diede alla luce in ospedale, era sano come un pesce. Ma non glielo lasciarono godere neppure un attimo: “Le venne tolto subito, finì in adozione - denunciano le amiche della 27enne. Non permisero neppure al padre di Dona di prendersene cura, nonostante il genitore si fosse dichiarato disponibile a occuparsene per il tempo necessario alla figlia per riprendersi e riordinare la sua vita”. Annalisa, ex compagna di detenzione, ricorda: “Conoscevo Dona di vista, la vedevo in città, ci si scambiava due chiacchiere ma niente di più… poi il 9 settembre del 2013 mi è arrivato un residuo pena da scontare e l’ho trovata in carcere a Montorio. L’ho vista con un seno prosperoso che non aveva mai avuto e, nonostante ci tenesse particolarmente alla linea, aveva un pancino rotondo che lasciava trapelare una gravidanza”. La compagna di cella: “Dopo che le hanno tolto il bimbo si è buttata giù” - Fu Annalisa a insistere per farle effettuare il test: “Dopo le analisi, ecco il verdetto: “sì, sei incinta!”. Dona era felice ma allo stesso tempo spaventata... finché arriva la sospensione della pena. Il giorno in cui è stata scarcerata - la descrive Annalisa - Dona era raggiante, bella più che mai. Ma qualcosa poi è andato storto, in poco tempo si è ritrovata di nuovo per strada e con le sostanze a farla da padrone, comunque lei non ha mollato, ha combattuto e quando le si sono rotte le acque si sono attivati, hanno chiamato l’ambulanza, lei è arrivata in ospedale e ha partorito un bel bambino che ha chiamato Adam...”. Donatella “voleva quel piccolo e ha cercato in tutti i modi di tenerlo andando in terapia, ma non è stato abbastanza, glielo hanno tolto e lei è precipitata di nuovo in un baratro ancora più profondo. Ha combinato delle stupidaggini - prosegue l’ex detenuta - che l’hanno riportata a Montorio...È arrivata in cella distrutta, disperata con l’ennesimo fallimento a farle da zavorra sulle spalle, io la spronai, la consolai, le sono stata vicino, le urlavo in faccia che lei ce l’avrebbe fatta, che non si doveva abbattere... lei poi si riprese”. I tentativi per riavere il figlio e il baratro - Donatella “uscì dal carcere e dalla morsa che la stringeva. Da quel momento - spiega Annalisa - il suo obiettivo diventò uno solo: “devo riprendermi mio figlio”, ripeteva Dona. Ma la burocrazia non glielo permise e le venne comunicato che Adam sarebbe stato dato in adozione. Ecco, io credo che quello sia stato l’inizio della sua fine...”. Una rivelazione a cui il papà della 27enne suicida, Nevruz Hodo, annuisce affranto: “La nostra famiglia era vicina a Dona in ospedale, ci eravamo resi disponibili a tenerlo con noi finché lei si fosse ristabilita, ma il piccolo fu preso dai servizi sociali e nemmeno a noi fu permesso di fare nulla”. Uno strazio per tutti, un cordone ombelicale strappato, una separazione forzata che l’ha “gettata a terra”: Donatella “ha iniziato a morire in quel momento del 2014...”. Roma. Poliziotti sparano a ragazzo con problemi psichici durante Tso di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 28 agosto 2022 La denuncia del Garante dei detenuti: “Il padre è disperato”. La replica: “Ci ha aggredito con un coltello”. La vicenda risale al 6 agosto scorso quando in viale Anicio Gallo, all’Appio Claudio, un ragazzo italo-nigeriano di 31 anni, con gravi problemi psichici, ha dato in escandescenze costringendo i famigliari e alcuni vicini a chiamare il 112. La vicenda risale al 6 agosto scorso quando in viale Anicio Gallo, all’Appio Claudio, un ragazzo italo-nigeriano di 31 anni, con gravi problemi psichici, ha dato in escandescenze costringendo i famigliari e alcuni vicini a chiamare il 112 per fare intervenire una ambulanza del 118: alla vista del personale medico il ragazzo li ha aggrediti con un coltello come ha fatto poi con gli agenti di una voltante della polizia. A distanza di quasi un mese la garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, racconta su Facebook cosa è accaduto nei giorni successivi: “Questa mattina al reparto protetto del Pertini ho visitato J. Un ragazzo con problemi psichiatrici, in cura da molto tempo, incapace di intendere e volere e con un tutore (il papà). È proprio il padre alcuni giorni fa a chiamare un medico perché il figlio si trova di nuovo in stato di forte agitazione e non riesce a contenerlo. Il medico non riesce a fare la solita puntura e chiama a sua volta la polizia. I famigliari vengono fatti allontanare dalla casa ed il ragazzo rimane solo con infermiera dell’autoambulanza e polizia. Ad un certo punto si sentono spari. Il ragazzo esce da casa in barella ferito da proiettili (uno all’addome). Il Tso non è riuscito, il taser viene utilizzato (ma pare senza esito). Rimangono i colpi di arma da fuoco. Inspiegabili. Inauditi. Ad un ragazzo malato e già segnalato ai servizi”. All’epoca dei fatti, secondo la ricostruzione della Questura, il 31enne, Jemilu R., si è avventato contro un poliziotto cercando di accoltellarlo strappandogli il giubbotto antiproiettile. A quel punto gli agenti hanno utilizzato il taser per fermare il giovane che nonostante la pistola elettrica ha continuato ad aggredire gli agenti, uno dei quali, alla fine, ha sparato alle gambe del ragazzo con l’arma di ordinanza. Da quanto emerso quella sera però, sebbene ferito, il 31enne ha continuato a scagliarsi sugli agenti al punto che un altro poliziotto ha nuovamente aperto il fuoco, colpendo il ragazzo alla spalla. Ora, continua la garante Stramaccioni, “il ragazzo è al Pertini in attesa di essere trasferito a Regina Coeli con l’accusa di tentato omicidio. Saranno le indagini a definire le dinamiche della vicenda. Non mi permetto di trarre conclusioni affrettate. So solo che il ragazzo deve essere curato. Il padre è disperato. Ha chiamato un medico per assistere il figlio e se lo ritrova ferito in ospedale in attesa di entrare in carcere”. Dopo essere stato ferito il ragazzo è stato trasportato in ambulanza in codice rosso, non in pericolo di vita, al Policlinico Casilino, così come i due poliziotti rimasti feriti. Le indagini sull’episodio sono ancora in corso, anche quelle sulla regolarità dell’operato dei due agenti che hanno aperto il fuoco. Il Terzo settore dopo il Covid: il non profit resiste e investe. Ma fa ancora fatica di Giulio Sensi Corriere della Sera, 28 agosto 2022 Il rapporto post pandemia dell’Osservatorio di Banca Etica su 2.000 realtà. Tiene l’occupazione però la crescita è ancora lenta. Tra i punti critici la scarsa collaborazione con il sistema pubblico e la finanza. I bilanci reggono e stanno tornando ai livelli pre-pandemia, nessuno è stato licenziato, l’occupazione tiene anche se la crescita è lenta: è una fotografia rassicurante, seppur con qualche criticità, quella dell’Osservatorio di Banca Etica contenuta nel rapporto “Il Terzo settore dopo la pandemia”. La ricerca, condotta in sinergia con Forum del Terzo settore, Associazione delle Ong italiane, Federsolidarietà, Legacoop Sociali, Tavolo dei soci di riferimento di Banca Etica, Fondazione con il Sud, Aiccon, Isnet, Euricse e Terzjus, ha indagato le dinamiche economiche, finanziare e organizzative di un mondo che impiega più di 860.000 dipendenti e si tiene in piedi grazie anche ai 5,5 milioni di volontari attivi. “Ci ha sorpreso - spiega uno dei curatori della ricerca, Giulio Marcon - la flessibilità e la capacità di adattamento che l’intero Terzo settore ha avuto in tutte le fasi della pandemia. Una vera e propria resilienza molto più accentuata rispetto al mondo delle imprese profit. Le perdite ci sono state, ma limitate grazie anche alla cassa integrazione, e pochissimi hanno interrotto le attività. È un mondo - aggiunge Marcon - fortemente polarizzato in poche organizzazioni molto strutturate e professionalizzate che creano reddito e una galassia di piccole realtà che vivono più di volontariato e si occupano di temi non redditizi”. Il lavoro - L’indicatore rilevante è quello legato al lavoro: nonostante i numeri più contenuti rispetto al profit, decisivo è stato il contributo del Terzo settore nella crescita dell’occupazione nello scorso decennio e il trend non accenna a diminuire. “L’aumento del numero dei lavoratori - spiega Tommaso Rondinella, altro curatore dell’indagine - è stato molto più forte di quella del sistema. Questo dà la misura della vivacità, dinamicità e capacità di ripresa del Terzo settore stesso e di quanto svolga un ruolo di sostegno non solo in termini di servizi, ma anche nell’inclusione lavorativa”. Dati positivi, che non nascondono però la fatica vissuta in particolare in questi anni e che si nota anche con l’analisi dei flussi creditizi. “L’accelerazione vissuta dalle imprese profit - spiega Rondinella - non ha riguardato il Terzo settore. Siamo di fronte a una ripresa che c’è, ma è ritardata e ancora non si vede l’inversione di tendenza, solo una lieve scossa nel 2021. Ciò è dovuto principalmente a un limitato beneficio dei contributi pubblici che invece con i bonus governativi hanno interessato l’economia”. La fatica si nota anche guardando ai dati di Banca d’Italia sugli impieghi bancari. Per il Terzo settore l’accesso al credito e agli altri strumenti finanziari è ancora un percorso ad ostacoli: livelli spesso ridotti di patrimonializzazione, garanzie richieste troppo onerose, procedure eccessivamente complesse per accedere a nuove risorse, competenze interne talvolta insufficienti a gestire i processi, sono i fattori che spiegano l’ancora molto bassa percentuale di enti che godono di affidamenti bancari. Ma la fiducia nel futuro resta alta. L’indagine ha interpellato un universo di 2.000 realtà non profit clienti di Banca Etica, la prima istituzione finanziaria etica nata in Italia nel 1999. Emerge un quadro ottimistico rispetto alle previsioni per il futuro, in particolare sulla occupazione e la raccolta fondi: circa metà intravede una situazione di stabilità e quasi un terzo ritiene che possano migliorare sensibilmente. Critico il nodo sulla collaborazione con il pubblico: anche se una quota consistente (quasi il 30%) di risorse per il non profit proviene proprio dal pubblico, la qualità della collaborazione è giudicata appena sufficiente. “Punti critici - spiega Rondinella - sono in particolare l’inadeguatezza della pubblica amministrazione a supportare il Terzo settore nello sforzo di rispondere ai bisogni sociali, l’eccessiva burocratizzazione, i tempi lunghi di realizzazione dei progetti, l’approccio ancora inadeguato alla co-progettazione dei servizi e la scarsa programmazione”. Norme ostili - I fondi del Pnrr e le risorse per la transizione ecologica potrebbero dare una spinta alla crescita, ma la speranza arriva dalla capacità del Terzo settore di accogliere le sfide. “Serve una visione comune, - commenta la presidente di Banca Etica Anna Fasano - un’idea condivisa di società che ancora manca. I numeri dicono che le potenzialità ci sono, ma sia il pubblico a tutti i livelli sia il mondo della finanza possono e devono fare di più. La normativa bancaria, ad esempio, non tiene conto dei soggetti piccoli e medi, della biodiversità tipica del Terzo settore, tutti devono rispondere agli stessi requisiti. Il merito creditizio non dipende però solo dai numeri, ma deve tenere conto anche di altri fattori come le reti e le relazioni. Si rischia di alimentare sempre le stesse organizzazioni meritevoli, rinunciando a creare spazio per l’innovazione. Lavorare per migliorare l’integrazione fra pubblico e privato e cogliere le opportunità della transizione ecologica e digitale: da questo dobbiamo ripartire”. Una campagna elettorale senza la vita delle persone di Massimo Giannini La Stampa, 28 agosto 2022 Fateci caso: siamo ormai a ventotto giorni dal voto, e in questa mediocre campagna elettorale, in modo doloroso e quasi scandaloso, manca la vita. La vita quotidiana. La politica parla di temi generali, buttati nel tritacarne mediatico senza un pensiero. Non parla di persone. Non parla alle persone, quelle in carne ed ossa. Dal discorso pubblico manca il Paese Italia, più che la nazione italiana. Manca una riflessione vera sui bisogni, sulle cose minute, i comportamenti, i caratteri, i tic, le consuetudini della nostra società. Manca la conoscenza e soprattutto l’esperienza delle condizioni materiali in cui vivono le donne e gli uomini, i vecchi e i giovani. Molto più che l’analisi dei sondaggi, utili solo a costruire a tavolino proiezioni pseudo-ideologiche in un tempo in cui si celebra la morte delle ideologie. Mi scuserete se torno a Gramsci: i politici contemporanei ignorano la “folla”, in quanto è composta di singoli, non in quanto è popolo, idolo delle democrazie. “Amano l’idolo, fanno soffrire il singolo individuo… Non sanno rappresentarsi il dolore degli altri”. Ora i partiti hanno scoperto l’emergenza del gas e il suo impatto sui bilanci delle famiglie e delle imprese, che ora è pesante e in autunno sarà devastante. Benvenuti nel mondo reale. Sarebbe stato un delitto chiudere gli occhi persino di fronte a un caro bollette del 340 per cento in un anno, e a un milione di nuclei familiari che rischiano di diventare morosi “per necessità”. Certo, poi ci tocca pure ascoltare le giaculatorie pelose di qualche reprobo che, dopo averlo affossato con un voto di non-fiducia, adesso corre a pregare in ginocchio San Mario Draghi perché faccia subito il miracolo, tirando fuori un’altra trentina di miliardi di aiuti naturalmente in deficit. Ma questo fa parte della cinica ipocrisia di chi spera di vincere le elezioni del 25 settembre senza dover pagare dazio alla crisi energetica, e per questo pretende dal premier uscente che sia proprio lui a fare il lavoro sporco prima di accomodarsi alla porta. A prescindere dal prezzo folle del gas e dal costo del ricatto criminale di Putin all’Europa, per il resto si ha la mesta sensazione che la politica pensi il Paese, ma che non lo senta. Il riflesso di questa distanza, come abbiamo visto sono le liste elettorali: candidature piovute dall’alto, senza alcun legame con i territori, con le realtà sociali e locali, con la cittadinanza. Nomenklature che ormai riproducono quasi solo se stesse. “Siamo partiti, è normale che sia così”, obiettano i più. Ma pensiamoci un momento. Cosa sono, oggi, le correnti? Nei grandi partiti di massa della Prima Repubblica, ovviamente, di correnti ce n’erano tante. Si chiamavano così perché nascevano, dal basso, come “correnti di pensiero”. Nella vecchia Dc ci furono i dossettiani come Lazzati e La Pira, che incarnavano una concezione cristiana integrale della società. Iniziativa Democratica di Fanfani, che alla fine degli anni ‘50 premeva per un’apertura al Psi. I Dorotei di Rumor e Taviani, che in nome della Chiesa chiedevano l’opposto. Forze Nuove di Donat Cattin e Pastore, in cui si riconosceva il mondo del lavoro e il sindacato. I Morotei che invocavano il compromesso storico e l’Alleanza Popolare di Gava, Piccoli e Forlani che voleva il ritorno al grande centro cattolico. Persino nel Pci, dove vigeva il centralismo democratico, c’erano i Miglioristi di Napolitano, Chiaromonte e Macaluso, più inclini alle istanze moderniste e filo-occidentali, e gli Ingraiani come Magri, Pintor e Rossanda, più vicini al movimento studentesco, al femminismo, all’ambientalismo. Ad ognuna di queste formazioni corrispondevano ispirazioni e aspirazioni differenti, anche se coerenti con il partito di appartenenza. Dov’è il “pensiero”, nelle correnti di oggi? Cosa rappresentano, sul piano ideale e culturale? Nulla. Sono solo incarichi, funzioni e quote di potere da spartire. Ma lo specchio ancora più impietoso di questo abisso tra elettori ed eletti è l’inchiesta che il nostro giornale sta conducendo in alcuni luoghi-simbolo della Penisola. Dai bagni lussuosi del Twiga alle spiagge dolenti di Lampedusa, dai cantieri navali di Monfalcone alla grande ex fabbrica fordista di Mirafiori. Nella globalizzazione e nella frammentazione del nostro tempo liquido, è ormai chiaramente impossibile parlare di “classi sociali”. Ne restano giusto frammenti, ormai quasi privi di coscienza e destino. Nella migliore delle ipotesi, viene fuori una società disincantata, stanca di grancasse e promesse, che non crede più a niente e non vota nessuno. Nella peggiore, emerge un’umanità tradita, che credeva nel riscatto e chiedeva protezione, e non avendola avuta oggi è pronta a votare “per disperazione”. Come scrive Giovanni Orsina: li hanno provati tutti, e tutti hanno fallito, a questo punto tanto vale che proviamo anche Meloni e vediamo come va. In questo, bisogna ammetterlo, la destra ha un vantaggio sulla sinistra. Lo ha sempre avuto, nella Seconda Repubblica, a parte la parentesi felice dell’Ulivo di Prodi. È il vantaggio di chi parla al popolo condividendone non solo le virtù, ma anche i vizi, i difetti, le debolezze. Senza alcuna pretesa di elitismo pedagogico o di narcisismo etico. Anche stavolta, nel disordine mondiale causato dalla guerra e dalla pandemia, nell’esplosione delle marginalità e delle disuguaglianze, la destra sembra più capace di sfruttare a proprio vantaggio quella che Franco Cassano, in un saggio illuminante di qualche anno fa, ha definito “l’umiltà del male”. Chi da progressista ha a cuore la prospettiva dell’emancipazione deve imparare a fare i conti con la fragilità che caratterizza l’essere umano, non limitarsi a guardarla dall’alto. Chi, come il Grande Inquisitore, si sente sempre mosso da un sentimento di superiorità morale, finisce per lasciare la debolezza degli uomini nelle mani del nemico. Il messaggio onirico e proto-populista di Berlusconi, dal ‘94 in poi, fu semplice: io sono un miliardario, ma se mi seguite, costituzionalizzando i miei difetti che sono anche i vostri, l’evasione fiscale e la torsione delle regole, la bella vita e le belle donne, voi potete diventare come me. Il messaggio di Salvini, tra il 2013 e il 2019, fu ancora più esplicito, a partire dalle felpe, la cioccolata sui social e i rosari nei comizi, fino ad arrivare al ballo sfrenato del Papeete tra cubiste e mojito: io sono come voi, faccio le stesse cose, ho le stesse paure (e ve le curerò con altrettante paure). Quella di Meloni, adesso, chiude il cerchio: la canzone “Coatto antico” dei giovani universitari fascisti e il romanesco della Garbatella, il “look like Prada” nei negozi a buon mercato e persino la foto con la mamma “obesa”, che a qualcuno fa storcere il naso ma che a noi consegna un messaggio ancora più definitivo: io sono una di voi. Sono una donna del popolo, come la mia famiglia, non me ne vergogno ma ne sono orgogliosa. È populista? Non c’è alcun dubbio. Ma è anche popolana, e dunque popolare. Per di più è donna, la prima donna nella Storia d’Italia che può diventare premier. E come si chiede Concita De Gregorio, “perché proprio la destra maschilista e misogina esprime l’unica candidata con potenziale di successo?” Probabilmente è troppo tardi per invertire le tendenze elettorali. E questa destra che si pretende “di governo” preoccupa, per le derive nostalgiche e a-costituzionali, per la politica estera ambigua, per l’antieuropeismo di fondo delle scelte degli ultimi tre anni, per le incognite della sgangherata dottrina economica, per la visione orbaniana del “conservatorismo” che dichiara di voler perseguire. Ma la sinistra qualche domanda deve pur farsela. La sinistra che ha smesso di frequentare i luoghi del disagio, che non parla più ai giovani, e che lascia che a farlo sia un ex banchiere centrale dal palco ciellino di Rimini. La sinistra che non può farcela solo agitando l’Agenda Draghi e sventolando le bandiere identitarie dei diritti civili. La sinistra che giustamente ragiona di complessità e competenza, ma che troppo spesso finisce per rivolgersi solo alla “massa colta”. La sinistra inclusiva e identitaria che, come scrive Walter Siti sul “Domani”, ha rimosso i rapporti di forza. La sinistra che, tra decostruzionismo e tutela di tutte le minoranze, ha finito per lasciare alla destra un tema formidabile come la “tradizione”. Meloni e Salvini e Berlusconi la declinano nel modo peggiore. Ma di certi temi di fondo bisognerà pure discutere, come scrive Siti, senza demonizzare che cosa fa di una famiglia una famiglia, chi è uomo e chi è donna secondo la società, che rapporto ci deve essere tra sfruttati e sfruttatori, per che cosa vale la pena di disubbidire alle leggi, come si affronta la crisi demografica, quali sono i vantaggi e gli svantaggi del ‘melting pot’, che significato ha l’atlantismo nei nuovi equilibri geo-politici. Domande di vitale importanza, appunto, per le persone in carne ed ossa. E non per colpa di Enrico Letta, che per serietà onestà e credibilità è davvero il meglio che il Pd può offrire, ma ormai non c’è più tempo per le risposte. Dobbiamo scegliere tra pancetta e guanciale. De Rita: “I politici sono prigionieri dei social, non mobilitano più. L’astensionismo crescerà” di Stefano Cappellini La Repubblica, 28 agosto 2022 L’ex presidente del Censis: L’elettore italiano si muove per ondate emotive, ideologiche o politiche che coincidono coi picchi di partecipazione Stavolta non ci sono”. E aggiunge: La campagna elettorale è una lite quotidiana su chi offre più tutele ai cittadini. Manca la capacità di andare oltre”. Professor Giuseppe De Rita, lei andrà a votare? “Certo, mai saltato un voto. Lo considero un dovere morale, disapprovo la logica del me ne frego o del tanto sono tutti uguali”. Ha deciso anche per chi voterà? “Sì, non sono solito decidere negli ultimi giorni, ma non ho mai dichiarato il voto e non comincerò ora”. Quelli come lei, votanti e con le idee chiare, stanno diventando una minoranza nel Paese. “Lo so bene. Aumentano la disaffezione per la politica e la poca curiosità. Penso che i sondaggisti vedano giusto quando dicono che la tendenza all’astensionismo proseguirà anche stavolta”. Perché c’è sempre meno voglia di votare? “Intanto c’è una specificità italiana. Molto più degli altri Paesi occidentali noi siamo sempre andati per ondate. Ondate emotive, ideologiche, politiche. Abbiamo avuto dei picchi di partecipazione legati a queste ondate. A suo modo anche il picco ultimo dei grillini è stato un fenomeno simile, sebbene più spinto dall’antipolitica. Quando non ci sono le grandi ondate, diventa difficile portare le persone a votare. Per molti le elezioni non sono più il momento magico della verità”. Non vede nemmeno l’ondata meloniana? “Vedo l’accondiscendenza. Siccome c’è, vada pure avanti. Nella ronda della politica italiana forse è il suo turno, ma non percepisco entusiasmo per Meloni”. Da anni ci si interroga sulle ragioni dell’astensionismo crescente. Pensa che sia scadente l’offerta politica, come è opinione dominante, o anche la domanda ha le sue colpe? “Credo che il più grande limite della politica italiana sia nella sua staticità. La nostra campagna elettorale è una litigata quotidiana su chi offre più tutele ai cittadini. Ti diamo questo, io ti do di più, allora io rilancio. Manca del tutto la capacità di andare oltre. Nell’America del Vietnam i cantanti dicevano we shall overcome, andare oltre. Nelle società dinamiche e moderne ai leader serve il coraggio di non limitarsi a tutelare ma esplorare, provare, rischiare. È come la differenza tra montanari e marinari. Per carità, intelligentissimi i montanari, ma la montagna che occlude la vista li porta solo a pensare a tenere in ordine il loro ambiente, chi sta sul mare ha un’altra prospettiva. Ecco, i nostri leader sono molto montanari. E poi sono invischiati nella pari merito”. In che senso? “Uno vale uno l’hanno teorizzato i grillini, ma è una realtà che esiste anche in altri partiti. Cosa è il Pd se non un invaso di gente a pari merito? Letta può essere il più colto, o il più esperto di politica internazionale, ma intorno a sé ha gente che di fatto sta nel gioco al pari suo. È sempre il tema dell’andare oltre, dell’uscire dalla mischia. Altrimenti i leader sono come giocatori di biliardo che tirano solo di rinterzo. Non diventeranno mai trascinatori di folla”. Berlusconi non è uno che ama il pari merito, ma non si può dire che abbia fatto bene in politica. “Uscire dal pari merito però è stata la sua fortuna, in questo era il gemello siamese di Craxi”. Altra questione irrisolta: è il discredito della politica a creare l’antipolitica o è l’antipolitica che corrode la democrazia? “Io sono abbastanza vecchio per ricordarmi quando nella Prima Repubblica c’è chi diceva basta con le ideologie, basta con i grandi partiti, servono i partiti d’opinione. La Malfa fu il primo. Era una proposta intrisa di cultura azionista, che puntava alla gestione dell’opinione pubblica. Purtroppo ci siamo arrivati eccome, alla cultura d’opinione, in una forma degradata. Guardi i social, i politici sono prigionieri dell’opinione, non la gestiscono. L’opinione infiamma, crea grandi scontri, pensi solo alla diatriba sui vaccini o sulla guerra, ma alla fine non mobilita. Perché l’opinione basta a sé stessa: mi leggo il giornale, mi guardo il talk, litigo su Twitter, e mi fermo là”. L’Italia è anche l’unico Paese dove il sistema dei partiti è stato picconato dall’alto, anche da un pezzo di establishment: i politici come “casta”... “Sì, è vero, c’è stata anche una campagna dall’alto. Ma anche in questo caso ha pesato la dittatura del pari merito nella quale diventa più facile attribuire la definizione di casta in pari misura al presidente del Consiglio, a quello della Camera come al consigliere comunale del paesello. Poi, quando nella politica arriva un uomo di casta, casta vera, come Mario Draghi, viene rifiutato. Perché è troppo fuori pari merito”. Quanto pesano le nostre sciagurate leggi elettorali sul non voto? “Tantissimo. Hanno fatto leggi che espropriano l’elettore della possibilità di scegliere i parlamentari. Qui c’è di mezzo un imbroglio, quello della governabilità. Quante volte ci siamo sentiti dire che serviva una legge elettorale che stabilisse la sera stessa delle elezioni chi doveva governare? La governabilità è stata una parola d’ordine generale e non mi stupisce perché è una tematica tipicamente d’opinione”. Per giunta, chi l’ha vista la governabilità? “Ma nessuno lo ammette, abbiamo avuto la religione del maggioritario. Hanno creato il terrore del proporzionale, presentandolo come il regno dell’inconcludenza, mentre invece è accaduto il contrario”. Non è la preferenza il modo migliore per ridare scelta suo parlamentari agli elettori? “Se lei mi chiede: vuoi la preferenza? Io rispondo sì. Ma ricordo anche il fenomeno dei voti comprati a pacchi”. Che succede all’Italia dal 26 settembre? “Non lo so, temo solo che non ci sia nessuno a indicare la strada, a guardare oltre, appunto”. Il dramma nascosto dei minori ucraini senza accompagnatori di Cecilia Ferrara e Angela Gennaro Il Domani, 28 agosto 2022 Molti Paesi che hanno accolto chi fuggiva dalla guerra non pubblicano dati sui minorenni arrivati senza genitori o tutori legali. Quelli provenienti dall’Ucraina, secondo l’ultimo report del ministero del Lavoro, rappresentano ancora oggi la maggioranza dei minori stranieri non accompagnati in arrivo in Italia. In Italia sono tremila dall’invasione del 24 febbraio: un popolo invisibile e senza tutele. Sei mesi fa Anastasia (il nome è di fantasia) era in visita dal padre a Chernihiv. La città ucraina al confine con la Bielorussia era già occupata dall’esercito russo quando è cominciata l’invasione del paese da parte di Mosca. La fuga è cominciata dopo due settimane trascorse in una cantina insieme a due altre famiglie. Anastasia, il padre, la sua compagna e due bambini sono scappati dalla zona occupata attraversando in fila indiana un ponte minato. Anastasia era la prima della fila: la mina su cui a un certo punto mette il piede non esplode solo per caso. “Si vede che doveva vivere”, dice la nonna, Angela, che vive in Italia da un anno. È lei che, allo scoppio della guerra, ha insistito per far arrivare la nipote qui. Anastasia ha 17 anni e frequenta l’ultimo anno delle superiori. La telefonata della nonna la raggiunge nel bel mezzo della fuga rocambolesca verso ovest, mentre si trova con la famiglia della compagna del padre, che nel frattempo è tornato a combattere a Chernihiv. Anche la madre di Anastasia è al fronte, nell’esercito che difende Kharkiv, a due passi dal confine con la Russia. “Vieni qui”, dice la nonna. Ed è così che, con un autobus da Leopoli, Anastasia arriva in un autogrill a sud di Roma. Un viaggio e un arrivo da invisibile. Nessuno si domanda e le domanda cosa ci facesse lì da sola. All’arrivo la nonna, positiva al Covid, manda una coppia di amici italiani a prendere la nipote. Alla stazione Termini, al presidio della Croce Rossa, Anastasia riceve subito il vaccino contro il coronavirus. Poi il passaggio in una stazione di polizia da cui le trovano una sistemazione in una casa famiglia per minori non accompagnati. Secondo l’Unhcr, sono almeno 6 milioni e 657mila (dato aggiornato al 17 agosto scorso) le persone fuggite dal paese: 3 milioni e 800mila di loro hanno chiesto uno status di protezione temporanea in Europa. A causa della legge marziale che impedisce agli uomini sopra i 18 anni di lasciare il paese, il 90 per cento delle persone rifugiate dall’Ucraina è costituito da donne e bambini. A volte si tratta anche di bambini e bambine che arrivano da soli. Con quali pericoli? Il collettivo di giornalisti europei Lost in Europe ha provato a capire qual è la risposta dei paesi dell’Unione europea. Dopo un mese di guerra, i minori fuggiti dall’Ucraina erano già un milione e mezzo: un dato che ha portato l’agenzia Onu per i rifugiati e l’Unicef a lanciare l’allarme: “Sappiamo che i conflitti aumentano la violenza di genere, il traffico di esseri umani, gli abusi, i traumi e le separazioni famigliari”, dicono dall’Unicef. “Il fatto che molti minori siano scappati da soli moltiplica questi rischi”. In particolare quello di cadere nelle reti di trafficanti. Lost in Europe ha presentato richieste di accesso agli atti per avere da 12 paesi di arrivo - Belgio, Croazia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Spagna, Svizzera, Regno Unito - i numeri dei minori stranieri non accompagnati provenienti dall’Ucraina nel primo mese di guerra, dal 24 febbraio al 31 marzo. Solo 4 paesi - Belgio, Repubblica Ceca, Francia e Italia - risultano aver registrato i minori non accompagnati in ingresso, suddivisi anche per età e genere. Altri tre paesi - Croazia, Slovacchia e Olanda - ne hanno registrato il solo numero, senza età e genere. Cinque paesi non registrano i minori o ritengono i dati richiesti confidenziali. Dal quadro che emerge sembra che tutti i minorenni provenienti dall’Ucraina arrivino in Italia: secondo il ministero del Lavoro, che gestisce il sistema informativo minori (Sim), dove rientrano anche tutti i minori stranieri non accompagnati, dal 24 febbraio al 31 marzo 2022 risultano registrati in Italia 2.995 minori ucraini non accompagnati: 1.510 sono ragazze e quasi il 70 per cento del totale (2.035) ha meno di 14 anni. L’Italia ha una commissaria ad hoc per i minori stranieri non accompagnati provenienti dall’Ucraina: si tratta della prefetta Francesca Ferrandino, a capo del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del ministero dell’Interno. Secondo il “Piano minori stranieri non accompagnati” della struttura commissariale del ministero dell’Interno, per il nostro paese è minore non accompagnato chiunque sotto i 18 anni entri in Italia senza i genitori. “I minori accompagnati da adulti diversi dai genitori, che si prendono cura della loro assistenza ma non sono riconosciuti formalmente come tutori secondo la legge italiana, rientrano nella definizione di “minori stranieri non accompagnati”“, si legge. Quindi anche i minori accompagnati magari dalla zia, la nonna, l’amica di famiglia. Quasi 3mila minorenni dal 24 febbraio al 31 marzo, di cui la maggior parte risulta ospitata in famiglia (2707): gli altri 288 si trovano oggi in strutture. Presumibilmente senza famiglia, anche se non necessariamente, come racconta la storia di Anastasia. È il rovescio della medaglia dell’efficienza italiana. Anche Anastasia teoricamente avrebbe avuto una casa dove stare: dalla nonna. “Dopo essere guarita dal Covid, volevo portarla a casa”, racconta Angela. “Burocraticamente però era troppo complesso e faticoso. E visto che Anastasia compie 18 anni a ottobre e si trova bene, abbiamo deciso che conviene aspettare”. D’altro canto, se gli amici di nonna Angela che sono andati a prendere Anastasia all’arrivo non l’avessero portata dalla polizia, nessuno avrebbe saputo della presenza di una minorenne senza genitori in territorio italiano. Quelli provenienti dall’Ucraina, secondo l’ultimo report del ministero del Lavoro, rappresentano ancora oggi la maggioranza dei minori stranieri non accompagnati in arrivo in Italia: il totale dei nuovi ingressi, tra sbarchi e ritrovamenti sul territorio, è di 1800 minori a giugno. 422 di loro, ovvero il 23,4 per cento, vengono dall’Ucraina. Al 30 giugno, dei 15.595 minori non accompagnati presenti nel nostro paese, 5.392 (34,6 per cento) sono ucraini. Save the Children si è attivata per fare fronte alla crisi ucraina: inizialmente con un camper a Fernetti, Trieste, a due passi dal confine con la Slovenia e principale punto di ingresso degli ucraini. Poi, con Unhcr, con un container sia a Fernetti che a Tarvisio, altro valico molto frequentato. Con i cosiddetti “Blue Dots”, punti di accoglienza per donne e minori. “Il numero dei minori soli è comunque molto residuale”, prosegue Gargaglia. “Sono in genere adolescenti, sia maschi che femmine, che arrivano in Italia per ricongiungersi con i parenti o addirittura con i genitori”. Una volta intercettati dalla polizia di frontiera, dopo un colloquio in presenza di operatori esperti di protezione dei minori, viene fatta una segnalazione alla procura del tribunale dei minorenni. Che a quel punto può disporre per il minore la possibilità di proseguire il viaggio, in affido temporaneo all’autista o a un altro adulto, oppure può decidere che il minore aspetti lì sul posto che i parenti vadano a prenderlo. “L’identificazione è cruciale”, sottolineano da Save The Children. “Perché in crisi umanitarie di questo tipo il rischio di essere separati dalle famiglie, perdersi e finire nelle maglie dei trafficanti è enorme”. Il rischio che corrono “è lo sfruttamento lavorativo o sessuale. Però in Italia non ci risultano casi di minori ucraini spariti”, dice. “Nonostante sia necessario mantenere alta l’allerta, non abbiamo registrato uno specifico fenomeno criminale”. Il Paese più colpito dai flussi, la Polonia, non ha dati sui minori ucraini. La giornalista polacca di Lost in Europe, Anastasiia Morozova, ha intervistato ragazzi ucraini in fuga da Kiev. “Una guardia di frontiera mi ha portato in una stanza e mi ha detto che i minorenni non potevano viaggiare da soli in Polonia”, racconta un sedicenne di nome Ihor. ““Aspetta qui e verrai portato in un posto per rifugiati dove avrai da mangiare, dormire e ti verrà assegnato un tutore”, mi ha detto”. Ihor però decide di andarsene via da solo. Scrive un post su Facebook per cercare un tutore e lo trova in un giorno. “Mi sembrava che quelli, alla frontiera, non mi stessero affatto cercando un tutore”, dice. Alina invece, 17 anni, lascia l’Ucraina il 27 febbraio. “Mia mamma e io pensavamo che non sarei riuscita ad andare in Polonia da sola. Quando ero sul bus l’ho fatta parlare al telefono con la donna seduta accanto a me, che ha accettato di scrivere un fogliettino in cui diceva che ero con lei”. L’Unhcr conferma la mancanza di controlli e sistemi di registrazione alle frontiere in molti paesi europei. Anche l’Unicef sottolinea la necessità di screening sui minori separati dalle famiglie. Il ministero polacco della Famiglia aveva annunciato a fine marzo l’introduzione di un registro on line dei minori non accompagnati in arrivo dall’Ucraina. Alla richiesta del collettivo di Lost in Europe di condividere quei dati, non è però a oggi arrivata alcuna risposta. Nel resto d’Europa non mancano le ombre. “Senza dati è impossibile mettere in piedi un buon sistema di protezione”, spiega Jagoda Luto, della ong Missing Children Europe. “Tutti i minori si meritano di essere seguiti fino a che il loro caso non è risolto. Non possiamo proteggere i bambini che non vediamo”. Egitto. Due detenuti egiziani morti in custodia, rivolta in carcere di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 agosto 2022 Nel fine settimana la protesta nella prigione di Gamassa si è trasformata in pestaggi e trasferimenti. A scatenarla il decesso per torture di due prigionieri. Una rivolta in carcere dopo la morte di due detenuti e la dura repressione delle autorità carcerarie: la denuncia, martedì, è stata mossa da Enhr (Egyptian Network for Humanr Rights) e ha riacceso la luce sulla prigione di massima sicurezza di Gamassa, a ovest della città costiera di Damietta, tra Alessandria e Port Said. Decine di prigionieri sarebbero stati picchiati e una ventina di loro trasferiti in un altro carcere dopo una rivolta scoppiata lo scorso fine settimane. Nelle celle sono stati accesi dei fuochi, la reazione delle guardie carcerarie è stata il pestaggio. A provocare la protesta sarebbe stata la morte di due prigionieri. Enhr riporta l’identità di uno di loro, il 22enne Mohammed Saad al-Komi, condannato all’ergastolo per l’omicidio di un uomo in un resort di Sharm el-Sheikh. Non è dato sapere l’effettiva data della morte, la famiglia ne è venuta a conoscenza solo il 20 agosto scorso durante una visita alla prigione. In entrambi i casi, denuncia l’organizzazione egiziana, i due detenuti sarebbero morti per le torture subite. Nega tutto il ministero degli interni: nessun decesso a Gamassa. E a conferma porta il rapporto dell’autopsia di al-Komi, redatto dall’ospedale di Mansoura, che però dice ben poco: grave diminuzione della circolazione sanguigna. Le prigioni egiziane restano luogo infernale. I pochi dati a disposizione sono spaventosi, e molto probabilmente al ribasso. Gli ultimi sono stati forniti dal Nadeem Centre, storica associazione egiziana sottoposta a innumerevoli chiusure: nei primi undici mesi del 2021 sono stati documentati almeno 93 casi di torture in custodia e 54 decessi. La prigione di Gamassa non fa eccezione. Lo scorso dicembre l’Enhr aveva raccolto le segnalazioni di diverse famiglie di detenuti nel carcere di Damietta: ostacoli alle visite familiari (brevissime, appena dieci minuti, in sale affollate e divisi da filo spinato), carenza di cibo, medicinali, vestiti e prodotti per l’igiene. A subire le restrizioni maggiori, scriveva Enhr, sono soprattutto i prigionieri politici che non sono autorizzati a ricevere nulla dall’esterno. In un articolo del 2020, l’Arabic Network for Human Rights, aveva “ricostruito” la prigione di massima sicurezza di Gamassa: costruzione iniziata nel 2010 sotto Mubarak, era stata conclusa nell’estate 2013, dopo il golpe di al-Sisi per “accogliere” i sostenitori islamisti arrestati durante il massacro di piazza Rabaa. Con i suoi 42mila metri quadri di ampiezza, è destinata a prigionieri condannati all’ergastolo e detenuti politici, divisi in 384 celle maschili e 144 femminili (per una media di 25-30 persone per cella). Da anni le famiglie denunciano le pessime condizioni di vita: sovraffollamento; mescolanza di detenuti criminali, islamisti radicali e attivisti di sinistra; negligenza medica e torture. Egitto. Alaa inasprisce il digiuno, Il Cairo le condizioni in cella di Gianluca Diana Il Manifesto, 28 agosto 2022 150 giorni di sciopero della fame per l’attivista Abdel Fattah che ora elimina l’ultimo alimento solido. L’autorità carceraria gli vieta libri, carta e penna. Intanto il suo caso arriva alla Camera dei Comuni grazie alla mobilitazione delle sorelle. Assumono un contorno sempre più drammatico le condizioni di salute dell’attivista e scrittore egiziano Alaa Abd-el Fattah. Il dissidente condannato alla detenzione fino al gennaio 2027 con l’accusa di “diffusione di notizie false che ledono gli interessi del Paese”, è dallo scorso due aprile in sciopero della fame: 150 giorni. In una recente visita dei suoi familiari avvenuta il 16 agosto, Alaa ha comunicato alla sorella Sanaa Seif e alla madre Ahdaf Soueif di voler inasprire ancor più la protesta togliendo l’ultimo alimento solido rimasto nella sua alimentazione, riducendo in tal modo l’apporto energetico quotidiano al momento stimabile attorno alle cento calorie, garantite dall’assunzione di cibi liquidi e semiliquidi come latte e miele. Alaa ha informato i familiari che è determinato ad arrivare a uno sciopero della fame completo che preveda unicamente l’assunzione di acqua e sali minerali necessari all’idratazione. Come riportato da Sanaa, nonostante il palese deperimento organico, il fratello mantiene una netta determinazione nella prosecuzione del percorso intrapreso, come dimostrano le sue richieste riguardanti non solo la propria vicenda personale, ma anche quelle degli altri detenuti politici nelle carceri egiziane. Nel frattempo, le modalità vessatorie nei confronti di Alaa proseguono. Nonostante inizio maggio sia stato trasferito dal carcere di Tora Maximum Security 2 a quello di Wadi al-Natrun, non gli è permesso avere accesso a nessun canale informativo, non può avere con sé giornali, libri e neanche carta e penna. Inutili in tal senso sono stati i tentativi della famiglia di poterglieli fornire, tutti prontamente rifiutati dall’istituzione carceraria. Determinante è invece l’esito dell’impegno profuso dalle sorelle Sanaa e Mona e da Ahdaf Soueif: grazie alla loro presenza nelle reti sociali e all’incrollabile dedizione nel ricercare giustizia per Alaa, sono riuscite a portarne la storia all’attenzione della comunità internazionale. Il suo valore intellettuale e politico e l’ingiustizia a cui è sottoposto dal governo condotto da al-Sisi, si è materializzato a giugno nella Camera dei Comuni grazie a Liz Truss, ministra degli Esteri britannica. Eventualità possibile perché l’intero nucleo familiare gode sia della cittadinanza egiziana che di quella inglese. La mobilitazione in favore di Alaa mette insieme livelli di partecipazione, attivismo e opportunità politiche difformi e rilevanti. Oltre alle dimostrazioni di vario genere in suo favore che si registrano negli ultimi mesi in Inghilterra, Germania e Italia, alla presa di posizione pluriennale di Amnesty International e a eventi culturali di caratura planetaria come l’Edinburgh Book Festival, anche un appuntamento governativo globale come la COP27 ne subisce i riflessi. La prossima conferenza sui cambiamenti climatici che si terrà tra il 6 e il 18 novembre a Sharm El Sheikh vede già la forte protesta interna delle ong egiziane escluse, che vedono così sfumare l’occasione di mettere in luce le contraddizioni del governo in materia sia di diritti ambientali che civili, in primis con la esemplare vicenda di Alaa. La cui doppia cittadinanza, mai come in tale occasione, rischierebbe di essere un boomerang per la politica interna liberticida di al-Sisi, come sottolinea Paola Caridi, esperta di mondo arabo e co-fondatrice di Lettera 22: “Un passaporto considerato “forte”, e cioè occidentale, ha significato nel passato una capacità di pressione più rilevante su regimi che hanno un record negativo sui diritti umani, limitandone i comportamenti repressivi. E in caso di un negoziato serrato, anche la liberazione di persone detenute”. “Il peso politico di Alaa all’interno dell’Egitto è, però, un ostacolo fortissimo - continua Caridi - Rappresenta, suo malgrado, il simbolo del prigioniero politico e, allo stesso tempo, l’icona di un’opposizione credibile, laica, solida. Bisogna chiedersi, dunque, se il regime autocratico di al-Sisi ha così paura della sua figura da temerla persino in esilio. Il passaporto britannico di Alaa consentirebbe di liberarlo a condizione di accettare un esilio nel Regno unito”. Giappone. La crudeltà dell’isolamento prima dell’impiccagione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 agosto 2022 La Federazione internazionale dei diritti umani e il Centro per i diritti dei prigionieri hanno reso pubblica una ricerca sull’uso dell’isolamento carcerario e della videosorveglianza ai danni dei condannati a morte in attesa dell’esecuzione in Giappone, attualmente 107. Le ricerche si sono concentrate nel braccio della morte della capitale Tokio, in cui si trova quasi la metà delle persone condannate alla pena capitale. I detenuti sono confinati in celle di poco più di cinque metri quadrati, sorvegliati 24 ore al giorno da una telecamera appesa al soffitto che riprende ogni loro azione compreso l’uso del gabinetto. Lo stesso vale per le detenute in attesa di esecuzione. Dei cinque condannati a morte intervistati dal Centro per i diritti dei prigionieri, quattro si trovano in tali condizioni da un minimo di tre a un massimo di 15 anni. Il quinto è stato trasferito dopo 14 anni in una cella d’isolamento priva di telecamera. L’uso dell’isolamento carcerario e la costante sorveglianza dei detenuti in attesa dell’esecuzione sono del tutto contrari ai trattati internazionali - come il Patto internazionale sui diritti civili e politici e la Convenzione contro la tortura - che il Giappone sarebbe tenuto a rispettare. Peraltro, la sorveglianza non è neanche prevista dalla normativa interna. La Legge sulle prigioni del 2005 prevede solo (e già non è poco) che i condannati a morte siano posti in isolamento senza alcun contatto con altri prigionieri. Così, ogni istituto di pena dove si trovano persone in attesa dell’impiccagione si è dato i propri regolamenti interni: la premessa comune è che si tratta di “prigionieri che richiedono particolare attenzione”. Detto in termini più semplici, occorre controllare che non si suicidino. Ucciderli spetta allo stato. Vescovo arrestato, in Nicaragua “è come ai tempi di Somoza” di Gianni Beretta Il Manifesto, 28 agosto 2022 Scontro Ortega-Chiesa. Duro comunicato della diocesi amministrata da monsignor Alvarez. E c’è chi critica il papa, che pur esprimendo “dolore” per la situazione nicaraguense non cita il prelato: troppo tardi e troppo poco. Dopo il clamoroso arresto in Nicaragua del vescovo Rolando Alvarez di Matagalpa il clero della diocesi di Estelì, Madriz e Nueva Segovia (di cui il prelato è amministratore apostolico) ha emesso un durissimo comunicato contro il governo di Daniel Ortega, in cui si paragona la polizia alla “Guardia Nacional dei tempi di Somoza, costretta a compiere violazioni dei diritti umani sulla popolazione indifesa”. Nel testo si fa pure riferimento con sollievo alle parole di “preoccupazione e dolore” espresse durante l’Angelus domenica scorsa da papa Francesco “per la sofferenza della chiesa nicaraguense”. Tuttavia alcuni dei detrattori di Bergoglio, che gli rimproveravano il prolungato silenzio su una persecuzione che viene da lontano, considerano ancora fin troppo cauto il suo messaggio, che non ha menzionato il fermo del prelato e soprattutto auspica “un dialogo aperto e sincero per una convivenza rispettosa e pacifica”. C’è chi ricorda al Pontefice di aver affermato tempo addietro che “con il diavolo non si dialoga …”. In questo caso satana sarebbe impersonato dallo stesso Ortega e soprattutto dalla sua vice nonché consorte, Rosario Murillo, che in Nicaragua qualcuno chiama “la papessa”: un’integralista che porta alle dita almeno una trentina di anelli, ciascuno contro un malocchio differente; e che quando il “fu” comandante guerrillero tornò alla presidenza nel 2007 introdusse per la prima volta nel paese una legge che proibiva l’aborto, compresi i casi di violazione e pericolo di vita della gestante. Oltre a farsi risposare con Ortega nella cattedrale dal cardinale Obando y Bravo per ingraziarsi i favori dell’allora arcivescovo di Managua, che era stato il più feroce nemico interno durante la rivoluzione sandinista. Di tono ben più netto sono state invece le condanne giunte da vari episcopati latinoamericani ed europei, compresa la “solidarietà” espressa dal presidente dei vescovi italiani cardinale Matteo Zuppi, che ha parlato di “atto gravissimo contro la libertà di culto e di opinione”. Intanto Monsignor Alvarez è confinato agli arresti domiciliari nella casa dei suoi genitori a Managua (dove ha potuto ricevere la visita dall’attuale arcivescovo metropolitano cardinale Leopoldo Brenes). Espostosi dal pulpito fin dalla rivolta popolare del 2018 a protezione dei giovani ribelli e in difesa delle libertà democratiche, oltre che di quella religiosa, Alvarez resiste all’esilio forzato quale mediazione offerta dalla coppia presidenziale. Mentre gli altri otto suoi collaboratori sono stati tradotti direttamente nel carcere capitalino del Nuevo Chipote. Un bel dilemma per la Conferenza episcopale nicaraguense, assai prudente fin dall’inizio della crisi; ma anche in occasione della cacciata del nunzio apostolico, della recente espulsione delle suore di madre Teresa di Calcutta e della chiusura di una decina di radio cattoliche. Il problema è che il fronte ecclesiastico è diviso dopo che uno dei vescovi, monsignor René Sándigo di Leòn e Chinandega, chissà se per qualche inconfessabile ricatto, si è apertamente schierato col governo. Il che può spiegare i timidissimi toni delle prese di distanza dell’episcopato (e del papa) dal regime; che il presule dissidente ha comunque sempre sottoscritto. Regime che a sua volta, per eccessiva esposizione, comincia a registrare malesseri tra le sue fila. Con Ortega relegato ai margini per la sua malferma salute; e l’esoterica tuttofare Murillo, da sempre assai detestata al suo interno, sempre più incontenibile. Il tutto a rischio, prima o poi, di un’implosione. Messico. “Lezione esemplare”, nuove verità sui 43 studenti scomparsi di Andrea Cegna Il Manifesto, 28 agosto 2022 Eliminati da esercito e paramilitari, a dare l’ordine fu l’ex sindaco di Iguana. E in sei restarono vivi per giorni prima dell’esecuzione affidata al 27mo battaglione. Proseguono le mobilitazioni dei genitori che chiedono giustizia. Sotto una torrenziale pioggia i genitori dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa hanno manifestato venerdì, come fanno ogni 26 del mese dal settembre 2014. La 95esima marcia mensile per la verità e la giustizia per la sorte degli studenti è stata accompagnata da nuove, tremende, rivelazioni sui fatti di quella notte. Sei dei 43 non arrivarono mai alla discarica di Cocula, come sostenne la “verità storica”, ma in un luogo chiamato Bodega Vieja, nella stessa Iguala, dove sono rimasti in vita per quattro giorni, fino a quando non sono stati consegnati al colonnello José Rodríguez Pérez, allora comandante del 27mo battaglione di fanteria che avrebbe, quindi, dato l’ordine di ucciderli e farli sparire. È una delle novità sul caso che sono state esposte durante la rituale conferenza stampa giornaliera del presidente Lopez Obrador. A parlare è stato Alejandro Encinas, sottosegretario ai diritti umani, che ha specificato che “le chiamate al numero di emergenza 089 hanno confermato che 6 degli studenti sarebbero stati trattenuti vivi per diversi giorni”. Ci sono altri militari coinvolti e di alto rango, come il generale Alejandro Saavedra Hernández, che nel 2014 era comandante della 35ma zona militare, con sede a Chilpancingo (capitale dello stato di Guerrero), e che era a conoscenza di quanto accaduto a Iguala la notte del 26 e la mattina del 27 settembre. Secondo il rapporto della Commissione Verità ci fu azione congiunta tra diverse istituzioni e i Guerreros Unidos che, assieme, e per ordine dell’ex sindaco della città, José Luis Abarca, decisero di dare una “lezione esemplare” agli studenti della combattiva scuola di Ayotzinapa. Tali studenti sarebbero stati seguiti da giorni nei loro spostamenti. La polizia municipale era pronta da giorni a fermare i pullman degli studenti così da dar il via a una sorta di “operazione speciale” coordinata tra autorità statali, municipali, federali, e le forze armate con i Guerreros Unidos a fare la parte dei sicari. La relazione tra l’ex sindaco di Iguala e l’esercito è uno dei nodi. Come ricorda Luis Hernandez Navarro su la Jornada “gli stretti legami con l’esercito precedono l’arrivo del colonnello Rodríguez a capo del 27mo battaglione. Il 22 gennaio 2008 è stata posata la prima pietra di Plaza Tamarindos (sorta di centro commerciale, ndr), ambizioso investimento di 300 milioni di pesos, di proprietà di José Luis Abarca”. Plaza Tamarindos, costruita in prossimità della base militare su un terreno donato dall’esercito, è il trampolino di lancio della vita politica di Abarca. Encinas ha aggiunto: “Dicendo che la “verità storica” è stata architettata dai massimi livelli del governo federale diciamo che sono coinvolti tutti coloro che hanno partecipato alle riunioni della presidenza della Repubblica in cui si è parlato del caso”. I genitori dei 43 hanno così gridato la loro rabbia, per le vie dalla capitale ribadendo: “Abbiamo bisogno di prove scientifiche indubitabili sul destino dei nostri figli”. Spiegando che l’informativa del governo non spiega dove si trovino. “Ci sono prove tecniche preliminari che devono essere studiate e analizzate con il massimo rigore scientifico perché si consolidino e possano sostenere l’affermazione del governo. Sarà doloroso per le nostre famiglie conoscere del loro destino, soprattutto se sarà senza vita, ma se ci daranno prove obiettive, scientifiche e indubitabili, torneremo a casa a piangerle e a vivere il nostro dolore. Senza certezze la lotta continuerà”.