Carceri, più spazio e un telefono in cella per i detenuti di Luigi Manconi La Repubblica, 26 agosto 2022 Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, una settimana fa ha intrapreso lo sciopero della fame per segnalare l’aumento dei suicidi in carcere e per chiedere provvedimenti in merito. Insieme a lei digiunano le detenute del carcere Lorusso e Cotugno di Torino, l’associazione Marco Pannella e numerosi familiari di carcerati. Da inizio anno sono 56 le persone ristrette che si sono tolte la vita. A lanciare l’allarme era stata anche l’associazione Antigone che nel suo ultimo rapporto aveva evidenziato come, nel solo 2021, su 148 detenuti morti in carcere, ben 57 si erano tolti la vita (il 38% del totale dei decessi). Secondo alcune ricerche in carcere ci si toglie la vita con maggiore frequenza nelle prime settimane di detenzione, chi lo fa è spesso molto giovane e in maggioranza si tratta di persone non ancora giunte a una condanna definitiva. Questi, in sostanza, sono i tre punti principali su cui la letteratura internazionale, a partire dagli anni 2000, è sembrata convergere. A queste variabili, considerate “endogene”, se ne è aggiunta un’altra, tipicamente italiana: il sovraffollamento. Laddove il numero delle presenze risulta eccedente la capienza della struttura, il ricorso al suicidio si fa sensibilmente più frequente. Tale prospettiva permette, soprattutto nel caso italiano, di spostare l’attenzione dall’individualità del gesto - mai dimenticare che ogni suicidio è una storia a sé - all’ambiente e ai suoi connotati strutturali e organizzativi. Pietro Buffa, dirigente dell’amministrazione penitenziaria, parlò di “posizione universalistica”, per definire una strategia di prevenzione del fenomeno che, a fronte di una tendenza alla “psichiatrizzazione” del disagio carcerario, privilegia “una prospettiva ecologica che considera la posizione del soggetto nell’ambiente di vita, contrariamente all’idea diffusa che il suicidio sia una manifestazione psicopatologica di un disordine individuale”. Considerare il soggetto nel suo spazio di vita, in questo caso, significa considerare il detenuto nella dimensione carceraria, riflettere sulla sua possibilità di muoversi nell’ambito detentivo e, soprattutto, sulla sua possibilità di comunicare, primo e incoercibile bisogno vitale di chi è privato della libertà. Non è un caso, del resto, che le rivolte carcerarie, dopo decenni di relativa tranquillità, siano ricominciate proprio nel 2020. Quando, cioè, la possibilità di movimenti, di scambi, di relazioni, tra i detenuti e tra i detenuti e l’esterno, venne praticamente soppressa a causa del lockdown. La questione è evidentemente enorme, ma ciò che sconcerta è che non si adottino nemmeno quelle misure ragionevoli e di buon senso, capaci di limitare l’afflizione e attenuare la drammaticità della situazione. Pochi giorni fa, il cappellano del carcere di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi, ha intrapreso, a sua volta, lo sciopero della fame, chiedendo che venisse messo a disposizione un telefono in ogni cella, in modo che i detenuti potessero intrattenere relazioni con i propri cari. Don David Maria Riboldi non ha avuto risposta, e nemmeno noi. Legge sull’ergastolo ostativo, la Consulta verso una terza proroga al Parlamento di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 26 agosto 2022 Secondo la Corte, la disciplina va adeguata agli articoli 3 e 27 della Carta e alle sentenze Cedu, per le quali è inumano e degradante un trattamento basato sulla reclusione a vita. L’attività parlamentare è nuovamente in una fase di stallo. Si attendono dunque le prossime elezioni di settembre e con loro anche tutte le riforme lasciate in sospeso. Tra queste vi è anche l’auspicato intervento del Legislatore sugli artt. 4- bis comma 1 e 58 ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d. l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991 4 bis o. p. “nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416- bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale”. Con l’ordinanza n. 97 del 2021, infatti, la Corte ha affermato come tale disciplina necessiti una modifica, per adeguarla ai principi ex artt. 3 e 27 Cost., sulla scorta di una profusa Giurisprudenza della Corte EDU, la quale ritiene inumano e degradante un trattamento fondato sulla reclusione a vita nell’assenza di qualunque possibilità per il condannato di lasciare il carcere, una volta conseguito l’obiettivo della rieducazione (tra le molte la sentenza Vinter). La ratio, in sintesi, sposata dagli Ermellini, è quella secondo la quale un condannato per reati di natura mafiosa - che non abbia collaborato con la giustizia possa comunque aver intrapreso proficuamente, soprattutto a distanza di anni, un percorso rieducativo e risocializzante e, pertanto, dovrebbe godere del diritto di accedere a tutte quelle misure premiali che attualmente la normativa non concede per via di una sorta di presunzione assoluta: se non hai collaborato, allora non hai mai reciso i legami con i gruppi organizzati. Ogni caso andrà dunque accertato nel concreto, in maniera mirata, non potendo presumersi in via assoluta e in eterno che un reo non sia meritevole delle misure alternative alla detenzione, nonché dei permessi premio. Ad ogni modo, la Corte costituzionale ha rinviato due volte la decisione sulla questione, dapprima a maggio 2022 e successivamente all’udienza dell’8 novembre 2022 in particolar modo per consentire all’Organo legislativo di legiferare in merito. La materia è delicata e un intervento parlamentare, chirurgico, si rende indubbiamente necessario, come peraltro già annotato - a più riprese - da chi scrive su queste pagine. Anche il Senatore di LeU ed ex Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, in un suo recente intervento sul tema, evidenziava la necessità e l’urgenza di una iniziativa parlamentare, sì da adattare l’attuale normativa con le risultanze degli Ermellini, ma senza dimenticare le stragi di mafia che hanno macchiato la storia repubblicana recente. E dunque, ci si chiede a questo punto come interverrà la Corte costituzionale a novembre, atteso che il Parlamento molto probabilmente non avrà modo di legiferare sul punto. Per rispondere alla domanda è dapprima necessario riprendere la già citata ordinanza n. 97 del 2021. La Corte, in quella sede, pur rilevando rilevando l’incostituzionalità dell’art. 4 bis o. p., non procedeva con una declaratoria di incostituzionalità per due ordini di ragioni. In primis in quanto, hanno affermato gli Ermellini, “un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame”. Si è dunque evitato che si andasse a creare un vuoto normativo causato dalla declaratoria di incostituzionalità, il cui effetto avrebbe creato un vuoto normativo (c. d. horror vacui). In secondo luogo la Corte ha preferito, come giusto, lasciare spazio al Parlamento per fare ciò che gli compete, senza ingerenze, anche considerando che un intervento dell’Organo legislativo ha la possibilità di operare in maniera molto più precisa, salvaguardando tutti gli interessi in gioco: efficacia della normativa nella lotta alle mafie e diritti dei condannati. Attesi i due passati rinvii ci si chiede se la Corte possa nuovamente rinviare la decisione su una questione tanto delicata, pur consapevole che ciò prolungherà di fatto la detenzione dei c. d. “ostativi” ai sensi di una normativa non conforme ai principi della Carta costituzionale ex artt. 3 e 27. Dal punto di vista meramente procedimentale si consideri che la Corte costituzionale adotta talvolta questo genere di decisioni definite in dottrina di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata”, proprio per le suesposte ragioni. Infatti, nel “gioco” di contemperamento degli interessi costituzionali, gli Ermellini spesso adottano una simile strada proprio per consentire al Legislatore di adeguare la normativa ai principi costituzionali, senza che un intervento di rescissione netta della parte incriminata della norma generi effetti potenzialmente più dannosi della rilevata incostituzionalità stessa. Certo è, in ogni caso, che un’eventuale ulteriore protrarsi attesa del Legislatore porterà necessariamente a una futura declaratoria di incostituzionalità. Il dubbio permane solo sul quando. Pertanto, volendo effettuare previsioni, chi scrive ritiene assai probabile che gli Ermellini si vedranno costretti a rimandare ulteriormente la trattazione della questione, auspicando che il Parlamento decida quanto prima, non potendosi accettare che una questione tanto delicata venga regolata dalla violenta scure della declaratoria di incostituzionalità. *Avvocato, Direttore Ispeg Subito amnistia e poi riforme: candidati entrate in carcere di Raffaele Minieri Il Riformista, 26 agosto 2022 In questo mese di agosto i media hanno dedicato un po’ di spazio alle condizioni carcerarie, quasi sorpresi dai numerosi suicidi di detenuti. Tuttavia le necessità partitocratiche derivanti da una campagna elettorale balneare hanno impedito un reale dibattito su un tema così complesso come il carcere. D’altra parte le posizioni giustizialiste, comuni a tutti i partiti, riescono a garantire facile consenso. Pertanto, sebbene ispirati da ottime intenzioni, gli appelli ai candidati, una costante di ogni campagna elettorale, sono destinati all’insuccesso. Infatti è velleitario pensare che qualche candidato possa essere folgorato dal pathos di chi scrive e, una volta eletto, riesca ad ottenere risultati determinanti. Basta andare al 2018 per ricordare che proprio il momento elettorale è stato il nemico giurato della riforma dell’ordinamento penitenziario su cui avevano lavorato gli Stati Generali dell’esecuzione penale. Il Partito Democratico decise di vanificare quell’impegno proprio per la paura di perdere consensi e a nulla valse il lungo sciopero della fame di Rita Bernardini. Le elezioni al più possono essere uno strumento di visibilità, come, per esempio, avvenne quando Marco Pannella decise di presentare la lista “Amnistia, Giustizia e Libertà”. In quell’occasione, però, il nome della lista utilizzava le elezioni per riportare al centro del dibattito l’amnistia quale prima e necessaria tappa della riforma dell’intero sistema giustizia. Per questo sono convinto che il carcere non abbia bisogno di appelli, ma di iniziative politiche concrete e capaci di creare le condizioni per osare il possibile contro il probabile. In concreto, quindi, che bisogna fare? Prima di tutto dare futuro alla memoria e (continuare a) conoscere. In tal senso le visite ispettive delle carceri sono uno strumento fondamentale, come ha ben dimostrato con il suo operato e le sue denunce il consigliere regionale del Lazio il radicale Alessandro Capriccioli, che la Camera Penale di Napoli ha ospitato in un convegno ricco di spunti. Bisogna vigilare sulle condizioni detentive e bisogna farlo costantemente, perché è proprio grazie alle denunce conseguenti a queste attività che possiamo dire “che tutti sanno” quali sono le condizioni in cui vivono migliaia di esseri umani. Peraltro personalmente ho molti dubbi che tutti sappiano quale sia la vera condizione in cui vivono i detenuti. Anche per questo tutta la Giunta della Camera Penale di Napoli ha ritenuto fondamentale visitare le strutture detentive della città. Conoscere e denunciare le condizioni carcerarie è un compito che, in assenza degli eletti (dapprima candidati destinatari di appelli), deve essere svolto dai corpi intermedi, i quali devono tornare ad essere luogo di iniziativa e cultura politica. Per esempio, durante i miei anni da dirigente di Radicali Italiani, ricordo le innumerevoli visite, denunce e campagne che furono l’antecedente logico e necessario alla lunga e difficile mobilitazione per chiedere l’istituzione del Garante cittadino dei detenuti per la città di Napoli. Pur senza essere candidati ed eletti, riuscimmo ad aprire un dibattito e a creare le condizioni politiche che portarono il sindaco de Magistris ad istituire tale figura. Ad oggi credo che tale risultato, anche per la lungimirante nomina di Pietro Ioia, abbia concretamente migliorato la vita dei detenuti napoletani. Così come credo che l’impegno dei Garanti, delle associazioni di volontariato e di quelle caritatevoli abbia un impatto fondamentale nella vita di ogni singolo detenuto. Infatti il carcere non solo è privazione della libertà, ma è privazione della dignità. Tutti i bisogni primari vengono compressi e annullati nelle celle senza aria, senza pulizia, senza riscaldamento. Di conseguenza, mentre cerchiamo di perseguire imponenti progetti di riforma, abbiamo l’obbligo di contribuire al miglioramento delle condizioni che quotidianamente ogni detenuto vive. I ventilatori, i frigoriferi, i beni di prima necessità per i meno abbienti sono urgenze forse non strettamente politiche ma sicuramente umane, a cui non possiamo sottrarci e che non possono essere relativizzate. Il carcere è un luogo concreto, un posto della realtà, il luogo dove il dolore e la sofferenza possono essere toccati con mano. Chiunque faccia colloqui con i propri assistiti in carcere sa che ogni millimetro di normalità conquistato ha un valore immenso. Infine una nota terminologica. Se la pena è illegale, i destinatari degli appelli non possono essere i candidati. Chiunque voglia denunciare “la flagranza di reato in cui vive lo Stato” ha due possibilità: ricordare alla magistratura i suoi doveri e investire la politica dei suoi compiti. In quest’ottica la richiesta di dimissione dei magistrati di sorveglianza, le interrogazioni parlamentari, le visite in carcere, la denuncia al Ministro della Giustizia delle condizioni del carcere di Poggioreale, la collaborazione con i Garanti mi sembrano parte del percorso che può creare iniziative politiche capaci, ben più dei tavoli di consultazione e degli appelli ai candidati, di porre al centro del dibattito l’importanza della riforma dell’ordinamento penitenziario e l’urgenza di un provvedimento di amnistia, che gioverebbe a tutta l’amministrazione della giustizia, riuscendo a favorire quella vera riforma di sistema che non si è ottenuta né per via legislativa né per via referendaria. Detenuti, assunzioni e sgravi fiscali. Una seconda chance per chi ha sbagliato di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 26 agosto 2022 Una seconda possibilità a chi è in carcere? Perché no, soprattutto se c’è una legge che punta a reintegrare i detenuti - fornendo loro un lavoro - ed è di sostegno alle imprese che possono godere di significati sgravi fiscali. Una norma poco nota, cosiddetta Legge Smuraglia, approvata nel 2000 e che piano piano sta prendendo piede. Grazie anche al progetto Seconda chance che permette agli imprenditori di abbattere il costo del lavoro compiendo un gesto di grande valenza sociale. A seguirlo da vicino è una giornalista, Flavia Filippi, volontaria per questa iniziativa. “Un paio d’anni fa ho chiesto al Provveditore alle carceri Carmelo Cantone di poter diffondere la legge Smuraglia - racconta - che premia le aziende disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei detenuti a fine pena e incamminati lungo un sentiero virtuoso. Gente alla disperata ricerca di una possibilità. Come noto, assieme ai delinquenti sono rinchiusi un sacco di individui perbene ma sfortunati”. Grazie a questa legge possono sostenere corsi di formazione, avere posti di lavoro anche part time o a tempo determinato. A Roma già sono diverse le attività che hanno reso possibile questa seconda occasione, in particolare della ristorazione, ma ci sono anche realtà di Alghero, il Parco Nazionale del Circeo e quello degli Aurunci, realtà del viterbese, della provincia di Firenze, di Napoli e Civitavecchia. Si va dal nord al sud del Paese, offrendo una opportunità a chi ha commesso un errore nella vita e vuole tornare a essere un cittadino rispettoso delle regole, ma al tempo stesso si ottengono appunto importanti sgravi. Non ci sono settori vietati, basta trovare il detenuto con il profilo giusto da una parte e l’azienda che intende assumerlo, formarlo, soprattutto offrirgli un’occasione dall’altro. “Sono tanti i ristoratori e gli albergatori che hanno bisogno di pasticcieri, lievitisti, cuochi, aiuto cuochi, camerieri, lavapiatti, addetti alle pulizie, giardinieri - aggiunge la Filippi - E per questo organizzo periodicamente giri di colloqui con detenuti che hanno frequentato corsi di gastronomia in carcere. Ma anche gli imprenditori di altri settori sono interessati ad aderire al progetto”. Si potrà fare anche in provincia di Frosinone? Basta volerlo. Per stabilire un contatto basta mandare una mail a info@secondachance.net. Nella riforma penale più luci che ombre e qualche nodo irrisolto di Guido Camera* Il Dubbio, 26 agosto 2022 La riforma della giustizia penale è quasi legge. È vero che l’approvazione definitiva del governo cadrà nella prossima legislatura, con le nuove Camere appena insediate ma l’esecutivo uscente ancora in carica, ma difficilmente ci saranno problemi; è troppo alto il rischio di perdere i fondi del Pnrr, soprattutto in considerazione dei rigidi meccanismi di condizionalità, anche temporali, che lo caratterizza. È perciò bene dare spazio all’interrogativo più importante: avremo una diminuzione delle garanzie? Le preoccupazioni devono essere inferiori ai motivi di soddisfazione. Iniziamo dalla novità principale: il rinnovato ruolo della pena. Il sistema sanzionatorio non sarà più “carcerocentrico”; viene così fatta ammenda di anni di scelte demagogiche e nocive, denunciate a gran voce dall’avvocatura. La novella inserisce un catalogo progressivo di sanzioni alternative, adeguate alla gravità del fatto, che potranno essere irrogate dal giudice della cognizione secondo una procedura che garantirà adeguatamente il contraddittorio. Acquisiscono notevole potenzialità le pene pecuniarie, che verranno calibrate in base alle condizioni economiche dell’interessato, in modo da assicurare il rispetto del principio di proporzionalità ed evitare rischi di inadempimento. Rivoluzionarie sono le disposizioni in materia di giustizia riparativa, che si propongono moderni obiettivi di composizione dei conflitti. Ciò non toglie che sia giusto porsi delle domande sulla conciliabilità delle norme che disciplineranno il nuovo istituto con la presunzione di innocenza: io non vedo pericoli, avuto riguardo alle regole, vecchie e nuove, sull’incompatibilità del giudice. La misura mi sembra destinata principalmente a operare nel rito monocratico - anche in considerazione dell’ampliamento delle sue competenze - ove l’invito alla giustizia riparativa precedente alla sentenza di condanna potrà in concreto essere rivolto solo dal giudice dell’udienza “filtro”, perché avrà accesso agli atti del Pm: giudice dell’udienza “filtro” che, in caso di opzione dell’imputato per il dibattimento, sarà espressamente incompatibile a celebrarlo. Il giudice del dibattimento, non conoscendo gli elementi su cui si fonda l’accusa, difficilmente potrà formulare l’invito alla giustizia riparativa senza incorrere in un’anticipazione di giudizio che lo esporrebbe a ricusazione, nel solco della giurisprudenza costituzionale. Il discorso vale a maggior ragione per il rito collegiale, dove si celebrano i processi per reati più gravi e di non semplice accertamento. Non vedo una diminuzione delle garanzie nei riti alternativi: anzi, leggo favorevolmente le novità del giudizio abbreviato, volte a incentivare le integrazioni probatorie difensive, in passato troppo spesso negate. Un’ulteriore ricaduta positiva sarà l’alleggerimento dei ruoli dei giudici dibattimentali, che potranno concentrare i loro sforzi su un minor numero di processi, come accade in tutti i sistemi accusatori “puri”. Note critiche riguardano invece l’inammissibilità dell’appello per “aspecificità” dei motivi: misura che, unita all’introduzione del rito “cartolare”, dovrà tenere alta l’attenzione dell’avvocatura. Bisognerà monitorare i casi in cui verrà fatto ricorso a questa disposizione per arginarne abusi. Allo stesso tempo dovremo esigere dai giudici d’appello un maggiore sforzo di attenzione, che oggi è troppo spesso carente. Anche per questo motivo è essenziale il voto dell’avvocatura sui giudizi di professionalità dei magistrati espressi dai consigli giudiziari. Rimangono irrisolti alcuni punti, a mio giudizio fondamentali, per migliorare il sistema penale. Il primo riguarda l’appello del Pm; la sua eliminazione deve diventare realtà, come aveva consigliato alla ministra Cartabia la Commissione Lattanzi. Il secondo è che ci vuole una seria depenalizzazione: il numero enorme di notizie di reato che ogni anno intasano gli uffici giudiziari trova la sua origine nei troppi reati previsti dal Codice penale; bisogna sfoltire, abbandonando quel “panpenalismo” culturale che tanti effetti negativi ha prodotto. Ma il traguardo più ambizioso è la separazione costituzionale tra chi accusa e chi giudica; solo assegnando al giudice quella terzietà che è oggi impedita dall’unicità della carriera, si potrà compiutamente garantire il rispetto della presunzione di innocenza. Sono i compiti per la prossima legislatura. L’avvocatura deve combattere perché vengano realizzati; partendo dalle tante buone misure contenute nella riforma Cartabia. *Presidente di “italiastatodidiritto” “Diritto di famiglia, dalla riforma una rivoluzione copernicana” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 agosto 2022 Da oggi in vigore la figura del curatore speciale del minore. Intervista a Claudio Cecchella, ordinario di Diritto processuale civile che è stato componente delle commissioni per l’elaborazione dei decreti attuativi. “Si incide in modo profondo sul rito e sull’ordinamento, e tra le tante novità, molte mettono in gioco l’avvocato. Sulla cui formazione specialistica, però, ora vanno superate le lentezze dell’amministrazione”. Per le persone, i minori e le famiglie, la riforma civile ha portato novità significative. Claudio Cecchella, ordinario di Diritto processuale civile nell’Università di Pisa, evidenzia alcuni risultati raggiunti. “Mi auguro - dice al Dubbio - che non sorgano ulteriori difficoltà nell’entrata in vigore. Penso, soprattutto, alla riforma ordinamentale e al superamento dello schema contraddittorio di una competenza a volte sovrapposta tra Tribunale per i minorenni e Tribunale ordinario, tra l’altro in una materia in cui sono coinvolti diritti indisponibili di persone fragili, quali sono i fanciulli e la parte debole economicamente della relazione familiare, con il serio rischio di contrasti di giudicato, che dovrebbero essere superati dal giudice unico”. Professor Cecchella, in materia di persone, minori e famiglia assistiamo a cambiamenti profondi. Una rivoluzione? Non c’è dubbio che l’intervento più significativo riguarda proprio il processo e il giudice delle persone, dei minori e delle famiglie: una vera e propria rivoluzione copernicana. Il superamento dell’assurda pluralità dei riti processuali, l’abbandono del modello camerale verso un processo scritto interamente dal legislatore, l’apertura verso misure provvisorie e la loro reclamabilità, i continui tentativi di risolvere la lite nell’accordo con il nuovo strumento della mediazione familiare, la riscrittura delle regole nell’ambito della consulenza tecnica sui profili personali e, infine, la sistemazione della frammentaria e contraddittoria disciplina degli strumenti di attuazione dei provvedimenti, fuori dagli schemi del Libro III del Codice di rito, costituiscono aspetti che non possono essere trascurati e che finalmente entreranno in vigore, con tutte le garanzie del giusto processo. Alla riforma del processo segue, seppure con un lasso di tempo maggiore, due anni, la riforma ordinamentale del giudice, attraverso l’introduzione del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie nella sua articolazione di prossimità circondariale e, in sede di reclamo o di appello, distrettuale, in composizione collegiale togata, con l’utilizzo non più del giudice laico nella camera di consiglio, bensì nell’ufficio del processo. La riforma civile riuscirà a soddisfare le esigenze dei cittadini e a centrare gli obiettivi fissati dal Pnrr? In effetti, dopo mesi di intenso lavoro all’interno delle commissioni volute dalla ministra Marta Cartabia, abbiamo temuto che la crisi governativa potesse pregiudicare i risultati raggiunti, che hanno preso le mosse, appena insediata la ministra, dall’emendamento Luiso, risultato della commissione presieduta dal professor Francesco Paolo Luiso, che ha compiuto un lavoro immane, con dei principi direttivi della legge delega aventi il sapore di veri e propri articolati finali. Poi, l’importante lavoro della commissione Giustizia del Senato e le approvazioni dell’Aula e successiva della Camera. Nelle commissioni il lavoro è stato intenso. In poco più di due mesi si è giunti all’articolato che ha costituito la base dei decreti legislativi, poi approvati dal Consiglio dei Ministri. Certamente si tratta di “affari correnti” che non potevano non essere conclusi, nonostante lo scioglimento del Parlamento, sia per il loro rilievo ai fini degli obiettivi fissati nel Pnrr e sia per l’importanza di alcuni interventi, non solo sul rito, penso ad esempio al processo digitale e particolarmente all’ufficio del processo, per il futuro della giustizia civile. Il ruolo dell’avvocato è rafforzato proprio in materia di persone, minori e famiglie. La formazione del professionista è fondamentale? La riforma propone nuovi orizzonti per la professione dell’avvocato, di cui la categoria deve essere consapevole. Consapevolezza che deve essere unita ad una insostituibile formazione specialistica. Mi riferisco alla espansione della negoziazione assistita della controversia, che ormai abbraccia l’intera materia familiare e minorile, al ruolo degli avvocati nell’ambito della mediazione familiare che non deve essere appannaggio esclusivo dell’Ordine degli psicologi, ma soprattutto alla diffusione, nel contenzioso, delle ipotesi di nomina di un curatore speciale del minore, vero e proprio difensore tecnico del fanciullo nei processi in cui si dettano le regole ai suoi diritti, quando il genitore non ha più la capacità di rappresentarlo. Vorrei aggiungere inoltre un’altra cosa. Prego... Devo lamentare la grave lentezza dei ministeri, essendo coinvolto anche quello dell’Università, nel dettare le linee guida che consentano alle scuole specialistiche di formazione degli avvocati di dare finalmente attuazione, secondo la legge professionale, alla formazione specializzata nella materia delle persone, dei minori e delle relazioni familiari e ovviamente anche nelle altre materie specialistiche. L’introduzione di più tutele processuali a difesa dei minori e delle donne vittime di violenza è la grande novità? Le ipotesi in cui il minore sarà rappresentato nel processo da un soggetto, difensore tecnico, diverso dal genitore e dall’avvocato del genitore, come accade all’estero, sono estremamente più ampie e diffuse rispetto al recente passato. Il processo, poi, terrà conto e subirà un mutamento di regole, quando una delle parti allegherà agli atti episodi di violenza subiti. In tal caso non saranno più applicate le norme che implicano un contatto diretto delle parti, si pensi al tentativo di conciliazione, alla mediazione familiare, e anche l’intervento del consulente tecnico o degli assistenti sociali dovrà tener conto dell’ipotesi. Tuttavia, con una soluzione equilibrata rispetto all’originario emendamento presentato al Senato, ai fini di un rilievo della violenza sulla regolamentazione della bi-genitorialità o del rapporto del genitore con il figlio, sarà necessario sempre un accertamento del giudice, seppure in forme sommarie ed agili, sul modello del processo cautelare. Lei ha fatto parte del gruppo di lavoro del ministero della Giustizia per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo in materia di minorenni e famiglie. È stata un’esperienza impegnativa e gratificante? Certamente. Devo essere grato alla ministra, per l’esperienza offerta, che ha condotto a un mio completamento professionale, avendo vissuto la materia da sempre come avvocato, avendola poi attraversata come obiettivo della mia ricerca universitaria, quale docente di Diritto processuale civile, consentendomi di impegnarmi anche nella tecnica legislativa di elaborazione della norma. Devo aggiungere che, anche nella difformità di opinioni, penso soprattutto ai magistrati con esperienza minorile rispetto agli avvocati, il lavoro è stato proficuo nel tentativo, a mio parere per lo più riuscito, di giungere a soluzioni accettate dalle parti, che devono costituire le basi per il futuro lavoro comune degli operatori della giustizia familiare e minorile. Se si abolisce l’appello dell’accusa, 700 magistrati costretti a cambiare lavoro di Paolo Comi Il Riformista, 26 agosto 2022 Sono 700 i magistrati delle Corti di appello che rischiano di essere costretti a cambiare lavoro se dovesse passare la legge sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. “In tanti non sarebbero entusiasti di andare a svolgere funzioni assai più onerose e meno prestigiose di quelle alle quali sono abituati”, ammette un autorevole esponente dell’ordine giudiziario. Vediamo come stanno le cose. In Senato giace dallo scorso gennaio un disegno di legge, il numero 2499, primo firmatario il senatore di Forza Italia Franco Dal Mas, che permetterebbe di risolvere i principali problemi che affliggono la giustizia italiana, ad iniziare dalla durata dei processi. Si tratta della riforma del codice di procedura penale “in materia di impugnazione delle sentenze”, tema tornato di attualità nei giorni scorsi grazie ad una ‘clip’ elettorale di Silvio Berlusconi. La riforma consiste nella soppressione del comma due dell’articolo 593: “Il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di proscioglimento”. Una modifica molto semplice che, però, non ha mai trovato spazio per essere discussa in Parlamento in questi mesi, prima che cadesse il governo Draghi. Gli oppositori, M5s e a ruota il Pd, con la ‘supervisione’ della parte più agguerrita dell’Anm, hanno fatto le barricate sostenendo che quando nel 2006 venne approvato un provvedimento analogo, la legge Pecorella (che nel suo punto nodale escludeva la possibilità per il pm di appellare le sentenze di proscioglimento, salvo l’emergere di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, ndr), era poi intervenuta la Consulta, con la sentenza numero 26 del 2007, dichiarandone l’incostituzionalità, in quanto negazione del principio di parità delle parti. “Sono trascorsi 15 anni da quella sentenza e niente vieta al Parlamento di riconsiderare il problema”, aveva allora risposto Dal Mas. Anche perché nel frattempo la Consulta, con la sentenza numero 34 del 2020, aveva definito il potere di impugnazione da parte del pm “più cedevole rispetto a quello dell’imputato”. Inoltre, l’anno successivo, nella relazione Lattanzi che aveva accompagnato la legge delega sulla riforma del processo penale, quale suggerimento per il nuovo processo penale era stata prevista esplicitamente “l’inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pm”. Secondo l’ex presidente della Corte Costituzionale, “l’indisponibilità per il pm di un rimedio finalizzato a ottenere un nuovo giudizio di fatto in sede di appello discende, dallo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che promana dall’articolo 27 della Costituzione e rende inconcepibile sul piano logico il raggiungimento della certezza processuale dopo un giudizio di proscioglimento, se non in presenza di vizi di motivazione che escludano la riproponibilità della valutazione alternativa e a seguito di una articolata e problematica rinnovazione istruttoria”. L’Italia, invece, prevedendo che il pm possa impugnare le sentenze di assoluzione, ‘viola’ la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici, norme le quali prevedono che la persona condannata per un reato abbia diritto a che l’accertamento di colpevolezza sia esaminato da un tribunale superiore o di seconda istanza. Diritto riconosciuto solo all’imputato e non all’accusa. Attualmente più della metà, circa il 60 percento, dei procedimenti penali si conclude con un provvedimento di archiviazione in primo grado. Se al pm fosse precluso di appellare le sentenze, il campo si restringerebbe di molto, con una conseguenza pratica: meno lavoro per le Procure generali e per le Corti d’appello. Uffici i cui organici potrebbero essere rivisti, destinando i magistrati in esubero ai tribunali dove si concentrano le scoperture e dove non si riescono a fare i processi. “Riconsiderata l’obbligatorietà dell’azione penale, avremmo una naturale riduzione del numero dei processi, che non significa impunità ma concentrazione ed efficientamento dell’attività delle Procure con significative ricadute sulla riduzione dei tempi processuali”, aveva infatti ricordato Dal Mas, che è stato ora ricaricandidato in posizione non facile in Friuli. “Sono argomenti che sembrano di nicchia, eppure interessano tutti i cittadini, perché tutti potremmo trovarci un giorno in queste circostanze. Nonostante le levate di scudi che ci sono state, sono certo che questi temi saranno inseriti nell’agenda politica del centrodestra e del prossimo governo”. Per la cronaca la proposta di riforma era stata firmata anche da Lega ed Italia Viva con Giuseppe Cucca. Il rischio: laici Csm scelti tra gli esclusi dal Parlamento. Disastro da evitare di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 26 agosto 2022 Quale potrebbe essere il “profilo giusto” per il prossimo vicepresidente del Csm? Il rinnovo dell’organo di autogoverno era inizialmente previsto per la fine del prossimo mese. Il Capo dello Stato aveva già convocato, prima dell’estate, le Camere in seduta comune per eleggere i dieci componenti laici, fra cui deve poi essere scelto il vertice di Palazzo dei Marerscialli. L’improvvisa caduta del governo Draghi e il conseguente ricorso alle elezioni anticipate hanno invece determinato uno stop alla tabella di marcia del Quirinale con l’inevitabile proroga dell’attuale consiliatura. Considerando i tempi necessari per l’insediamento delle nuove Camere e del nuovo governo, e le urgenze da affrontare, come l’approvazione della legge di Bilancio, è molto probabile che le votazioni dei 10 componenti laici slitteranno all’inizio del 2023. Votazioni che si preannunciano complesse: ci sarebbe un ‘overbooking’ di aspiranti, con i partiti tentati di utilizzare l’incarico di consigliere laico a Palazzo dei Marescialli per “risarcire” chi non è riuscito a entrare in Parlamento a causa della diminuzione dei posti. Difficile, insomma, che si possa ripetere lo scenario attuale, con quasi tutti i laici formalmente distanti dalla politica, tranne l’ex responsabile Giustizia del Pd e attuale vicepresidente del Csm David Ermini. Una voce contraria a questa ipotesi, alquanto probabile, è quella dell’avvocato romano Pieremilio Sammarco, ordinario di Diritto comparato presso l’Università di Bergamo e autore di studi monografici sulla giustizia, secondo il quale i futuri componenti laici, ad iniziare proprio dal vicepresidente, non dovranno essere esponenti politici. Sammarco nel proprio ragionamento ricorda che il ruolo del vice presidente è “rilevante e delicato”, in quanto “fa le veci del presidente della Repubblica, rappresenta all’esterno l’istituzione, fa da raccordo con le associazioni dei magistrati, con il Parlamento, con il governo nei rapporti istituzionali e nelle consultazioni sulle riforme in materia di giustizia”. Il ‘Palamaragate’, ricorda Sammarco, “ha fatto emergere la contiguità tra magistratura e politica, suscitando aspre critiche e compromettendo la fiducia dei cittadini nel sistema della giustizia”. “Ciò che è venuto alla luce del sole - prosegue l’avvocato - ha profili di estrema gravità, e la scelta di nominare una figura autorevole slegata dai partiti è il primo passo di un cammino virtuoso per recuperare la fiducia, anche se ci vorrà tempo”. Negli ultimi venti anni il ruolo di vice presidente del Csm è stato sempre ricoperto da esponenti politici: Virginio Rognoni nel 2002, Nicola Mancino nel 2006, Michele Vietti nel 2010, Giovanni Legnini nel 2014, David Ermini nel 2018. Secondo Sammarco ‘ è un dato che deve far riflettere: premesso che non sta a me dire se abbiano operato secondo le indicazioni che ricevevano dal loro partito, il fatto che il vicepresidente sia sempre stato un politico ha sicuramente contribuito ad alimentare il sospetto di una magistratura contigua al potere politico”. Una soluzione, dunque, sarebbe quella di ricorrere a figure di autorevoli giuristi, avvocati e professori universitari slegati da vincoli di partito, selezionati per il loro prestigio all’interno dell’accademia, dotati di grande cultura giuridica. “Penso a Giovanni Conso, Piero Alberto Capotosti, Cesare Mirabelli, i quali dopo aver guidato il Csm sono approdati anche al vertice della Corte costituzionale: bisogna puntare su figure che rappresentano l’eccellenza del nostro sapere giuridico”, puntualizza Sammarco. Alla obiezione che “erano altri tempi”, Sammarco ha la risposta pronta: “Certo, ma erano sicuramente tempi migliori, in cui quella che viene ora definita la degenerazione del sistema della giustizia non era nemmeno ipotizzata dai critici di allora. La nostra dottrina giuridica, la nostra avvocatura - conclude Sammarco - sono vive ed apprezzate: ci sono figure di grande autorevolezza riconosciute anche all’estero, e anche giovani leve con spiccata sensibilità giuridica e forte senso delle istituzioni. Tale scelta aiuterebbe sicuramente anche i magistrati, le loro associazioni, e restituirebbe credibilità all’intero sistema della giustizia e alla loro categoria”. L’emergenza femminicidi sparisce dalla campagna elettorale di Giovanna Casadio e Liana Milella La Repubblica, 26 agosto 2022 Dal Pd alla Lega fino ad Italia Viva: tutti riconoscono essere un problema da affrontare ma nei discorsi politici e nelle priorità del partiti non c’è traccia. I femminicidi nel nostro paese sono diventati un’emergenza ma in campagna elettorale se ne sente parlare pochissimo. Eppure moltissime donne continuano ad essere uccise da ex e da uomini che non accettano il rifiuto. L’ultimo caso a Bologna, vittima la povera Alessandra Matteuzzi. Abbiamo chiesto a tre donne della politica - Valeria Valente (Pd), Lucia Annibali (Italia viva) e Giulia Bongiorno (Lega) - la loro visione del fenomeno e cosa è possibile fare se elette. Valente: “Più impegno contro questi reati” Valeria Valente, i femminicidi sono un’emergenza ma non un tema politico? “L’emergenza è quando accade qualcosa che non puoi prevedere. Invece, femminicidi e aggressioni alle donne ci accompagnano da decenni”. Ancora più grave quindi che non trovino spazio nella campagna elettorale tra i problemi in discussione? “La tendenza è ad affrontare le violenze sulle donne come fatti di cronaca. Ma sono un fatto pubblico, non privato, e come tale politico. Devo difendere il mio partito, il Pd, che ha costruito proposte precise e le ha messe nel programma, anche facendo tesoro dei progetti elaborati dalla Commissione parlamentare sui femminicidi che presiedo”. Quali progetti? “Chiediamo che si approvi la legge sulla violenza sessuale che prevede si parli di violenza ogni volta che un atto sessuale avviene senza consenso. E l’istituzione del reato di molestie sessuali nei rapporti di lavoro o di studio. Inoltre, puntiamo al rafforzamento delle misure cautelari con relativo braccialetto elettronico”. Le misure ci sono, ma sono inapplicate come nel caso di Bologna, al punto che la ministra Cartabia manda gli ispettori? “Le leggi ci sono, il tema è la formazione e specializzazione degli operatori, che devono fare sempre attenzione al rischio che la donna corre. E poi vanno abbattuti stereotipi e pregiudizi che tendono a non dare credito alle denunce delle donne”. Poi però circola il video dello stupro di Piacenza, rilanciato da Giorgia Meloni... “È stato un errore grave, anche perché si è strumentalmente abbinato violenza alle donne e immigrazione. Per farne un uso strumentale, non si è messa al centro la dignità della donna, come invece è giusto e necessario”. Annibali: “Anche io ignorata dalla politica per la violenza subita” Lucia Annibali, lei è avvocata e parlamentare renziana: di femminicidi e violenze alle donne non si parla in campagna elettorale? “È vero, è come se il tema della violenza sulle donne non sia un argomento di politica nazionale. Poi, quando si insedia il Parlamento, si riprende a discuterne. È una difficoltà che io sento molto. Se sono stata candidata già nella passata legislatura da Renzi, è anche per testimoniare questa battaglia. E talvolta mi sento fuori contesto perché la politica nazionale non se ne occupa e neppure la locale”. Lei è una donna politica-simbolo, sfregiata con l’acido dal suo ex compagno. Da quell’incubo a oggi è cambiato qualcosa nella società italiana? “Rispetto al 2013 e a quello che mi è accaduto, se ne è parlato sempre di più, la normativa si è aggiornata, se ne dibatte nelle scuole e questo è estremamente importante affinché le ragazze più giovani sappiano”. Cosa manca per essere efficaci in questa battaglia? “Manca sempre l’immediatezza nel prendersi carico delle denunce e della donna che lancia l’allarme. Invece bisogna sapere vedere il potenziale pericolo, guai a essere semplicistici, se no si rimane un passo indietro e si arriva troppo tardi. A Bologna una donna in più è stata uccisa, evidentemente doveva essere ascoltata”. Poi però c’è il video dello stupro di Piacenza che piomba nella campagna elettorale? “Il video era in Rete e la leader di Fdi, Giorgia Meloni, l’ha rilanciato. Mi sono venuti i brividi. Bisogna essere seri sempre sulla violenza alle donne, che non c’entra con l’immigrazione. Reclamiamo la competenza su tante questioni, anche su questa ci vorrebbe”. Bongiorno: “Per il codice rosso ci vuole il carcere” “Le donne rimangono abbandonate a loro stesse. La mancata applicazione del Codice rosso è un fatto grave, al quale il centrodestra porrà rimedio”. Questo dice Giulia Bongiorno, avvocato, anche di Salvini e Guardasigilli in pectore della Lega. Il Codice rosso? Lei l’ha voluto, ma gli uomini assassinano le donne lo stesso... “Anche la migliore delle norme, se resta sulla carta, è inutile. Il Codice rosso prevede che le vittime di violenza domestica o di genere debbano essere ascoltate dall’autorità giudiziaria nell’immediato, ma questo spesso non avviene. E la colpa di chi è? Polizie o pm? Cartabia ha mosso gli ispettori... “Ancora oggi il fenomeno viene sottovalutato, si tende a ritenere la violenza domestica una violenza “minore”: si fa un uso eccessivo del divieto di avvicinamento quando invece ci vorrebbe il carcere”. Linea dura? “Bisogna essere molto più rigorosi nella valutazione delle misure da applicare. Per questo servono magistrati e personale di polizia specializzati, in grado di percepire subito l’eventuale pericolo di un’escalation. Si devono applicare misure immediate, che limitino in modo drastico la libertà di movimento”. Ma lo vede che poi in galera non ci va nessuno? “La Lega si è sempre schierata contro gli sconti di pena e i decreti “svuota-carcere”. Per me i processi che offrono sconti a chi commette crimini efferati sono inaccettabili”. Eppure lei fa l’avvocato... “Le sanzioni servono per punire il colpevole e sono un deterrente per tutti. Il perdonismo di certa sinistra ha creato un senso di impunità, ulteriormente alimentato dai tempi lunghissimi delle indagini e dei processi”. È il suo programma di governo? “È indispensabile aiutare chi denunzia riducendo le attese subito con misure cautelari adeguate e poi processi rapidi, per giungere subito a una sentenza definitiva”. Stretta sugli stalker: “Controlli rigorosi come per i mafiosi”. Il pm: “Fermiamoli così” di Nino Farina quotidiano.net, 26 agosto 2022 “Bisogna trattare gli stalker come mafiosi”. Francesco Menditto, già componente del Csm e oggi Procuratore a Tivoli, ha proposto, primo in Italia, l’applicazione di misure di prevenzione personale per gli stalker, simili a quelle contro gli uomini di Cosa Nostra. “Ho lavorato a Napoli nel settore delle misure di prevenzione nei confronti dei camorristi. Quei provvedimenti assicurano un controllo rigoroso della persona pericolosa, sono rapidi ed efficaci, si applicano in un procedimento semplificato ma con tutte le garanzie. Le abbiamo applicate a Tivoli agli stalker e a chi maltratta le donne, divieto di avvicinarsi alla persona offesa. Poi dal 2017 sono previste dal codice antimafia. La violenza di genere è assimilabile alla mafia perché si avvale del clima di omertà, spesso non c’è la denuncia della persona maltrattata e l’ambiente che la circonda la scoraggia dal denunciare. Poi è un reato che si ripete, c’è una forte recidiva (85% secondo dati ufficiali), ci sono uomini che restano stalker per tutta la vita nei confronti di diverse donne. Per questo motivo, come per la mafia, c’è bisogno di magistrati e forze dell’ordine specializzati e formati”. Cosa significa personale formato? “Significa credere alle donne e dare loro fiducia, smettendo di pensare che le denunce siano strumentali specie nel corso di separazione, saper fare le indagini e avere consapevolezza che c’è un problema culturale dietro la violenza”. Talvolta le denunce vengono sottovalutate, prevale una sorta di pregiudizio? “Formazione significa non avere pregiudizi , quando la donna va a denunciare bisogna crederle e, se ha paura, occorre intervenire in pochissimi giorni, non in settimane. L’immediatezza dell’intervento è fondamentale. Naturalmente le indagini devono essere veloci anche per garantire gli indagati”. Intanto siamo oltre l’emergenza... “Il femminicidio quasi sempre è l’epilogo di maltrattamenti o atti persecutori: se non ci fosse un ‘prima’ di violenze, spesso non denunciate, non avremmo tante donne uccise”. Il raptus, quindi, non esiste... “Esatto, c’è sempre un ‘prima’ che nessuno vede o è capace di vedere”. Come si contrastano i femminicidi? “Con una legge organica, il Codice Rosso è stata un’ottima legge che ha responsabilizzato le forze dell’ordine e i magistrati, ma non è sufficiente. E poi occorre creare una rete che contrasti la cultura che sta dietro ai femminicidi. Le faccio un esempio: se un giornale pubblica la foto patinata di una donna ammazzata, una bella ragazza che con i suoi selfie sembra ‘offrirsi’ all’esterno, può radicare in taluni la convinzione: ‘vedi come è? Questa se la è cercata’. Con un’immagine ‘normale’, invece, questo pregiudizio non scatta”. Quali sono i buchi normativi del Codice Rosso? “Sostanzialmente quattro. Il primo riguarda l’obbligatorietà del braccialetto elettronico, non più facoltà del giudice come è previsto oggi. I braccialetti ci sono e ci sono in tutt’Italia e sono l’unico modo per dare tranquillità alla donna e alle forze dell’ordine di intervenire quando scatta l’allarme in automatico in caso di violazione al divieto di avvicinamento. Il secondo: per applicare un braccialetto elettronico oggi c’è bisogno del consenso dell’indagato, non deve più essere così. Terzo, la distanza: deve essere di 500 metri o un chilometro, alcuni giudici oggi danno 100 metri e capisce bene che, se questo è il limite, nessun carabiniere potrà mai salvare una donna dal suo carnefice. Quarto: dare la possibilità al pm del fermo, quando c’è un pericolo imminente per la donna”. Femminicidio di Bologna, i pm: “Fatto il possibile”. Ma Cartabia ordina accertamenti di Davide Varì Il Dubbio, 26 agosto 2022 La donna aveva presentato denuncia contro il suo ex. Ma secondo il procuratore “non emergevano situazioni a rischio di violenza, era la tipica condotta di stalkeraggio molesto”. Il femminicidio di Alessandra Matteuzzi, la 57enne bolognese, uccisa a martellate dal suo ex compagno, Giovanni Padovani, un calciatore 27enne originario di Senigallia, ha scosso le coscienze. L’uomo è stato fermato per omicidio, mentre la ministra della Giustizia, Marta Cartabia ha chiesto agli uffici dell’ispettorato di “svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando, all’esito, valutazioni e proposte”. Un’iniziativa presa a fronte delle ricostruzioni di stampa. Sulla vicenda si è fatto sentire il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, che al Gr1 ha chiarito: “Non si può affatto parlare di malagiustizia, poiché la denuncia è stata raccolta ed è pervenuta nel nostro ufficio a fine luglio e il 1° agosto è stata immediatamente iscritta e subito sono state attivate delle indagini che non potevano concludersi prima del 29 agosto, perché alcune persone da sentire erano in ferie. Noi, quello che potevamo fare, lo abbiamo fatto”. Secondo Amato, in questa circostanza, “non emergevano situazioni a rischio di violenza, ma era la tipica condotta di stalkeraggio molesto”. L’Arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, esprimendo “profondo cordoglio e amarezza” per la vicenda ha sottolineato: “È un tragico evento che scuote Bologna, l’Italia e le nostre coscienze e ci chiede di non restare indifferenti davanti ai casi di femminicidio e alle varie forme di violenza di cui molte donne sono quotidianamente vittime, spesso in maniera silenziosa. L’esponente Pd Valeria Valente, presidente della commissione Femminicidio, a Radio 24 ha detto: “Alessandra Matteuzzi aveva avuto coraggio, aveva denunciato per molestie il suo molestatore e non ha fatto in tempo a integrare la denuncia a causa dell’escalation, perché è stata uccisa. Non possiamo conoscere i dettagli, senza aver letto il fascicolo. Ma In questi casi bisogna utilizzare di più le misure cautelari e pre cautelari come il divieto di avvicinamento, l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di residenza e usare il braccialetto elettronico per il controllo. La misura cautelare non può che essere”. Secondo i dati del Viminale, dal 1 gennaio al 3 luglio, ci sono stati i 144 omicidi, con 61 vittime donne, di cui 53 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 33 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner (nel 2022 le vittime di omicidio volontario commesso dal partner/ex partner sono tutte di genere femminile). Caltagirone (Ct). Detenuto si toglie la vita in cella, la famiglia presenta un esposto newsicilia.it, 26 agosto 2022 Un uomo di 44 anni, originario di Catania, è stato trovato morto suicida per impiccagione nel carcere di Caltagirone. Il detenuto è Simone Melardi e si trovava dietro le sbarre perché imputato di furto aggravato: il 21 settembre 2022 avrebbe rubato un telefonino e un portafoglio, sottratti al botteghino del Teatro Massimo Bellini e subito restituiti ai legittimi proprietari. Il 44enne, difeso dall’avvocato Rita Lucia Faro, era già da tempo in lista d’attesa per essere inserito in Cta (Comunità Terapeutica Assistita), in quanto affetto da “psicosi NAS in soggetto con disturbo di personalità borderline e abuso di alcolici” e per tale ragione nel carcere di Caltagirone era sottoposto al regime della “grande sorveglianza” al fine di evitare e prevenire episodi di autolesionismo. “Nonostante il regime di particolare cautela nei confronti dell’uomo, quest’ultimo - ha affermato il suo legale - ha avuto la possibilità di allestire i mezzi per riuscire nell’intento suicidario senza che nessuno se ne accorgesse”. L’avvocato Rita Lucia Faro del Foro di Catania, su mandato dei familiari del giovane, preannuncia che gli stessi presenteranno esposto alle autorità giudiziarie competenti al fine di accertare se vi sono state negligenze da parte del personale dell’Istituto penitenziario. Terni. Tragedia in carcere, detenuto si uccide tagliandosi le vene con una lametta di Maria Luce Schillaci Corriere dell’Umbria, 26 agosto 2022 Si taglia le vene con una lametta e muore. Tragedia nel carcere di vocabolo Sabbione di Terni. Un detenuto di 49 anni si è ferito con una lametta e, nonostante i soccorsi e il ricovero all’ospedale, è morto. A riferire l’accaduto è il Sappe, il sindacato autonomo Polizia penitenziaria, tramite Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria. Durante il giro di controllo serale il poliziotto di servizio nella sezione ha visto del sangue in terra ed è subito intervenuto con il medico di guardia. A ferirsi mortalmente è stato un detenuto marocchino che stava scontando una pena per reati di droga con un residuo di circa un anno. Soccorso e trasportato in ospedale, le sue condizioni sono apparse subito gravi per i tagli profondi che si era procurato, da cui usciva molto sangue. Il detenuto è deceduto in ospedale. Ma intanto il Sappe ricorda che “un altro agente di polizia penitenziaria è stato aggredito per futili motivi da un detenuto in alta sicurezza: l’agente è riuscito a divincolarsi solo grazie all’intervento di un altro detenuto. Firenze. Sollicciano, il carcere nel degrado: sciopero della fame del poliziotto sindacalista di Chiara Vignolini Il Tirreno, 26 agosto 2022 Circa una settimana fa il sindaco Dario Nardella si è recato nel carcere di Sollicciano per stabilire se fosse necessario ricostruire completamente la struttura o se si potesse salvare qualcosa. È stato definito il carcere peggiore d’Italia, quello di Sollicciano, al pari di altre realtà come Poggioreale a Napoli o la casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. I motivi di questo titolo sono gli stessi: suicidi, soprattutto tra i detenuti più giovani, sovraffollamento, scarsa igiene, carenza di agenti e creazioni di organizzazioni criminali interne. Ed è proprio da Sollicciano che ieri è partito lo sciopero della fame organizzato dal segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria Spp Aldo Di Giacomo, che spiega la sua protesta: “Sensibilizzare le istituzioni e il mondo della politica sul mondo carcerario - ha detto - è quello che cerco di fare con questo sciopero. Mai come negli ultimi venti anni la situazione è stata così drammatica, ad oggi abbiamo cinquantaquattro detenuti che si sono suicidati. Si tratta del massimo storico in ventisette anni. Un dato importante è che sono tutti giovanissimi e sono detenuti che hanno commesso reati non associativi, non gravi, soggetti fragili che avevano bisogno dell’aiuto dello Stato. Un aiuto che non si è visto, ancora una volta lo Stato non è riuscito a garantire la sopravvivenza di queste persone”. Tra le varie problematiche al centro della protesta è importante sottolinearne una. All’interno degli istituti penitenziari esistono categorie di detenuti ben precise che comprendono anche gli alcoldipendenti, i tossicodipendenti e i malati psichiatrici: “Queste persone dovrebbero essere trasferite in centri appositi per permettere loro di essere curati e di ritrovare un posto all’interno della società. Purtroppo, invece, vengono usati dalle associazioni criminali per creare disagi all’interno delle carceri - commenta Di Giacomo - ogni anno vengono trovati grandi quantità di droga, chili di cocaina e molti cellulari con cui i detenuti comunicano con l’esterno”. È dunque importante sensibilizzare il mondo delle istituzioni e della politica su questi temi per proporre al più presto dei rimedi: “Le soluzioni ci sono e sono molteplici: prima di tutto è opportuno creare una differenziazione tra le varie categorie di detenuti. La chiusura degli ospedali psichiatrici è stata un errore, soprattutto perché non sono state date delle alternative da parte dello Stato. Inoltre, è necessario procedere con un potenziamento degli organici. Servono educatori, mediatori culturali e operatori sanitari. È impensabile che lo psichiatra, qua a Sollicciano, si presenti solo una volta a settimana - afferma Di Giacomo - il carcere deve essere un luogo in cui rieducare la persona e non dove iniziare una nuova attività criminale. Come ultima soluzione è fondamentale ricostruire le strutture carcerarie per ridare dignità alla pena e ai lavoratori”. Circa una settimana fa il sindaco Dario Nardella si è recato nel carcere di Sollicciano per stabilire se fosse necessario ricostruire completamente la struttura o se si potesse salvare qualcosa. Lo scorso 4 agosto Il Tirreno aveva fatto presente le tragiche condizioni di degrado dell’istituto penitenziario: infiltrazioni d’acqua, temperature asfissianti, muffa, condense, distacchi d’intonaco, cimici e calcinacci. Sono solo alcuni dei problemi strutturali e igienici emersi dalla ricognizione all’interno dell’edificio. Roma. A Regina Coeli detenuti salvano dal suicidio il compagno di cella di Alessio Campana La Repubblica, 26 agosto 2022 L’uomo ha cercato di togliersi la vita impiccandosi, ma è stato rianimato. La Garante dei detenuti di Roma, Stramaccioni: “Spero che almeno un encomio gli sia riconosciuto visto che hanno permesso di non allungare la già lunga lista di sucidi. Serve urgente riforma del sistema penitenziario”. “Sono tre giorni che non riesco a dormire perché quell’immagine mi è rimasta negli occhi”. Sono le parole di uno dei due detenuti che, nel carcere romano di Regina Coeli, hanno salvato dal suicidio un terzo uomo che dormiva in stanza con loro. È successo di notte, alcuni giorni fa. A svegliare i due detenuti è stato il tonfo improvviso di una sedia. Di fronte a loro T., il compagno di cella, pendeva dalla finestra con un cappio improvvisato stretto al collo. I due sono riusciti a rianimarlo ferendosi anche a una mano e a salvargli la vita. “Spero che almeno un encomio sia riconosciuto a F. e al suo compagno che hanno permesso di non allungare la già lunga lista di sucidi”, afferma la garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni. F., di cui parla la Garante, è uno dei due autori del salvataggio. Ha raccontato l’episodio durante un colloquio. “Attuale ed urgente - continua Stramaccioni - rimane il potenziamento del personale (tutto) che opera all’interno degli istituti penitenziari e la riforma del sistema penitenziario così come elaborata dalla commissione presieduta dal prof. Ruotolo”. Torino. Le detenute scrivono ai politici: “Sciopero della fame fino al giorno delle elezioni” La Repubblica, 26 agosto 2022 “Mentre voi non ci nominate noi vi accompagneremo fino al giorno delle elezioni”. Le detenute del carcere di Torino delle Vallette sono da giorni in sciopero della fame contro la politica che da anni promette una riforma carceraria che non arriva mai. Uno sciopero “a staffetta” che proseguirà fino al 25 settembre, giorno dell’appuntamento con le urne. Nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno ci sono stati 52 suicidi, uno ogni mille detenuti. E’ come, facendo le proporzioni, se nel 2022 nel mondo si fossero di colpo suicidate 60.000 persone. Ma se questo fosse avvenuto nel resto del mondo se ne parlerebbe, se accade dietro le sbarre non fa rumore. Le detenute di Torino hanno scritto una lettera a mano, in stampatello, per spiegare l’iniziativa. Titolo: “Il vero crimine è stare con le mani in mano”. “Scriviamo da una cella della sezione femminile delle Vallette - è l’incipit della lettera - Ognuna di noi, dal 24 agosto al 25 settembre, farà alcuni giorni di sciopero della fame. A staffetta ognuna di noi vuole esprimere solidarietà per tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente. Ognuna di noi, aderendo a questa iniziativa non violenta, vuole esprimere lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica, e delle istituzioni”. Allo sciopero sta aderendo anche Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, e l’associazione Marco Pannella, che aderisce a staffetta con sedici militanti e attivisti che si alterneranno nel digiuno. “Per noi e per tutti i reclusi la “cattività” in cui ci vorreste tenere a vita è inaccettabile - continua la lettera delle detenute - Mentre voi non ci nominate, noi vi accompagniamo fino al giorno delle elezioni, poi dopo si aprirà l’ennesimo capitolo… Ci negate una riforma da anni... Ciononostante noi non ci zittiamo”. Di recente la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha parlato della piaga del sovraffollamento delle carceri. Un problema che la stessa ministra vorrebbe risolvere con provvedimenti come la liberazione anticipata sociale. Ma sono anni che i detenuti aspettano riforme importanti chiedendo l’incremento dei contatti con i familiari attraverso telefonate e videotelefonate, trasferimenti per l’avvicinamento alla famiglia o per motivi di studio e lavoro, migliori condizioni delle carceri che rispettino i principi contenuti nella Costituzione italiana. Santa Maria Capua Vetere. Violentato e abbandonato in cella senza cure, il dramma di Michele di Andrea Aversa Il Riformista, 26 agosto 2022 “Ha tentato il suicidio”. Ha solo 31 anni ma la sua vita è stata praticamente segnata. Una cosa purtroppo normale per chi è detenuto. Michele (nome di fantasia per tutelarne la privacy) è recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quello della mattanza, quello della mancanza di acqua. Infatti, proprio in una cella del reparto “Nilo”, è stata consumata l’ennesima violenza. Michele è stato abusato sessualmente. Il presunto aggressore sarebbe un altro detenuto impegnato in attività lavorative di manutenzione nei vari reparti. Michele ha denunciato i fatti e per questo è stato bollato come un “infame”. È in isolamento nel reparto di accoglienza. A 31 anni Michele è detenuto e traumatizzato - a causa della violenza subita - e anche solo, perché isolato dagli altri reclusi. Ma cosa ben più grave, pare che a Michele sia stato negato il diritto alla salute. “Non sarebbe stato sottoposto al protocollo clinico previsto per le vittime di abusi sessuali - ha spiegato a Il Riformista la Garante per i diritti dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore - Non avrebbe fatto un tampone anale, un test né per l’Hiv, né per l’epatite, non avrebbe fatto una visita urologica, non sarebbero stati fatti accertamenti volti a individuare possibili tracce di sperma rilasciate dall’aggressore e non sarebbe stato neanche trasferito al pronto soccorso”. Michele è in attesa di alcune risposte da parte dell’amministrazione penitenziaria e dell’autorità giudiziaria. Perché nonostante i solleciti, né lui, né il presunto carnefice sono stati trasferiti. “Michele andrebbe trasferito, eppure la prima richiesta è stata inspiegabilmente rigettata - ha detto la Belcuore. Dovrebbe andare in un’altra struttura che gli consenta di stare vicino alla famiglia”. Ma come ben sappiamo la burocrazia ha i suoi tempi e le sue procedure. Prassi che spesso sono in contrasto con l’affermazione dei diritti individuali. E così la pratica di Michele pare sia stata rallentata da un cavillo: il 31enne non avrebbe indicato nella denuncia il nome e cognome del suo aggressore. Cornuto e mazziato, “infame” solo a metà. Per questo motivo non ci sarebbe stato un deciso intervento delle autorità competenti. La storia di Michele è drammatica come quelle di tante altre persone finite dietro le sbarre. Lui è finito in cella per reati legati alla droga. Probabilmente è uno dei tanti in attesa di giudizio. Spesso di detenzione si muore. A dimostrarlo i dati sui suicidi: ben 54 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Sei solo in Campania. Un 2022 da record per un primato di morte. Una carneficina rispetto alla quale lo Stato e le istituzioni restano indifferenti. La politica ha deciso di tenere da parte il tema carceri. Meglio rimuoverlo in tempi di campagna elettorale. Gli ultimi non portano voti ma levano consensi. E Michele sarebbe potuto essere uno di quei numeri, una cifra che avrebbe aumentato questa infernale statistica. Il 31enne ha infatti più volte tentato il suicidio. Un modo per farla finita, per dire basta a una vita da incubo. L’unica soluzione per mettere fine ad una vita di degrado e disumanità. E lui ha messo tutto nero su bianco, in una lettera che Il Riformista ha avuto la possibilità di leggere. “Il mondo carcerario è complesso - ha affermato la Belcuore - È un contesto che ha le sue situazioni, di fatto estremamente complesse e incomprensibili per chi non le conosce. I politici dovrebbero visitare più spesso i penitenziari per potersene rendere conto”. Infine, sul capitolo sanità, la Belcuore ha dichiarato: “Il sistema sanitario delle carceri, da quando è passato di competenza alle Asl, non funziona in modo efficiente. Per quanto mi riguarda l’area sanitaria dei penitenziari della provincia di Caserta andrebbe commissariata. Non per le professionalità delle singole persone che ci lavorano ma per la mancanza di risorse, personale e per l’enorme dispendio di energie che va a discapito dei detenuti”. Catanzaro. Né riabilitazione, né medicine: in carcere la salute è un lusso di Francesco Iacopino e Dario Gareri* Il Riformista, 26 agosto 2022 Nel carcere calabrese non c’è un medico notturno. E mancano i farmaci: chi può li compra da sé. L’istituto è accreditato per l’attività riabilitativa ma non ci sono attrezzi. E la piscina non funziona. Questa è la terza di tre parti di un reportage dal carcere di Catanzaro che Nessuno tocchi Caino ha visitato insieme alla Camera penale il 18 luglio scorso. La prime due puntate sono state pubblicate sul Riformista del 12 e del 19 agosto. L’area più critica del carcere è quella Sanitaria. Manca il medico notturno, nonostante vi siano pazienti che richiedono assistenza continua perché affetti da gravi patologie. Straziante il caso di L.I., malato di cirrosi epatica. Una notte ha accusato dolori lancinanti, che lo hanno portato a contorcersi e a piangere per ore, fin quando non è giunta la guardia medica, dall’esterno, che ne ha disposto il ricovero. Oltre al personale, mancano anche i farmaci. Chi può, li compra da sé. Chi è povero, non ha diritto di ammalarsi. La salute, da queste parti, non è un lusso che si possono concedere tutti. E poi, in fondo, il cuore del problema: chi è disposto a indossare il camice in carcere? I posti ci sono. Ma restano vacanti. Eppure, sulla carta, Catanzaro è considerato un centro clinico nel quale si trasferiscono i malati gravi. Sulla carta. Nella sostanza non funziona. E non solo per mancanza di medici. E così, i viaggi della speranza si trasformano in gironi infernali, con l’aggravante di aumentare il carico di un’area già al collasso. L’Istituto è anche accreditato per l’attività riabilitativo-motoria. Tra le dotazioni, una piscina e una sala per la ginnastica. Peccato, però, che la piscina non ha mai funzionato e nella sala riabilitazione vi sono una pedana e pochi attrezzi ammassati in un angolo. Morale: i detenuti vagano per la sezione con le stampelle o con la sedia a rotelle, increduli rispetto a un destino doppiamente beffardo. Quando affrontiamo il tema, si leggono sul viso del Direttore lo sconforto e la rassegnazione. Nonostante il suo temperamento forte e la grande passione che infonde nel proprio lavoro, nota a tutti, ammette di non accettare più detenuti che necessitino di cure h/24 perché l’istituto non è (più) in grado di assicurare assistenza sanitaria continua. La situazione di disagio non muta nell’area lavoro, nella quale la mancanza di fondi si riflette sulle retribuzioni, poche e inadeguate. Parlare di paga proporzionata alla qualità e quantità di lavoro prestato è un’offesa alla Costituzione. In fondo, è vero che i salari sono (più) bassi, ma siamo pur sempre in intramoenia. Man mano che il livello di sicurezza si “abbassa”, dall’AS1 all’AS3, aumenta il numero di detenuti per cella. In AS3, al 4° Piano, sono in 3. Chiedono che le porte siano aperte di giorno, per combattere il caldo nei pochi metri quadrati ove si fa fatica perfino a rigirarsi. Al terzo piano, mentre l’ala sinistra è stata ristrutturata, quella a destra è composta da celle vetuste, senza docce e senza acqua calda. Puoi mitigare il rigore dell’acqua fredda, utilizzando le docce in comune. E specie in autunno e in inverno, è opzione inevitabile. Il quadro non migliora nella media sicurezza, dove colpisce la natura multirazziale e multiproblematica dei residenti. Oltre alla loro povertà. Una suora tenace usa la leva del volontariato per contenere gli ulteriori effetti desocializzanti prodotti dalla miseria. Il dato che molti di loro siano extracomunitari e tossicodipendenti, ci rafforza nella convinzione che il carcere, per tali categorie di soggetti, i disperati del nostro tempo, è sempre di più concepito quale pattumiera sociale. Altro che finestra di speranza sulla vita. Per non parlare della mancanza degli spazi ‘minimi’ indicati dalla sentenza Torreggiani. Una convinzione che diventa certezza quando, dalle periferie esistenziali, scopriamo che un piano è dedicato ai malati psichiatrici. Un grande giurista del secolo scorso, riflettendo sul tema, affermava causticamente che “nella nostra allegra Repubblica i pazzi li hanno aboliti per Legge”. Aveva ragione. Come se la malattia mentale e la tossicodipendenza possano trovare rimedio restringendo gli spazi di libertà. Soldi spesi male, che non curano le ferite, né quelle del corpo né quelle dell’anima, e non promettono prospettive di sicurezza futura. Ma per lo Stato va bene così. Al termine del viaggio, rimane l’amarezza di un mondo pieno di potenzialità, di persone che sarebbero ben disposte a combattere la lotta col proprio destino, a mettercela tutta sulla via del riscatto, ma con le armi spuntate. Nessuno, pur volenteroso, può pensare di vincere da solo una battaglia così impegnativa. Siamo ancora lontani dal percorso di reinserimento sociale disegnato nella nostra Magna Charta. Aveva ragione Voltaire nel dire “non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. La nostra, nonostante gli sforzi dei naviganti, sulla rotta della civiltà veleggia ancora in alto mare. *Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro Caserta. “Porte Aperte alla Città”: progetto di recupero e inclusione per ex detenuti teleradio-news.it, 26 agosto 2022 Una eco sui social media seguita dal favore della cittadinanza si accompagna alle vive congratulazioni espresse dal Dirigente dell’Uiepe (Ufficio Interdistrettuale di esecuzione Penale Esterna) per la Campania, in merito allo svolgimento del progetto “Porte Aperte alla Città 2022”. Sotto la guida dell’associazione “Noi Voci di Donne” e il partenariato del Comune, costituisce motivo di vanto per l’Ufficio Iepe diretto dalla dottoressa Maria Laura Forte - per il lavoro svolto dai suoi utenti - nell’ambito di una idea progettuale che ha come obiettivo il recupero e l’inclusione di chi ha commesso un reato all’interno della comunità di appartenenza. Il Progetto di Noi Voci di Donne, promosso dall’ Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna - Campania, vede impegnato in attività di manutenzione e ripristino del decoro urbano della città di Caserta “chi negli anni ha assunto condotte antisociali, soprattutto per acquisire una rinnovata coscienza civica nel rispetto della cittadinanza e della costituzione”. “Il nostro è un impegno quotidiano - spiega la dott.ssa Pina Farina - che ci richiede non pochi sacrifici, ma che con grande determinazione, coraggio e professionalità affrontiamo. La nostra collaborazione con l’ufficio esecuzione penale esterna di Caserta è sancita da un patto di collaborazione e di impegni assunti in maniera reciproca, ma soprattutto da una grande stima professionale”. Incentrato “sull’integrazione sociale e culturale dei destinatari”, alla conferenza stampa per la presentazione del progetto “Porte Aperte alla Città 2022”, tenutasi il 24 agosto nei locali dell’ex Caserma Sacchi, hanno preso parte la Presidente di Noi Voci di Donne, dott.ssa Pina Farina; il Direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Caserta, dott.ssa Maria Laura Forte; il Direttore Reggente dell’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna per la Campania, dott.ssa Claudia Mannola; l’Assessore ai Lavori Pubblici, Massimiliano Marzo, e l’Assessore alla Cultura Vincenzo Battarra”. Al fine di garantire una migliore accoglienza ai tanti turisti che stanno giungendo in città, sono stati realizzati, già dalla scorsa settimana, i primi interventi che riguardano: Piazza Dante, Piazza Gramsci, PiazzaVanvitelli, Via Mazzini, Piazza Carlo Borbone. Si proseguirà in viale Dohuet, corsoTrieste, via Roma, via Unità d’Italia fino a lambire le periferie e le frazioni. La chiusura è prevista a dicembre con il diserbo dei galoppatoi di viale Carlo III. Di età compresa tra i 25 e i 50 anni i partecipanti alla quarta edizione del progetto che li vedrà adoperarsi con un duplice scopo: fornire un servizio alla collettività - effettuando attività inerenti alla rigenerazione urbana, diserbo e pulizia delle strade - e riscattarsi dal punto di vista sociale e lavorativo. “Nelle edizioni precedenti del progetto le persone coinvolte, tutti soggetti vulnerabili, si sono occupate prevalentemente della riqualificazione e della manutenzione del verde in otto piazze della città. Questa volta, d’accordo con l’Amministrazione comunale, abbiamo deciso di orientare gli interventi sul diserbo dei marciapiedi e la pulizia delle strade”. “Si tratta di lavori che il Comune attualmente non riesce a svolgere pienamente, complice la carenza di personale - mette in luce l’Assessore al ramo, Massimiliano Marzo - così abbiamo pensato di avvalerci della collaborazione degli ex detenuti per far sì che svolgessero un compito che rispondesse anche a quelle che sono le esigenze e le aspettative della comunità. Non solo lavori pubblici per gli ex detenuti che nei locali della Sacchi svolgono anche corsi di formazione, laboratori artigianali, giardinaggio, attività pedagogiche e incontri con equipe specializzate in grado di provvedere loro anche un supporto psicologico. “Dal 2006 ci occupiamo di violenza di genere - racconta Pina Farina - presidente di Noi Voci di Donne - ma negli ultimi anni ci siamo resi conto che contrastare i maltrattamenti non è sufficiente a garantire e migliorare la sicurezza pubblica, occorre agire su chi commette i reati e intervenire sulla loro riabilitazione”. “Siamo impegnati su questo fronte dal 2011, otto anni fa abbiamo dato vita anche ad un Centro di assistenza per uomini maltrattati, tuttora l’unico esistente in provincia di Caserta, e i risultati oggi ci stanno dando ragione. Il 90% degli ex detenuti che ci sono stati affidati, entro un mese dal termine del percorso, trova un lavoro, recupera la sua dignità e soprattutto non reitera il reato”. Con questo progetto - fa notare Maria Laura Forte, direttore dell’Uepe di Caserta - il Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità garantisce anche una borsa lavoro per tutta la durata del percorso poi, grazie ad un protocollo sottoscritto da tutte le parti coinvolte con la Regione, che consente di incrociare il profilo dei detenuti con le richieste che arrivano dalle aziende, riusciamo anche ad offrire una risposta concreta agli ex detenuti e alle loro famiglie”. Firenze. Uscito dal carcere non trova lavoro. E minaccia di gettarsi da una gru di Monica Pieraccini La Nazione, 26 agosto 2022 Dissuaso dopo ore di trattative. Era uscito da poco dal carcere e non riuscendo a trovare lavoro ha minacciato di gettarsi da una gru. È successo mercoledì 24 agosto in viale Guidoni a Firenze. L’uomo, un cittadino romeno di 50 anni, è stato dissuaso dopo quasi due ore di trattativa dal suo avvocato Massimiliano Palena e da un poliziotto dell’equipaggio Nibbio della questura. Il 50enne, dopo essere sceso dalla gru di un cantiere in viale Guidoni, è stato accompagnato all’ospedale di Careggi per controlli ed è stato dimesso in serata. Nel luglio scorso, lo stesso uomo aveva finito di scontare una condanna per aver tentato di dare fuoco alla moglie al culmine di una lite. L’episodio era avvenuto in un alloggio di fortuna, in una ex fabbrica alla periferia di Firenze, in via del Pesciolino. La donna riuscì a scappare: aveva indosso un pigiama cosparso di alcol. Lui raccontò che voleva farla finita insieme a lei e fu arrestato e condannato. Quando è uscito dal carcere, sempre a luglio, il romeno avrebbe cercato lavoro come muratore, ma senza successo. Così ieri da deciso di farla finita arrampicandosi a 45 metri di altezza. “Ha sempre lavorato e vorrebbe tornare a farlo”, ha spiegato il suo legale. Roma. Alle celebrazioni della Perdonanza anche un gruppo di ristretti abruzzesi di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 26 agosto 2022 L’abbraccio del Papa ai fratelli detenuti un vero anno santo di conversione e di riscoperta di ciò che è realmente essenziale nelle vite di chi è privato della libertà. L’edizione 728, la 40esima dell’era moderna della Perdonanza celestiniana, si arricchisce di un appuntamento inedito. Ai riti di passaggio della Porta santa, legati all’indulgenza plenaria dei fedeli, parteciperà anche una rappresentanza degli ospiti delle Case di reclusione abruzzesi. “Sono lieto della presenza di alcuni detenuti del carcere de L’Aquila e di altri penitenziari della nostra regione in piazza Duomo, durante la visita pastorale di Papa Francesco il prossimo 28 agosto” sottolinea il cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo de L’Aquila. “Il Papa, durante un suo intervento - aggiunge il porporato - ha ricordato che il carcere è luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità. È un luogo dove tutti, Polizia penitenziaria, cappellani, educatori e volontari, sono chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale. In effetti nel carcere, che per molti è un pianeta sconosciuto, ci sono persone concrete. Esistono le mura che delimitano l’area della detenzione, ma esistono anche le barriere del pregiudizio, che segnano le dimensioni dell’esclusione. Proprio perché possano essere abbattuti i muri dell’indifferenza nei confronti del mondo carcerario, accolgo con gioia la disponibilità delle autorità preposte a permettere la presenza di alcuni detenuti all’incontro con il Santo Padre”. Il senso del messaggio celestiniano, in fondo, è il perdono e il capire le ragioni dell’altro, e la benedizione di Papa Francesco ai ristretti li aiuterà a trovare la forza per tornare a vivere e per creare nelle loro vite le condizioni della conversione. Perdonanza, dunque, come esperienza ecclesiale e sociale, di riconciliazione e di comunione con Dio, con se stessi e anche con coloro che hanno commesso errori e per questo stanno pagando. Ne è convinto il garante regionale dei detenuti, Gianmarco Cifaldi: “Ci stiamo preparando da tempo perché lo consideriamo un incontro molto importante. Il Papa ha più volte manifestato la sua vicinanza e il suo pensiero nei confronti dei detenuti e del mondo del carcere. Per noi è l’occasione per manifestare il nostro apprezzamento e il nostro grazie”. Nutrita la delegazione che parteciperà all’evento in Piazza Duomo. Oltre ai detenuti e agli ex detenuti, nella delegazione guidata dal garante ci saranno anche il presidente del Tribunale di sorveglianza, Maria Rosaria Parruti, i dirigenti e il personale di polizia penitenziaria. “Il messaggio del Papa ci darà maggiore forza per affrontare al meglio tutti quei progetti volti al corretto recupero e al reinserimento degli ospiti dei nostri istituti di pena” evidenzia Cifaldi, anticipando che i ragazzi doneranno al Papa alcune opere realizzate nei laboratori artigianali delle carceri di Pescara, Chieti, L’Aquila, Avezzano e Sulmona. Scuola, non è (solo) questione di soldi di Gianni Canova* Corriere della Sera, 26 agosto 2022 Tutti i programmi elettorali parlano di istruzione, ma nessuno si sofferma sulla qualità della preparazione che offriamo ai nostri studenti, mentre la scuola dovrebbe aiutare a cercare, scoprire, capire, interpretare, innovare. La notizia buona è che la scuola e la formazione delle giovani generazioni sono temi presenti nei programmi di quasi tutti gli schieramenti impegnati nella campagna elettorale. La notizia cattiva è che le proposte di quasi tutti i partiti, con pochi distinguo, continuano a privilegiare gli interessi di chi a scuola ci lavora invece che quelli di chi a scuola ci studia e ci va per ricevere una formazione adeguata alla complessità del nostro tempo. Tutti dicono che bisogna stabilizzare gli insegnanti precari. Bene (anche se bisognerebbe discutere su come selezionarli…). Dicono che gli insegnanti vanno pagati meglio. Sacrosanto. Che anche nelle carriere docenti va introdotto il merito. Era ora. Che va estesa e rafforzata l’edilizia scolastica. Ci mancherebbe. Il problema è che nessuno - ma proprio nessuno - si interroga su quella che è la vera emergenza della scuola (e, per converso, della società) italiana. Cosa si insegna nelle aule? Che tipo di formazione viene offerta agli studenti? Che conoscenze e competenze vengono condivise? Cosa è urgente fare per formare giovani generazioni più colte, consapevoli e responsabili di quelle uscite negli ultimi anni dalle nostre scuole? Non sto a ripetere se non in estrema sintesi dati ormai universalmente noti: siamo un paese che viaggia verso tassi di analfabetismo di ritorno preoccupanti, un italiano su due non è in grado di decodificare correttamente un testo scritto se contiene anche solo un periodo ipotetico o una frase sintatticamente men che elementare, abbiamo un numero di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) incomparabilmente più alto di tutti gli altri paesi europei e la formazione tecnico-scientifica fa acqua da tutte le parti. Non solo: all’università arrivano giovani per cui la geografia è un optional e la storia contemporanea una galassia inesplorata. E siamo del tutto analfabeti in alcune delle discipline più necessarie per capire il mondo in cui viviamo: siamo poco oltre lo zero nella formazione economico-finanziaria, e lo stesso vale per lo studio dei media, dei loro linguaggi, delle loro tecniche di comunicazione e di seduzione. I nostri governi sono stati perfino multati dall’Unione Europea perché siamo gli unici a non prevedere la media literacy nei curricula scolastici, abbiamo pagato le multe e tutto è rimasto come prima. Per di più, la scuola e l’università non sempre sono attrezzate per sviluppare negli studenti quelle abilità che tutte le rilevazioni più recenti indicano tra le più richieste dal mercato del lavoro dei prossimi anni: il pensiero critico, la capacità di risolvere problemi complessi, lo sviluppo della creatività. Qualche decennio fa sembrava che la ricetta magica per rilanciare la scuola fosse contenuta nella formula delle tre “i”: inglese, informatica, impresa. Ora finalmente si è capito che queste tre “i” non sono obiettivi ma prerequisiti. Come dire: se per giocare a calcio serve un pallone, per fare scuola seriamente oggi servono l’inglese, l’informatica e un rapporto costante con il mondo del lavoro. Sono altre, in prospettiva, le “i” di cui ha bisogno oggi la scuola. Alcune le ha indicate tempo fa con la consueta chiarezza e lungimiranza l’ex rettore dell’Università di Bologna Ivano Dionigi: invenio, intelligo, innovo. A questo dovrebbe allenare la scuola: a cercare, scoprire, capire, interpretare, innovare. Ma per far ciò è necessario un pensiero alto. Uno scatto di immaginazione e di fantasia. Non è, una volta tanto, questione di soldi. La politica promette quelli. Invece in questo caso servirebbero prima di tutto pensiero, progetto, visione. L’ultima riforma organica del nostro ordinamento scolastico risale paradossalmente alla riforma Gentile. 1923, poco meno di un secolo fa. Dopo ci sono stati aggiustamenti, adeguamenti, limature, ritocchi, riformine e controriformine. Ma nessuno ha mai provato a pensare e progettare seriamente quello che potrebbe e dovrebbe essere la scuola del futuro. C’è qualcuno tra le forze politiche impegnate nella campagna elettorale interessata e capace di farlo? Vedremo. Certo è che per metter mano a un progetto come questo bisognerebbe avere il coraggio di pensare più al futuro delle nuove generazioni che a vincere con promesse generiche o irrealizzabili le prossime elezioni. *Rettore Università Iulm - Milano Anche sui migranti si gioca la partita della democrazia di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 26 agosto 2022 Nonostante la guerra e la crisi climatica, con le loro pesanti conseguenze, e la pandemia non ancora conclusa, la propaganda razzista continua ad essere uno degli assi portanti dell’identità e del consenso della destra nel nostro Paese. Su immigrazione, diritto d’asilo e razzismo, l’autunno quest’anno di preannuncia non già caldo, come in altri tempi, quanto piuttosto asfissiante e pericoloso per un ritorno al passato di cui davvero non sentiamo il bisogno. Nonostante la guerra e la crisi climatica, con le loro pesanti conseguenze, e la pandemia non ancora conclusa, la propaganda razzista continua ad essere uno degli assi portanti dell’identità e del consenso della destra nel nostro Paese. Dal blocco navale della signora M. al razzismo di stampo leghista al quale siamo già abituati, se l’incubo della vittoria annunciata di questa destra pericolosa si trasformerà in realtà (e bisogna fare di tutto e andare a votare perché ciò non succeda) ci troveremo ad affrontare, dopo la campagna elettorale ammorbante alla quale già assistiamo, iniziative legislative e politiche che produrranno, come in passato, conseguenze nefaste sulle persone e sui diritti, oltre che sull’orientamento culturale del Paese. L’attacco come sempre potrebbe avvenire su più fronti. Da un lato, come è successo dalla Bossi-Fini in poi, l’obiettivo principale sarà ridurre lo spazio dei diritti delle persone di origine straniera già presenti, rendendo più ricattabile e precaria la loro vita e determinando cittadini e cittadine di serie B su cui concentrare le campagne xenofobe ad uso elettorale. Dall’altro, impedire l’attraversamento legale e sicuro delle frontiere, consegnando sempre più gli stranieri in fuga da guerre e povertà, nelle mani degli scafisti e alimentando l’immigrazione irregolare. Un approccio già sperimentato per consolidare l’idea, strumentale ma efficace, che il nemico principale dell’Italia è l’immigrazione e che quindi per far stare meglio gli italiani e le italiane è necessario contrastarla e che un peggioramento delle condizioni materiali degli stranieri, una riduzione dei loro diritti, equivarrebbe ad un miglioramento per l’Italia. Una aberrazione che ha radici lontane ma che ancora oggi porta un grande consenso politico e culturale, che poggia anche, forse soprattutto, sull’assenza di una alternativa credibile e politicamente solida. Ciò che il fronte progressista e antifascista, le forze democratiche, dovrebbe fare è non lasciare campo libero sull’immigrazione alle destre xenofobe e proporre una loro idea, proposte concrete, che non siano una copia sbiadita di quelle che, con più convinzione e credibilità, propone la destra. Non sarà né il silenzio né tantomeno ricette apparentemente neutre e poco convincenti a sottrarre spazio a questa che è sempre stata, e rischia di continuare a essere, una delle carte vincenti della propaganda delle forze dichiaratamente xenofobe. Ci vogliono gesti simbolici ma anche scelte concrete e parole nuove e chiare. Non è necessario fare abiura del passato, che pure porta con sé un lascito imbarazzante: basti ricordare tra i tanti errori del centro sinistra il codice Minniti per le Ong, il Memorandum con la Libia e la legge Orlando-Minniti. Solo per citare alcune delle questioni da affrontare, è necessario cominciare a dire parole chiare sulla Libia e sul sostegno alla cosiddetta guardia costiera e più in generale contro le politiche di esternalizzazione delle frontiere, per introdurre e far prevalere i canali di ingresso legali. Allo stesso tempo bisogna fare il possibile, invertendo la direzione indicata dai governi italiani fino ad oggi, per mettere al sicuro il diritto d’asilo che l’Ue, con il suo Patto su Immigrazione e Asilo, cerca di demolire. Rimettere al centro degli interessi generali l’uguaglianza dei diritti e il principio di non discriminazione. Proporre una nuova legge sulla cittadinanza con una forte impronta di apertura, non solo modifiche minime, ma una riforma complessiva che rappresenti una scelta di campo a favore delle famiglie e soprattutto delle nuove generazioni di origine straniera. La prossima legislatura, anche su questi temi, rischia di diventare una stagione terribile per i diritti e l’uguaglianza. Sarebbe auspicabile che i parlamentari delle forze democratiche, nessuno escluso, insieme alle associazioni, riproponessero un Patto per un Parlamento Antirazzista, come argine all’iniziativa che le destre xenofobe metteranno in campo. Se si ha a cuore il futuro e la cultura di questo Paese bisogna fare il possibile, preparandosi anche a scendere in piazza, per impedire un ampliamento dell’egemonia delle destre, che rappresenterebbe un vero rischio per la nostra democrazia. *Responsabile nazionale Immigrazione dell’Arci e presidente di ARCS Pantelleria, migranti “reclusi” nel centro peggio dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 agosto 2022 Cellulari sequestrati, si può parlare da un unico telefono, solo per qualche secondo e bisogna ricordare il numero del contatto a memoria. Dal report delle associazione Asgi e Spazi Circolari emerge un regime completamente chiuso. Possono parlare da un unico telefono messo a disposizione e solo per qualche secondo. Telefonata che possono effettuare se ricordano il numero del contatto a memoria, visto che vengono loro sequestrati i cellulari. In atto ci sono pratiche di detenzione illegittima, ostacoli all’accesso al diritto di difesa e all’accesso alla richiesta di asilo, compresa la violazione della libertà di corrispondenza telefonica. Parliamo di un regime completamente chiuso, di gran lunga peggiore di un carcere, dove di fatto c’è una sospensione del diritto. Si tratta del centro di prima accoglienza presso l’isola di Pantelleria, e tutto ciò è emerso dal report curato dall’associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e dell’Associazione Spazi Circolari. Pantelleria costituisce una via di accesso verso l’Unione europea - Il sopralluogo si è svolto dal 26 al 28 maggio 2022 e ha coinvolto una delegazione di 12 soci e socie dell’Asgi, nell’ambito del progetto InLimine, e dell’associazione Spazi Circolari, con l’obiettivo di comprendere le procedure applicate alle persone in ingresso sul territorio, verificare le modalità di accesso alla richiesta di protezione internazionale, l’implementazione di prassi di trattenimento informale e di prassi illegittime di allontanamento e le prospettive future. Durante il sopralluogo giuridico, sono stati organizzati quindi degli incontri con diversi attori coinvolti, a vario titolo, nella gestione delle politiche migratorie a Pantelleria. Il report spiega l’importanza dell’isola, perché costituisce una via di accesso verso l’Unione europea dove i flussi migratori vengono gestiti - denuncia l’Asgi - attraverso modalità spesso informali e lesive dei diritti delle persone migranti. Tale report si propone di rappresentare lo stato della gestione dei flussi e di portare alla luce le principali criticità riscontrate attraverso il sopralluogo giuridico svolto dalle associazioni a maggio 2022 e le prospettive attuali e future, in continuità e come aggiornamento dell’attività di monitoraggio svolta lo scorso anno e attraverso gli accessi civici. Il report sottolinea che nell’anno 2021 sono arrivate 2555 persone a Pantelleria, con 221 sbarchi. Un numero di persone in aumento rispetto all’anno precedente, durante il quale 1858 persone erano arrivate sull’isola. Nel periodo da luglio 2021 a febbraio 2022 sono arrivate 2229 persone, principalmente di nazionalità tunisina (2213 di cui 83 donne). Di queste 152 sono minori, 2 non accompagnati - (di cui 1 di sesso femminile), 57 minori accompagnati - (di cui 25 di sesso femminile), e 53 i nuclei familiari. Per le associazioni nel centro di Pantelleria si va verso un approccio simile agli hotspot - L’isola, abitata da poco più di 6600 abitanti, è più vicina alla Tunisia che alle coste italiane: 110 chilometri la separano dalla Sicilia, mentre solo 65 dalla Tunisia. È da qui che inizia un percorso che inserisce le persone migranti nella filiera che collega Tunisia, Pantelleria e Trapani. Sull’isola dalla fine del mese di maggio è presente un centro di prima accoglienza che sembra configurarsi come luogo di transito dove, tuttavia, sono state implementate alcune delle funzioni dell’approccio hotspot inteso come modello di gestione e, soprattutto, selezione dei flussi misti in ingresso. Dal 2 agosto 2022 è stata attivata una nuova struttura di soccorso e prima accoglienza, collocata in un’area adiacente al centro situato all’interno dell’ex Caserma Barone, che fino alla suddetta data è stata l’unica struttura a ospitare le persone in arrivo. Il nuovo centro è definito “punto-crisi” dal ministero dell’Interno a conferma - denuncia l’Asgi e l’associazione Spazi Circolari nel report - della volontà di portare a compimento il processo di formalizzazione del lesivo approccio hotspot sull’isola. Ma questa struttura pantesca è un centro chiuso o aperto? Nel report, in premessa, si ricorda che il diritto alla libertà personale è proprio di ogni individuo e può subire limitazioni solo nei casi e nei modi previsti dalla legge, attraverso un provvedimento redatto e notificato dall’autorità preposta e convalidato dall’autorità giudiziaria entro un termine molto rigido. Ogni altra forma di limitazione della libertà personale, quindi, è da considerarsi arbitraria e in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 13 della Costituzione e dall’articolo 5 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Lo scorso anno, sempre dalle associazioni, era stato monitorato come i cittadini e le cittadine straniere permanessero all’interno del centro di prima accoglienza di Pantelleria in condizioni di illegittimo trattenimento, per tempi variabili, in assenza di base legale e di verifica da parte dell’autorità giudiziaria in attesa del trasferimento a Trapani presso il centro di Contrada Milo (il Cpr di Trapani). Nel 2022, la Prefettura rappresenta che, con riferimento al centro di permanenza temporanea dell’ex Caserma Barone, i cittadini stranieri vigilati dovrebbero sostare per un tempo brevissimo, per un massimo di 24/48 ore, in attesa di essere trasportati a Trapani. Tuttavia, precisa, che soprattutto nei mesi estivi del 2021, anche a causa di numerose positività covid, i cittadini stranieri, tra i quali anche minori, sono rimasti nella struttura per più tempo. Ma, in realtà, tutte le testimonianze informali e di alcune associazioni raccolte quest’anno, hanno confermato che il centro è nei fatti tuttora chiuso. Sembrerebbe, infatti, che alle persone migranti venga riferita l’interdizione dell’uscita dal centro, sebbene talvolta, presumibilmente anche per esigenze logistiche, il cancello esterno di ingresso del centro sia fisicamente aperto durante il giorno. Sembrerebbe, inoltre, che vi sia un presidio di vigilanza all’interno del centro. Possono telefonare per pochi secondi solo se ricordano a memoria il numero - Sul punto, il report precisa che nessuna delle persone intervistate ha riferito di aver visto a Pantelleria sistematicamente persone migranti muoversi sull’isola, il che è un’ulteriore conferma della chiusura di fatto del centro. Laddove, secondo le testimonianze raccolte, si sia verificato che le persone siano riuscite a uscire dal centro, le stesse sono state rintracciate dai carabinieri, presumibilmente a seguito di segnalazione, e la misura è stata informalmente ripristinata riconducendoli all’interno dello stesso. E la possibilità di telefonare? Ricordiamo che il centro, formalmente, non è un carcere. Eppure, anche per quanto riguarda l’accesso alle telefonate, la situazione è perfino peggiore rispetto ai detenuti. Nel rapporto si ricorda che tuttora persiste la prassi del sequestro del cellulare. I migranti, nel centro di Pantelleria, sono obbligati a utilizzare un unico telefono messo a disposizione, esclusivamente al fine di rassicurare in merito alle proprie condizioni e peraltro sempre in presenza di un interprete. Una possibilità accessibile secondo tempistiche e modalità decise in base alla disponibilità degli attori che gestiscono le procedure di arrivo nonché dalle esigenze logistiche; per esempio, in caso di altre circostanze o eventi, tale possibilità viene rimandata potendo accedervi solo poche persone. Le persone in fila attendono tale concessione. Tuttavia la telefonata può durare solo pochi secondi e solo se la persona ricorda a memoria il contatto telefonico non potendo accedere alla propria rubrica e in condizioni di non riservatezza, essendo tale possibilità, secondo quanto riferito alle associazioni, esercitabile solo alla presenza di un interprete. Di fatto, i migranti - senza alcuna colpa - vivono in una situazione totalizzante. Pandemia e lavoro: qualcosa è cambiato di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 26 agosto 2022 Uno studio dei ricercatori della Federal Reserve di New York certifica che nel Nord Est americano almeno il 20% dei dipendenti dei servizi lavora in remoto. Percentuale che sale oltre quota 50 nei servizi professionali, nella finanza e negli affari. Gli analisti del Banca centrale ritengono che il fenomeno vada considerato permanente, convinti che l’era del lavoro svolto tutto in ufficio sia definitivamente tramontata. Negli Stati Uniti l’allarme Covid è molto ridimensionato: ristoranti e stadi pieni, boom dei viaggi, aerei che decollano col tutto esaurito. Unica eccezione: gli uffici mezzi vuoti. Chi sosteneva che i mutamenti nel mercato del lavoro indotti dalla pandemia sarebbero stati solo temporanei, che, finite le grandi paure e i sussidi pubblici, tutto sarebbe tornato come prima, rivede i suoi giudizi. A fare notizia è soprattutto la Apple: giudicando la presenza fisica e “la collaborazione interpersonale diretta essenziale per la nostra cultura”, il capoazienda Tim Cook ha chiesto ai suoi dipendenti di tornare al lavoro nella sede appena costruita a Cupertino, per tre giorni a settimana dopo la festa del Labor Day (5 settembre). In tanti non l’hanno presa bene: Apple Together — un’organizzazione informale interna, non un vero sindacato — sta facendo circolare una petizione nella quale si contesta la disposizione dell’azienda alla quale viene chiesta più flessibilità. La volontà di non tornare a lavorare in sede (o di tornarci per meno di tre giorni) viene giustificata con argomenti di tutti i tipi: “disabilità anche occulte, problemi familiari, questioni di salute e di sicurezza, difficoltà ambientali o finanziarie”. Quello della Apple non è un caso isolato: da un capo all’altro dell’America molti grattacieli di uffici restano semideserti nonostante i leader più carismatici delle imprese americane abbiano chiesto il ritorno generalizzato al lavoro in presenza: basta con il “pseudo ufficio remoto” ruggisce Elon Musk mentre per Jamie Dimon, capo della Chase, la maggiore banca americana, solo la presenza fisica sul luogo di lavoro garantisce carriere di successo, stimola la creatività facendo nascere nuove idee dal dialogo. Ma ora uno studio dei ricercatori della Federal Reserve di New York certifica che nel Nord Est americano almeno il 20% dei dipendenti dei servizi lavora in remoto. Percentuale che sale oltre quota 50 nei servizi professionali, nella finanza e negli affari. Gli analisti del Banca centrale ritengono che il fenomeno vada considerato permanente, convinti che l’era del lavoro svolto tutto in ufficio sia definitivamente tramontata. È la prima conseguenza della pandemia sul lavoro certificata in modo abbastanza chiaro: probabilmente non l’ultima, vista la perdurante difficoltà a trovare manodopera non solo negli Usa, ma anche in Paesi con elevati tassi di disoccupazione elevati. Due deputate ucraine ci spiegano come funzionerà il tribunale per incriminare gli aggressori russi di Francesco Dalmazio Casini Il Foglio, 26 agosto 2022 “Un tribunale sul modello di Norimberga”. Maria Mezentseva, deputata della Verkhovna Rada, il parlamento ucraino, e membro della delegazione ucraina all’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, descrive così la corte che le autorità ucraine stanno cercando di stabilire per incriminare i decisori russi. L’idea di creare un tribunale penale internazionale nasce nei primi giorni dell’invasione, per perseguire non solo i crimini commessi dalle forze di Mosca nel corso della guerra, ma tutti coloro - a partire da Vladimir Putin - che hanno un ruolo decisionale. “È nella decisione iniziale di aggredire che possiamo trovare le radici di tutti i crimini di guerra e delle atrocità che commesse in Ucraina”, spiega al Foglio Olena Khomenko, anche lei membro della Verkhovna Rada e della delegazione presso il Consiglio d’Europa. “Se non perseguiamo oggi l’aggressione, si potrà ripetere in futuro - spiega Khomenko - il diritto internazionale deve avere una funzione preventiva, deve fare in modo che nessuno possa rifarlo domani”. Se esistono oggi delle strutture, dalla Corte penale internazionale alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che possono occuparsi dei crimini e delle violazioni del diritto di guerra operati dai russi, per quel che riguarda il crimine dell’invasione la situazione è più sfumata. Mezentseva spiega infatti che “la Corte penale internazionale può occuparsi del crimine dell’aggressione solo nei casi in cui entrambi gli stati abbiano ratificato lo Statuto di Roma e gli emendamenti di Kampala del 2010 (che definiscono l’aggressione) e né la Russia né l’Ucraina figurano tra i firmatari”. Allo stesso modo la Corte internazionale di giustizia, l’organo giudiziario delle Nazioni Unite, pur avendo condannato l’invasione a marzo, non gode della giurisdizione per accusare i responsabili, mentre la sua posizione potrebbe essere compromessa dalla presenza di giudici russi e cinesi tra i quindici magistrati in carica. Come potrebbe funzionare un organo come quello che immagina Kyiv? “Abbiamo diversi modelli da prendere come riferimento e che gli esperti stanno studiando”, prosegue Mezentseva. Per il momento sono state individuate quattro possibilità per la creazione del tribunale speciale: un accordo multilaterale tra gli stati sul modello di Norimberga; un accordo “ibrido” che si basi sulla risoluzione di condanna dell’aggressione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sul modello del Tribunale speciale per la Sierra Leone - una soluzione che potrebbe prevedere alcuni giudici scelti dall’Onu e alcuni nominati dall’Ucraina; un tribunale che si basi sugli accordi tra Ucraina e Unione europea; un tribunale che si basi sull’accordo tra Ucraina e Consiglio d’Europa. Il primo caso, quello sul modello Norimberga, è quello che viene evocato più spesso perché un accordo multilaterale, oltre a essere completamente indipendente dalle Nazioni Unite (dove la Russia conserva un seggio nel Consiglio di sicurezza e il diritto di veto) potrebbe estendere la legittimità della corte oltre il perimetro dei paesi europei, contribuendo a una condanna veramente globale dell’aggressione. I punti del tribunale, per sommi capi, sono stati esposti a luglio dal ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba all’Aia. Innanzitutto, questa corte si occuperebbe di tutti gli eventi che si sono verificati dal febbraio del 2014, con lo scoppio della guerra in Donbas - che per gli ucraini rappresenta l’inizio dell’aggressione armata da parte di Mosca. Mezentseva spiega che ci sono due snodi particolarmente importanti per capire come dovrebbe funzionare il tribunale: “Saranno perseguiti tutti quei soggetti che esercitano un controllo effettivo o dirigono direttamente l’azione politica e militare dello stato russo e, in secondo luogo, l’eventuale status di immunità degli imputati (anche quello del capo di stato) non solleverà tale persona dalla responsabilità penale individuale e non ne potrà attenuare la pena”. Alcune istituzioni si sono già pronunciate in merito all’istituzione del tribunale. “Per il momento ci sono due risoluzioni dell’assemblea del Consiglio d’Europa, una risoluzione del Parlamento europeo e un pronunciamento dell’assemblea parlamentare della Nato che supportano questo progetto”, spiega ancora la deputata. Per quel che riguarda i singoli paesi invece, solo la Lituania, tramite il Parlamento, si è ufficialmente pronunciata per l’istituzione di un tribunale speciale per perseguire l’invasione russa. In Colombia la strada per la pace passa dal dialogo con i narcos di Mario Giro Il Domani, 26 agosto 2022 Con chi si può dialogare per ottenere la pace? È lecito spingersi fino a negoziare con criminali della peggior specie? C’è chi lo ritiene impossibile sostenendo che non si può ricompensare dei delinquenti dandogli dignità di controparte politica. D’altra parte c’è chi sostiene che si negozia sempre con il nemico anche se si tratta di fuorilegge: lo scopo più alto è il bene della pace. Ci sono molti esempi di trattative fatte con gruppi armati che si finanziavano con attività illegali come il commercio di droga: la frontiera tra criminalità organizzata e guerriglia è divenuta labile se non del tutto inesistente. È ciò che pensa il nuovo presidente colombiano Gustavo Petro, il primo di sinistra nel suo paese, che ha sorpreso tutti offrendo una trattativa ai narcos. Dalla sua iniziativa sorgerà senza dubbio una forte polemica nazionale. I narcos colombiani sono legati agli ex paramilitari, tra i più feroci protagonisti della lotta anti-guerriglia e del tutto contrari alle trattative con le Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia) che avevano portato a un accordo, negoziato a Cuba tra il 2012 e il 2016 all’epoca del presidente Juan Manuel Santos. La Colombia non è l’unico caso in cui la controversa questione se trattare o no con la criminalità è divenuta un tema politico. Ad esempio in El Salvador si è tentato una strada simile con le maras, le gang che terrorizzano il paese e vivono di traffico di droga. Vari tentativi erano sfociati in una serie di tregue senza però mai giungere a un accordo definitivo. I vari governi che si sono succeduti nel piccolo paese centroamericano (con i tassi di violenza più alti di tutta l’America Latina, assieme a Honduras e Guatemala) non sono riusciti a elaborare un consenso nazionale attorno a tale delicata questione. Così a periodi di calma sono seguiti tempi di forte violenza, accompagnati da strascichi polemici su chi fosse responsabile della rottura della tregua. Dopo un’efferata raffica di più di 80 omicidi avvenuta nel febbraio di quest’anno, l’attuale presidente salvadoregno Nayib Bukele ha optato per lo stato di eccezione, sospendendo le garanzie costituzionali e facendo arrestare circa 50mila mareros o sospetti tali. Le organizzazioni per i diritti umani e le famiglie gridano allo scandalo per la cieca repressione ma il governo risponde osservando che in Salvador il luglio 2022 è stato il primo mese senza assassinii da vari decenni. Dal canto suo Petro ha scelto la strada opposta. Crede che la popolazione colombiana sia stremata da oltre mezzo secolo di violenze e che l’accordo di pace negoziato a Cuba con le Farc comuniste vada completato con un passo ulteriore: aprire colloqui con il clan del Golfo, il più forte gruppo di ex paramilitari divenuto il più importante cartello della droga del paese. Durante la sua cerimonia di installazione ha fatto un’offerta di tregua a cui il clan ha reagito positivamente: “Decretiamo una cessazione unilaterale delle ostilità - si legge nel loro comunicato - come espressione di buona volontà nei confronti del governo”. L’arresto temporaneo delle ostilità permetterà di costruire un quadro negoziale appropriato. Come ci si poteva aspettare fortissime sono state le critiche alla decisione del presidente, accusato di offrire un riconoscimento ufficiale ad un cartello della droga, cioè a dei criminali comuni legati alla rete globale del narcotraffico. Ma Petro è un realista: è consapevole che il clan riveste già un ruolo “politico” nel paese, rappresentando un vero e proprio contropotere nei confronti dello stato colombiano. Si tratta di una questione alquanto controversa. Dieci anni fa la maggioranza dei colombiani non era convinta che si potesse negoziare con le Farc, le quali si erano macchiate di molti crimini, come i sequestri e lo stesso narcotraffico. I colombiani avevano respinto l’accordo di pace votando no al referendum dell’ottobre 2016 organizzato dal presidente Santos per ottenere l’approvazione popolare. Di conseguenza l’accordo era stato rinegoziato rendendo la sua implementazione molto più difficile e provocando il malcontento di una parte dei guerriglieri. Anche la chiesa colombiana si era messa contro la trattativa cubana, assieme ad un ampio segmento della società civile organizzata. L’idea diffusa era che la pace con le Farc non valesse quanto la sovranità dello stato, calpestata e sminuita da una trattativa coi “terroristi” che tanto male avevano inflitto al paese. Santos - un ex ministro della difesa di destra - tuttavia pensava che la pace valesse molto di più e che non avesse prezzo. Oggi il presidente Petro sembra dire: se un presidente di destra ha negoziato coi guerriglieri comunisti, io posso negoziare con gli ex paramilitari, legati alla destra e alla élite proprietaria del paese. Per ora il clan/cartello ha reagito bene: intravvede la possibilità di essere definitivamente consacrato come protagonista politico. Ovviamente c’è da chiedersi cosa ne sarà del traffico di droga: cogliere l’opportunità per togliersi di dosso l’etichetta da gangster significa rinunciare a tale commercio, che ha reso potente il cartello. È logico aspettarsi che non tutti saranno d’accordo: come accadde con le Farc, anche con il clan del Golfo si tratta di una vicenda difficile e delicata che potrebbe durare anni. Chi resta escluso dai ragionamenti sull’opportunità o meno di aprire negoziati con chi si ribella all’autorità dello stato sono i civili. Spontaneamente molti sentono che si tratta di una partita di scambio che passa sopra le loro teste senza che venga chiesto alcun parere. Ne risulta che chi detiene la forza delle armi (sia legalmente che illegalmente) negozia; chi non le ha subisce il risultato del negoziato. Ciò provoca risentimento: com’è possibile che lo Stato, che è di tutti, si debba piegare a trattare con chi ha violato (ripetutamente e brutalmente) la legge? Sembra giusto ma è noto come tale posizione renda difficile la trattativa in molti scenari e rende endemici i conflitti. La stessa legislazione, nazionale o internazionale, contro l’impunità e favorevole alla non prescrittibilità di certi reati ha tali effetti dei quali tener conto. Di questi tempi il dibattito sulla pace e sulle sue condizioni è molto vivace, come nel caso della guerra in Ucraina: sembra che negoziare sia considerata una scelta errata o debole mentre al contrario si debba preferire il terreno del conflitto militare anche a costo di immensi sacrifici. Quanto vale la preservazione della vita che solo la pace garantisce? Ci si chiede cosa si può sacrificare in nome delle proprie ragioni. Si tratta di un passaggio molto delicato: per cosa vale la pena negoziare e per cosa vale la pena combattere? La risposta non può essere semplicistica, né emotiva. Nel caso colombiano il presidente Petro pensa che egli debba fare un tentativo proprio nei confronti di tutto ciò che simboleggia l’opposto di quello che lui stesso rappresenta. Petro è uomo di sinistra ed è stato un guerrigliero del M19. Eppure egli tende una mano a miliziani, paramilitari e narcotrafficanti di destra. Lo fa in nome del bene superiore della pace. “La guerra alla droga è fallita”, ha dichiarato Petro, “in 40 anni ha provocato la morte di un milione di latinoamericani, ha rafforzato le mafie e indebolito gli stati. Ha spinto i governi a commettere crimini, ha fatto evaporare l’orizzonte della democrazia. Vogliamo aspettare che un altro milione di latinoamericani venga ucciso o finalmente imboccare una rotta diversa?”. Davanti ad ogni conflitto ci si deve porre tali domande difficili che dimostrano anche l’inefficacia della guerra. Per chi crede nella democrazia è essenziale chiedersi se sia giusto continuare a usare le armi oppure se la pace sia il bene supremo da conservare o recuperare al più presto con il metodo del dialogo. Un nodo difficile da sciogliere, come sappiamo. Myanmar. Cinque anni fa iniziava il massacro dei rohingya di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 agosto 2022 Nell’agosto 2017 l’esercito di Myanmar lanciò operazioni militari vaste e sistematiche contro i villaggi rohingya dello stato di Rakhine, rendendosi responsabile di esecuzioni extragiudiziali, distruzione di proprietà e aggressioni sessuali. Oltre 740.000 uomini, donne e bambini rohingya fuggirono verso il confinante Bangladesh. Secondo le forze armate, prima dell’avvio delle operazioni militari c’era stata una serie di attacchi armati contro posti di blocco della polizia. Considerando anche la violenza subita nei decenni precedenti, si stima che circa un milione di rifugiati rohingya viva attualmente in Bangladesh. Di molte delle loro abitazioni non è rimasta alcuna traccia. Cinque anni dopo, i rohingya rimasti nello stato di Rakhine non hanno la libertà di movimento e sono privati di altri diritti fondamentali, come l’accesso adeguato a cibo, cure mediche e istruzione, cui va aggiunta l’insicurezza causata dal colpo di stato del febbraio 2021. Nelle zone di confine del Bangladesh, i rifugiati vivono in un limbo, non potendo tornare in sicurezza in Myanmar e non potendo vivere in pace nei campi per rifugiati del Bangladesh, dove la violenza è in aumento. Non uno degli alti gradi dell’esercito di Myanmar è stato finora incriminato. Dal punto di vista della giustizia internazionale, tuttavia, qualcosa si muove. Nel luglio 2022 la Corte internazionale di giustizia ha respinto le obiezioni avanzate da Myanmar e si è dichiarata competente per andare avanti nel procedimento avviato nel 2019 dallo stato del Gambia contro il governo di Myanmar ai sensi della Convenzione sul genocidio. Anche il Tribunale penale internazionale sta indagando sui crimini commessi nel 2016 e nel 2017 contro i rohingya. Sebbene Myanmar non abbia ratificato lo Statuto del Tribunale, questo sta esaminando denunce di crimini commessi in Bangladesh e in altri stati. Amnesty International ha sollecitato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a deferire al Tribunale l’intera situazione di Myanmar in modo che possa essere svolta un’indagine su tutti i crimini commessi all’interno di Myanmar. Un’altra indagine, sulla base della giurisdizione universale - il principio che autorizza le autorità nazionali a indagare su crimini di diritto internazionale commessi altrove - sta andando avanti in Argentina. I promotori, l’Organizzazione birmana dei rohingya del Regno Unito, sperano che i più alti gradi dell’esercito di Myanmar siano chiamati a rispondere dei crimini commessi contro i rohingya. La Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite su Myanmar ha già chiesto che il generale Min Aung Hlaing e ulteriori alti gradi dell’esercito di Myanmar siano indagati e processati per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Va ricordato che il generale Min Aung Hlaing ha assunto il ruolo di presidente del Consiglio di amministrazione dello stato dopo il golpe del febbraio 2021.