Il carcere non è una condanna a morte 9colonne.it, 27 agosto 2022 “Nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 57 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi due in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto si sono registrati 14 suicidi, più di uno ogni due giorni. 57 furono le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione - prosegue Gonnella - ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il Governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”. “Dell’importanza dell’affettività per i detenuti - continua il presidente di Antigone - ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020”. Secondo questa, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. “All’indomani di quelle chiusure - sottolinea Gonnella - la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e constì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali”. “Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” conclude Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, Deputati e Senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato. Si continua a morire dietro le sbarre. Detenuti e agenti, tensioni e scioperi di Fulvio Fulvi Avvenire, 27 agosto 2022 Con un sacchetto in testa, una cintura o un laccio stretto intorno al collo, inalando il gas di un fornello oppure con una lametta da barba per recidere le vene dei polsi. Sembra impossibile morire così dietro le sbarre. Dovrebbero esserci controlli e prevenzione. Eppure, fino a ieri, erano 56 i detenuti che dall’inizio dell’anno sono riusciti nel loro disperato intento. Un numero impressionante se si pensa che nel 2021 i suicidi in carcere sono stati 57 e nel 2020, con la pandemia, 61. E giovedì scorso è stata una “giornata nera”, con due morti che si potevano evitare. Nella casa Circondariale di Caltagirone, in Sicilia, Simone Melardi, 44 anni, di Catania, si è impiccato nella sua cella. Era accusato di aver rubato un telefonino e un portafoglio al botteghino del Teatro Massimo della città etnea. La refurtiva era stata subito restituita al legittimo proprietario ma il ladro è stato colto in flagrante e per lui sono scattate le manette. Melardi sarebbe dovuto entrare in una Cta (Comunità Terapeutica Assistita) perché, secondo i medici, era affetto da disturbi della personalità e abusava di alcolici. Per questo in carcere era sottoposto al regime della “grande sorveglianza” per impedire e prevenire episodi di autolesionismo. Ma è riuscito lo stesso a compire l’insano gesto senza che nessuno se ne accorgesse. La sua famiglia ha presentato un esposto alle autorità giudiziarie affinché si accerti “se vi sono state negligenze da parte del personale dell’istituto penale”. L’altra tragedia si è consumata nel carcere di Vocabolo Sabbione a Terni, dove un recluso di origini marocchine si è tagliato le vene con una lametta. Aveva 49 anni. Un secondino ha visto del sangue sul pavimento ed è subito intervenuto chiamando il medico di guardia. Ma il detenuto era in fin di vita e a nulla è servito il suo trasporto al “Santa Maria”: è spirato lungo il tragitto in ambulanza, tra le braccia degli infermieri. Intanto il Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) ricorda che a Terni “un altro agente è stato aggredito per futili motivi da un detenuto in alta sicurezza ed è riuscito a divincolarsi solo per l’intervento di un altro detenuto”. Un suicidio invece è stato sventato a Regina Coeli. Di notte, in una cella, due detenuti sentono il rumore di una sedia che cade e si svegliano: il loro compagno di branda pendeva dalla finestra con un cappio al collo. L’hanno soccorso e rianimato, uno di loro si è anche ferito a una mano. Ma sono riusciti a salvargli la vita. Sovraffollamento, infiltrazioni d’acqua, scarsa igiene, cimici e calcinacci, carenza di personale, gruppi criminali interni che minacciano e ricattano detenuti e agenti. A Sollicciano, Firenze, il carcere è nel degrado più assoluto e il segretario generale del Spp (Sindacato Polizia Penitenziaria), Aldo Di Giacomo, ha deciso di cominciare qui uno sciopero della fame: “Voglio sensibilizzare le istituzioni e la politica sul mondo carcerario ha spiegato perché mai come negli ultimi 20 anni, a Sollicciano e nel resto degli istituti di pena italiani, la situazione è stata così drammatica: il numero dei suicidi è il più alto dal 1995”. Uno sciopero della fame è stato proclamato anche dalle detenute delle Vallette di Torino: “Sarà a staffetta e durerà fino al giorno delle elezioni, il 25 settembre” hanno scritto in una lettera intitolata “Il vero crimine è stare con le mani in mano”. Le recluse vogliono esprimere la solidarietà a chi, “solo, dentro una cella bollente”, si è tolto la vita in carcere, “lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica e delle istituzioni”. Suicidi in cella, una maratona oratoria per spezzare il silenzio di Davide Varì Il Dubbio, 27 agosto 2022 Su radio radicale l’iniziativa a sostegno dello sciopero della fame di Rita Bernardini. È iniziata ieri alle 20.00 e andrà avanti fino a questo pomeriggio la maratona oratoria a sostegno dello sciopero della fame di Rita Bernardini contro i suicidi in carcere. L’iniziativa è stava organizzata da Umberto Baccolo, membro del direttivo di Nessuno tocchi Caino e portavoce del Comitato riforma giustizia, in collaborazione con le attiviste Elisa Torresin e Lunina Casarotti. La mobilitazione, trasmessa in diretta sulla pagina Facebook “Folsom Prison Blues” e sulla web tv di Radio Radicale, si propone l’obiettivo di sensibilizzare la politica durante la campagna elettorale sui problemi della detenzione e sul dramma dei suicidi in carcere che, dall’inizio dell’anno, hanno raggiunto la cifra record di 56. Tra le decine di ospiti, avvocati, giornalisti ed ex detenuti, anche gli ex magistrati Otello Lupacchini, Simonetta Matone, Gherardo Colombo e Santi Consolo, il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, i parlamentari Vittorio Sgarbi, Roberto Rampi, Roberto Giachetti, Francesca Scopelliti, Clemente Mastella, Luigi Manconi, Marco Taradash, Amedeo Laboccetta, oltre ai vertici di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti. Rivolte, a Ferrara gestione virtuosa: ecco perché non va toccata la figura del direttore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2022 Dalla relazione della commissione del Dap, presieduta dall’ex magistrato Sergio Lari, emerge che la direttrice Nicoletta Toscani l’8 marzo 2020 è riuscita a evitare il peggio. Un merito riconosciuto anche dalla procura. Nella maggior parte delle carceri dove ci sono state le dure rivolte di marzo 2020, come oramai è noto si sono verificati episodi gravi, denunce di pestaggi a opera degli agenti di polizia penitenziaria, decessi di detenuti, come il caso del carcere di Modena, e anche contusioni - alcune gravi - che hanno coinvolto diversi operatori a causa dell’aggressione da parte di alcuni rivoltosi. Dalla relazione della commissione del Dap presieduta dall’ex magistrato Sergio Lari emerge però che, laddove c’è stata una gestione accurata e basata sulla mediazione, non si è verificato nulla di tutto ciò. Nessuna segnalazione di pestaggi, nessun agente gravemente contuso. Tutto è rientrato senza conseguenze. Ed è l’esempio di gestione virtuosa delle rivolte avvenute al carcere di Ferrara diretto dalla dottoressa Nicoletta Toscani. Determinante l’intervento della direttrice Toscani e del Comandante - Ripercorriamo l’evento. I disordini presso la casa circondariale di Ferrara sono iniziati poco prima delle ore 19 del giorno 8 marzo 2020 presso la seconda sezione allorché i detenuti hanno mandato in frantumi le finestre del corridoio danneggiando le suppellettili delle camere detentive all’interno delle sezioni. La sommossa è esplosa nonostante, intorno alle ore 17, la direttrice Toscani e il Comandante di reparto avessero incontrato una delegazione di detenuti per ogni sezione per tentare di tranquillizzarli, anche perché era diventata ufficiale la sospensione dei colloqui. Dopo lunga mediazione hanno consegnato alla direttrice le armi rudimentali, di cui si erano dotati. Alle ore 21,15 la situazione è tornata alla normalità, senza che sia stato necessario l’uso della forza. Sempre dalla relazione del Dap, si apprende che il giorno successivo però, intorno alle ore 12, la protesta è esplosa più violentemente nella terza e nella sesta sezione, dove i detenuti, dopo essersi rifiutati di rientrare nelle stanze all’orario previsto hanno cominciato a devastare le sezioni, incendiando anche cuscini e materassi. Dopo la mediazione delle varie autorità intervenute sul posto, la protesta è definitivamente cessata intorno alle ore 17. Il risultato? Nessuno ha riportato lesioni, né i detenuti, né il personale, a eccezione di un operatore di Polizia penitenziaria che è stato refertato per lesioni lievissime. La procura di Ferrara ha riconosciuto il merito della gestione della rivolta - A dare il merito alla direzione del carcere di esempio virtuoso ci ha pensato la procura di Ferrara stessa. Il 6 luglio 2021 ha redatto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di trentotto detenuti per i reati di resistenza a pubblici ufficiali, danneggiamenti e incendio doloso. È risultato che i detenuti hanno danneggiato il sistema di videosorveglianza, i vetri delle finestre del corridoio e della socialità, le plafoniere e gli arredi provocando danni stimati di 14 mila euro. Dalle dichiarazioni rese e dagli altri elementi raccolti è emerso come tutto il personale ha agito nella perfetta legalità, mantenendo l’autocontrollo pur essendo destinatario di continue provocazioni. Il dialogo e la mediazione sono state le uniche strategie utilizzate per risolvere le criticità e non è stato necessario l’uso della forza fisica. Il comportamento professionale del personale di Polizia è stato evidenziato anche dai sanitari, presenti in entrambe le giornate. Il Garante regionale ha riferito di non aver avuto segnalazioni, né in occasione della rivolta, né successivamente, di violenze consumate dal personale in danno di detenuti ristretti nell’istituto ferrarese. Il magistrato di Sorveglianza ha riconosciuto che “nelle due giornate in cui si sono consumati i disordini, con effetti meno gravi degli altri istituti, la situazione è stata gestita con molta professionalità sia da parte della Direzione che della Polizia penitenziaria, anche con un’opera di mediazione che ha consentito di far rientrare la protesta in tempi brevi” e poi ha aggiunto di non aver ricevuto “alcuna notizia né direttamente, né indirettamente di comportamenti scorretti da parte del personale di Polizia penitenziaria”. Anche nel carcere di Ferrara le rivolte sono state spontanee - Anche in questo carcere, così come il resto degli istituti dove sono state inscenate le rivolte, dagli elementi raccolti durante l’attività ispettiva della commissione del Dap è emerso che entrambi gli episodi dell’8 e del 9 marzo 2020 sono nati spontaneamente e che non vi è stata una regia da parte della criminalità organizzata né una concertazione con gli autori delle rivolte negli altri istituti. La relazione evidenza che gli autori della rivolta erano tutti appartenenti al circuito “media sicurezza”, in parte extracomunitari e tossicodipendenti, di giovane età. Anche in questo caso la relazione osserva che le origini della rivolta possono essere ricondotte a una concomitante combinazione dei seguenti fattori: la paura del contagio alimentata dal sovraffollamento presente in istituto dove erano presenti 371 detenuti su una capienza di 244 posti; la richiesta di provvedimenti di clemenza; l’emulazione rispetto a quanto stava accadendo negli altri istituti, in particolare a Modena; la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari e la conseguente difficoltà di coltivare i rapporti con gli stessi. La relazione ribadisce che al carcere di Ferrara gli operatori penitenziari hanno agito con grande professionalità e nella perfetta legalità, mantenendo l’autocontrollo pur essendo destinatari di continue provocazioni. Inoltre, come già detto, non risultano notizie di violenze perpetrate dal personale di Polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti né nell’immediatezza dei fatti, né in momenti successivi. Le pratiche di buona gestione degli eventi critici aiuta a comprendere quanto sia importante la professionalità degli agenti e dirigenti. E dovrebbe essere da monito per chi vorrebbe “militarizzare” le carceri italiane. Un tentativo che ci fu nel 2019 durante il governo legastellato, ovvero quello volto a destituire il primato gerarchico del direttore. Tale proposta è volta ad eliminare il rapporto di dipendenza gerarchica tra comandanti di reparto e direttori degli istituti penitenziari; sottrarre al direttore il potere disciplinare nei confronti del personale di polizia penitenziaria attribuendolo al comandante di reparto; escludere i dirigenti penitenziari dalla selezione del personale e dai consigli di disciplina del personale; attribuire al comandante di reparto la competenza relativa ad assegnazione, consegna e impiego dell’armamento individuale e di reparto. Tutto ciò significherebbe, con tutta evidenza, modificare la sostanza del carcere e della sua essenza ordinamentale Significa - di fatto - svilire, fino a esaurirlo, il ruolo fondamentale assegnato ai direttori di garanzia della legalità negli istituti di pena. Anche a seguito delle rivolte, da più fronti si era rinvigorita l’idea di un processo di militarizzazione che assegna ai direttori - già numericamente inidonei a coprire le necessità di organico degli istituti di pena - una funzione via via residuale che sembra mirare a cancellarne il ruolo e le prerogative. L’esempio del carcere di Ferrara, invece, è utile proprio per ribadire la centralità del direttore. Magari, e questo è evidente, bisogna puntare a renderli sempre più professionali. E magari premiare loro e il personale penitenziario, per le buone pratiche di gestione degli eventi critici. Le sommosse in carcere e la suggestione dei “papelli” di Domenico Forgione Il Dubbio, 27 agosto 2022 C’è voluta la commissione ispettiva del Dap per accertare ciò che sapevano tutti, o almeno tutti quelli che hanno un minimo di conoscenza della realtà carceraria: dietro le rivolte di marzo 2020 non c’è stata nessuna regia della criminalità organizzata. Non poteva esserci per un semplice motivo, ben noto - ripeto - a chi conosce le dinamiche interne di un carcere. I detenuti dell’Alta sicurezza (il circuito nel quale vengono ristretti condannati al 416 bis, nonché gli imputati in attesa di giudizio per lo stesso reato) hanno una prospettiva detentiva molto lunga, per cui hanno tutto l’interesse a “farsi la galera”. Sono consapevoli che eventuali inconvenienti di “ordine pubblico” provocherebbero ritorsioni che andrebbero a colpire la qualità della loro vita: dispetti più o meno incresciosi e snervanti, chiusura delle celle durante il giorno (laddove è concessa), sospensione della “socialità” e di altre attività che in qualche modo alleggeriscono il peso di giornate sempre uguali. Può sembrare paradossale, ma i detenuti dell’Alta sicurezza sono quelli che danno meno problemi all’amministrazione penitenziaria. Chi deve trascorrere dietro le sbarre 10, 20 o più anni ha tutto l’interesse a farlo nel “migliore” modo possibile. Una spicciola questione di tornaconto personale. D’altronde, sarebbe stato sufficiente verificare i singoli episodi. Su una ventina di casi, soltanto nel carcere di Melfi la protesta interessò il circuito dell’Alta sicurezza e i protagonisti non ebbero certo alcun trattamento di favore: qualche testa spaccata dai colpi di manganello arrivò anche a Palmi nei giorni successivi. Tranne che in circoli mediatici ristretti, l’argomento carcere sconta sempre sentimenti di indifferenza o, peggio, di ignoranza. La verità era emersa subito, ma non era quella giusta, quella che poteva avere presa nell’opinione pubblica. Ad innescare le rivolte erano state la paura per la pandemia, in una fase in cui ancora non si aveva la chiara percezione di ciò che stava accadendo, e - soprattutto - la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. La successiva introduzione delle videochiamate, da questo punto di vista, è stata una misura provvidenziale. Indubbiamente di forte suggestione era però l’ipotesi di rivolte orchestrate dalla criminalità organizzata, con annesso corollario di improbabili “papelli”, veicolata dai passacarte delle Procure e dall’antimafia da salotto. “Se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera”, ammoniva George Orwell nel capolavoro “1984”. Per cui, tutti a ruota della panzana, ministro Bonafede in testa. Il cattivo - che esiste - è funzionale all’esercizio del potere. Senza scomodare studi autorevoli, ce lo ricorda la maschera creata da Antonio Albanese, il ministro della Paura: “Senza la paura non si vive. Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Io trasformo la paura in ordine, e l’ordine è il cardine di ogni società rispettabile”. E chi se frega se i “cattivi” sono spesso in attesa di giudizio (quindi costituzionalmente ancora “buoni”), se i Comuni vengono sciolti con la formuletta imbevuta di pregiudizio “più probabile che non”, se gli imprenditori vengono ridotti al lastrico in via preventiva. Di questo dovrebbe discutere una classe politica inerte nell’azione di concreto contrasto alla criminalità organizzata, la cui sconfitta necessita di servizi pubblici garantiti, di sviluppo e di lavoro nelle aree economicamente e socialmente depresse del Paese. Un sentiero accidentato, che si preferisce aggirare con gli arresti di massa e le misure di prevenzione, in barba alle più elementari garanzie costituzionali. Un percorso sbrigativo e rassicurante per l’opinione pubblica, ansiosa di vedere volare per aria le teste dell’Idra di Lerna. Che puntualmente ricrescono. Giustizia, cosa prevedono i programmi elettorali dei partiti di Giulia Merlo Il Domani, 27 agosto 2022 Il centrodestra punta a riscrivere le tre riforme Cartabia e a separare le carriere dei magistrati. Il terzo polo ha recepito buona parte delle proposte garantiste delle Camere penali; il Pd punta sulla depenalizzazione, sul contrasto alle mafie, la legalizzazione della cannabis e una legge sul fine vita; il M5S vuole riformare la prescrizione, mantenere il 41 bis e dice sì a matrimonio egualitario e legalizzazione della cannabis. Ogni partito sta presentando il suo programma elettorale e la giustizia è uno degli argomenti più controversi e sempre presenti, vista anche la sua rilevanza nel contesto del Pnrr. Centrodestra - Il programma del centrodestra contiene due punti molto vaghi, che prevedono la separazione delle carriere per i magistrati e la riscrittura delle riforme sull’ordinamento giudiziario, civile e penale. In pratica, una totale revisione dell’impianto delle leggi Cartabia appena approvate. Si parla di “giusto processo e ragionevole durate, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama” e di “razionalizzazione delle pene e garanzia dell’effettività”. L’accordo di centrodestra prevede, poi, la semplificazione del codice degli appalti e la riforma del diritto penale dell’economia. Ogni partito, poi, poteva prevedere un programma individuale ma solo la Lega lo ha messo per iscritto. Fratelli d’Italia e Forza Italia, infatti, hanno depositato come programma elettorale l’accordo quadro del centrodestra. Poi, nelle sue pillole video, Silvio Berlusconi ha proposto di introdurre il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione in primo e secondo grado. La Lega è l’unico partito ad aver depositato un suo programma più dettagliato rispetto a quello di coalizione, lungo addirittura 202 pagine. La Lega - Il programma della lega prevede un capitolo sulla giustizia penale che ha al centro “garantismo e certezza della pena”. Accanto a una serie di principi come la garanzia del diritto di difesa, della terzietà del giudice, la tutela dei diritti delle vittime e la certezza del diritto, prevede di stanziare nuove risorse per i tribunali con l’obiettivo di diminuire i tempi dei processi. In tema di antimafia, si parla di “efficienza nella gestione dei beni e delle aziende sottoposte a sequestro e confisca”. Per la riforma del codice penale, l’introduzione di strumenti di contrasto ai fenomeni di microcriminalità e baby gang, introdurre sanzioni in materia di social media; “tutelare l’inviolabilità del domicilio dalle occupazioni” e la riforma della legge Severino nei confronti degli amministratori locali. Anche la Lega prevede di “porre limiti all’appello dell’accusa” a cui aggiunge la riforma della disciplina delle misure cautelari, con un “doppio binario per alcune tipologie di reati, con requisiti più rigorosi di applicazione”. Ritorna anche il tema referendario della responsabilità civile del magistrato. Rispetto all’organizzazione complessiva e di geografia giudiziaria, spicca la proposta di “riaprire alcuni tribunali soppressi”. Tra le riforme, si prevede quella della magistratura onoraria e dell’ordinamento penitenziario. Per il settore civile, sono previste misure in materia di famiglia, con “meccanismi di supporto per dare una gestione della crisi coniugale” per la disciplina dei rapporti, “con valorizzazione di ciascuna figura genitoriale”. E’ previsto poi un “ripensamento del sistema dei servizi sociali”. Sul piano procedurale, invece, si prevede “il procedimento monitorio accelerato per il recupero del credito”; l’ampliamento “delle competenze del tribunale per le imprese” e l’approvazione della legge sull’equo compenso dei professionisti. Pd - Il programma del Pd prevede di costruire nuovi edifici destinati ad accogliere i Tribunali, intervenire sui costi della giustizia, investendo di più sugli incentivi fiscali, specie per l’accesso ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie, completare la digitalizzazione del servizio giustizia e degli uffici, con un ammodernamento delle strutture; la stabilizzazione dei precari “per la messa a regime dell’Ufficio del Processo e proseguendo con il reclutamento e assunzione di personale nelle cancellerie e di nuovi magistrati e magistrate nei tribunali”. Sul fronte del Csm, propone “di istituire con legge di revisione costituzionale un’Alta Corte competente a giudicare le impugnazioni sugli addebiti disciplinari dei magistrati e sulle nomine contestate”. Viene poi rilanciato il piano nazionale contro le mafie che definisca obiettivi condivisi per tutte le amministrazioni dello Stato, “occorre riprendere e rilanciare il lavoro degli Stati generali della lotta alle mafie del 2017, con le proposte sintetizzate nella “Carta di Milano”“, con anche una riforma della legge sullo scioglimento dei Comuni per mafia, individuando specifiche azioni di prevenzione, per eliminare le cause delle infiltrazioni. Si prevede anche di “intervenire sulla depenalizzazione dove necessario” e una legge contro le querele temerarie ai giornalisti. Sì alla legalizzazione dell’autoproduzione di cannabis per uso personale e fare in modo che la cannabis terapeutica sia effettivamente garantita ai pazienti che ne hanno bisogno. Si prevede anche l’approvazione della legge sul fine vita, una legge sulla omolesbotransfobia e il matrimonio egualitario. In merito al carcere, è prevista la valorizzazione degli strumenti di giustizia riparativa anche per superare l’impostazione di un sistema penale incentrato prevalentemente sul carcere, sfruttando le potenzialità delle misure alternative e di comunità; l’aumento del lavoro penitenziario come percorsi formativi mirati e garantire sbocchi occupazionali certi. Terzo Polo - Nel programma di Azione e Italia Viva, il capitolo sulla giustizia integra buona parte delle proposte dell’Unione camere penali italiane ed è diviso in cinque punti. Sulle carriere dei magistrati prevede la separazione delle carriere, approvando il ddl di iniziativa popolare promosso dalle Camere Penali; le valutazioni dei magistrati con la presenza di avvocatura e professori nei consigli giudiziari; il superamento del sistema delle correnti con ritocchi alla riforma Cartabia. Come interventi trasversali, si prevede il potenziamento della pianta organica dei magistrati e la riduzione di fuori ruolo; il rafforzamento del processo telematico con una sola piattaforma per tutti i riti; requisiti di formazione manageriale per chi svolge incarichi direttivi e una informatizzazione degli uffici. Sul penale si prevede una riforma della custodia cautelare per impedirne gli abusi; il ripristino della prescrizione sostanziale; l’incentivo ai riti alternativi; riforme contro il processo mediatico; limiti all’appello del pm in caso di assoluzione. Per il sistema penitenziario, una riforma complessiva che incentivi le misure alternative e legge per le detenute madri, per evitare minori in carcere. Sul civile, invece, riforma del processo di primo grado per snellirlo, unificando i riti di cognizione; valorizzazione della mediazione; introduzione di misure correttive all’arbitrato; innalzamento della soglia per accedere al gratuito patrocinio. Manca invece la proposta di FI sul divieto di appello per le sentenze di assoluzione in primo e secondo grado, ma sia Azione che Italia Viva si sono dette favorevoli. Movimento 5 Stelle - Il programma del M5S prevede due punti: legalità e diritti. Nel capitolo sulla legalità è previsto il contrasto alle mafie, con il potenziamento degli strumenti esistenti e il completamento della riforma in tema di ergastolo ostativo, oltre alla tutela del 41bis e delle misure di prevenzione. C’è la lotta alla corruzione, con trasparenza nell’utilizzo dei fondi del Pnrr e tutele per i whistleblowers e i testimoni di giustizia. Infine il contrato alle agromafie ed ecomafie, con tutela del diritto alla salute. Si prevedono poi la regolamentazione della coltivazione della cannabis, il potenziamento delle misure di contrasto alla violenza contro le donne e il “superamento dell’improcedibilità nel processo penale”, con probabile volontà di ritorno alla legge Bonafede e quindi facendo saltare la prescrizione processuale introdotta con la riforma Cartabia. Sul fronte dei diritti, si prevede il matrimonio egualitario e una legge contro l’omotransfobia. Fuori la stampa dai tribunali, la scommessa di destra e centro di Liana Milella La Repubblica, 27 agosto 2022 Se alle elezioni vince il centrodestra sulla giustizia sarà “ribaltone”. Come se il governo Draghi e le leggi della Guardasigilli Marta Cartabia, sulla scia di quelle del predecessore Alfonso Bonafede, non fossero mai esistite. Come se Lega e Radicali non avessero perso la scommessa dei referendum sulla giustizia del 12 giugno. Si torna agli anni dei governi Berlusconi, con gli slogan di quell’epoca, dalla separazione delle carriere, alla responsabilità diretta dei giudici, alla prescrizione “breve”. In più, la voglia più forte è quella di considerare - ben oltre il dettato della Costituzione - comunque “sicuramente” innocente l’imputato, a prescindere dalla gravità delle accuse che gli vengono mosse. Esasperando la direttiva sulla presunzione d’innocenza che pure Cartabia ha fatto approvare in linea con il dettato europeo. Ma l’obiettivo del centrodestra è di portarla all’estremo, perseguendo lo scopo di garantire comunque e in ogni modo “la buona fama” dell’imputato. Tra le “vittime” è destinata a esserci proprio la libertà di stampa, e per questo il centrodestra vuole i giornalisti del tutto fuori dai tribunali. Pd - Attuare le leggi di Cartabia per salvare il Pnrr - Mantenere le riforme del processo civile, penale e del Csm di Marta Cartabia e attuarle, garantendo i fondi del Pnrr. Parte da qui il programma del Pd studiato dalla responsabile Giustizia Anna Rossomando che dice: “Nell’Italia del 2027 vogliamo che la giustizia sia ancora più moderna, per un reale accesso ai diritti senza distinzioni di censo. Rapida, efficace e solida nelle garanzie: uno strumento fondamentale per la tutela dei diritti delle persone e una leva per lo sviluppo economico e culturale del Paese”. Per farlo bisogna digitalizzare tutto, assumere nuovi magistrati e cancellieri, lanciare la giustizia riparativa. Serve l’Alta corte in Costituzione per garantire la giustizia disciplinare di tutte le toghe. No ai processi mediatici, sì al diritto a essere informati. Carcere a misura di Costituzione e mai più bambini in galera. Lotta alla mafia sempre, vigilando sui fondi del Pnrr. Una nuova legge Severino sui sindaci. FdI\FI - Niente processi d’appello se il pm perde - Fi e FdI non hanno dubbi: netta separazione delle carriere tra giudici e pm, concorsi distinti e due Csm, stop ai processi d’appello se il pm perde. Carlo Nordio, l’ex procuratore aggiunto di Venezia che indagò sul Pd e oggi in pensione, candidato Guardasigilli per Meloni, lancia il sorteggio per eleggere i togati del Csm. Forza Italia, con il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, vuole un vero “giusto processo” e lo stop di quello mediatico, puntando al bavaglio su pm e giornalisti sfruttando la direttiva in vigore sulla presunzione di innocenza. Dietro il “diritto alla buona fama” dell’imputato c’è la scure sulla stampa. FdI, come ha detto infinite volte alla Camera Carolina Varchi, chiede la riforma della magistratura onoraria che “ha garantito per decenni il funzionamento della macchina giudiziaria” e non può essere “la forza servente di quella togata”. Lega - Carriere separate e responsabilità civile delle toghe - Riforma del Csm, separazione delle carriere, ma garanzia di un pm autonomo dall’Esecutivo, effettiva responsabilità civile dei magistrati, strumenti più moderni per la lotta alla mafia. La candidata alla poltrona di Guardasigilli Giulia Bongiorno vuole modificare il codice penale “per razionalizzare il sistema sanzionatorio” e chiede nuovi strumenti per contrastare microcriminalità e baby gang. Per una drastica riduzione dei tempi dei processi penali vuole rivisitare il codice di procedura penale e allargare le piante organiche dei magistrati e del personale amministrativo. Certezza della pena perseguita con interventi sull’ordinamento penitenziario. Prioritaria la battaglia contro la violenza contro le donne che impone di ridurre in modo effettivo e drastico i tempi che intercorrono tra la denunzia e l’intervento dello Stato. M5S - Stop alla prescrizione come nella riforma Bonafede - Per “una giustizia vicina al cittadino”, il M5S vuole tornare alle leggi dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Senza toccare la legge Spazzacorrotti che invece gli altri partiti vogliono cancellare del trutto. Vuole riaprire alcune sedi di tribunale con criteri obiettivi. E valorizzare il ruolo degli avvocati. Per avere processi più brevi, vuole abolire il divieto della “reformatio in pejus” ed eliminare la contestata regola della improcedibilità di Cartabia per tornare allo stop della prescrizione dopo il primo grado di Bonafede. M5S è contro la gerarchizzazione delle procure e la riduzione dei passaggi da giudice a pm a uno solo ripristinando la formula dei quattro passaggi. Vuole inserire l’Antimafia nella Carta con una legge costituzionale per non dare benefici penitenziari ai boss mafiosi detenuti che non collaborano con la giustizia. Azione\Italia Viva - Magistrati valutati da avvocati e professori All’insegna del garantismo il programma di Azione e Italia viva. Ripropone le battaglie di Enrico Costa fatte negli ultimi 5 anni, che Iv ha condiviso in aula. Basta scorrere i titoli. La separazione delle carriere come chiede la legge delle Camere penali. Il ripristino della prescrizione “sostanziale” ante Bonafede (il ddl Orlando, 36 mesi tra Appello e Cassazione per finire il processo). Toghe valutate al Csm da avvocati e professori universitari. Stop alle correnti al Csm, integrando la riforma Cartabia. Più magistrati e netta riduzione dei fuori ruolo. Magistrati “manager” per gli incarichi direttivi. Riforma della custodia cautelare per evitare abusi. Più riti alternativi rispetto al dibattimento. Stop “alla spettacolarizzazione mediatica e rispetto rigido della presunzione innocenza”. Se assolti meno chance al pm per fare appello. Nella giustizia riparativa di Cartabia insidie che è difficile minimizzare di Lorenzo Zilletti* Il Dubbio, 27 agosto 2022 Il “percorso” è imposto a un imputato di cui non è stata accertata la colpevolezza. E il rischio di veder penalizzato chi si sottrae c’è: non basta che il testo rassicuri. Basta leggere. Ce lo ricorda, e per ben tre volte, dalle colonne di questo giornale un appassionato intervento in difesa della giustizia riparativa modello Cartabia (per mutuare lo slogan promozionale con cui, nei mesi scorsi, si è andati magnificando il più ampio intervento sul penale che - forse- verrà). Qualche ostinato custode del valore cognitivo del processo penale aveva osato, fin dall’approvazione della delega, obiettare sul progetto di non circoscrivere al momento esecutivo l’adozione di questo paternalistico modello di postdiritto: senza stabilire prima se l’ordine sociale è stato rotto dal reato, che cosa si dovrebbe riparare? Come ostacolo, si invocava addirittura la presunzione costituzionale di non colpevolezza (una lettura agevole - appena dieci parole- quella dell’art. 27 comma 2 della Carta) e la sua non disponibilità. Ebbene, quegli stessi custodi, così profondamente pervasi da una visione liberale del diritto penale e del processo, hanno manifestato critiche severe al prodotto finale di legislazione delegata. In particolare, a suscitare contrarietà è il novello art. 129 bis c. p. p. disegnato dallo schema di decreto legislativo approvato poche settimane orsono in Consiglio dei Ministri (per inciso, sorprende il silenzio di costituzionalisti e politici circa l’etichettabilità come ‘affari correnti’ di un intervento normativo che riscrive buona parte del Codice penale e di quello di rito. Il potere taumaturgico degli agognati fondi europei e degli obblighi autoimpostici col Pnrr pare declassare i dubbi ad onanismo giuridico). Tre i bersagli: a) la possibilità per il giudice, anche senza aver acquisito il consenso dell’imputato, di inviarlo ad un Centro per l’avvio di un programma di giustizia riparativa; b) l’estensione al pubblico ministero dello stesso potere, nel corso delle indagini preliminari; c) le prospettive verosimilmente negative per chi, destinatario dell’ordine, si sottragga al percorso di recupero indicatogli dall’autorità giudiziaria. Tutti a vuoto, secondo l’ardente replica agostana, che attribuisce il misunderstanding a carenza di spirito di geometria e refrattarietà alla lettura, sia pure da ombrellone o da sentiero alpestre. Sarebbe sfuggito, ai critici, che l’art. 43 dello schema prevede espressamente - tra i principi generali e obiettivi della giustizia riparativa- il consenso alla partecipazione ai programmi. E che l’art. 58 comma 2 stabilisce che la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli per il prevenuto. Nulla da obiettare, circa l’effettiva esistenza di quelle note disposizioni. Quanto alla prima - art. 43 e consenso - il tema è un altro: come conciliarla col disposto dell’art. 129 bis di nuovo conio? Siccome basta leggere, facciamolo pubblicamente: “In ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio (sott. ns.), l’invio dell’imputato… al centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia ripartiva”. Non si coglie un conflitto tra principi generali e prescrizioni di dettaglio? Concediamo che i commissari estensori nutrissero intenzioni diverse, ma - citando Cordero - il dato sarebbe irrilevante: “Non essendo la legge un testamento (i cui interpreti puntano le sonde a quel che il de cuius aveva in mente, comunque l’abbia formulato), l’interno inespresso conta zero; le parole valgono nel più plausibile dei significati”. Quanto alla seconda, art. 58 comma 2, pur apprezzandosene il wishful thinking, da frequentatori di aule di giustizia ci si interroga scetticamente: mai visto sino ad oggidì negare generiche all’imputato assente? O “sanzionare” l’esercizio del diritto al silenzio? O penalizzare la mancanza di prestazione del consenso, in uno di quegli ormai troppi casi in cui la legge prevede scorciatoie negoziali sulla prova? Il timore è che, in ogni caso, durante la fase di cognizione, il sottrarsi alla strada individuata unilateralmente nel programma riparativo, dal pm o dal giudice, pregiudichi lo svolgimento del successivo accertamento di responsabilità, secondo i canoni del giusto processo e della presunzione di innocenza. *Avvocato e responsabile Centro studi Aldo Marongiu Ucpi Se i politici si genuflettono ai magistrati la riforma della giustizia è impossibile di Alberto Cisterna Il Riformista, 27 agosto 2022 Lo strapotere della magistratura è determinato e consacrato soprattutto dalla politica, che vive e si vede in condizione di minorità morale. Se il capo di gabinetto del sindaco finisce in uno scandalo, chi si chiama a sostituirlo per stare tranquilli? Un magistrato. Così non va. La questione giustizia lambisce appena una campagna elettorale che, a tutta evidenza, ha grane decisamente più importanti di cui occuparsi di questi tempi. La sortita di Silvio Berlusconi sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm ha riacceso una polemica che covava sotto le ceneri da parecchi anni e ha riproposto un tema particolarmente avvertito dalle camere penali e dalla magistratura italiana, come ha dimostrato la pronta reazione dell’Anm all’incursione forzista. Non c’è dubbio che il tema del più complessivo riposizionamento del potere giudiziario nella geometria costituzionale del paese sia una questione importante che non può essere certo risolta a colpi di polemiche o con micro-interventi per appagare le ansie garantiste di questa o quella forza politica. Riposizionamento, si badi bene, che non vuol dire un ridimensionamento della funzione giudiziaria, ma la ricerca di un più corretto riequilibrio tra le varie articolazioni del potere pubblico fra loro e, soprattutto, verso i cittadini. In questa traiettoria non si deve dimenticare che la riforma più incisiva è venuta dal governo Conte, ossia da quello a trazione pentastellata, che ha praticamente abrogato il vituperato abuso d’ufficio (articolo 323 Cp). Così si è alleviata la posizione di tanti pubblici amministratori sotto processo che o sono stati assolti grazie a quella modifica o, comunque, non subiranno più indagini per quel reato che più di ogni altro costituiva il confine incerto e ondivago dei rapporti tra magistratura e politica. Il tema del controllo giudiziario, nella declinazione cara a molte toghe del cosiddetto controllo di legalità, sta ai margini della contesa elettorale, resta sottotraccia sebbene sia la madre di tutte le battaglie per le parti contrapposte di questa contesa. Le ragioni che hanno favorito l’espansione di questo controllo in tutti i gangli della vita politica e sociale è questione che non può essere neppure lambita in questa sede. Quel che può farsi è segnalare e mettere sotto osservazione tutti i casi in cui questa preminenza del potere giudiziario sulla politica non è tanto affermata dal primo a colpi di avvisi di garanzia o di arresti, quanto è riconosciuta dalla stessa politica come atto di naturale sottomissione a fronte di una propria crisi cui non riesce a porre rimedio se non genuflettendosi alla pretesa superiorità delle toghe. Stefano Castiglione e Alberto Stancanelli. Due nomi che a tanti dicono poco o nulla. Due stimatissimi magistrati della Corte dei conti di alto livello professionale ed etico ben conosciuti tra gli addetti ai lavori. Il primo nominato dalla sindaca Raggi capo di gabinetto del comune di Roma qualche tempo or sono, il secondo nominato dal sindaco Gualtieri capo di gabinetto del comune di Roma. Insomma, due magistrati nel posto più importante dell’amministrazione capitolina e in un comune delle dimensioni della Capitale. Un incarico capace di condizionare in modo decisivo la vita di migliaia e migliaia di dipendenti, di decine di società partecipate, di milioni di cittadini. Alberto Stancanelli è stato chiamato a coprire questo posto-chiave il 20 agosto scorso, dopo che la pubblicazione del video della violenta lite di Frosinone aveva costretto alle immediate dimissioni Albino Ruberti, capo di gabinetto del sindaco di Roma. A fronte di una fibrillazione evidente del sistema amministrativo della Capitale, il sindaco Gualtieri non ha potuto, o saputo, far altro che aprire la cassetta del pronto soccorso politico e tirar fuori il nome di un prestigioso magistrato della Corte dei conti. Tra centinaia di dirigenti comunali e regionali o tra centinaia di funzionari apicali nei ministeri romani - primo tra tutti quello dell’Economia che il sindaco in carica ben conosce per averlo diretto con autorevolezza - la scelta è caduta su una toga. Che si tratti di un giudice contabile o di un giudice amministrativo o ordinario, la questione non cambia. Platealmente e senza alcun tentennamento la politica tutta - stante la risonanza mediatica del minacciato regolamento di conti frusinate (“Se devono inginocchia’ e chiede scusa, io li ammazzo” avrebbe detto il reprobo) - ha optato ancora una volta per un giudice. Il segnale è chiaro: badate bene, purtroppo, moralità e competenza non sono abituali commensali in questo paese e se occorre rassicurare i cittadini elettori in uno snodo così delicato e per un fatto così increscioso è bene appellarsi alla riserva strategica della nazione che sono o i generali o i magistrati. Con la differenza che, mentre i primi sono totalmente alle dipendenze del potere politico per la loro collocazione istituzionale, gli altri costituiscono un ordine autonomo e provvisto di un proprio carisma costituzionale. Accade, quindi, che mentre si schermaglia sulle briciole e sui lembi più marginali della questione giustizia, la politica con solerzia e senza alcuna incertezza proclami, per l’ennesima volta, la propria subalternità a un potere “altro” da sé e, per giunta, per farsi affiancare nell’esercizio di rilevanti prerogative che i cittadini le hanno affidato con il proprio voto. David Lyon scrisse anni or sono un libro dal titolo struggente e suggestivo (“La società sorvegliata”, Feltrinelli, 2002) che evocava i rischi della diffusione delle tecnologie per il controllo della vita quotidiana dei cittadini, soprattutto dopo l’11 settembre. Esistono altre forme di sorveglianza ovviamente che, tuttavia, come quelle tecnologiche, devono essere contrastate o, almeno, arginate. Ma per farlo è necessario che i poteri sorvegliati non stiano a riconoscere, alla prima crisi, la superiorità etica e di competenza dei sorveglianti i quali - anche i migliori - avvertono la portata politica e istituzionale di queste investiture. È proprio di questa legittimazione, invero ulteriore, che profittano le componenti corporative e autoreferenziali del potere giudiziario (complessivamente inteso) per ergersi a una sorta di Camera stellata. Ossia a somiglianza di quella Corte che aveva sede presso il Palazzo di Westminster tra la fine del XV secolo e la metà del XVII secolo e che aveva il compito di giudicare i potenti del tempo. Elezioni al Csm. Da giudice, chiedo il licenziamento delle correnti per giusta causa di Serafina Cannatà Il Domani, 27 agosto 2022 Era davvero necessaria la legge per ricordare a noi magistrati che adoperarsi per condizionare indebitamente l’esercizio delle funzioni del Csm al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sè o per altri, integra un illecito disciplinare? Sono Serafina Cannatà, magistrato alla V valutazione e svolgo dal 2015 le funzioni di giudice penale presso il Tribunale di Firenze. Per circa 16 anni, dal 2001, ho svolto le funzioni di pubblico ministero presso la Procura del Tribunale di Gela (CL), sede di confine che mi ha regalato una esperienza importante, dove mi sono occupata di tutte le fattispecie penalistiche e, più volte e per periodi non brevi, ho svolto le funzioni di procuratore capo. Non ho mai svolto alcuna attività associativa, né ricoperto altri incarichi. La mia candidatura - Non ho mai pensato di propormi per le elezioni al Csm. Ho sempre guardato a tale contesto come un qualcosa che non mi riguardava personalmente, compiendo in questo modo un errore comune anche a tanti altri colleghi del tutto impegnati giornalmente nel proprio lavoro. Grazie all’iniziativa di un gruppo di colleghi e colleghe che si è impegnato in un progetto di rottura con le logiche correntizie, sono stata sorteggiata, dal Comitato “Altra Proposta”, per la lista Giudici, collegio n. 2 (Lazio, Toscana, Umbria e Liguria) per partecipare alla competizione. Quando mi è stata proposta la candidatura, dopo qualche esitazione iniziale ho deciso di accettare, interpretandola come un’occasione unica di confronto e un’eccellente opportunità di offrire un mio contributo nell’ affrontare i tanti problemi che affliggono la magistratura. Impossibile soffermarsi su tutte le questioni aperte, ma vorrei sottolinearne alcune. Il problema delle sedi disagiate: le spaventose carenze di organico sia giudiziario che amministrativo riguardano ormai tutti i tribunali. Ho potuto sperimentare di persona e per lungo tempo quanto sia difficile lavorare in tali condizioni di disagio, non mitigabile da benefici economici o di altro tipo. Occorre un profondo ripensamento sulla mobilità e sugli interventi da realizzare. L’attenzione ai procedimenti disciplinari relativi ai colleghi, in molti casi non adeguatamente valutati o trattati con superficialità; Il tema delle nomine di direttivi e semidirettivi, che non riguarda solo l’esigenza di massima trasparenza e obbiettività all’atto della scelta, ma anche i tempi delle decisioni, spesso inaccettabilmente lunghi, con la conseguenza che molte sedi rimangono prive di una guida per lunghi periodi; Gli incarichi fuori ruolo, conferiti senza poterne comprendere appieno le ragioni. Occorre ridurli a quelli necessari escludendo quelli di natura fiduciaria-politica che ledono l’immagine della magistratura. Occorre poi rendere trasparenti le procedure di nomina per consentire a tutti i colleghi di parteciparvi. La valutazione di tale esperienza non deve comunque essere preferita rispetto a quelle di chi ha sempre esercitato le funzioni giurisdizionali. E’ vero che il CSM si è già espresso in tal senso ma ne è mancata la concreta attuazione. Il csm percepito come controparte - Al di là delle singole questioni, mi preme sottolineare, ritenendolo un sentire diffuso, come il Csm, secondo il dettato costituzionale organo di autotutela e autogoverno della magistratura, venga ormai percepito da tempo, da una buona parte di noi quasi come una “controparte” lontana e talvolta ostile. Uno dei motivi è che, per esempio, nonostante numerosi provvedimenti del nostro organo di auto-governo siano spesso annullati in sede amministrativa a seguito di ricorsi mossi dal magistrato interessato, il Csm tende a riconfermare i propri provvedimenti con motivazioni sovrapponibili vanificando impropriamente gli effetti del ricorso e rendendo così evidente come l’azione del consiglio spesso non sia guidata dai principi di correttezza, trasparenza ed imparzialità. Vi è poi un argomento cruciale, sempre oggetto di attenzione durante i confronti elettorali: il carico di lavoro dei magistrati. Tutti sono d’accordo che il carico di lavoro è spesso insostenibile, non paragonabile in alcun modo a quello degli altri paesi europei, dove il rapporto tra numero di giudici e pubblici ministeri e fabbisogno nelle diverse aree è ben più calibrato e adeguato. Tutti concordano che occorra porvi rimedio, ma nessuna significativa determinazione strutturale viene messa in campo, nonostante le ripetute promesse elettorali. Il passato - Per curiosità ho ripreso e riletto gli interventi di vari candidati, soprattutto esponenti delle correnti, relativi alle precedenti campagne elettorali, e mi ha sorpreso il fatto che tutti siano sempre stati d’accordo sulle esigenze di cambiamento sulle nomine a pacchetto, sui fuori ruolo indiscriminati, sui carichi di lavoro, sui procedimenti disciplinari. Tutti propongono - ed hanno proposto nel tempo - soluzioni apprezzabili e degne di contraddittorio. Si è però poi constatato che, negli anni di consiliatura trascorsi, a fronte di impegni importanti, ben poco è mutato. Piuttosto si sono perpetrati gli errori del passato in nome di pochi. E’ difficile parlare di tutto. Le questioni sono veramente tante e tutte importanti, ma vorrei fare un cenno alla nuova legge c.d. Cartabia, che tanti malumori sta creando nella magistratura. E’ stata additata come una pessima legge, ed in effetti non si può ritenere il miglior prodotto legislativo sul tema giustizia. Vorrei però dire, richiamando la magistratura ed in primo luogo il futuro CSM ai suoi doveri istituzionali, che forse questa legge si inserisce in un solco di decadimento tracciato da decenni. La legge ha occupato spazi lasciati vuoti o mal gestiti dall’autogoverno della Magistratura. E’ un dato quest’ultimo che emerge in modo lampante considerando che è stata necessaria una legge per ricordarci che: - i procedimenti per la copertura dei posti direttivi o di quelli semidirettivi devono essere definitivi secondo l’ordine temporale in cui i posti si sono resi vacanti; - sarebbe necessaria l’applicazione dei principi di cui alla legge n 241 del 7/8/1990 ai procedimenti per la copertura dei posti direttivi e semidirettivi; - la pubblicità degli atti procedimentali è imprescindibile per un corretto operare del CSM. Ed ancora: - è stata necessaria la legge per affermare che adoperarsi per condizionare indebitamente l’esercizio delle funzioni del Csm al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sè o per altri, integra un illecito disciplinare. Concludo dunque con una domanda rivolta a tutti i magistrati: era veramente necessario che qualcuno ci ricordasse con una legge il comportamento da tenere? Un ultimissimo inciso, per ricordare a tutti noi che il problema delle correnti, o meglio della loro degenerazione, è concreto e reale e non semplicemente un manifesto elettorale, è il richiamo agli interventi dei vari Presidenti della Repubblica sul punto, da Sandro Pertini (1981) a Francesco Cossiga (1991), da Luigi Scalfaro (1992) a Carlo Azeglio Ciampi (2006) e Giorgio Napolitano (2009, 2012 e 2014), fino ad arrivare al Presidente Mattarella da cui sono arrivate le critiche più dure nei confronti della degenerazioni delle correnti all’indomani dello scandalo giudiziario del 2019. Appello a tutti i magistrati - Spetta adesso a tutti noi magistrati il compito di rimettere ordine nelle cose e pretendere un Csm autorevole e legittimato ad interloquire con gli altri organi istituzionali per ottenere interventi legislativi che vadano nella giusta direzione e non in quella semplicemente punitiva. Ma occorre meritarli interventi di questo tipo. Vorrei infine aggiungere che, pur non potendo offrire garanzie sul fatto che su ciascuna delle innumerevoli questioni che dovranno essere affrontate nella prossima consiliatura, io possa pensarla esattamente come ciascuno di voi, posso però garantire che contribuirò all’attività di autogoverno del Csm, per sottrarlo all’arbitrarietà delle correnti, e che in tutte le decisioni, seguirò tre semplici principi: imparzialità, indipendenza e trasparenza. Perché questo seme di cambiamento possa crescere, un candidato indipendente come me ha bisogno del sostegno di tutti i magistrati interessati a questa rivoluzione. Il nuovo Csm riparta dagli uffici di frontiera, baluardo di legalità in territori difficili di Marco Bisogni Il Domani, 27 agosto 2022 Il Csm deve avere ben presente che gli uffici di frontiera (in senso funzionale e non solo geografico) sono presidi di legalità soltanto se messi nelle condizioni di poter funzionare senza pretendere dai magistrati che vi prestano servizio continue ed improprie supplenze alle carenze strutturali di mezzi e risorse. Il prossimo 18 settembre la magistratura italiana sarà chiamata a rinnovare il CSM potendo scegliere, questa volta, tra più di ottanta magistrati (tra questi i candidati di Unità per la Costituzione che si propongono dopo una fase costituente che ha riscritto completamente lo statuto e le regole del gruppo). Si tratta di un numero di candidature straordinario per il recente passato che è già di per se segno della volontà di riscatto dall’immagine deformata della magistratura restituita da quest’ultimo periodo storico. Importanti e complesse saranno, pertanto, le sfide che il nuovo CSM sarà chiamato ad affrontare, il cui esito si rifletterà nel modo in cui verrà resa Giustizia al paese: prime, fra le altre, l’individuazione ed il superamento delle cause da cui hanno avuto origine le degenerazioni rivelatesi dopo il 2019, nonché il raggiungimento degli obiettivi del PNRR con l’attuazione della riforma Cartabia. Il Pnrr - Il PNRR impone obiettivi di smaltimento nazionali ambiziosi (che si associano all’introduzione dei cd. “risultati attesi” nella riforma Cartabia), ma omette di confrontarsi con la necessità di ridurre l’enorme domanda di giustizia proveniente dal paese muovendo dal presupposto che la magistratura italiana possa fronteggiare un numero indefinito di affari garantendo la necessaria qualità e ponderazione della decisione per il cittadino. Appare, quindi, indispensabile che il nuovo CSM agisca nella prospettiva di salvaguardare il ruolo del giudice da derive meramente efficientistiche concludendo il lavoro avviato sulla “pesatura” dei fascicoli (non tutti gli affari richiedono il medesimo impegno) e sui conseguenti carichi sostenibili (intesi come il limite massimo degli affari che possono essere gestiti dal magistrato in rapporto alla loro complessità). Il perseguimento dei risultati del PNRR a livello nazionale non deve poi far dimenticare che - in larghe parti del paese - la sovranità dello Stato italiano è continuamente posta in discussione dalle organizzazioni mafiose che si alimentano anche delle inefficienze del sistema giudiziario. In questi mesi di campagna elettorale - da candidato al CSM per il collegio 2 PM (in servizio presso al DDA di Catania) - ho avuto il privilegio di visitare molti c.d. piccoli uffici nei quali una magistratura coraggiosa cerca di difendere lo stato di diritto dalle scorciatoie spregiudicate offerte dalle associazioni criminali. Si tratta di uffici che costituiscono un punto di vista privilegiato per comprendere - ancor di più - come il processo civile e quello penale siano due lati di una stessa medaglia: una giustizia civile rapida ed efficiente è in grado di contrastare parte della devianza poi oggetto di indagine nel settore penale (si pensi a come i c.d. “recuperi crediti” gestiti dalle organizzazioni criminali scaturiscano anche dalla difficoltà di trovare veloce soddisfazione nelle controversie civili o come parte delle conflittualità penali affondino le radici nella mancata risoluzione di contenziosi di natura civile). Gli uffici di frontiera - Orbene il nuovo CSM - anche nel contesto del PNRR - deve avere ben presente che gli uffici di frontiera (in senso funzionale e non solo geografico) sono presidi di legalità soltanto se messi nelle condizioni di poter funzionare senza pretendere dai magistrati che vi prestano servizio continue ed improprie supplenze alle carenze strutturali di mezzi e risorse. L’attuazione della riforma e la risoluzione delle problematiche connesse alla degenerazione del sistema delle nomine sono, invece, legate alle idee di gerarchia e carriera precipitate all’interno della magistratura dopo le riforme del 2006: il nuovo CSM potrà e dovrà fare molto per recuperare, al contrario, la convinzione che i magistrati si distinguono soltanto per funzione. Gli interventi più importanti andranno, in questo senso, concepiti proprio negli uffici di Procura nei quali l’ulteriore riduzione dell’osmosi tra funzioni requirenti e funzioni giudicanti appare del tutto contraria all’esigenza di mantenere il PM all’interno della giurisdizione. Appare, quindi, indispensabile intervenire nuovamente sulla circolare delle Procure assicurando un controllo effettivo del CSM (che non può essere relegato al momento della conferma del dirigente) sui momenti centrali dell’organizzazione degli uffici requirenti ovvero sui criteri di assegnazione degli affari, sulle successive eventuali coassegnazioni e sul mantenimento dell’effettiva distinzione tra il visto di conoscenza (come quello sulle intercettazioni) e l’assenso obbligatorio. Il modo in cui la magistratura affronterà le sfide dei prossimi anni ci dirà se - dopo la caduta - c’è ancora spazio per recuperare credibilità e autorevolezza: non servono eroi, quanto la voglia e la forza di crederci ancora. “Non si nasconde fuori dal mondo chi lo salva e non lo sa. E’ uno come noi, non dei migliori” (E. Montale). Mancano 1.600 magistrati e i tribunali sospendono i processi di Liana Milella La Repubblica, 27 agosto 2022 Da Milano a Palermo si registrano buchi nell’organico che rallentano l’attività. Lo staff di Cartabia ricorda gli 8.170 assunti all’ufficio del processo. I dati sono lì, e parlano chiaro. Le “scoperture” negli uffici giudiziari italiani ci sono. Di magistrati ne mancano 1.617 su 10.558 in organico, con un 15,32% in meno che pesa come un macigno sui processi italiani. E buchi ci sono pure nel personale amministrativo. Ma non è certo notizia di oggi. Bensì frutto - come dice via Arenula - di “anni di riforme della giustizia a costo zero, nonché di anni e anni di tagli”. Ma ora “la musica è cambiata” perché “grazie al Pnrr e a una diversa visione, la giustizia ha ritrovato la sua centralità nel funzionamento di uno stato di diritto”. Che tradotto significa “più magistrati, più personale amministrativo, garanzie sull’edilizia giudiziaria, digitalizzazione”. Per cui il blocco dei processi, come ha annunciato a Roma il presidente del tribunale Reale, non ci sta. E al Csm, dove ancora ieri non era giunta alcuna nota ufficiale, sono furibondi. Ma le “scoperture” esistono, e basta passare da un tribunale all’altro - come ha fatto Repubblica - per vederne gli effetti. Eccoci a Torino dove invece di 163 giudici ce ne sono 121. Neppure effettivi perché falcidiati dalla prossima pensione o da altri incarichi. E che accade? Le udienze crescono, 196 processi collegiali inviati dai gup nel 2018, 256 nel 2019, 361 nel 2021, 197 fino al 31 luglio. Leggi come il Codice rosso pesano, con un più 30,5% nel 2019, 44% nel 2021 e siamo già al 47,21% a luglio. Indagini più rapide sì, ma processi più lenti. Un meno 26% nell’organico delle cancellerie del tribunale blocca i fascicoli a Milano. Tra poco altri 36 dipendenti andranno in pensione. E i giudici sono 257 invece di 287. Se n’era lamentato il presidente vicario Fabio Roia, segnalando il rischio che a colmare i vuoti potessero essere utilizzati i giovani neolaureati dell’Ufficio del processo, la novità del Pnrr e delle riforme Cartabia. E che dire di Firenze? In tribunale, i sindacati assicurano che manca il 30% del personale. Per ora i calendari delle udienze, sempre piuttosto fitti, non registrano slittamenti, ma la mancanza di personale incide sui tempi della giustizia e sulla disponibilità di date. Ed eccoci a Genova, dove le fonti segnalano che il processo per il crollo del ponte Morandi sta assorbendo risorse fra i magistrati, visto che i tre incaricati non si occupano d’altro. Sulla carta la “scopertura” è del 20%, ma raggiunge il 30 per i giudici in malattia o fuori ruolo. Su 65 toghe, tra civile e penale, ne mancano più di 20. E capita che vengano fissati al 2025 processi giudicati “minori”, resistenza, furti e ricettazioni sotto i mille euro, diffamazioni semplici. La camera penale ligure ha indetto uno sciopero per il 12 settembre. II presidente del tribunale Enrico Ravera ha scritto più volte al Csm per sollecitare nuovi giudici, ma “finora ne è arrivato solo uno”. E che succede a Palermo? Dei 473 magistrati in organico, ce ne sono 407. In procura mancano 18 magistrati su 71. In tribunale 9 giudici e 2 presidenti di sezione in meno, nonché 10 magistrati onorari. Non va meglio nel civile, con 2 posti di presidente di sezione scoperti, 2 di giudice togato e 6 onorari. Allarmante anche la scopertura del 33% all’ufficio di sorveglianza. Su questa carrellata che dice via Arenula? Contrappone dei dati. Come quelli di Genova. La tensostruttura che ha permesso di organizzare il processo per il crollo del ponte, con la stessa regia informatica usata per Rigopiano. O l’interlocuzione con il vice presidente del Csm David Ermini perché i vuoti di organico siano sanati da questo Csm e non dal prossimo. E sull’edilizia via Arenula vanta di aver chiuso la questione di Bari, dove “la giustizia si faceva nelle tende”, e aver lavorato sulle cittadelle di Perugia e Venezia. Ma è sugli organici che lo staff di Cartabia controbatte. Gli 8.170 addetti all’ufficio del processo assunti a febbraio (in totale saranno 16.500), giovani che “possono supportare in tante cose i magistrati, anche andando in udienza come prevede la nostra circolare”. Per esempio proprio al tribunale di Roma. Certo tutto dipende dalla capacità di organizzare un ufficio. Via Arenula vanta i 5.410 informatici e statistici assunti, i due concorsi in magistratura banditi da 310 e 500 posti, l’aver stabilizzato 1.200 operatori giudiziari a giugno 2022, la prossima assunzione a settembre di 2.700 cancellieri “esperti”. E la digitalizzazione in corso di 11 milioni di fascicoli. Ma “anni e anni di carenze non si colmano con la bacchetta magica”. Processi, non sparate sul giudice di Giancarlo de Cataldo La Repubblica, 27 agosto 2022 La crisi della giustizia è colpa del processo accusatorio? La contestata decisione del presidente del Tribunale di Roma di sospendere per sei mesi la fissazione dei processi rappresenta un segnale d’allarme sulla disastrata situazione dei nostri tribunali. Il processo accusatorio, se da un lato offre il massimo delle garanzie all’imputato, dall’altro è lungo e dispendioso. Per questo motivo, nei Paesi che lo hanno adottato, si tende a limitarne l’uso, in ossequio a una considerazione di efficienza e funzionalità: meno dibattimenti si tengono, più sono veloci e trasmettono un’idea di giustizia concreta ed effettiva. Si agisce su due fronti: la riduzione dei reati e la creazione di meccanismi alternativi al dibattimento. Da un lato, dunque, depenalizzazione e discrezionalità dell’azione penale, dall’altro patteggiamento, giudizio abbreviato, e in generale tutte le forme che tendono a giungere a una sentenza evitando il dibattimento. Nell’uno e nell’altro caso, si tratta di scelte assolutamente politiche, nelle quali rientrano un insieme di valutazioni che prescindono dalla sola tensione verso il buon funzionamento della giustizia. In Italia, l’azione penale obbligatoria è un presidio costituzionale. Per cambiarla occorre mettere mano alla Carta, e sul punto non c’è unanimità fra le forze politiche: l’introduzione di criteri di priorità è già, secondo alcune voci tecniche, una forzatura. Per quanto concerne i riti alternativi, essi prevedono una necessaria quota di premialità: l’imputato “rinuncia” alle garanzie del dibattimento in cambio di sconti di pena. E qui non tanto l’unanimità, quanto una sia pur minima base di consenso appare pretesa utopistica. Non esiste forza politica che non abbia a cuore il “proprio” reato, che non invochi per chi lo commette una pena esemplare, che non abbia, negli ultimi anni, imposto restrizioni e vincoli che rendono o impraticabile o fortemente sconsigliato il ricorso ai riti alternativi. Nel “caso italiano” a queste considerazioni se ne possono aggiungere altre, più specifiche. Nel sistema accusatorio, tanto più il dibattimento è necessario, quanto più incerta è la prova. Ma spesso la prova è ampiamente formata prima del dibattimento, come ben sanno gli innumerevoli testimoni chiamati quotidianamente a ripetere al giudice che, sì, l’autovettura targata XX era di loro proprietà, fatto noto sin dal primo verbale di polizia. Tantissimi processi si potrebbero celebrare con le forme del giudizio abbreviato e, al massimo, l’aggiunta di quelle prove strettamente necessarie al decidere. Si dovrebbe, allo scopo, assegnare al giudice il potere di selezionare fra le possibili prove quelle che vanno effettivamente assunte, acquisendo agli atti le altre. Il che, però, presuppone una centralità del ruolo giudicante alla quale si guarda con sospetto. Nessun sistema accusatorio, poi, regge due gradi pieni di giudizio: sotto questo aspetto, piuttosto che abolire l’appello del pm (proposta già bocciata dalla Corte Costituzionale), lo si potrebbe sensibilmente ridurre, anche in questo caso restituendo centralità e potere al giudice. Ma le riforme che si susseguono sembrano rispondere ad altre logiche. Consegue che il dibattimento, che dovrebbe essere l’eccezione, diventa dunque la norma, e si tende a privilegiarlo, in più casi, proprio perché evita i (famigerati) sconti di pena: se questa è la realtà delle cose, non si comprendono tante lamentazioni, posto che l’assetto della giustizia penale è esattamente quello più aderente alle correnti ideologiche e alle forze in campo. A meno di non scaricare la responsabilità sui giudici. Che hanno sicuramente molte colpe, ma non quella di scrivere le leggi e votarle in parlamento. Il femminicidio di Bologna e l’idea rimossa dell’imprevedibilità di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 agosto 2022 C’è chi sogna l’arresto automatico in seguito a ogni denuncia: sarebbe la morte dello stato di diritto. La Procura costretta a difendersi dalle accuse di malagiustizia, ma dalla denuncia della donna poi uccisa dall’ex fidanzato non emergeva il rischio concreto di violenza. La vicenda di Alessandra Matteuzzi, la donna uccisa a martellate dall’ex fidanzato (Giovanni Padovani) martedì scorso a Bologna, ha generato una scia infinita di comprensibile indignazione, ma anche di clamorosi paradossi. In Italia, dove i magistrati fanno qualsiasi cosa senza colpo ferire (sono 30mila le persone indennizzate dal 1991 per essere state ingiustamente private della libertà personale), l’unico caso in cui le toghe vengono criticate è per non aver agito prima del crimine. In altre parole, la cultura imperante del giustizialismo ha portato alla rimozione nel pensiero dell’opinione pubblica dell’idea dell’imprevedibilità: non possono esistere fenomeni naturali con effetti catastrofici non prevedibili (si pensi al terremoto in Abruzzo del 2009 e agli scienziati messi sotto processo e persino condannati, prima di essere assolti), non possono esistere incidenti non prevedibili, non possono esistere morti non prevedibili (si pensi ai dirigenti delle Rsa messi sotto processo e poi prosciolti per i decessi di molti pazienti anziani durante la pandemia di Covid-19), non possono esistere omicidi non prevedibili. Nell’orribile caso bolognese, i soggetti già individuati collettivamente come responsabili sono i pubblici ministeri, che non sarebbero intervenuti in tempo per evitare l’assassinio della donna. Come? Arrestando preventivamente l’ex fidanzato poi resosi autore dell’omicidio. In seguito all’ondata di polemiche, la procura di Bologna ha fatto sapere che non c’è stata alcuna sottovalutazione della denuncia presentata dalla donna. La denuncia era stata ricevuta a fine luglio, il primo agosto era stato immediatamente aperto il fascicolo e subito erano state delegate le indagini, seguendo la procedura ad hoc prevista dal “Codice rosso”. Il punto, ha spiegato il procuratore capo bolognese, Giuseppe Amato, è che dalla denuncia della vittima “non emergevano situazioni di rischio concreto di violenza, era piuttosto la tipica condotta di stalkeraggio molesto”. In un’intervista al Corriere della Sera, Amato ha ribadito: “Noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. L’episodio che poi si è verificato è stato qualcosa di diverso e imprevedibile rispetto al contenuto della denuncia che, ripeto, rappresentava episodi di molestie, spesso via social. Non di violenza”. Di conseguenza, ha spiegato il procuratore, non ci sarebbero stati gli estremi per chiedere l’adozione di un divieto di avvicinamento: “La denuncia era per fatti di molestie da riscontrare. I processi non si fanno sul sentito dire o solo sulle denunce. Non c’era la rappresentazione di una possibile violenza. Il fatto che si è verificato è totalmente sganciato dal fatto denunciato”. “Se vogliamo fare polemica la facciamo - ha aggiunto - Poi il giorno che un arrestato viene assolto comincia la polemica di segno opposto. Molti parlano solo, ma noi dobbiamo cercare i riscontri. Se poi nelle more si fossero verificati fatti pericolosi allora era la polizia giudiziaria che doveva intervenire. Molti soloni dimenticano che i giudizi vanno rapportati alla situazione ex ante. Dopo un omicidio sono tutti bravi a fare i professori”. A escludere violenze fisiche, in realtà, è stato anche lo stesso avvocato Giampiero Barile, a cui la donna si era rivolta per capire a che punto fosse la denuncia: “Glielo chiesi direttamente: lei mi negò di aver mai subito maltrattamenti. Le molestie di Padovani erano più subdole. La controllava sui social, violava i suoi account, si intrometteva nel suo lavoro. E poi la situazione è precipitata in un attimo”. Difficilmente per questi comportamenti la procura avrebbe potuto chiedere al giudice l’adozione di provvedimenti restrittivi (i due, peraltro, intrattenevano un rapporto a distanza, perché lui faceva il calciatore in Sicilia). Insomma, come ha sottolineato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali, “se una donna denuncia atti persecutori mai connotate da indici apprezzabili di violenza fisica o almeno di minaccia alla integrità fisica della vittima secondo la stessa narrazione di quest’ultima, è del tutto ovvio che la reazione della macchina giudiziaria sia proporzionata alla natura delle condotte denunziate”. Anche perché “immaginare che per ciascuna delle migliaia di denunce per stalking possa seguire una reazione del sistema giudiziario idoneo a prevenire esiti omicidiari (per fortuna percentualmente marginali, come è ovvio) è semplicemente una insensata illusione”. Saranno comunque gli ispettori inviati dalla ministra della Giustizia a Bologna a verificare se l’operato dei magistrati sia stato del tutto corretto. Nel frattempo, la senatrice Giulia Bongiorno (candidata per la Lega e aspirante ministra della Giustizia), pur non conoscendo i termini della vicenda, ha parlato di “mancata applicazione del Codice rosso” e ha dettato la ricetta per contrastare le forme di persecuzione contro le donne: “Si fa un uso eccessivo del divieto di avvicinamento quando invece ci vorrebbe il carcere”. Ancora più in là si è spinto il procuratore di Tivoli, Francesco Menditto, che ha proposto di “trattare gli stalker come i mafiosi”. “Femminicidio a Bologna, i limiti della macchina penale vanno accettati” di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 27 agosto 2022 L’intervento del leader dei penalisti italiani sul terribile assassinio di Alessandra Matteuzzi, e sulle dichiarazioni del procuratore di Bologna Amato: “Non sempre gli indizi consentono di prevedere esiti mortali per la vittima, la risposta giudiziaria si basa sul principio di ragionevole prevedibilità” Il procuratore della Repubblica di Bologna, Giuseppe Amato, è notoriamente un magistrato serio, equilibrato e rispettoso delle regole del processo. La sua intervista al Corsera merita dunque attenzione, e sollecita utili riflessioni sul fenomeno degli stalkers che infine, e spesso inopinatamente, si trasformano in brutali assassini delle vittime della loro persecuzione. Più in generale, è utile riflettere su ciò che sia ragionevolmente legittimo attendersi dalla legge penale e dalla sua applicazione in funzione di prevenzione del crimine. Il Procuratore Amato risponde alle accuse di “malagiustizia” avanzate dai familiari della vittima, una signora brutalmente assassinata a martellate dal suo compagno, ossessionato -a quanto leggiamo- da una gelosia patologica. L’accusa è chiara: la macchina giudiziaria si è mossa tardi e male, quell’omicidio poteva e doveva essere evitato posto che la sventurata vittima aveva denunciato il compagno per le sue condotte persecutorie appena un mese prima. Il dolore dei familiari delle vittime e la loro legittima aspettativa di giustizia meritano rispetto e concreta tutela. Ma è altrettanto legittima l’aspettativa che tutti i cittadini, perfino quelli colpiti da tragedie così orrende, sappiano misurarsi con i limiti invalicabili della ragionevolezza, prima ancora che con la comprensione delle regole che governano la repressione dei fenomeni criminali. Il dottor Amato dice, con onestà intellettuale e senza indulgere in ipocrisie, una verità molto semplice, con la quale è bene che il dibattito che già si sta scatenando sulla vicenda faccia i conti con eguale onestà intellettuale. La querela per stalking non segnalava atti di violenza o minacce la cui natura consentisse di preconizzare esiti così drammatici. Se questo è vero - e non dubito che lo sia - occorre trarne le debite conseguenze. Se una donna denuncia atti persecutori (in questo caso, a quanto pare, telefonate ossessive di controllo a lei ed ai familiari, pretese di screen shot della messaggistica, fino ad un distacco della corrente per sorprenderla nel portone di casa) mai connotate da indici apprezzabili di violenza fisica o almeno di minaccia alla integrità fisica della vittima secondo la stessa narrazione di quest’ultima, è del tutto ovvio che la reazione della macchina giudiziaria sia proporzionata alla natura delle condotte denunziate. La ottusa, proterva idea proprietaria coltivata purtroppo diffusamente nei confronti di mogli e compagne si traduce troppo spesso in condotte persecutorie di tipo ossessivo, di sicura rilevanza penale perché idonee a stravolgere la vita e la libertà morale della vittima in modo anche più devastante della pur odiosa violenza fisica, e merita punizioni adeguatamente proporzionate alla straordinaria gravità del fatto. Ma la ragionevole prevedibilità di un esito omicidiario, e dunque l’impegno investigativo e cautelare che quella prevedibilità certamente esige, è tutta un’altra storia. A tragedia consumata, dice con chiarezza il Procuratore Amato, sono tutti bravi a dire che essa andasse prevenuta. Ma immaginare che per ciascuna delle migliaia di denunce per stalking possa seguire una reazione del sistema giudiziario idoneo a prevenire esiti omicidiari (per fortuna percentualmente marginali, come è ovvio) è semplicemente una insensata illusione. La prevenzione (che peraltro, ahinoi, non potrà comunque mai assicurare con certezza la salvezza della vittima di una ossessione patologica) deve essere garantita dal sistema quando il fatto denunciato prospetti, con adeguati e consistenti riscontri indiziari, fatti e condotte del carnefice che facciano ragionevolmente temere o addirittura prevedere la precipitosa evoluzione della persecuzione in omicidio o comunque in attentato alla vita ed alla integrità fisica della vittima. Naturalmente, la “ragionevole prevedibilità” non è una unità di misura oggettiva, come il metro del sarto. Da quando l’uomo ragiona di queste drammatiche difficoltà della funzione giudicante, si indica non a caso, come dicevano i latini, l’”id quod plerumque accidit”, cioè il criterio del “ciò che accade nella maggior parte dei casi”. I comportamenti, certamente odiosi ed inaccettabili, di un uomo che secondo la stessa denunzia non aveva però mai tradotto la persecuzione della sua vittima in atti di violenza o di minaccia alla vita o alla integrità fisica, rendevano prevedibile l’esito omicidiario? La risposta non va trovata nel dolore incommensurabile dei familiari della vittima, o nella nostra civile indignazione, o peggio ancora in convincimenti di natura culturale o ideologica; ma in quella antica regola di razionalità e di civiltà non a caso sopravvissuta attraverso i secoli nella esperienza giudiziaria di noi esseri umani. Ed è piuttosto di questo quotidiano nostro allontanarci da quella misura di giudizio, di questa sempre più incontenibile pretesa di scardinarla in nome del dolore e della indignazione, che dovremmo molto seriamente discutere, e con il dovuto allarme. Femminicidio, legge con il buco così le donne sono in pericolo di Nicola Ferri Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2022 È l’emblema della totale vacuità della legge vigente l’assassinio-femminicidio di Alessandra Matteuzzi uccisa a martellate dal suo ex compagno Giovanni Padovani più volte denunziato dalla donna per stalking senza che nessuna autorità si fosse preoccupata, sin dalle prime minacce e delle violenze, di darle protezione in un luogo sicuro fino all’arresto e alla condanna del suo persecutore (il Procuratore della Repubblica di Bologna, per giustificare la lentezza delle indagini ha detto che i testimoni da interrogare erano in ferie, ma lui poteva immediatamente spedire la polizia giudiziaria negli alberghi, sulle spiagge, in montagna, insomma dovunque, per rintracciare i testi e farli interrogare su quello che lui chiama semplice stalkeraggio molesto trascurando il fatto che questi atti persecutori sono fattori prodromici dell’aggressione omicida). Sono 56 i femminicidi commessi in Italia dal 1° gennaio al 19 giugno 2022, un numero esattamente uguale a quello dell’analogo periodo 2021 e che riguarda 49 donne uccise in ambito familiare o affettivo, delle quali 29 colpite a morte dal partner/ex partner (fonte, ministero dell’Interno). Secondo quanto riportano i media, lo scenario in cui tali delitti vengono consumati è quasi sempre lo stesso. Siccome non viene immediatamente allontanata dall’uomo che l’ha gravemente minacciata o ripetutamente maltrattata, e messa sotto stretta vigilanza, la donna rimane esposta alla vendetta dell’uomo accecato dalla gelosia e dall’odio, il quale non accetta la separazione e non si cura affatto dell’ammonimento del questore né del divieto di avvicinarsi al domicilio o al luogo di lavoro della sua vittima. In questo quadro è lecito chiedersi quante di quelle 56 donne assassinate avrebbero potuto essere salvate se fossero state messe in atto le misure imposte dall’art. 18 della Convenzione di Istanbul del 2012 sottoscritta e ratificata anche dall’Italia le quali “devono proteggere le vittime da nuovi atti di violenza” e “devono concentrarsi sulla sicurezza delle vittime” (l’esperienza delle Case Rifugio ha dato buoni risultati ma il numero di tali strutture va aumentato moltiplicando altresì la presenza di personale specializzato e di controllo). Né questa situazione appare destinata a cambiare se venisse approvato (in via d’ urgenza, anche a Camere sciolte), il disegno di legge n. 2530 presentato al Senato il 16 febbraio 2022 dai ministri Bonetti (Pari opportunità), Lamorgese (Interno) e Cartabia (Giustizia) il quale, accanto a norme condivisibili sul contrasto della violenza nei confronti delle donne, prevede (art. 11) che le indagini abbiano corso solo su denunzia o querela della donna minacciata o sottoposta a violenza, (ma costei non trova quasi mai il coraggio di rivolgersi agli organi di polizia con il rischio di rendere ancora più gravi le minacce e le violenze, specie in presenza di figli minori). Del tutto insufficiente ai fini della protezione della donna in pericolo si dimostra poi lo stesso art. 11 secondo cui “L’organo di polizia, qualora dai primi accertamenti emergano concreti e rilevanti elementi di pericolo di reiterazione della condotta, ne dà comunicazione al prefetto che… può adottare misure di vigilanza dinamica da sottoporre a revisione trimestrale , a tutela della persona offesa” , laddove “vigilanza dinamica” dovrebbe significare che, saltuariamente, una Gazzella o una Pantera facciano il giro del palazzo dove abita la vittima designata, con la speranza che così il persecutore possa spaventarsi e desistere dai suoi insani propositi: una misura parziale che, prevedibilmente, non impedirebbe neppure uno dei futuri femminicidi. I braccialetti elettronici ci sono e si possono usare per gli stalker di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2022 Il procuratore di Bologna ha escluso che il controllo a distanza potesse essere applicato nel caso dell’omicida di Alessandra Matteuzzi. Eppure... Si ritorna a parlare di braccialetti elettronici dopo l’ultimo tragico femminicidio, quello di Alessandra Matteuzzi. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, in un’intervista al Corriere della Sera ha dichiarato che i braccialetti elettronici “dovrebbero essere uno strumento autonomo e non una misura accessoria dei domiciliari. E lo Stato dovrebbe impegnarsi a trovarli”. Ma è vero che mancano i braccialetti elettronici per l’utilizzo antistalker e che possono essere utilizzati solo nel caso degli arresti domiciliari? No, non è così. Per quanto riguarda la disponibilità, è compito del ministero degli Interni richiederli alla società Fastweb, che vinse il bando di gara al dicembre del 2018 con un contratto da 23 milioni per 1.000/1.200 al mese da fine 2018 a fine 2021. Casomai, visto che il contratto è scaduto da otto mesi, c’è bisogno di un nuovo bando che lo rinnovi. Il quantitativo, comunque, dipende da quanto richiesto di volta in volta dal Viminale. Per quanto riguarda il loro utilizzo, oltre per la questione deflattiva penitenziaria (e quindi i domiciliari), i braccialetti possono essere estesi anche alla misura cautelare del divieto di avvicinamento alla presunta vittima. Il 9 agosto del 2019, infatti, è stata varata le legge, il cosiddetto Codice rosso, che ha recato modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. In questa occasione è stata introdotto la possibilità di fare ricorso all’utilizzo del braccialetto elettronico anche nel caso di stalking. Da quasi tre anni, quindi, con la modifica dell’articolo 282 ter comma 1 del codice di procedura penale, l’uso del braccialetto è volto anche per disporre il divieto di avvicinamento. Con questa misura cautelare l’autorità giudiziaria vieta all’indagato o imputato di avvicinarsi alla vittima, impedendogli di visitare i posti che normalmente la persona offesa frequenta. Così, ad esempio, se la vittima di stalking frequenta la palestra, il giudice ordinerà allo stalker di mantenere le distanze anche da quel luogo. In caso di trasgressione del divieto, la misura può essere sostituita con una maggiormente afflittiva come, ad esempio, gli arresti domiciliari. Ma c’è prevenzione totale nei confronti della potenziale vittima? No, perché teoricamente l’aggressore può avvicinarsi a lei, pedinandola in altri luoghi dove il divieto non c’è e il braccialetto elettronico non servirebbe a nulla. L’esempio virtuoso è quello spagnolo, dove la potenziale vittima di aggressione è dotata di un dispositivo in grado di rilevare la presenza dell’aggressore - dotato di braccialetto elettronico - nelle vicinanze e di generare immediatamente un allarme verso il Centro di Monitoraggio. I dispositivi permettono di tracciare costantemente la posizione del molestatore e notificano immediatamente al Centro di controllo la violazione di una delle zone di sicurezza attorno alla vittima. In questo modo esiste anche la possibilità di contattare la persona in regime interdittivo per verificarne le intenzioni e dissuaderla. La vittima dello stalker, d’altro canto, è dotata di un dispositivo portatile nel quale è presente un bottone di allarme che attiva anche la chiamata diretta con l’operatore. Ciò che in realtà manca da noi. In Spagna, dove tale scenario è già in uso dal 2009, a fronte di una crescita costante delle denunce per violenza domestica, la diminuzione degli omicidi legati alla violenza di genere nella Comunità Autonoma di Madrid è stato pari al 33,33% (da sei a quattro) rispetto all’andamento nazionale che ha registrato un calo del 18,75%. Dal 2009 sono stati confermati i successi della prima sperimentazione: nessuna delle vittime sottoposta a controllo elettronico è stata nuovamente oggetto di violenza. Basta omertà sulle forze dell’ordine: identifichiamo chi sono i violenti di Ilaria Cucchi Il Domani, 27 agosto 2022 Quando accade, come è accaduto, che appartenenti delle forze dell’ordine si macchiano di comportamenti e atti che violano regole fondanti la legittimità del loro operato, durante tumulti e scontri in manifestazioni di piazza, il sistema viene messo in grave crisi e lo stato ferito. Chi sbaglia, in nome e con la divisa dello stato, non può rimanere impunito. Lo Stato ha il potere, che gli deve competere in via esclusiva, dell’uso della forza nei confronti delle persone, qualora ve ne dovessero essere i presupposti stabiliti dalla legge e dalla nostra Carta costituzionale. La violenza è prerogativa che gli spetta ma che è e deve essere rigorosamente limitata a confini ben delineati così da non compromettere la tutela del rispetto dei diritti umani. Mai e poi mai deve accadere che forza e violenza vengano esercitate in modo fine a sé stesso, inutilmente cruento. Debbono semplicemente essere necessarie perché non esiste altra possibilità alternativa di intervento. Sono concetti semplici e, a parole, oggetto di unanime condivisione, salvo qualche tanto rara quanto deprecabile eccezione.Le operazioni di ordine pubblico sono il terreno più frequente sul quale si misurano questi concetti basilari per l’esistenza di uno sistema democratico moderno. Quando accade, come è accaduto, che appartenenti delle forze dell’ordine si macchiano di comportamenti e atti che violano queste regole fondanti la legittimità del loro operato, durante tumulti e scontri in manifestazioni di piazza, il sistema viene messo in grave crisi e lo stato ferito. Essi violano la legge commettendo reati esattamente come quelli che sarebbero stati chiamati a prevenire e reprimere. Si confondono con gli stessi criminali responsabili dei disordini che dovrebbero reprimere, e assicurare alla giustizia. Tutti responsabili di reati, diversi, ma pur sempre reati. E la piazza diventa una giungla. Si distinguono solo perché indossano una divisa che, in quel modo, infangano, con tanto di tenuta cosiddetta antisommossa: caschi, visiere protezioni, e manganelli. Tutto rigorosamente anonimo che ne rende impossibile l’individuazione e invece dà la possibilità dell’impunità. Ciò è veramente inaccettabile, semplicemente indegno. Talvolta ci vanno di mezzo cittadini malcapitati come Paolo Scaroni, tifoso del Brescia che il 24 settembre 2005 è rimasto vittima di una violenta aggressione alla stazione di Verona da parte di agenti di polizia. Rimase in coma due mesi ed è tutt’ora invalido al 100 per cento. Quei criminali, perché non sono altro che questo, non sono mai stati identificati con certezza e gli imputati del processo che ne conseguì sono stati tutti assolti per insufficienza di prove Sorte analoga subì Luca Fanesi, tifoso della Sambenedettese che rimase gravemente ferito, il 5 novembre 2017, a Vicenza. Testa devastata da numerose gravi fratture, lungo periodo di coma, ora invalido anche lui al 100 per cento. Tutto archiviato. Pende ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Non è mio intendimento criminalizzare tutti gli operatori di polizia ma mi astengo dal cedere alla solita ipocrita retorica delle mele marce. Il problema c’è. Esiste eccome! Tanto è vero che il parlamento europeo, con richiesta del 12 dicembre 2012, ha esortato tutti gli stati membri affinché dotino le divise di tutti gli operatori delle forze dell’ordine di codici d’identificazione ben visibili affinché l’autorità possa agevolmente risalire alla loro identità. Così si otterrebbe trasparenza e responsabilità. In una parola, è questione di civiltà. Quasi tutti gli stati membri dell’Unione europea lo hanno fatto, tranne, ovviamente, noi. Cinque progetti di legge e 155mila firme raccolte da Amnesty non sono bastate. La fiera ritrosia, finanche ostilità, delle autorità di polizia a collaborare in tal senso, non solo non è comprensibile ma ricorda, purtroppo, quella opposta pervicacemente all’approvazione della legge sulla tortura. Chi sbaglia, in nome e con la divisa dello stato, non può rimanere impunito. Terrificante se lo rimane perché anonimo e senza volto. Mi adopererò con tutti i mezzi che mi verranno messi a disposizione, se verrò eletta, affinché questa legge venga finalmente approvata. Sicilia. Due detenuti suicidi in meno di 48 ore, a Siracusa aperta un’inchiesta di Alessia Candito La Repubblica, 27 agosto 2022 Al carcere di Cavadonna un bracciante 34enne trovato impiccato in cella. Ventiquattro ore prima un 44enne catanese si è tolto la vita nel carcere di Caltagirone. Entrambi avevano problemi psichiatrici ma sono finiti comunque in cella. Due suicidi in carcere in meno di quarantotto ore. Un bracciante di 34 anni trovato impiccato a Siracusa, un catanese 44enne morto a Caltagirone. Entrambi con problemi psichiatrici, entrambi - è il sospetto - lasciati senza assistenza alcuna. D.A. Era finito in carcere per un reato minore, oltraggio a pubblico ufficiale. Ma dalla cella, un bracciante trentaquattrenne gambiano non uscirà più. Sebbene fosse stato segnalato perché affetto da problemi psichiatrici, sarebbe stato lasciato senza sorveglianza e questa mattina è stato trovato impiccato nella sua cella. Sul caso, è stata avviata un’indagine interna, ma anche la procura di Siracusa ha aperto un fascicolo per accertare eventuali responsabilità. “Si tratta del settimo suicidio registrato dall’inizio dell’anno nelle carceri siciliane. Un numero molto elevato se si considera che la popolazione carceraria nell’Isola è di 5.300 detenuti - denuncia Pino Apprendi dell’Osservatorio Antigone Sicilia - Agli eventi più tragici, poi, si vanno ad aggiungere una notevole quantità di atti di autolesionismo. In entrambi i casi le vittime sono spesso persone giovani, con fragilità psicofisiche e in carcere per reati di lieve entità”. Al riguardo, aggiunge poi, “Il silenzio della politica è scandaloso”. Anche perché si tratta del secondo suicidio in carcere in meno di quarantotto ore. S.M era finito dentro per aver rubato 180 euro e un cellulare. Lo avevano acciuffato subito, anche la refurtiva era stata immediatamente restituita, ma nonostante fosse da tempo in cura da uno psichiatra per una psicosi, per lui il giudice ha ordinato il carcere. Inizialmente era stato posto in regime di sorveglianza, c’era un piantone fisso a vigilare sulla cella. Qualche giorno dopo la revoca della vigilanza, l’uomo è stato trovato morto nella sua cella. Siracusa. Giovane detenuto si impicca, era in carcere per oltraggio a pubblico ufficiale AgenPress, 27 agosto 2022 Tragedia nel carcere Cavadonna di Siracusa, dove un giovane originario del Gambia, D.A., detenuto nel blocco 50, è stato trovato morto nella sua cella, dove si era impiccato. Aveva 34 anni e si trovava in carcere per oltraggio a pubblico ufficiale. In precedenza aveva lavorato nei campi intorno a Cassibile come lavoratore stagionale. Gli agenti della Polizia penitenziaria hanno tentato di soccorrere il ragazzo ma inutilmente. Il giovane si trovava al blocco 50 quello dei detenuti per reati comuni. Sembra che la direzione del carcere lo avesse già attenzionato per alcuni problemi di carattere psichiatrico. E’ stata avviata un’indagine interna per verificare cosa sia accaduto ed anche la Procura di Siracusa ha aperto un fascicolo. “Si tratta del settimo suicidio registrato dall’inizio dell’anno nelle carceri siciliane. Un numero molto elevato se si considera che la popolazione carceraria nell’Isola è di 5.300 detenuti circa. Agli eventi più tragici, poi, si vanno ad aggiungere una notevole quantità di atti di autolesionismo. In entrambi i casi le vittime sono spesso persone giovani, con fragilità psicofisiche e in carcere per reati di lieve entità”. Lo dice Pino Apprendi dell’Osservatorio Antigone Sicilia, l’associazione che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, commentando la notizia del suicidio di un giovane gambiano, che oggi è stato trovato impiccato nella sua cella del penitenziario di Contrada Cavadonna a Siracusa. “È scandaloso il silenzio della politica di fronte all’ennesimo suicidio verificatosi all’interno delle carceri. Ecco perché in questi casi riteniamo necessario rivedere il sistema penale per introdurre misure alternative alla detenzione. Il carcere, infatti, in molte circostanze non è la soluzione idonea per l’espiazione della pena e la rieducazione della persona”. Caltagirone. Il catanese suicida in cella aveva problemi psichici, non doveva finire in un carcere di Antonio Giordano livesicilia.it, 27 agosto 2022 Alla fine perdono tutti. Perde un uomo con problemi psichici, lasciato da solo nella cella in cui decide di suicidarsi una settimana dopo aver rubato 180 euro e un telefonino. Ma perde anche l’amministrazione penitenziaria, che con la morte per impiccagione di Simone Melardi, catanese di 44 anni, nella casa circondariale di Caltagirone, arriva a 55 morti per suicidio su tutto il territorio nazionale dall’inizio dell’anno. Un’impennata rispetto all’anno scorso, quando i suicidi in carcere furono 57 nei 12 mesi. Il caso di una persona che in carcere non avrebbe mai dovuto entrarci. L’arresto e la detenzione - La storia di Melardi nel sistema carcerario è un battito di ciglia, nel contesto dei tempi e dei modi pachidermici in cui è abituata a muoversi la giustizia penale. Il 18 di agosto, giovedì, il 44enne è accusato di furto all’interno del Teatro Massimo Bellini di Catania. Bottino: 180 euro, un portafogli e un cellulare, subito restituiti. Venerdì scorso, il 19, l’uomo è processato per direttissima, con la convalida per l’arresto. “Lo hanno mandato al carcere di Gela perché a piazza Lanza non c’era posto” racconta Rita Lucia Faro, avvocato di Melardi. “Il giorno successivo, sabato 20, ho telefonato a Gela per capire come organizzarsi per le visite dei familiari, che si stavano già organizzando, e spedire dei pacchi”. Poi Melardi è stato spostato alla casa circondariale di Caltagirone: Faro presume che sia avvenuto lunedì, “ma lo spostamento è avvenuto senza che mi avvertissero”. La diagnosi - Melardi entra in carcere con una diagnosi di psicosi Nas (non altrimenti specificata) fatta dallo psichiatra che lo ha in cura, e per questo l’avvocato Faro trascorre la settimana a preparare i documenti per spostarlo in una struttura alternativa. “Ho lavorato a stretto contatto con lo psichiatra di Melardi - racconta Faro - e i documenti sulla sua condizione psichica erano noti anche al carcere, tanto che era in regime di sorveglianza. Durante i primi giorni c’era anche un piantone, che poi, mi è stato riferito, è stato ritenuto non necessario”. La speranza era di farlo uscire prima possibile per spostarlo in una comunità terapeutica assistita, ma giovedì 25 agosto alle 3 del mattino arriva la telefonata dal carcere di Caltagirone: l’uomo si è ucciso, impiccandosi nella sua cella. L’avvocato Faro ha annunciato subito un esposto: “Vogliamo capire se ci siano state delle negligenze - dice - e come è stato possibile che Melardi abbia potuto avere il tempo e l’opportunità per fare il suo gesto”. Lo scenario delle ultime ore di vita di Simone Melardi è la casa circondariale di Caltagirone. In cui nell’ultimo anno sono successi diversi fatti arrivati anche sui giornali, come l’omicidio di un uomo, da parte del suo compagno di cella, scoperto dopo 48 ore dall’uccisione. Chi ci è entrato assicura che si tratta di un carcere assolutamente nella media del sistema penitenziario italiano, a tratti anche migliore. Costruita nel 2002, la struttura non è antiquata anche se ha bisogno di continui lavori di manutenzione: il blocco 50 soffre di continue infiltrazioni. Al suo interno sono detenute 370 persone su 541 posti regolamentari (anche se 64 risultano non disponibili, a causa dei lavori), e si svolgono molte attività “trattamentali”, ovvero a sostegno del recupero dei detenuti: corsi di formazione, attività. Ultimo, ma non meno importante, chi ci è stato racconta che la direzione è molto sensibile alle esigenze dei detenuti e prende molto a cuore la vicenda di ciascuno. Come ogni carcere, anche Caltagirone ha i suoi problemi e i suoi limiti. La struttura, dei cui problemi di manutenzione si è detto, è anche lontana dal centro abitato, per cui non è facile per i familiari raggiungerla. Tra i detenuti una quota rilevante, 146, presenta problemi psichiatrici, come si legge sul sito di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, e all’interno del carcere non c’è una struttura psichiatrica. In questo scenario, il personale di Polizia penitenziaria al suo interno è di 171 agenti effettivi a fronte di 201 previsti: persone che devono affrontare turni straordinari e stress da lavoro, alla fine di un periodo, quello del Covid, in cui proprio gli uomini e le donne della Polizia penitenziaria hanno dovuto gestire un’ulteriore pressione, continuamente denunciata dalle associazioni di categoria. Le alternative - Il problema in altre parole non è il carcere di Caltagirone in sè, ma il sistema complessivo in cui si inserisce. A suggerirlo è Pino Apprendi, di Antigone Sicilia: “Persone come Melardi non devono proprio entrare in un carcere - dice - hanno bisogno di cure, di assistenza particolare, e andrebbero fornite subito alternative come le case famiglia, le Rems (Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza) e altri percorsi. Il problema è strutturale, serve una riforma per non portare in carcere gente che non deve assolutamente entrarci”. Il problema strutturale, in un sistema povero di alternative, finisce poi per scaricarsi nel rapporto tra poliziotti e detenuti: “Non si può - dice ancora Apprendi - scaricare la responsabilità di affrontare problemi così complessi a un poliziotto, che è l’ultimo anello della catena del ministero della giustizia e che non può occuparsene. Casi come quello di Melardi non dovrebbero proprio stare in un carcere, dovrebbero essere altri tipi di professionalità a gestirli”. Terni. “Carcere, occorrono subito misure concrete” La Nazione, 27 agosto 2022, 27 agosto 2022 Le forze politiche, di maggioranza e minoranza, intervengono dopo la morte del detenuto per autolesionismo e chiedono interventi. La morte del detenuto, 49 anni di origini marocchine, per le conseguenze degli atti di autolesionismo che si era procurato in cella e le proteste degli agenti di Polizia penitenziaria che lavorano nella casa circondariale di vocabolo Sabbione riportano alla ribalta l’emergenza-carcere, dalla quale Terni non sembra immune. Il dibattito si articola, tra prese di posizione e polemiche. “I fatti gravi e drammatici verificatisi nel carcere di Terni vanno attenzionati per mettere in campo misure concrete - sottolineano dal Pd il segretario Pierluigi Spinellli e il capogruppo Francesco Filipponi. Per questo mesi fa, su segnalazione del Pd di Terni, si attivò immediatamente il deputato Walter Verini che, dopo un sopralluogo, ottenne un trasferimento di detenuti e un aumento del numero delle guardie carcerarie. Una misura che non è sufficiente a risolvere il problema di sovraffollamento e sicurezza, che va affrontato alla radice, ma è un’azione concreta, che si contrappone a uscite demagogiche e come quelle della Lega, che propone l’utilizzo del taser, dimostrando superficialità e non comprensione del problema”. La Lega Umbria a proposito del taser sottolinea: “Vogliamo lavorare per estendere l’utilizzo del taser agli agenti delle carceri, uno strumento che grazie all’impegno della Lega è già utilizzato in Umbria da Carabinieri e Polizia e si sta rivelando molto utile”. Non solo, però. La Lega assicura di volersi battere, oltre che per un auento dell’organico, anche per i rimpatri “nella considerazione dei dati elaborati dal Ministero della Giustizia secondo cui circa un terzo dei detenuti presenti nelle carceri umbre è straniero. È necessario consolidare i rapporti con i Paesi di provenienza dei detenuti e prevedere, con il ripristino dei Decreti Sicurezza di Salvini, la possibilità di intensificare i rimpatri al termine del periodo di detenzione per i soggetti più pericolosi”. All’attacco anche Alessandro Gentiletti, capogruppo in Comune di Senso Civico: “Abominevole che la Lega ternana, davanti all’ennesima tragedia faccia propaganda e strumentalizzi, indicando come soluzione il rimpatrio e accanendosi quindi sulla vittima. Una posizione politica che trasuda sciacallaggio e che non risolve i problemi di personale che, raccogliendo le preoccupazioni dei sindacati di polizia penitenziaria, con altre forze alleate da tempo segnaliamo. Il sindaco di Terni, incalzato da me più volte, non ha mai fornito risposte su come si è attivato, quali interlocuzioni ha svolto e come ha utilizzato il pieno mandato che il Consiglio comunale gli ha dato per ottenere più personale per il carcere ternano, tutelando cosi la polizia penitenziaria e i detenuti”. Torino. Lo sciopero della fame delle detenute contro l’indifferenza dei politici di Alice Michielon alfemminile.com, 27 agosto 2022 Alcune detenute della sezione femminile hanno istituito uno sciopero della fame a staffetta che durerà fino al 25 settembre, giorno delle elezioni politiche in Italia. L’obiettivo è di sottolineare l’indifferenza dei politici contro le disastrose condizioni delle carceri italiane. Le imminenti elezioni politiche e il sovrapporsi delle varie e numerose agende dei partiti in lizza mettono inevitabilmente in luce problematiche che, a volte, vengono superficialmente ignorate; tra queste, rientra perfettamente la questione delle carceri, i cui detenuti aspettano da tempo una riforma per migliorarne le condizioni, che però non ha ancora visto la luce del sole. Così, a sensibilizzare sul tema ci pensano le detenute stesse delle Vallette di Torino, con una lettera scritta a mano pubblicata online e uno sciopero della fame contro la staticità della politica nei loro confronti. Lo sciopero della fame delle detenute delle Vallette di Torino è stato annunciato tramite la pubblicazione online di una lettera da loro scritta a mano e diffusa dall’esponente di Potere al Popolo Nicoletta Dosio. La lettera d’intenti inizia così: “Scriviamo da una cella della sezione femminile delle Vallette. Ognuna di noi, dal 24 agosto al 25 settembre, farà alcuni giorni di sciopero della fame. A staffetta ognuna di noi vuole esprimere solidarietà per tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente. Ognuna di noi, aderendo a questa iniziativa non violenta, vuole esprimere lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica, e delle istituzioni.” Allo sciopero hanno aderito anche alcuni attivisti dell’associazione Marco Pannella e la presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, Rita Bernardini, la lega internazionale per l’abolizione della pena di morte nel mondo. La lettera prosegue con accuse da parte delle detenute verso la politica: “Mentre voi non ci nominate, noi vi accompagniamo fino al giorno delle elezioni, poi dopo si aprirà l’ennesimo capitolo… Ci negate una riforma da anni...Ciononostante, noi non ci zittiamo”. E mentre si attende, appunto, una riforma carceraria per migliorare le condizioni di tutti i detenuti, gli ultimi dati relativi alle carceri italiane attestano 52 suicidi in un solo anno, che in proporzione significa un morto per ogni mille detenuti. Inoltre, il sistema carcerario italiano è già stato precedentemente sanzionato dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, per “trattamenti inumani e degradanti” in relazione allo stato di sovraffollamento che colpisce molte istituzioni carcerarie. Della politica si colpevolizza la mancanza di una regolazione strutturata come strutturale è il problema dello stato del sistema penale. Scrivono, a titolo della lettera: “Il vero crimine è stare con le mani in mano”. Torino. “Le detenute in sciopero della fame hanno ragione, sono andato a incontrarle” di Giuseppe Legato La Stampa, 27 agosto 2022 L’ex sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, oggi candidato al Senato per il Pd ha fatto visita alle donne nel carcere di Torino: “Chiedono misure alternative e più personale educativo e formativo, ritengo che siano giuste richieste”. L’altroieri la lettera delle detenute del carcere Lorusso e Cutugno di Torino che annunciava lo sciopero della fame contro - parole loro - il “menefreghismo” della politica verso “le ristrette in cattività”. Ieri mattina alle 10 l’incontro con l’ex sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, candidato Pd al Senato. “Non ho paura di fare campagna elettorale parlando anche del carcere e dei diritti dei detenuti”, dice. Giorgis, dica la verità: quando ha deciso di andare a trovare le detenute avrà temuto che avrebbero pensato a una sfilata elettorale. O no? “Devo dirle sinceramente di no, e infatti ho riscontrato un atteggiamento di fiducia e di speranza nell’azione delle istituzioni”. Ecco, cosa si aspettano le detenute di Torino? “Chiedono una più rapida ed effettiva applicazione delle misure alternative al carcere, già in vigore. Sottolineano la necessità che ci sia più personale, più assistenti sociali, più educatori, più occasioni di lavoro per fare in modo che la pena non sia pura reclusione e il carcere sia anche un luogo di ricostruzione, come prescrive la Costituzione. Del resto, come dimostra l’esperienza di Opera, da dove proviene la stessa direttrice, un efficace trattamento rieducativo incide positivamente sui tassi di recidiva”. Cosa ha risposto a queste donne? “Che il senso delle ultime riforme volute dal Pd e dalla ministra Cartabia va in questa direzione. E che occorre potenziare e accelerare le procedure di assunzione di personale, sia di polizia penitenziaria, sia amministrativo, sia di quello dedicato al trattamento rieducativo, all’interno e all’esterno del carcere; nonché ammodernare e digitalizzare le strutture”. Cosa si è fatto finora in questa direzione? “È stata ampliata la pianta organica degli educatori e sono stati assunti nuovi mediatori culturali: nell’arco di poche settimane prenderanno servizio a Torino circa dieci nuove unità. Sono inoltre stati destinati al carcere 16 nuovi viceispettori e una parte considerevole dei 54 nuovi agenti in arrivo nel distretto”. C’è anche un tema strutturale però. Il carcere è vecchio e ha bisogno di una ristrutturazione. A che punto siamo? “Al Sestante (reparto psichiatrico oggetto di inchieste della magistratura, ndr) i lavori di ristrutturazione proseguono e sono a buon punto”. Su cosa bisogna ancora intervenire? “Su molti aspetti, a partire dal potenziamento dei servizi di psichiatria, un’urgenza da non trascurare: la reclusione spesso acuisce la malattia”. Livorno. Dal carcere al palco, vanno in scena i detenuti 9colonne.it, 27 agosto 2022 Sabato 10, domenica 11 e lunedì 12 settembre, dopo il debutto dello scorso giugno, la Casa di Reclusione dell’Isola di Gorgona (Livorno) torna ad aprire le porte al pubblico per “Metamorfosi”, spettacolo che vede protagonisti i detenuti/attori della Casa di Reclusione e che segue il successo di “Ulisse o colori della mente”, vincitore del premio “Anct 2020 Catarsi - Teatri della Diversita?”. “Metamorfosi” è il secondo episodio della trilogia “Il teatro del mare” ideata da Gianfranco Pedullà e realizzata artisticamente in collaborazione con Francesco Giorgi e Chiara Migliorini. Anche “Metamorfosi” - dopo il primo episodio “Ulisse o colori della mente” - è un invito a riappropriarsi della dimensione simbolica della vita, ad uscire tutti dalle piccole prigioni del quotidiano. Partendo da alcuni spunti della straordinaria opera “Metamorfosi” - scritta da Ovidio oltre duemila anni fa - lo spettacolo ripercorre poeticamente e ironicamente i grandi miti di fondazione della civiltà: dall’Età dell’oro all’età del Ferro; dal mito di Bahamut alle Arpie, dal Minotauro a Diogene che cerca l’uomo, dall’Araba Fenice ad Apollo e Dafne, da Teseo e Arianna per rivedere le grandi Costellazioni del cielo: fino a quando l’apparizione di un Cavallo marino non riporterà lo spettatore nel grembo della Grande Madre Terra. “Metamorfosi” è una proposta di cambiamento: un invito a tuffarci nei miti del Mediterraneo per ripensare al nostro presente e immaginare un avvenire migliore. Il volontariato post Covid: cala il numero delle associazioni ma crescono solidarietà e donazioni di Viola Giannoli La Repubblica, 27 agosto 2022 Il 20% delle piccole realtà non profit è sparito, anche a causa del caro bollette. Ma l’emergenza ha lasciato un’eredità positiva: l’aumento di chi sceglie di aiutare in modo spontaneo e tramite il web. “Il volontariato è una straordinaria energia civile che aiuta le comunità ad affrontare le sfide del tempo e le sue difficoltà”. Era il 5 dicembre del 2021 quando Sergio Mattarella parlava così del mondo della solidarietà. La città era Bergamo, prima capitale italiana del volontariato, e diversamente non avrebbe potuto essere: l’epicentro della pandemia era stato scelto come simbolo di una nuova generosità segnata dalle ferite, dalle distanze ma pure dalle nuove necessità del Covid-19. Il volontariato trasformato causa Covid - Dopo la stagione di resistenza del Terzo settore ai picconamenti politici della destra, negli ultimi tre anni infatti il volontariato - di tempo, di capacità, di denaro - si è dovuto necessariamente concentrare “sul fronte dell’emergenza sanitaria che ha drenato risorse, lasciando indietro altre cause importanti di cui il non profit si occupa”, ha spiegato il presidente dell’Istituto italiano donazioni Stefano Tabò. Ma quella generosità ne è uscita fiaccata solo in parte, si è trasformata ma mai arresa. Anzi, nell’emergenza più dura, si è fatta diffusa, capillare, tenace. Gli ultimi dati disponibili, in attesa del nuovo censimento Istat in autunno, raccontano di 362.634 istituzioni non profit, 861.919 dipendenti e quasi 7 milioni di volontari. Una fetta importante di loro opera in una o più organizzazioni. Ma secondo Open Cooperazione alcune tra le principali associazioni hanno dovuto fare i conti, tra il 2019 e il 2020, con un calo di persone a disposizione. Il 20% delle non profit ha chiuso - Le più piccole si sono ritrovate senza mezzi e senza sede, in molti casi hanno fermato le attività; alcune tra le più grandi, pur restando un forte riferimento, anche ideale, hanno faticato a riorganizzarsi. Tra il 50 e l’80% delle associazioni, raccontano i Centri per i servizi al volontariato (Csv), ha continuato a operare: significa che un altro 20% almeno ha chiuso. Senza contare che buona parte della classe dirigente, perlopiù anziana, è andata perduta, per prolungata indisponibilità o perché vittima del Covid, soprattutto in Nord Italia in cui abitano metà delle organizzazioni non profit. L’aiuto digitale e la carica dei volontari fai da te - Se qualcosa, al mondo solidale, la pandemia ha lasciato in eredità è però, da un lato, l’affermazione definitiva del volontariato digitale che ha offerto un aiuto concreto seppur a distanza e, dall’altro, l’aumento del volontariato spontaneo, individuale, ma a tempo determinato. Un’onda emotiva che ha portato a darsi da fare nei pacchi spesa, nella distribuzione di cibo, nel trasporto di medicine, nei doposcuola per i ragazzi senza più la scuola, nell’aiuto in strada a chi doveva sì “restare a casa” ma una casa non l’aveva. E ancora, fuori dall’emergenza e dai settori tradizionali del volontariato (cultura e sport attraggono la metà dei cittadini), a impegnarsi a chiamata, sono stati i giovanissimi tra i 14 e i 24 anni per l’ambiente, i diritti civili, la pace. Il caro bollette e la tempesta perfetta - I numeri della Croce rossa, ad esempio, dimostrano come nella fase acuta della pandemia i cittadini volontari siano stati 10mila in più. Lo stesso vale per la Comunità di Sant’Egidio: mille in aggiunta solo su Roma. Ora la domanda cruciale delle organizzazioni, più o meno grandi, è: come fare a trattenere i volontari “spot”, a formarli, a farli restare agganciati a lungo termine a quel mondo solidale di cui si ha estremamente bisogno e che ha estremamente bisogno di loro? “Sul volontariato si è abbattuta la tempesta perfetta - dice Chiara Tommasini, presidente nazionale Csv - Chi si occupava di attività ricreative ha dovuto chiudere; le associazioni più piccole che non attingono alle agevolazioni hanno risentito del caro bollette; la protezione civile, l’assistenza, le mense e, da ultimo, il sistema dell’accoglienza dall’Ucraina hanno avuto un surplus di attività inimmaginabile. Perfino le donazioni di sangue sono stato colpite dal Covid”. I donatori hanno dato solo alle “emergenze” - I dati Bva Doxa dicono che anche quando si parla di soldi a crescere è stata la quota dei donatori “emergenziali” che si sono rivolti alle grandi raccolte fondi nazionali invece di passare attraverso le associazioni tradizionali non profit, più piccole ma maggiormente capaci di progettualità, radicamento, impatto sulle comunità. L’ultimo allarme, sul fronte delle casse, era arrivato dalla proposta del senatore leghista Giovanni Rufa di estendere, aumentandone lo stanziamento, il 5 per mille alle forze dell’ordine. Una scelta che avrebbe stravolto l’istituto di sostegno alle attività in favore della collettività. E infatti, tra le proteste, è arrivato il dietrofront. Nuova normativa fiscale per il terzo settore - Una risposta, attesa da 5 anni e che si temeva traballasse con la caduta del governo Draghi, è arrivata invece dall’approvazione all’unanimità, all’interno del decreto Semplificazioni, della nuova normativa fiscale per il Terzo settore: “un passaggio cruciale - spiega Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo Settore - per consentire a migliaia di realtà sociali del Paese di guardare davanti a sé con maggiore serenità e continuare cosi? a operare per il bene delle persone e lo sviluppo delle comunità. Ci auguriamo che ora si proceda spediti, dopo l’approvazione anche in Senato, verso il via libera dell’Europa: non si può correre il rischio - conclude Pallucchi - di mettere in stand by il mondo della solidarietà o di sottovalutarne il valore”. Quello di cui, in tempi di sfide e difficoltà, parlava Mattarella. Droghe. L’esigenza di farcela sempre e l’ascesa della cocaina di Vanessa Roghi Il Domani, 27 agosto 2022 Nel corso del 2021 i SerD hanno assistito 123.871 persone con Disturbo da Uso di Sostanze, se nel tempo l’uso di oppiacei è costantemente diminuito, è gradualmente aumentata la percentuale di trattamenti per uso di cocaina e crack. Oltre la metà dell’utenza in carcere è assistita per uso primario di cocaina o crack. Dal 2011 i ricoveri direttamente correlati al consumo di cocaina risultano in costante e progressivo aumento in entrambi i generi. La dipendenza da cocaina viene oggi definita come una “patologia cronica recidivante ad eziologia multifattoriale”. Vuol dire che la dipendenza non è scontata ma che una volta sviluppata è molto difficile da curare. “Produce una sensazione di euforia, infaticabilità e lucidità mentale, e favorisce la loquacità”. Ma può causare anche “dipendenza e diversi danni alla salute, che variano a seconda della modalità d’assunzione e della frequenza d’uso, tra cui problemi circolatori e cardiaci, fino all’infarto”. Così il volume “Le droghe in sostanza” (Iperborea, 2022) descrive gli effetti della cocaina, fra le sostanze stupefacenti la regina, perché associata a un’immagine positiva e vincente che poco ha a che vedere con la sostanza in sé e moltissimo con la società in cui viviamo. Come scrive Raimondo Pavarin, sociologo sanitario esperto in epidemiologia delle dipendenze: “Le motivazioni per l’uso possono essere distinte in tre categorie di effetti: fisici (ridurre la stanchezza, avere maggiori energie), intellettivi (piacere, intimità, chiarezza mentale) e sociali (essere più loquaci, divertirsi assieme agli amici). Tutti i consumatori ammettono questi effetti, anche se alcuni affermano in modo esplicito che consumano per andare a divertirsi quando si sentono troppo stanchi per uscire”. Secondo la Relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia la cocaina è la sostanza illegale più consumata dopo la cannabis. Delle 30.083 persone segnalate nel 2021 all’Autorità Giudiziaria per reati penali commessi in violazione della legge n.309 del 1990 il 45 per cento delle denunce ha riguardato la detenzione di cocaina/crack. Anche nelle carceri la cocaina è, dopo cannabis e tabacco, la sostanza più usata. I dati tuttavia non consentono di scorporare i numeri dei grandi spacciatori dai piccoli consumatori. Vediamo soltanto come il 90 per cento delle denunce si riferisca al reato di produzione, traffico e detenzione illecita e il 10 per cento a quello di associazione finalizzata al traffico. Considerando che la produzione di coca in Italia è impossibile per ragioni climatiche, dobbiamo considerare che traffico e detenzione occupano larga parte delle segnalazioni. Chi sono i consumatori - Chi consuma cocaina? Il profilo della persona che usa saltuariamente o anche abitualmente il principio attivo della coca è estremamente fluido, dall’operaio che la usa per reggere ritmi di lavoro pesanti al professionista, ai ragazzi che fumano crack e sviluppano una dipendenza, entrando in contatto con i servizi, a chi alterna coca, alcol, e altre sostanze, senza sviluppare un consumo patologico. L’uso fra gli studenti sembra essere contenuto, tra quelli che rispondono ai questionari nel 2021, il 37,8 per cento lo ha fatto al massimo 2 volte, un quarto dalle 3 alle 9 volte e il 37,1 per cento ne ha fatto invece un uso più frequente (10 o più volte negli ultimi 12 mesi) (ma le percentuali si riferiscono a una cifra piuttosto bassa, 60.000 studenti circa). Secondo un rapporto del 2019 stilato dalla Cooperativa Parsec che a Roma si occupa di riduzione del danno però: “si è colto un aumento delle persone che utilizzano solo la cocaina per via endovenosa come sostanza di abuso primaria. Questa popolazione di tossicodipendenti ha una evidente difficoltà nel riconoscere l’uso problematico che fa della sostanza e quindi il contatto e la relazione con loro, diventa spesso più difficile e critica. La richiesta di aiuto si manifesta con fatica e spesso avviene perché spinti e sollecitati da un familiare e non perché realmente consapevoli e motivati. Inoltre lo stato di iper-eccitazione in cui la sostanza li induce, rende difficile anche il semplice scambio. Queste persone utilizzano il servizio principalmente per lo scambio siringhe e con difficoltà accedono agli altri servizi offerti”. Nel corso del 2021 i SerD hanno assistito 123.871 persone con Disturbo da Uso di Sostanze, se nel tempo l’uso di oppiacei è costantemente diminuito, è gradualmente aumentata la percentuale di trattamenti per uso di cocaina e crack. Oltre la metà dell’utenza in carcere è assistita per uso primario di cocaina o crack. Dal 2011 i ricoveri direttamente correlati al consumo di cocaina risultano in costante e progressivo aumento in entrambi i generi. La dipendenza da cocaina viene oggi definita come una “patologia cronica recidivante ad eziologia multifattoriale”. Vuol dire che la dipendenza non è scontata ma che una volta sviluppata è molto difficile da curare. La percentuale è del 6 per cento entro i primi due anni dal primo uso, del 15 per cento entro dieci anni. Il rischio è maggiore per chi fuma crack o la inietta. Conseguenza di “una complessa interazione fra variabili biologiche, psicologiche e ambientali” impone un intervento integrato: psicoterapia, farmaci, ambientale-familiare, collaborazione con diverse figure professionali. Ma non esiste un omologo del naloxone per risolvere un’overdose da cocaina, né un farmaco sostitutivo come il metadone, e questo è un problema molto serio nel trattamento delle dipendenze. L’importante è farcela - La cocaina risponde a una esigenza precisa: farcela. Non importa come. Farcela. “La cocaina agisce dove esiste un contesto sociale, relazionale, fa percepire il soddisfacimento della propria posizione rispetto agli altri”, dice Ernesto De Bernardis, farmacologo, responsabile del Sert di Lentini. Secondo il 13° Libro bianco sulle droghe “siamo immersi in una crisi strutturale che necessita in molti campi un cambio di paradigma nell’approccio a fenomeni in rapido cambiamento come quello dei consumi, degli abusi e delle varie forme di dipendenza da sostanze e non, che ci accompagna da decenni ma con cui la nostra società sembra non voler e saper fare i conti. Ancor di più con le domande che questa epoca ci consegna”. Se fino agli anni Ottanta i profili di chi faceva uso di cocaina e di eroina erano ben distinguibili, a partire dagli anni Novanta, anche grazie al fatto che si è diffusa l’abitudine di fumarle entrambe, il consumo delle due sostanze è sempre più indistinto. Sempre secondo il rapporto Parsec: “Non è inusuale vedere eroinomani che improvvisamente utilizzano cocaina e la eleggono a sostanza primaria per un certo periodo o che la alternano all’eroina o/e agli psicofarmaci durante la stessa giornata. Inoltre l’alcool sembra la costante che accompagna qualsiasi tipo di sballo.” Oltre la pratica dello speed ball, che vuole eroina e cocaina consumate simultaneamente, con lo scopo di assommare gli effetti “euforizzanti” (qualsiasi cosa significhi) elidendo i rispettivi effetti sedativi ed eccitanti, si fuma eroina dopo una “nottata” per mettere a riposo gli effetti eccitanti della coca e dormire. Insieme all’eroina - Se sia stata una spinta del mercato o viceversa non è chiaro, certo è, come scrive Salvatore Giancane nel suo studio Eroina. La malattia da oppioidi nell’era digitale, che “da circa 10-15 anni il mercato della cocaina e quello dell’eroina, in passato rigidamente separati, hanno iniziato a coincidere. Secondo alcuni, ciò sarebbe dovuto soprattutto ai canali di spaccio già attivi sul territorio e gestiti dalle organizzazioni criminali, come la ‘ndrangheta calabrese. Quest’ultima, conquistato il monopolio del traffico di cocaina nel nostro Paese, l’avrebbe poi distribuita secondo gli stessi canali già utilizzati per l’eroina”. L’Italia si conferma essere, con un aumento 36,9 per cento rispetto al 2011, dei quantitativi sequestrati, come punto di snodo e di transito strategico. La portaerei della droga, come si diceva negli anni del secondo dopo guerra. Il porto di Gioia Tauro, che incide per il 97,5 per cento (kg 13.364,94) è stato quello in cui è stata sequestrata la maggiore quantità di cocaina, seguito da quello di Vado Ligure (SV) (kg 138,29) e di Livorno (kg 118,53). La cocaina costa intorno ai 39.000 euro il chilogrammo. Fatevi due conti. La coca arriva dunque nei porti italiani ma il suo viaggio è lungo, con navi container viene dal Perù, dal Brasile, dall’Ecuador, dalla Colombia, dal Costa Rica, e le sue storie sono al centro di un’epica ormai più che consolidata. Tutti i frequentatori di siti streaming conoscono a menadito i nomi di tutti i cartelli colombiani (i più celebri grazie a Pablo Escobar), la loro attività economica, i legami con il sistema finanziario internazionale. Esiste una narco musica con le sue hit, e una new wave rock che parla dei narcos, come Miss Panela della rock band Los Aterciopelados. La storia del passato della cocaina, è meno nota, invece. Ascesa di una dipendenza - Presente nelle foglie di coca, da cui il nome, scoperta dal chimico tedesco, Friedrich Gaedcke, nel 1855 la cocaina è stata a lungo usata come anestetico locale, come composto di celebri liquori e di bevande come la Coca cola, anche se in una percentuale bassissima. Uno dei primi paesi a legiferare contro il consumo della sostanza sono stati gli Stati Uniti dove, fra il 1890 e il 1902 le vendite di cocaina farmaceutica aumentano del 700 percento. Quello della produzione di cocaina diventa un caso nazionale che contrappone i medici (e le leghe di temperanza), alle industrie farmaceutiche che ancora non hanno alcun controllo da parte dello Stato. La cocaina, dunque, molto prima dell’Harrison Narcotic Act del 1914, pietra angolare su cui si costruisce il paradigma proibizionista, è la sostanza che porta a regolamentare il mercato farmaceutico. Nel 1921 viene pubblicato il romanzo di Pitigrilli (Dino Segre), “Cocaina” che, come ha scritto il farmacologo Paolo Nencini, ha permesso a un pubblico vasto di guardare dal buco della serratura comportamenti considerati depravati. “Il romanzo di Pitigrilli certificava la sperimentazione di un piacere, quello degli stupefacenti” e fra gli stupefacenti, della cocaina. Negli anni Trenta fanno uso di cocaina ristrette élite abbastanza eterogenee: dalle star di Hollywood ai gerarchi del Terzo Reich. É una sostanza associata al vizio, e soprattutto alla ricchezza, costa infatti moltissimo. Il farmacologo Giovanni Allevi nel primo trattato sulle droghe pubblicato in Italia nel 1931 scrive: “Il pericolo delle sostanze tossiche usate a scopo voluttuario è nella facilità della loro propagazione. In Italia, prima della guerra, esistevano pochi morfinisti, non v’erano cocainisti, alla distanza di alcuni anni lo Stato, soprattutto per la cocaina, ha sentito la necessità di votare la legge contro gli stupefacenti che ha dovuto anche inasprire, perché ritenuta insufficiente alla bisogna. Del resto anche per i veleni esiste una moda. L’oriente non si accontenta più dell’oppio e della canapa, ma già reclama, al pari dell’Occidente, la morfina, l’eroina e la cocaina”. La cocaina torna in auge in Italia negli anni Cinquanta come droga della malavita, diversi capibanda come Sandro Brezzi o il Conte Mino, al centro della cronaca nera nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale, sono descritti dai quotidiani come cocainomani. La cocaina la si può trovare nei cosiddetti “beri beri”, luoghi del piacere, nascosti agli occhi dei più, così descritti da Franco Di Bella nel suo celebre reportage Italia nera del 1960: “Ci sono fontane, e luci soffuse, in un parco meraviglioso, e marmi all’ingresso, divani, poltrone, tappeti, cuscini sui pavimenti di alabastro, e tutto vi si svolge come in una fiaba da mille a una notte” Negli anni Settanta la cocaina torna di moda come droga ricreativa. A differenza dell’oppio e dei suoi derivati come la morfina non vi è una diffusione iatrogena (cioè medica prima che voluttuaria): la “coca” non ha pretesa di curare niente ed è subito chiaro che serve per “stare a palla”. Fino agli anni Ottanta l’allarme sociale intorno alla cocaina è, però, relativo, per il suo costo infatti è meno diffusa dell’eroina, i numeri di morti per overdose sono assai contenuti, insomma non fa paura. La paura arriva con il crack, un precipitato di cocaina che produce cristalli che scaldati producono il caratteristico suono onomatopeico. Il crack è il primo motore immobile della guerra alla droga del presidente George H. Bush che il 5 settembre 1989 parla in tv proprio di questo. Secondo Bush, le droghe sono responsabili del crollo delle istituzioni governative degli Stati Uniti, del sistema di giustizia penale, e danneggiano le future generazioni. Non dice, insomma, Bush che il crack si è diffuso in contesti impoveriti da crisi economica e scelte neo-liberiste, no: è vero il contrario. La droga produce povertà. Eppure, la grande diffusione di cocaina negli ambienti della finanza dimostra esattamente il contrario: la droga, in quel caso, produce ricchezza. Oggi, l’abbiamo visto, questa distinzione non esiste più, se non nella testa di qualche politico, o giornalista: del resto fa sentire più sicuri pensare che il mondo si divide in due. Chi fa uso di cocaina, e sta con il lato oscuro della forza, e chi no. Ma, come ha scritto Roberto Saviano in Zero zero zero (Feltrinelli, 2013): “La coca la sta usando chi è seduto accanto a te ora in treno e l’ha presa per svegliarsi stamattina o l’autista al volante dell’autobus che ti porta a casa, perché vuole fare gli straordinari senza sentire i crampi alla cervicale. Fa uso di coca chi ti è più vicino. Se non è tuo padre o tua madre, se non è tuo fratello, allora è tuo figlio. Se non è tuo figlio, è il tuo capoufficio (…) il veterinario che cura il tuo gatto. Il sindaco da cui sei andato a cena. Il costruttore della casa in cui vivi, lo scrittore che leggi prima di dormire, la giornalista che ascolterai al telegiornale”. Parlarne in modo serio, una buona volta, sarebbe opportuno. Francia. Caso Franceschi, nuovo testimone: “So di violenze nel carcere di Grasse” di Roy Lepore Il Tirreno, 27 agosto 2022 Ex detenuto annuncia rivelazioni sulla vicenda del giovane morto in Francia. Nel dodicesimo anniversario della scomparsa di Daniele Franceschi - un carpentiere viareggino di 36 anni, padre di un bambino - morto in circostanze misteriose nel carcere di Grasse, il 25 agosto 2010, per la cui morte fu condannato un medico della struttura di detenzione, i familiari sono stati contattati da un 65enne viareggino che fu detenuto a Grasse in Francia alcuni anni prima. L’uomo ha avuto un colloquio con l’avvocato, Aldo Lasagna, legale della famiglia, e si è detto disponibile a collaborare con gli inquirenti, italiani o francesi, per raccontare di episodi cruenti che avrebbe vissuto in quel carcere e che potrebbero far sorgere alcuni dubbi sulla versione ufficiale fornita dalle autorità francesi per giustificare la morte del giovane. I familiari nell’occasione ricordano che gli organi interni di Daniele non sono mai stati restituiti alla madre Cira Antignano, nonostante promesse e le assicurazioni del Governo francese. Il giovane era in attesa di giudizio, accusato di avere utilizzato una carta di credito ritenuta fasulla in un locale della Costa Azzurra nel febbraio 2010. Dalle lettere inviate ai familiari dal carcere raccontava che non stava bene, che aveva la febbre, non aveva cure necessarie e faceva riferimento a situazioni al limite della norma. Poi il decesso. Quei racconti insospettirono poi i familiari: cosa era realmente accaduto in carcere e in ospedale, in Francia? “Quest’uomo si è deciso a parlare solo adesso - dice l’avvocato Lasagna - in quanto, dopo avere scontato circa 20 anni in carceri italiane e straniere, fra cui quello di Grasse, per avere commesso reati contro il patrimonio, ha rassettato la sua vita, riorganizzandola, e a questo punto avendo saldato il suo conto con la giustizia, è intenzionato a raccontare quello che secondo lui accadeva nel carcere, dove purtroppo è morto Daniele. Lui in quel periodo era in un altro carcere, sempre in Francia, ma è venuto a conoscenza di quello che è avvenuto, e si è immedesimato in Daniele, perché anche lui ha subito dei maltrattamenti, soprusi, ed è pronto a volerli raccontare, dopo averlo fatto ai familiari e al sottoscritto, anche agli organi competenti”. Cosa potrebbe dunque accadere dal punto di vista legale? “Ci potrebbero essere gli estremi della riapertura di un fascicolo conoscitivo con una rogatoria del nostro governo a quello francese per metterlo a conoscenza di questi nuovi eventuali elementi, che andrebbero a evidenziare episodi, che già nei vari dibattimenti del processo sono emersi più volte di cui la famiglia aveva sempre sospettato, fin da quando Daniele aveva fatto sapere che veniva trascurato, soprattutto nei momenti in cui non stava bene e le sue condizioni di salute peggioravano di giorno in giorno. Quest’uomo inoltre mi ha riferito nel corso del nostro colloquio anche della morte misteriosa nel carcere di Grasse di un cittadino marocchino di cui non si è mai saputo nulla”. Guerra, integrazione contro le armi di Carlo Bastasin La Repubblica, 27 agosto 2022 La decisione di invadere l’Ucraina fa parte della visione di Vladimir Putin del ruolo globale della Russia. Segmentare la globalizzazione e ricostruire aree di influenza - russa, cinese, americana - sarebbe servito a garantire che le dimensioni modeste dell’economia russa fossero avessero ancora un peso sul piano globale. Le conseguenze economiche del conflitto, gli effetti delle sanzioni e il ridisegno delle alleanze economiche, sono dunque parte integrante degli obiettivi dell’invasione, ma non stanno andando nella direzione desiderata da Putin. L’ammissione delle difficoltà, espressa ieri da Elvira Nabiullina, la governatrice della banca centrale di Mosca, è importante per due ragioni: da un lato rivela che una continuazione troppo protratta del conflitto peserebbe severamente sull’economia russa; dall’altro, che per le imprese russe non è pronta un’alternativa al modello attuale di rapporti commerciali con l’Occidente. Secondo Nabiullina, non c’è prodotto russo che non dipenda da componenti estere. Curiosamente, la stessa conclusione sulla difficoltà di ridurre l’integrazione globale, accorciando le catene di fornitura, viene tratta in questi giorni dal Fondo monetario. Il mondo degli ultimi 30 anni è diventato una realtà interdipendente, nella quale non è facile recidere i canali di comunicazione. Non lo è per la Cina e nemmeno per un’economia grande un decimo come la Russia. In puri termini economici, la globalizzazione ha aumentato il rendimento del capitale investito nel mondo attraverso una migliore allocazione delle risorse, risparmiando sui costi di produzione, incoraggiando la specializzazione e aumentando le dimensioni delle imprese. Nel fare tutto ciò ha creato vincitori e perdenti. Dopo 30 anni, i rendimenti del capitale globale tendono a calare e il rapporto tra chi beneficia e chi perde dai commerci globali peggiora, creando insoddisfazione e nazionalismo. In Russia tra il ‘99 e il 2008 il pil era aumentato dell’80% circa, ma negli ultimi sette anni era cresciuto solo del 3%. Il governo russo non ha sfruttato la prima fase di integrazione globale per creare un modello di sviluppo che andasse oltre il commercio di materie prime. Dopo la crisi finanziaria del 1998, fu proprio la Russia a dare alla globalizzazione uno speciale carattere politico. In quegli anni, molte economie emergenti reagirono alle difficoltà finanziarie con un’enorme accumulazione di riserve valutarie. Il venir meno di sistemi di cambi fissi, spinse i governi ad adottare politiche di disciplina sia monetaria sia fiscale per assicurarsi che la fluttuazione delle valute non fosse destabilizzante. Da allora, nessun paese emergente integrato nell’economia globale ha avuto bisogno di assistenza dal Fondo monetario. Per quanto paradossale, infatti, finora la globalizzazione aveva spinto i paesi a essere autosufficienti. Quello che sta avvenendo ora a Mosca dimostra invece che l’autosufficienza finanziaria non basta e che quella reale forse non esiste più o non regge se i rapporti diventano ostili. Non è un caso che Putin, che interpreta ogni cosa in termini di rapporti di forza, abbia sottovalutato la cooperazione europea. Quando la guerra tacerà, tra i bilanci da trarre ci sarà anche quello sull’integrazione dell’economia globale. L’insoddisfazione per la globalizzazione ha alimentato proteste anche in Occidente e linee politiche pericolosamente affini a quelle di Putin. A Kiev nel 2013 la mobilitazione di Maidan era sorta invece dal desiderio dei giovani ucraini di integrarsi con le libertà di scambio e di movimento europeo. Un modo per umanizzare lo scontro tra queste due profonde correnti della storia va trovato, prima che sfocino in nuovi conflitti. Amnesty accusa Mosca: “Quei processi ai prigionieri di guerra sono illegali” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 27 agosto 2022 Gabbie all’interno della Sala della filarmonica di Mariupol per gli imputati. “Privare deliberatamente i prigionieri di guerra del diritto a un processo equo, che è esattamente ciò che intende fare la Russia, è un crimine di guerra”. “Ogni proposito, da parte dei gruppi armati filorussi, di processare prigionieri di guerra ucraini nel cosiddetto “tribunale internazionale” di Mariupol è illegale e inaccettabile” nonché “offensivo e costituisce un ulteriore atto di crudeltà nei confronti di una città che ha già patito enormi sofferenze nel corso della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina”. Lo afferma Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale. Negli ultimi giorni sono emerse notizie e immagini riguardo alla costruzione di gabbie all’interno della Sala della filarmonica di Mariupol, nelle quali trattenere i prigionieri da sottoporre a processo. Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International riferisce di avere verificato che le immagini pubblicate su Facebook dal Consiglio municipale di Mariupol sono quelle dell’interno della Sala della filarmonica. Amnesty ricorda che il diritto internazionale vieta a una potenza detentrice di processare prigionieri di guerra per aver preso parte alle ostilità o per legittime azioni di guerra commesse nel corso di un conflitto armato. Ai sensi della Terza Convenzione di Ginevra, i prigionieri di guerra accusati di aver commesso crimini devono essere sottoposti a un processo equo e regolare, che può essere celebrato solo presso un tribunale legalmente costituito. “Il diritto internazionale umanitario vieta l’istituzione di tribunali all’unico scopo di processare prigionieri di guerra. Privare deliberatamente i prigionieri di guerra del diritto a un processo equo, che è esattamente ciò che intende fare la Russia, è un crimine di guerra. Le Convenzioni di Ginevra prevedono espressamente che i prigionieri di guerra siano protetti dai processi per il mero fatto di aver preso parte alle ostilità”, ha aggiunto Struthers. “Allestendo questi vergognosi processi e trasformando un teatro pubblico in un’aula di tribunale, la Russia in quanto potenza occupante si sta facendo beffe della giustizia. Tutto ciò serve solo alla sua propaganda”, ha commentato Struthers. E ancora: “Aver scelto Mariupol come sede di questi tribunali è particolarmente crudele e scioccante dato che le forze russe, coi loro incessanti attacchi e con l’assedio, hanno trasformato la città in una terra desolata prima di occuparla a maggio. Amnesty International ha indagato sull’attacco contro il Teatro d’arte drammatica giungendo alla conclusione che le forze russe hanno deliberatamente preso di mira civili e dunque hanno commesso un evidente crimine di guerra”. Amnesty sottolinea che le forze russe e i gruppi armati sostenuti dalla Russia devono garantire a osservatori indipendenti il pieno accesso ai prigionieri di guerra ucraini. Amnesty International condivide le preoccupazioni espresse dall’Ufficio dell’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani: i prigionieri di guerra ucraini sono detenuti senza accesso a osservatori indipendenti e “rischiano di essere torturati allo scopo di estorcergli confessioni”. Inoltre, le dichiarazioni russe secondo le quali i prigionieri di guerra sono “criminali di guerra” compromettono direttamente la presunzione d’innocenza. Negli ultimi anni Amnesty International ha ampiamente documentato la violazione del diritto a un processo equo in Russia, denunciando il costante uso della tortura, la fabbricazione di prove false e procedimenti politicamente motivati. Queste preoccupazioni sono ancora maggiori in caso di processi celebrati da gruppi armati in territori occupati dalla Russia, scrive l’organizzazione. Amnesty International ha anche documentato violazioni dei diritti umani da parte di questi gruppi sin da quando, sotto la direzione russa, hanno preso il controllo di parti dell’Ucraina orientale. Le denunce a loro carico riguardano sequestri di persona, uccisioni, privazione illegale della libertà, maltrattamenti e torture e soppressione del dissenso. Amnesty International sta inoltre sollecitando un’immediata indagine internazionale su ulteriori crimini di guerra, come l’esplosione del 29 luglio nel villaggio di Olenivka in cui sono stati uccisi oltre 50 prigionieri di guerra ucraini detenuti dalle forze della cosiddetta “Repubblica popolare di Donetsk”. “È fondamentale che le autorità russe consentano a ispettori internazionali di visitare il sito per avviare un’indagine a tutto tondo”, scrive sul suo sito.