Affettività in carcere, la commissione Lari del Dap conferma: “Non va negata” di Viviana Lanza Il Riformista, 25 agosto 2022 Delle conclusioni della commissione Lari si è detto e scritto. C’è un dettaglio, però, su cui vale tornare. Riguarda l’affettività in carcere. Il tema non è nuovo ma le conclusioni della commissione Lari consentono di approcciare ad esso con una consapevolezza nuova, una in più rispetto al passato. È la consapevolezza che arriva dal capire cosa animò le tensioni di marzo 2020 sfociate nella terribile mattanza avvenuta il 6 aprile di quell’anno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (un centinaio di detenuti picchiati per mano o per ordine di un centinaio di agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria adesso sotto processo). Non fu una regìa criminale, nulla a che vedere con l’ndrangheta. La commissione ispettiva del Dap, presieduta dall’ex procuratore Sergio Lari, ha accertato che l’origine di quelle tensioni era da ricercare piuttosto nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. “Già in quei giorni di marzo avevamo capito che quelle chiusure sarebbero state un aggravio enorme per chi, già normalmente, ha rapporti rarefatti con i propri affetti - commenta l’associazione Antigone -. Tanti erano i detenuti e i familiari che si rivolgevano a noi in un misto di paura, preoccupazione, ansia, dovuto a quanto stava accadendo con il diffondersi del Covid-19, di cui sapevamo tutti molto poco e per il quale tutti avevamo negli occhi le immagini terribili di ospedali al collasso e delle ambulanze che sfrecciavano nelle città deserte”. “Per questo - spiega Antigone che da molti anni è impegnata per i diritti e le garanzie del sistema penale - da subito, avevamo chiesto al Dap di dotare i detenuti di telefoni e tablet, consentendo di videochiamare i familiari, ben oltre i dieci minuti alla settimana previsti dal regolamento penitenziario. Quella nostra richiesta fu accolta e in pochi giorni oltre mille telefoni e tablet arrivarono nelle carceri, superando anni di ostruzionismo su questo tema”. Oggi si torna a ribadire quella richiesta, con la consapevolezza che arriva dalle conclusioni della commissione ispettiva del Dap e con i numeri alla mano dei suicidi che continuano a verificarsi all’interno degli istituti di pena. L’altro giorno il 54esimo. “L’esito della relazione della commissione del Dap dovrebbe farci capire quanto l’affettività, il poter sentire e vedere i propri familiari, sia importante per chi è detenuto. Anche, appunto, nel prevenire qualsiasi intenzione suicidaria”. Si liberalizzi il numero di telefonate a disposizione dei detenuti quindi. E lo si faccia presto. Una richiesta che in Campania ha più volte ripetuto il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, che tra l’altro è stato proprio tra le persone sentite dalla commissione del Dap. “Sono stato sentito nel corso delle indagini e delle ispezioni e sul carcere di Fuorni ho, sin da subito, chiarito che dietro alla rivolta non c’era la regia della ‘ndrangheta”, racconta Ciambriello. “Almeno per la tipologia di detenuti coinvolti, soprattutto tossicodipendenti, non poteva essere stato tutto architettato dalla ‘ndrangheta. E sono contento che la commissione sia arrivata alle stesse conclusioni. Mi è dispiaciuto invece - conclude il garante - sentire in tante trasmissioni, prime tra tutte ‘Non è l’Arena’, certi commentatori, spesso anche magistrati impegnati da anni sul fronte antimafia, sostenere convintamente che dietro le rivolte in carcere, in tutta Italia, ci fosse la mano della mafia calabrese. Il documento finale redatto dalla commissione restituisce verità, sull’accaduto di Fuorni, ma anche su tutte le altre ribellioni nelle carceri del Paese. Adesso, bisogna attendere l’esito delle indagini per chiarire i contorni della morte di undici detenuti, proprio durante le rivolte del 2020”. Suicidi in carcere. Antigone: più telefonate per i detenuti ansa.it, 25 agosto 2022 Secondo i dati raccolti nella 18esima edizione del Rapporto “Il carcere visto da dentro” pubblicato dall’associazione Antigone, 57 persone private della libertà si sono tolte la vita negli istituti penitenziari italiani. Il documento ha fornito i numeri più significativi sulle condizioni di detenzione: rispetto al 2019 i reati nel 2021 sono in calo del 12,6%, ma dopo la pandemia sono ricominciati a crescere; diminuiscono gli omicidi rispetto al 2019; il 40% delle persone uccise sono state donne (erano il 35% nel 2019). Tuttavia un intero capitolo è stato dedicato alla questione delle morti volontarie in carcere. Il tasso di suicidi in carcere. Un primo elemento fondamentale è quello del tasso di suicidi in carcere, ossia il rapporto tra il numero di suicidi e le persone mediamente presenti negli istituti di pena nel corso dell’anno: nel 2021, a fronte di una presenza media di 53.758 detenuti, si è attestato a 10,6 casi ogni 10mila persone detenute. Il confronto internazionale. “Il tasso di suicidi in carcere è il principale indicatore per analizzare l’ampiezza del fenomeno”, sottolinea il Rapporto. È infatti interessante vedere il confronto tra il tasso di suicidi in carcere nel nostro Paese e nel resto dell’Europa. Secondo il Rapporto Space 2021 (“Statistiques pénales annuelles du Conseil de l’Europe”), citato dall’associazione Antigone nella ricerca, l’Italia si trova al decimo posto per tasso di suicidi in carcere tra i Paesi membri del Consiglio d’Europa. Nel Rapporto dell’associazione viene precisato che la classifica fa riferimento ai dati del 2020, quando il tasso di suicidi in carcere in Italia era 11 casi ogni 10mila detenuti, mentre la Francia era maglia nera (27,9casi ogni 10mila detenuti). Un trend in crescita. Con riferimento all’evoluzione del tasso di suicidi in carcere in Italia, il Rapporto afferma che “Guardando l’andamento del dato nell’ultimo decennio, osserviamo come nei due anni passati il tasso di suicidi in carcere sia particolarmente alto. Purtroppo tale crescita sembra confermarsi anche nel 2022, essendo già numerosi i casi di suicidi avvenuti nei primi mesi dell’anno”. Infatti, a fine agosto 2022 il numero di detenuti suicidi in Italia ha quasi raggiunto il valore del 2021, con 53 casi registrati. Il dato è fornito dalla rivista Ristretti Orizzonti, una delle fonti sul quale si è appoggiato il Rapporto. Nel corso del 2021, complessivamente 148 persone sono morte mentre erano private della libertà e sotto custodia dello Stato (dati Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). “57 sono le persone che si sono tolte la vita mentre le restanti 91 sono generalmente indicate come morti avvenute per cause naturali”, rileva Antigone. I casi dei suicidi sono pertanto pari al 38,5% dei decessi totali. Come evidenzia Rita Bernardini (presidente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”) in una intervista rilasciata a Il Giornale, questo dato si attesta ben al di sopra della media europea, ovvero il 26%, e la forbice con i Paesi europei rischia di allargarsi ulteriormente nei prossimi anni. Fuori e dentro il carcere. Secondo il documento sulla prevenzione del suicidio in carcere dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che viene citato nel Rapporto, “i detenuti - se considerati come gruppo - hanno tassi di suicidio più elevati rispetto alla comunità”. Questo fattore non si manifesta solo all’interno del carcere, ma “gli individui che subiscono il regime di detenzione presentano frequenti pensieri e comportamenti suicidare durante tutto il corso della loro vita”. Nel Rapporto viene fatto un confronto, realizzato grazie a dati Oms e Dap, tra i tassi di suicidi fuori e dentro il carcere (non vengono quindi contati come una popolazione a parte gli ex-detenuti). Ne emerge una grande discrepanza tra i due valori: nel 2019, nel Paese il tasso di suicidi era pari allo 0,67 ogni 10mila presone, a fronte di un tasso di suicidi in carcere di 8,7, “oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione libera”. Ridimensionare il rischio. Antigone sottolinea che “le ragioni per cui in carcere i suicidi sono molto frequenti sono probabilmente dovute alla più densa presenza di gruppo vulnerabili, di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza”. Nel Rapporto viene infatti evidenziato come alcuni disturbi o fragilità personali possano essere messi sotto tensione in un contesto difficile come quello penitenziario, rischiando di “acuire situazione di pregressa sofferenza”. Per alleviare queste situazioni di difficoltà, l’associazione richiede una modifica del regolamento penitenziario al fine di “prevedere una maggiore apertura nei rapporto con l’esterno, tramite la possibilità di svolgere più colloqui e soprattutto più telefonate e in qualsiasi momento”. Una proposta, quella di dotare le celle di un telefono, che è stata ripetuta a inizio agosto 2022 anche da Don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio. Ma nel Rapporto viene anche ribadita la necessità di porre grande attenzione al “momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi”, per permettere ai reclusi un adattamento progressivo al regime di privazione della libertà e, in uscita dal carcere, al ritorno alla vita normale. Il Rapporto affronta anche un altro contesto particolarmente delicato, ovvero “i momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute si trovano separate dal resto della popolazione carceraria perché in isolamento o sottoposti a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone”. Bambini in carcere, l’infanzia negata di Adriano Sansa Famiglia Cristiana, 25 agosto 2022 Ricordiamo tutti il film in cui Sophia Loren e Marcello Mastroianni aspettavano la gravidanza di lei in modo che potesse evitare il carcere e continuare il contrabbando di sigarette. In realtà quella brillante commedia accennava scherzosamente a un tema serio, quello della maternità e dell’infanzia in ambienti carcerari. È noto che nei primi anni di vita si formano aspetti fondamentali della personalità e dell’affettività. Il bambino che non ha colpe non può essere sacrificato all’esigenza di giustizia nei confronti dell’adulta; ma non si può neppure ignorare la necessità della legge, a maggior ragione nei casi di grave pericolosità o quando il crimine organizzato potrebbe servirsi di una ipotetica impunità delle madri o dei padri. Il disegno di legge Siani, dal nome del proponente, ha cercato una soluzione ragionevole, che mettesse in primo piano il diritto del bambino; approvato dalla Camera, il provvedimento è caduto con la fine della legislatura. Vi si prevedeva il più ampio ricorso possibile alle case famiglia, dalle quali si sarebbe passati agli istituti a custodia attenuata, più vicini al contesto carcerario, solo in caso di grave condotta e pericolosità, restando il carcere solo come misura estrema e davvero residuale. Ora si dovrà ripartire; e non vale dire che i bambini detenuti con il genitore sono qualche decina in tutto. Il carcere per loro è dannoso, moralmente, socialmente e affettivamente inaccettabile. Sono qualche decina: pochi? Di gran lunga troppi. Lo scandalo dei bambini prigionieri da “innocenti assoluti” di Valter Vecellio lindro.it, 25 agosto 2022 Invece di uscire, aumentano. Per impedirlo, una buona legge c’è: va solo approvata. I dati sono ufficiali, forniti dal ministero della Giustizia, aggiornati al 30 giugno: nelle carceri italiane ben 25 bambini scontano una pena assieme alle loro mamme. A maggio erano 18. Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia in quei giorni aveva promesso un provvedimento per risolvere la questione. E’ rimasto un buon proposito. Nei ‘cassetti’ del Parlamento ‘riposta’ una proposta di legge di Paolo Siani (il fratello di Giancarlo, il giornalista ucciso dalla camorra), per istituire case famiglia protette; ha ricevuto il via libera della Camera, poi la crisi del governo Draghi e lo scioglimento delle Camere ha fermato tutto. Giorni fa è sceso in campo anche l’Osservatore Romano, il quotidiano vaticano; un articolo di Susanna Paparatti, ‘Una casa per le madri detenute’. Si ricorda che l’associazione Papa Giovanni XXIII fin dal 2013 aveva partecipato ad uno specifico progetto nazionale intitolato ‘Donne prole’ nel quale 28 detenute e i loro figli erano state inserite in dieci comunità ospitanti dislocate in sei regioni italiane (Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Sardegna, Toscana, Veneto): “Una fitta e proficua collaborazione con gli istituti penitenziari e il ministero della Giustizia ha consentito negli ultimi dieci mesi l’uscita in misura alternativa di tre mamme e cinque bambini che hanno trovato posto nelle case della Comunità, mentre si lavora per ulteriori analoghe situazioni. La necessità di tutelate il minore è finalmente al primo posto, dal momento che sono tangibili e gravi i danni provocati a seguito della loro permanenza in carcere: con spazi ridotti, dinamiche non consone alla loro età e carenze, come solo il poter frequentare un asilo o giocare con i coetanei”. Tuttavia il problema rimane. Prigionieri in quegli istituti di letterale e sostanziale pena una trentina di minori, dagli 0 ai tre anni, continuano a essere reclusi con le loro mamme. La loro unica colpa è appunto di essere figli di una madre carcerata. ‘Innocenti assoluti’, li definisce Luigi Manconi, tra i primi a denunciare questo scandalo. Bambini che “pagano un prezzo altissimo in termini di costruzione del loro futuro, per questioni burocratiche-amministrative. Questi bimbi rimangono prigionieri nelle celle delle nostre prigioni contaminando, senza alcuna colpa, per sempre la formazione della loro vita”. Nel corso dell’ultimo ventennio, dall’inizio del terzo millennio, il numero di questi bimbi “prigionieri” è sempre stato superiore alle 10 unità, talvolta ha raggiunto addirittura quota 50. “Una cifra in apparenza modesta ma una grande infamia, forse la più oltraggiosa per la nostra civiltà giuridica tra quante se ne consumano quotidianamente nei luoghi di privazione della libertà personale”. Manconi lancia un appello: “Occorre far sì che la politica, proprio durante una campagna elettorale importante per il futuro del Paese, sia capace di risolvere la sofferenza di quei 27 bambini e si occupi responsabilmente della loro sorte futura condizionata in profondità dall’esperienza attuale”. In altri Paesi hanno attuato soluzioni che potrebbero essere utilmente seguite. In Austria, secondo l’European prison observatory, i bambini possono restare nei penitenziari con le mamme fino ai due anni, ma se la donna ha un residuo di pena di non più di un anno si può fare una deroga. Di modo che madre e figlio restino insieme fino a quando il bimbo non compie tre anni. In Spagna il limite è sempre quello di tre anni, ma per le mamme detenute con figli al seguito si studiano varie soluzioni: a seconda dei casi e dell’eventuale necessità di misure di sicurezza per la mamma, donna e bimbo possono essere ospitate in regime di semilibertà in delle casette accanto al carcere, dove ricostituire per quello che è possibile, qualcosa di simile alla quotidianità. Ci sono poi delle unità separate dal resto del penitenziario e sezioni nido in cui si consente anche alle famiglie di riunirsi. Se un figlio ha entrambi i genitori detenuti, questi ultimi possono stare entrambi insieme al bambino. In queste strutture sono consentite le visite dei famigliari. Nel Regno Unito ci sono unità che possono ospitare, in tutto il Paese, al massimo 84 bambini, fino al compimento del nono mese. Si può chiedere una proroga per altri nove mesi, ma solo se è nell’interesse del bambino. Nelle unità c’è personale formato, la sezione è separata rispetto a quella delle detenute comuni. In Germania, ancora, i bimbi possono rimanere con le mamme detenute fino ai 3 anni. Ci sono delle case famiglia protette che ne possono ospitare circa cento. In Polonia la madre può portare il figlio con sé solo con il consenso del padre. I bimbi possono restare nei penitenziari fino a tre anni. In Portogallo il limite è tre anni, con un permesso speciale possono diventare cinque. In Grecia c’è il limite dei tre anni. Alcune carceri hanno sezioni speciali per mamme detenute con figli al seguito. Le donne possono organizzarsi insieme per la gestione dei bambini. Per tornare all’Italia: lo scioglimento delle Camere ha di fatto annullato quel provvedimento che ha visto convergere centro destra e centro sinistra che avrebbe spazzato via gli ostacoli burocratici che ancora rendono di fatto prigionieri nelle celle dei bambini di nulla colpevoli. “Quella piccola riforma, intelligente e razionale”, commenta amaro Manconi, “li avrebbe “liberati”, trovando soluzioni alternative alla detenzione”. Negli ultimi vent’anni sono stati centinaia i bambini che hanno vissuto da galeotti: dagli zero ai tre anni, ma a volte fino ai sei. E’ facile immaginare con quali effetti psicologici: minori che nella prima fase di vita non conoscono altro orizzonte se non quello tracciato dalle sbarre e dal muro di cinta; i rumori e gli odori del carcere, della cella. “I tentativi fatti finora, nel corso di due decenni, per superare la situazione”, dice Manconi, “si sono rivelati inutili se non controproducenti: per inettitudine amministrativa, eccessivo e immotivato rigorismo di una parte della magistratura e incongruenze normative”. Non resta che augurarsi che il nuovo Parlamento, tra i suoi primi atti concreti, riprenda il progetto di legge Siani, e ne completi l’iter. È un progetto di legge che introduce modifiche significative. In sintesi: si esclude l’ammissibilità della custodia cautelare in carcere per le madri con figli di età inferiore ai sei anni, salva la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. In tal caso, il giudice può disporre la misura restrittiva solo negli istituti a custodia attenuata: misura revocabile in caso di evasione o di condotte socialmente pericolose. Si ammette la custodia in carcere dell’imputato unico genitore di una persona con disabilità acuta solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale gravità. Si amplia l’applicabilità del rinvio dell’esecuzione della pena al padre di minori sotto l’anno di vita (se la madre sia deceduta o comunque impossibilitata ad assistere la prole) e alla madre (o al padre) di minore di tre anni con disabilità grave. Infine il ministro della Giustizia deve stipulare con gli enti locali convenzioni per l’individuazione di strutture da adibire a case-famiglia protette, e l’adozione di misure per il successivo reinserimento sociale delle donne condannate. Una misura che può contare su fondi già presenti nel bilancio, e il cui riparto tra le Regioni è stato definito dal ministro Cartabia con un decreto dello scorso settembre. Carceri strapiene, Mastella lancia l’allarme: “Serve subito l’indulto” di Piero Sansonetti Il Riformista, 25 agosto 2022 “Credo che ci sia l’esigenza di un nuovo indulto, perché da quando ho fatto il ministro da allora sembra non essere cambiato assolutamente nulla”. Così Clemente Mastella durante la presentazione a Napoli della lista Noi di centro. “C’è recrudescenza delle difficoltà carcerarie, diventate incredibili - continua - l’indulto serve per le forze di polizia penitenziaria ma anche per chi sta là dentro. Hanno commesso errori, peccati dal punto di vista cristiano e legale, ma non possono essere maltrattati in nome e per conto della costituzione. Quindi, chiediamo un nuovo indulto. Però nessuno approfitti di questo”. Nei giorni scorsi, mentre nessuna forza politica si sogna neppure di occuparsi dell’emergenza permanente nei nostri penitenziari stracolmi e spesso privi di servizi base, il sindaco di Benevento aveva giò toccato il tema in un’intervista al Quotidiano del Sud. “Secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, al 30 aprile scorso, i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 54.595 a fronte di una capienza regolamentare di 50.853 posti, con un tasso di sovraffollamento carcerario pari al 107,35%: dati che destano grande preoccupazione e di fronte agli svariati tentativi falliti di riorganizzare il sistema carcerario è ora di cominciare a pensare ad un nuovo indulto, come quello da lei attuato nel 2006 da Guardasigilli?”, era la domanda dell’intervistatore Michele Inserra. “Sì - aveva risposto l’ex ministro della Giustizia - credo che un nuovo indulto sia indispensabile. È un atto costituzione e cristiano. Recupera la dignità delle persone e dà meno ansia e frustrazione alla polizia penitenziaria che con dedizione e sacrificio è allo stremo”. Io, giudice e quel giorno a Poggioreale di Eduardo Savarese Il Riformista, 25 agosto 2022 Vedere il carcere ci rende meno ignoranti verso il dramma dei detenuti. Fino a quando non si entra e non ci si trattiene del tempo dentro l’istituzione carceraria, è difficile comprendere effettivamente di cosa si parla quando si parla della condizione di vita in essa. Tanto più nella realtà italiana, vergogna che si perpetua nella più cinica indifferenza generale. Tanto più in Campania, e a Napoli, nel carcere cittadino di Poggioreale. Per questo in carcere bisogna entrarci, bisogna visitare i carcerati (a poca distanza da Poggioreale riposa la visione di misericordia dipinta per Napoli da Caravaggio: tra le opere di misericordia c’è anche quella), per questo bisogna pretenderlo dagli uomini che rappresentano le istituzioni, non solo giudiziarie, e che esercitano pubblici poteri. A dicembre 2018, la giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati di Napoli organizzò appunto una “visita” dentro gli spazi di Poggioreale. Attraversammo i corridoi, ci affacciamo o entrammo dentro le celle. In alcuni reparti c’era la possibilità per i detenuti di passeggiare per un certo tempo al di fuori delle singole celle, che rimanevano aperte. Demmo un’occhiata al padiglione dove scontavano la pena le persone transgender. Siccome si era sotto Natale, per qualche minuto assistemmo alle prove per la recita che detenuti e operatori sociali stavano mettendo su. A ogni passo si respirava dolore, un peso indefinito, ma terribile, gravava addosso a noi, magistrati in visita. Un’operatrice disse che quelle prove teatrali le stavano tenendo soprattutto i detenuti tossicodipendenti. Aggiunse che era una fatica quasi insostenibile, quella condizione duplice di carcerazione: la detenzione per esecuzione della pena e l’essere ostaggio della dipendenza da droghe o alcool. Non mi dilungo su una visita che andrebbe prescritta come medicina socio-politica ineludibile almeno una volta all’anno a beneficio di molte altre espressioni della classe dirigente cittadina, non solo della magistratura, ovviamente coinvolta in maniera diretta nell’istituzione penitenziaria. Quel che tentai dopo qualche settimana, fu però un’esperienza di volontariato in carcere, e ne feci cenno a un caro amico, eccellente magistrato di sorveglianza, Marco Puglia (che, tra le altre cose, del teatro coi detenuti ha fatto un’esperienza umana rara e preziosa). Volli cioè fare ingresso in carcere non certo nella veste di magistrato, ma come scrittore, per tenere qualche laboratorio di scrittura creativa. Era la primavera del 2019. Incontrai una direttrice contenta e disponibile e così, in jeans e camicia, feci il mio ingresso nel padiglione dei detenuti omosessuali. Il primo e l’ultimo ingresso. E non certo a causa dei detenuti, che erano affascinati, ma anche straniti dal fatto che un magistrato facesse lì il volontario, per scrivere, o meglio per farli scrivere liberamente di sé. In quell’occasione ognuno scrisse di chi e cosa gli mancava stando in cella. Come sempre, quando la scrittura è autentica, leggemmo insieme cose piene di vita, colme di verità. Una cosa per un detenuto in particolare fu pressante: raccontarmi la condizione bestiale in cui erano costretti a vivere. Mi fecero vedere le macchie verdi di umidità alle pareti, anche nello stanzino che ci diedero a disposizione per il laboratorio. Mi spiegarono il freddo che pativano. Mi chiesero perché non ottenevano risposta alle loro richieste. Per me fu troppo: essere gettato (in senso esistenzialista) in quella condizione all’improvviso, senza la presenza di un assistente sociale, di un intermediario dell’istituzione, e dover rivestire i panni incoerenti di uno che era parte dell’istituzione, in qualche modo, e che però andava lì a fare il volontario e l’artista, non seppi gestirlo. Non ci tornai più. Probabilmente il lunedì successivo mi attesero. Mi è rimasto un senso di colpa importante per quella sorta di abbandono. E spero che, prima o poi, troverò il modo di recuperare. Di certo non ho dimenticato quei volti, quelle storie, quelle espressioni, e anche quella breve gioia di poter prendere la penna e scrivere, anche solo per esprimere un momento di nostalgia nell’invenzione. Non sono mai stato magistrato di sorveglianza. Non ho mai approfondito i grandi temi strutturali dell’istituzione carceraria. Non saprei elaborare metodi e soluzioni. Posso solo dire che almeno la gelida patina di indifferenza e ignoranza che scende sui nostri sguardi quando si tratta della condizione dei detenuti, almeno quella abbiamo il dovere e il potere di rimuoverla. Per vedere, ascoltare, comprendere. Quanto meno per non smettere di “visitare”. Spazio Etico in carcere: ipotesi possibile e a vantaggio della società di Tiziana Bartolini noidonne.org, 25 agosto 2022 Intervista a Grazia Zuffa. Dove la perdita della libertà tende a comprimere tutti gli altri diritti (vedi diritto alla salute) l’importanza di un luogo di confronto e di possibile cambiamento. A partire dagli Istituti femminili La Prof.ssa Grazia Zuffa - componente del Comitato Nazionale per la Bioetica, psicologa, PhD, svolge attività di ricerca e formazione nel campo dell’uso di droghe, delle dipendenze, del carcere - porta il suo contributo al Festival di Bioetica 2022 (Santa Margherita Ligure 27 e 28 agosto, Istituto Italiano di Bioetica) affrontando il tema dello Spazio Etico in carcere. Le rivolgiamo alcune domande che possano introdurre l’argomento. Prof.ssa Zuffa lei si è sempre interessata alla realtà carceraria, anche pubblicando dei libri. Quali sono (o sarebbero) a suo modo di vedere i benefici dello Spazio Etico nell’Istituzione carceraria? La proposta dello Spazio Etico è interessante perché asseconda l’allargamento alla società del dibattito etico. Questa non è un’idea nuova, perché molti di noi che ci occupiamo di bioetica abbiamo sempre sostenuto che la bioetica non fosse solo un affare di esperti e di comitati istituzionali, ma che il corpo sociale dovesse essere coinvolto quanto più possibile. Lo Spazio Etico va oltre, perché offre un suggerimento operativo - si potrebbe dire - in tale direzione. Che reazioni ha potuto riscontrare da parte della popolazione detenuta e da parte dell’apparato, pensiamo alle Guardie e agli operatori e operatrici sociali? Rispetto alla problematica del carcere, la promozione di Spazi Etici sarebbe preziosa, proprio per la natura stessa del carcere, eticamente controversa. Si pensi alla questione cruciale dei diritti dei detenuti e delle detenute: questi dovrebbero essere tutti garantiti, alla pari degli altri cittadini, a parte ovviamente il diritto alla libertà personale. Ma ciò determina un conflitto, perché la perdita della libertà tende a comprimere tutti gli altri diritti: emblematico è il conflitto con il diritto alla salute, in particolare alla salute mentale. Tale conflitto, per di più, è in gran parte opaco, per il carattere stesso del carcere come luogo opaco di segregazione. In altri termini, i diritti dei detenuti/e rischiano di ridursi ad affermazioni di principio se le pratiche nel carcere non spingono in avanti il conflitto: in questo senso, la consapevolezza e la formazione etica di chi concretamente vive il carcere (detenuti/e, operatori della sicurezza, del sociale e del sanitario) è fondamentale e lo spazio etico, inteso come confronto fra i vari soggetti sulle contraddizioni che vivono nel quotidiano, può essere un valido strumento. Ovviamente, non ho avuto modo di sentire l’opinione dei vari operatori sulla proposta specifica dello Spazio Etico, ma nelle ricerche che ho condotto emerge in larga parte del personale (non in tutto) una tensione positiva per realizzare un carcere in cui si concretizzino i diritti costituzionali nel rispetto della soggettività delle persone detenute. Preciso che si tratta di operatrici donne, anche di diverse assistenti di Polizia penitenziaria. Ha qualche considerazione specifica sulle donne detenute in relazione allo Spazio Etico? Le carceri (o reparti) femminili, potrebbero funzionare come “laboratorio” di spazio etico nel carcere. Questo perché alcuni stereotipi del femminile tradizionale influiscono sull’atteggiamento verso le donne detenute, rendendo più pesante la sofferenza della carcerazione. Nelle nostre ricerche l’abbiamo chiamata la “sofferenza aggiuntiva”. In generale, nel carcere si attua un processo di “minorazione” della persona detenuta, conseguente allo stato di dipendenza totale in cui si trova. La “minorazione” è più accentuata per le donne però, e con caratteri differenti, perché si nutre della visione storica della donna come soggetto “debole”, non pienamente responsabile, bisognosa di una guida (maschile). Non a caso, il carcere femminile di fine Ottocento e inizi Novecento si configurava più come un riformatorio, per riportare le donne nei binari stretti del modello femminile socialmente accettato. Oppure le donne finivano facilmente in manicomio. In altre parole, la tentazione “terapeutico-correzionale” attecchisce di più nel carcere femminile, e oggi le donne la vivono come una umiliazione e una perdita di sé (nel carcere mancano diritti e rispetto: sono le parole incisive di una donna detenuta, da noi intervistata qualche anno fa in un carcere della Toscana)”. Giustizia riparativa, così la riforma Cartabia realizza la Costituzione di Michele Passione* Avvocato, 25 agosto 2022 “Tutti gli uomini sono quasi sempre portati a credere non per via dimostrativa, ma per via di gradimento” (Pascal, De l’esprite géométrique). Non c’è solo la campagna elettorale; com’è noto, qualche giorno fa il Consiglio dei ministri ha approvato, all’unanimità, lo schema di decreto legislativo e la relativa relazione illustrativa, in attuazione della legge delega n. 134/ 2021. A tal proposito, in data 21 luglio il presidente del Consiglio dei ministri ha trasmesso ai componenti del governo una nota con la quale (inter alia) ha chiarito come, pur a seguito delle dimissioni dell’esecutivo, “il governo rimane impegnato nell’attuazione delle leggi e delle determinazioni già assunte dal Parlamento. Il governo rimane altresì impegnato nell’attuazione legislativa, regolamentare e amministrativa del Pnrr e del Pnc”. Del resto, è noto come gran parte delle (ingenti) risorse delle quali il nostro Paese è destinatario siano destinate alla riduzione della durata media (entro il 2026) del 25% del processo penale nei tre gradi di giudizio. Qualcuno storce il naso, ma sarà bene che tutti coloro che si candidano alla guida del nostro Paese sappiano quali obblighi hanno assunto in Europa e con l’approvazione della citata legge delega. Al dunque, nessuna forzatura costituzionale, piuttosto un dovere. Nel merito: chi scrive ha fatto parte della Commissione istituita dalla ministra, prof.ssa Cartabia, in materia di giustizia riparativa, e solo di questo qui si intende brevemente dire. Come può leggersi in proposito (vale sempre la pena farlo prima di esprimere una opinione) nella relazione di accompagnamento (pgg. 376 e sgg.), “l’intero testo normativo si ispira ai principi di giustizia riparativa sanciti a livello internazionale ed europeo, in ottemperanza al criterio di delega di cui all’art. 1, comma 18, lett. a). In particolare, si è fatto riferimento alla Direttiva 2012/ 29/ Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/ Rec (2018) 8, ai Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale, elaborati dalle nazioni Unite nel 2002”. Per ragioni di spazio, ci si concentrerà qui su due aspetti della novella. L’art. 44 prevede che i programmi di giustizia riparativa siano accessibili in ogni stato e grado del procedimento (e anche prima del suo inizio o durante l’esecuzione della pena e/ o misura di sicurezza), senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità. Si tratta, all’evidenza, di una previsione speculare rispetto al modello delle ostatività, che in particolare sul versante dell’esecuzione ha da tempo rivelato (questo sì) un evidente contrasto con la Carta. Quanto alla valutazione dell’esito del programma di giustizia riparativa (art. 58), richiamata la volontarietà della stessa (presupposto indefettibile) si è ovviamente previsto che “in ogni caso, la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa” (si badi, “indicata”, e non già “l’autore del reato”, come recitava la delega). Al dunque, ferma la piena legittimità di chi sostiene opinioni contrarie al testo predisposto dalla Commissione e approvato dal governo (anche da parte di odierni tonitruanti esponenti di un determinato orientamento politico) non è davvero dato comprendere come possa sostenersi che la riforma (e in particolare la parte sulla giustizia riparativa, tanto da citare il nuovo art. 129 bis cpp quale “paradigmatico, al riguardo”) sia “ideologicamente connotata”, volta a superare un modello processuale “ispirato al cognitivismo garantista” in nome di un “sostanzialismo etico”, nel perseguimento di una “efficienza declinata sul paradigma repressivo”, per un “giudizio che serve solo per dare soddisfazione alla pretesa vendicativa della vittima”. Basta leggere i principi generali e gli obiettivi (art. 43), e ci si accorgerà del contrario. Nessuna costrizione a intraprendere un programma di giustizia riparativa, nessun pre- giudizio, nessuna lesione della presunzione di innocenza, nessun “corrispettivo inasprimento della pena in caso di condanna” per chi “si sottrarrà al percorso di recupero”. Conoscere per deliberare (e criticare) è un atto dovuto, perché altrimenti la distopia non travolge “l’accertamento del fatto e della responsabilità”, ma prima ancora invera la realtà.nQueste, senza tema di smentita (basta leggere, appunto, anche sotto l’ombrellone, o in montagna - camminare aiuta a riflettere), le poche considerazioni, opportune, anche in ordine a quanto osservato su questo giornale dal professor Mazza. Quanto alla citazione di Bruno Cavallone, vale forse la pena ricordare quanto affermato dall’Autore nel capitolo su “La porta della Legge”, ne La borsa di Miss Flite: “i diritti, potremmo dire, sono certi e intangibili, è la loro tutela giurisdizionale quella che risulta problematica”. Si è dunque cercato di fare in modo che la porta che separa il processo dalla vita reale non fosse sprangata e non allontanasse per sempre le persone, senza per questo trasformare la res iudicanda in un redde rationem. Volendo approfondire, il 9 settembre a Cagliari (Area Democratica per la Giustizia), dal 12 al 14 a Milano (SSM), dal 27 a Firenze (Fondazione per la Formazione forense ed altri), il 10 ottobre a Brescia (Casa della Memoria), si discuterà approfonditamente di questi temi. *Avvocato L’assurda inappellabilità di quelle assoluzioni di Fabrizio Filice* Il Manifesto, 25 agosto 2022 Le Camere penali, nel proclamare un endorsement incondizionato e senza distinguo a questa proposta, chiudono gli occhi di fronte alle sempre più frequenti condanne del sistema giudiziario italiano da parte degli Organi di controllo sovranazionale, soprattutto per quanto riguarda processi per casi di violenza domestica e stupro L’assurda inappellabilità di quelle assoluzioni - La proposta di rendere inappellabili le sentenze di assoluzione non è nuova, era già stata tradotta in norma con la Legge Pecorella del 2006, dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2007. È un tema controverso, per cui è prima di tutto utile abbandonare il linguaggio fazioso di chi ha in odio il controllo giudiziario, ritiene il processo una “persecuzione” e l’affermazione dei diritti una posa della sinistra. Sgombrato il campo dall’ideologia anti-legalitaria che sta alla base di tanta enfasi politica, si può vedere in quali termini la questione possa essere affrontata dal punto di vista dei princìpi costituzionali. Il recente progetto di Riforma Lattanzi (superato dalla Riforma Cartabia-Bonafede) prevedeva l’inappellabilità del Pubblico ministero, ma lo faceva in un contesto di revisione complessiva delle impugnazioni, nel quale trovava spazio anche un filtro di ammissibilità (la cosiddetta “critica vincolata”) per l’appello dell’imputato avverso la sentenza di condanna. Ciò di cui si discute ora è invece l’inappellabilità tombale delle sole assoluzioni. Quello che si ricerca non è, chiaramente, una maggiore sostenibilità del sistema delle impugnazioni (sul quale ora incombe la tagliola dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata) ma solo una vittoria “politica” contro la magistratura, con il risultato di distorcere gravemente gli equilibri del processo accusatorio in danno alle vittime. Le Camere penali, nel proclamare un endorsement incondizionato e senza distinguo a questa proposta, chiudono gli occhi di fronte alle sempre più frequenti condanne del sistema giudiziario italiano da parte degli Organi di controllo sovranazionale (basti citare le due più recenti: Comitato Cedaw, Af contro Italia, 20 giugno 2022, e Corte Edu, Ms contro Italia, 7 luglio 2022), ricorrentemente costretti a constatare come i processi per violenza sessuale, domestica e di genere, vengano condotti sulla base di pregiudizi e stereotipi sessisti sulle donne e sulle persone non eterosessuali o non cisgenere. Intimamente connessi con il retaggio patriarcale, che portano ad assoluzioni (essendo tutti a favore dell’autore di violenza) spesso sbagliate e che solo il filtro della cecità ideologica può travisare come conquiste di civiltà giuridica: assoluzioni emesse perché la donna vittima della violenza sessuale era così poco attraente da non giustificare lo sforzo dello stupratore o perché aveva una condotta di vita disinibita, tanto da essersi dichiarata bisessuale sui social e da perdere così ogni credibilità come vittima, o ancora perché aveva lasciato socchiusa una porta, così “invitando a osare” chi l’ha poi violentata. Sentenze che, quando impugnate dal Pubblico ministero (spesso proprio su sollecitazione della Parte civile), vengono non di rado annullate in Appello o in Cassazione, restituendo un minimo di dignità alla vittima e salvando il nostro diritto dalla completa regressione patriarcale e sessista. Viene da chiedersi se le Camere penali abbiano consultato anche quella parte, importantissima, dell’avvocatura seriamente impegnata nella tutela delle donne vittime di violenza sessuale, domestica e di genere, come le avvocate dei centri e delle associazioni antiviolenza. Il silenzio su questo aspetto rende evidente come il problema culturale, e di rappresentanza di genere, che affligge il sistema giustizia riguardi tanto la magistratura quanto l’avvocatura. Dieci sentenze di condanna di norma producono dieci appelli, dieci sentenze di assoluzione di norma non ne producono neanche uno; e quell’uno che viene fatto può servire a dire a una vittima di stupro che la violenza che ha subìto non è giustificata dal fatto che in fondo non sia poi una gran bella donna, e ai figli di una vittima di femminicidio che la loro mamma non se l’è cercata portando all’esasperazione il poveruomo che l’ha uccisa. Come magistratura progressista non chiudiamo le porte al dialogo ma chiediamo che anche delle vittime e dei loro diritti si tenga conto, e che il tema delle garanzie non sia piegato a ragione della fuga dal processo e dell’impunità purché sia. La ragione del diritto, anche (se non soprattutto) del diritto penale, sta sempre di più nella responsabilità di proteggere dalla violenza fondata sull’odio: misogino, omo-transfobico, etnico, religioso, ageista, abilista e di qualsiasi altra pseudo-giustificazione di cui si rivesta l’uso della forza in senso oppressivo. *Magistrato, esecutivo di Magistratura democratica La condanna delle donne di Assia Neumann Dayan La Stampa, 25 agosto 2022 In Italia le donne sembrano essere condannate a morte. È il fallimento dello Stato, lo guardiamo mentre va in rovina, contiamo le donne ammazzate da familiari o ex fidanzati o mariti, sperando che non tocchi mai a noi. Da gennaio ad oggi sono stati 77 i femminicidi, di cui 67 in ambito familiare. La verità è che una donna in Italia può essere costantemente molestata, picchiata, pedinata, aggredita, ricattata, può sporgere quante denunce vuole, ma quella donna deve affidarsi più alla buona sorte che allo Stato: ci si fa il segno della croce e si prova a vivere. Alessandra Matteuzzi, una donna di 56 anni, tra martedì e mercoledì è stata ammazzata a martellate dall’ex fidanzato, Giovanni Padovani, su un marciapiede di Bologna. Una volta finita la relazione, Padovani aveva iniziato a perseguitarla, lei lo aveva subito denunciato per stalking e ottenuto un’ordinanza restrittiva: lui le aveva spaccato i vetri, le era entrato sul balcone, staccato la luce, le faceva appostamenti, la chiamava in continuazione. La sorella di Alessandra, che era al telefono con lei mentre veniva uccisa e che ha subito chiamato i carabinieri, dice che se lui dovesse essere lasciato libero ammazzerebbe pure lei. La vicina di casa ha riferito che Alessandra le aveva chiesto di non aprire mai a quell’uomo, che nell’ultimo periodo era diventato molto insistente. Un altro ragazzo che abita in quel condominio ha raccontato che Alessandra gli aveva chiesto il numero di telefono e che lo avrebbe chiamato in caso di bisogno: probabilmente stava cercando di costruirsi una rete di protezione alternativa, come se sapesse che la sua voce sarebbe rimasta inascoltata. Le indagini contro Padovani erano state avviate, ma Alessandra è morta lo stesso. Queste donne muoiono anche se fanno di tutto per rimanere vive. “A cosa serve denunciare?” credo sia la domanda che tutte le donne che si ritrovano in una situazione simile si facciano, e credo che molte di loro ci rinuncino. Una preghiera, un pensiero magico, si spera che bastino. Queste donne leggono i giornali che riportano una strage quotidiana, guardano i telegiornali che raccontano storie simili alle loro in cronaca nera, e poi tornano alla vita di sempre sperando in un colpo di fortuna. Possiamo analizzare il movente di un omicidio, possiamo controllare tutti i profili social degli assassini e delle vittime, e in questo caso se ne è molto parlato, possiamo indignarci per tutta la vita, ma forse è arrivato il momento che qualcuno avanzi delle proposte: come si può arginare questa strage, quali soluzioni potrebbero essere efficaci a tutelare le donne che denunciano, come mettere in sicurezza il futuro. Di proposte non ne ho sentite, ma magari sono io che non ho letto bene i programmi elettorali, i giornali, i tweet delle persone che dovrebbero occuparsi di giustizia. Alessandra Matteuzzi era una donna indipendente, aveva un lavoro, degli amici, una famiglia, viaggiava, viveva. Una storia come tante, e, purtroppo, una tragedia come tante. Femminicidi, il magistrato Roia: “La strage si ferma solo con più agenti e pm specializzati” di Liana Milella La Repubblica, 25 agosto 2022 Dopo l’ultimo assassinio a Bologna, il presidente vicario del Tribunale di Milano propone: “Aumentiamo le forze in campo e le loro competenze per intervenire con celerità in caso di esposti da parte delle possibili vittime”. E poi l’allarme: “Tutte le donne che dicono no a un uomo violento oggi rischiano la vita”. “Tutte le donne che dicono no a un uomo violento oggi sono a rischio”. Non ha dubbi Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano, che chiede “più magistrati e agenti esperti che lavorino a tempo pieno sui femminicidi”. Cosa prova leggendo l’ultimo caso di Bologna? “O ci rassegniamo, o facciamo una vera rivoluzione culturale che spezzi davvero il senso di possesso che l’uomo continua a manifestare verso la donna”. Soprattutto quelle che abbandonano i maschi... “Assolutamente. È proprio in questa fase che si manifesta questa subcultura proprietaria dell’uomo che non accetta di perdere la sua donna come se fosse un oggetto di sua proprietà”. Succede quando una donna dice “basta”... “Oggi mi sento di dire, anche in maniera volutamente allarmistica, che tutte le donne che decidono unilateralmente di rompere una relazione con un uomo che ha manifestato o manifesta violenza, possono essere in situazioni di pericolo”. È prorpio questo il punto dolente. Perché, in questo caso, la vittima ha denunciato per stalking quell’uomo, ma la giustizia non si è mossa... “Spetterà ai magistrati competenti ricostruire i fatti. Ma una cosa è certa. Di fronte a molte denunce occorre creare competenze in tutto il sistema per valutare la reale gravità dell’accaduto, e quindi agire subito. Questa si chiama adeguata valutazione del rischio”. Non ha l’impressione che ancora troppo spesso le denunce delle donne vengano sottovalutate e si prendano misure con colpevole ritardo? “Purtroppo c’è un problema, che a volte ritorna, di pregiudizio. Ma la vera scommessa è applicare subito una misura che si riveli adeguata “prima” della consumazione del femminicidio. O mettiamo tutti gli uomini violenti in carcere o puntiamo - e io lo credo fermamente - su competenze, specialità e risorse”. Ma nel frattempo che succede? “Procure e tribunali si stanno specializzando. Cito il caso di Milano dove i magistrati della procura, nei reati contro le donne, chiedono ed ottengono il numero massimo di misure cautelari e dove il tribunale sta portando da 12 a 18 giudici la task force contro questi reati per ridurre i tempi dei processi”. Intanto moriranno ben più delle 211 donne che elenca la commissione sui femminicidi... “In quell’indagine abbiamo verificato che solo il 15% delle donne uccise aveva denunciato. Il problema è valutare il rischio che la donna corre. Ci sono indicatori precisi adottati anche dal piano nazionale antiviolenza e dalle forze di polizia che devono verificare se c’è un escalation, se l’uomo ha minacciato di usare armi, e la donna è stata magari afferrata per la gola. È una valutazione del rischio che comporta competenza, specialità, e come dicevo, anche risorse”. Di che risorse parla? “Ci vogliono più operatori di polizia giudiziaria e più magistrati che si occupino in via esclusiva di questa materia. Oggi, per via dei vuoti di organico, tutto ciò è sempre più difficile, ma questa non dev’esssere una scusante perché il femminicidio è un evento che può e deve essere evitato”. Senta, le leggi ci sono, e penso al Codice rosso di Bonafede, nonché alle norme promesse da Cartabia… “Un attimo, proprio quelle norme volute non solo da Cartabia ma anche dalle ministre Lamorgese e Bonetti sono state bloccate dalla fine della legislatura. Se oggi un uomo violento viola il divieto di avvicinamento alla donna viene arrestato, ma poi viene rimesso subito in libertà perché non gli si può applicare nessuna misura. E questo è un evidente buco nella tutela penale che proprio la nuova legge avrebbe risolto”. In presenza di un uomo chiaramente violento lo Stato alza le mani e lo lascia libero di uccidere? Ma che diritto è mai questo? “Non è così. Torniamo alla valutazione del rischio. Se io prevedo, in maniera onestamente non facile, che quell’uomo possa sviluppare una violenza estrema, devo applicare la misura massima, e cioè il carcere”. Nella casistica del rischio dove si ferma l’asticella della violenza che porta all’assassinio? “C’è una difficoltà ulteriore perché ogni caso ha una sua specificità, e quindi non si può subito individuare uno stereotipo di femminicida. Non è detto che chi non ha precedenti penali sia meno pericoloso di un pregiudicato magari per reati contro il patrimonio”. A leggere le cronache l’impressione è che ancora oggi le denunce delle donne siano sottovalutate a vantaggio del maschio... “Comprendo la percezione, ma le cose stanno gradualmente migliorando. Non così in fretta come tutti noi vorremmo. Per questo ho parlato di rivoluzione culturale”. E quante donne dovranno ancora morire prima che un magistrato corra il rischio di mettere in carcere un violento per salvare una donna? “Glielo ripeto, purtroppo non è così semplice. Servono competenza e specializzazione. Dobbiamo indagare su un profilo comportamentale le cui caratteristiche non ci vengono insegnate nelle lezioni di diritto. La vera specializzazione consiste nell’ascoltare criminologi e psicologi forensi che ci possano orientare nel valutare il rischio di un nuovo femminicidio”. Se alle prossime elezioni vince il centrodestra paladino del garantismo sarà più difficile salvare la vita delle donne? “Sono temi che esprimono l’indice di civiltà giuridica di un Paese. Sono certo che qualsiasi classe politica sarà in grado di tutelare le donne, i soggetti fragili e le loro relazioni”. Deve farsi 6 anni di carcere: dal reato ne sono passati 20 di Claudia Osmetti Libero, 25 agosto 2022 Diciotto anni dopo non è giustizia. Diciotto anni dopo è accanimento. E, signori, diciamocelo subito: siam sempre qui, a lamentarci che in questo Paese non paga mai nessuno, che i colpevoli la fanno franca troppo spesso, che le vittime finiscono per esserlo due volte. Tutto vero. Però se i tribunali impiegano due decenni (o forse un filino in meno) per arrivare a una sentenza (e pure di primo grado), qualche problema c’è ed è nel sistema. Perché nel frattempo può capitare, come è successo al signor Antonio Luzi, di cambiare vita. Di mettersi l’anima in pace, di non c’entrarci più un fico secco con i guai dei primi Duemila. Lui, Luzi, adesso fa il gelataio. Ha cinquant’ anni ed è bravo nel suo lavoro: talmente bravo che la bottega artigianale Maki che gestisce, a Fano, nelle Marche, di premi ne ha vinti parecchi. I suoi coni sono tra i migliori d’Italia, da leccarsi (letteralmente) i baffi. Solo che a cimentarsi con vaniglia e pistacchio, Luzi, ha iniziato appena nel 2005: prima viveva a Milano, aveva un impiego in una filiale della Bank of America e faceva parte del team Corporate finance and relationship, quello che è rimasto impigliato nei faldoni del crac Parmalat. Una vita fa - Tocca tornare indietro con la memoria e rispolverare un tempo che non c’è più. Era il 2003 quando noi che di economia ne mastichiamo poca abbiamo scoperto il significato della parola “aggiotaggio” grazie ai titoloni dei giornali che rimbalzavano lo scandalo che aveva travolto Calisto Tanzi. Non si parlava d’altro. A palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi, al Quirinale Carlo Azeglio Ciampi, in Vaticano Giovanni Paolo II. Una vita fa. E infatti, per Luzi, era davvero un’altra esistenza. Venne fuori, allora, che l’istituto di credito statunitense foraggiava dal 1996 il gruppo Tanzi con prestiti anche sostanziosi (complessivamente, circa un miliardo di euro) nonostante la Parmalat fosse sull’orlo del fallimento da anni. Un calderone senza precedenti che aveva messo i suoi tentatoci anche nell’ufficio di Luzi, che però, all’epoca, non era manco trentenne ed era fresco fresco di contratto a tempo indeterminato dopo uno stage fatto a Chicago. Oggi, cioè quasi vent’ anni dopo, il tribunale di Parma lo condanna per bancarotta fraudolenta a sei anni di carcere con la confisca di 936.800 dollari (dei quali, tra parentesi, sono già dieci anni che lui non dispone perché da due lustri sono sotto sequestro). Quando si dice, un processo lampo. Anzi, no: perché qui è tutto anziché celere. “È una storia che sembra non finire mai”, racconta da dietro il bancone della sua gelateria intervistato dall’edizione locale de Il resto del Carlino. “Non ci sono ancora le motivazioni, ma saprò difendermi in appello per dimostrare la mia innocenza. Ho fiducia, come ne ho avuta nei precedenti processi di Milano da cui sono stato assolto. E persino in Svizzera, dove il caso è stato archiviato. Spero che un giorno tutto questo finisca”. Negli ultimi due decenni, Luzi, non è scappato ai Caraibi e non ha riparato in un paradiso fiscale, è stato qui. In Italia. Nella sua Fano (dove è nato) a fare gelati. Di più: “Ha collaborato con la giustizia”, specifica il suo difensore, l’avvocato milanese Federico Papa, “ha reso numerosi interrogatori, ha deposto come testimone nel procedimento civile americano ed è stato assolto” dal tribunale della Madonnina “in ordine alle medesime operazioni finanziarie”. Appello annunciato - Invece niente. Un giorno, dopo oltre diciotto anni dai fatti, gli arriva la mazzata. “Una condanna inaspettata che ci ha scioccato”, continua Papa, visto che il suo assistito, nel 2004, si è (nell’ordine) prima dimesso dalla Bank of America e ha poi deciso che quel mondo, quello della finanza e dei miliardi che girano alla velocità della luce, nonostante una laurea in un’università prestigiosa come la Bocconi di Milano, non gli apparteneva più. “Faremo appello - promette l’avvocato, - sicuri che la giustizia riconoscerà la sua innocenza”. Vedremo quanto tempo servirà ancora e non promette nulla di buono: per scrivere le paginette di motivazioni (formalità che, generalmente, le toghe sbrigano in novanta giorni), i giudici di Parma si sono presi sei mesi. Cioè il doppio. Ma tanto c’è tempo. Sconta la pena in Albania, in Italia gli rifanno il processo per lo stesso reato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2022 Ha scontato 8 anni in patria. Per il suo avvocato, Paolo Di Fresco, c’è il problema dell’inapplicabilità del “ne bis in idem” per la mancanza di un trattato bilaterale tra i due paesi, anche se a San Marino per un caso simile si è trovata la soluzione. Un cittadino albanese, nel 2007, è stato condannato a 8 anni di carcere in patria per traffico di stupefacenti tra Italia e Albania. Ha finito di espiare la pena, tanto da riabilitarsi, si è rifatto una vita e non ha commesso più reati. A distanza di 10 anni, dal fine pena, a Milano si rifà il processo per il medesimo reato e viene ricondannato. Ora è in attesa del processo d’appello: se verrà condannato definitivamente, dovrà scontare la pena per la seconda volta. Ad assisterlo è l’avvocato Paolo Di Fresco del foro di Milano, il quale a Il Dubbio solleva il problema dell’inapplicabilità del principio ne bis in idem a causa della mancanza di un apposito trattato bilaterale tra l’Italia e l’Albania. Ma nello stesso tempo, attraverso il ricorso in appello, l’avvocato Di Fresco evidenza come in realtà alcuni Paesi - come lo stato di San Marino - i giudici hanno superato questa grave forma di palese ingiustizia. Ha commesso il reato quasi venti anni fa ed è uscito dal carcere nel 2011 - Sono trascorsi più di vent’anni da quando Fredi Plaku, così si chiama il cittadino albanese, ha commesso il reato, e dieci da quando Plaku ha finito di scontare in Albania la pena (è uscito dal carcere nel 2011). Da allora, si è rifatto una vita recidendo i pur labili legami con il mondo criminale a cui, vent’anni prima, si era avvicinato per fronteggiare un momento di bisogno. Ha vissuto diversi anni in Germania e, infine, è tornato in Italia dove ha trovato una compagna di vita e lavoro. Scontare per la seconda volta la pena, diventa chiaramente un abominio. Ricordiamo che il principio del ne bis in idem costituisce un fondamentale principio di civiltà giuridica che integra l’effetto tipico della res iudicata penale consistente, per l’appunto, nel precludere la possibilità che nei confronti del soggetto già sottoposto a giudizio si instauri nuovamente un procedimento penale per il medesimo fatto. Si tratta di un principio che, in tale sua dimensione interna, risulta essere riconosciuto nella quasi totalità degli ordinamenti giuridici contemporanei, in alcuni dei quali addirittura a livello costituzionale. Il problema è che riguarda, appunto, il singolo Stato. Nel caso dell’Unione Europea, è circoscritto solo ai Paesi membri il valore dell’articolo 4, protocollo VII della Cedu, ovvero che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato”. In Albania non avrebbe valore l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali Ue - Il problema è che l’Albania ancora non ne fa parte. Così come, non essendo ancora Stato membro, non rientrerebbe (secondo il giudice di primo grado che ha condannato Plaku), l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dove si afferma il principio: “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. In sostanza, sempre secondo il giudice, i valori che accomunano lo spazio giuridico europeo non si estenderebbero ai cittadini di quegli Stati che, come l’Albania, non hanno ancora concluso il percorso d’adesione all’Unione Europea. L’avvocato Di Fresco ha preso in esame un caso analogo a San Marino - Quindi il principio ne bis in idem, nonostante sia riconosciuto nel diritto internazionale, è necessariamente per forza limitato a seconda della cittadinanza dell’imputato? L’avvocato Di Fresco, nel suo ricorso in appello, ha preso in esame il caso di San Marino. Chiamato a decidere su una richiesta di revisione sollevata da un imputato condannato in via definitiva in appello, che per gli stessi fatti aveva patteggiato in Italia, il giudice ha affermato che l’estraneità di San Marino all’Unione Europa “non esclude, in verità, che nell’ordinamento sammarinese si possa ritenere operante, a determinate condizioni, il principio consacrato a livello eurounitario nell’art. 50 della Carta di Nizza, secondo cui, come è noto, nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”. Tanto nella sua dimensione nazionale quanto in quella transazionale, il diritto sancito dall’art. 50 ha lo stesso valore assoluto e inderogabile che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 assume nella sua dimensione nazionale, “nel senso che, come chiarito nelle Spiegazioni ufficiali della Carta, questo diritto ha lo stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla Cedu e, va aggiunto, deve essere letto in conformità della relativa giurisprudenza di Strasburgo”. Per un giudice di San Marino il ne bis in idem prescinde da accordi tra Stati - In sostanza, il giudice sanmarinese, fa valere il fatto che il divieto di ne bis in idem prescinderebbe da convenzioni o accordi bilaterali ma corrisponderebbe a un principio tipico dell’ordinamento di ogni Stato che abbia aderito allo Statuto del Consiglio d’Europa e alla Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: un principio esteso a tutti quegli Stati che presentino “la comune caratteristica della democraticità del loro ordinamento, improntato 7 al rispetto dei diritti umani ed animato dal principio della preminenza del diritto (prééminence du droit/Rule of Law) contro l’arbitrio”. Cosa significa tutto ciò se consideriamo il caso di Plaku? L’Albania ha aderito esattamente a quei nuclei di valori enunciati perché fa parte del Consiglio d’Europa e, più di recente, alla Cepei (European Commission for the Efficiency of Justice), organismo chiamato ad armonizzare gli ordinamenti nazionali degli Stati membri. Come sottolinea l’avvocato Di Fresco, “Il giudice di San Marino, insomma, ha spezzato “le catene” della giurisdizione territoriale, affermando che l’esistenza di un denominatore comune tra gli ordinamenti democratici in materia di ne bis in idem consente di dare applicazione al principio anche in assenza di un’apposita convenzione nella cui cornice collocare il caso specifico”. Quello di Fredi Plaku non è l’unico caso in Italia - Se il giudice nostrano vuole, ha tutti gli strumenti per evitare al cittadino albanese una doppia pena. Ad oggi, la corte suprema della Cassazione, pur riconoscendo l’importanza del principio del ne bis in idem, non ha mai sentenziato a favore dei tanti cittadini albanesi. Sì, perché Plaku non è l’unico caso. Ci si rifugia sempre all’assenza di una norma di diritto internazionale pattizio che prevede l’operatività del divieto del doppio giudizio nei rapporti tra Italia ed Albania. Ma senza un atto illuminante come la svolta del giudice di San Marino, si rischia di rovinare la vita di tanti uomini che hanno già pagato il conto per i propri errori e si sono, appunto, rifatti una vita con tanto di sacrificio e onestà. Campania: Elezioni 2022, il Garante dei detenuti: “Tema carcere assente dai programmi” di Valerio Esca Il Mattino, 25 agosto 2022 Il Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, in vista della tornata elettorale rivolge un appello alla politica: “Venite in carcere, toccate con mano la realtà della detenzione, preoccupatevene anche se non genera consensi. Dimostrate, candidati, che siete interessati al carcere, a tutte le problematiche che ruotano intorno all’esecuzione penale. Tornate a parlare di giustizia e inserite tra i tanti obiettivi quello di realizzare una riforma della giustizia che riconsideri gli antichi principi della pena già enunciati da Cesare Beccaria”. “Mi dispiace tanto constatare - denuncia Ciambriello - che il tema del carcere e quello della giustizia non sia la priorità di alcuno schieramento, anzi sono temi pressoché assenti. Io ritengo che la politica non può non accogliere l’esigenza di restituire dignità a chi ha sì sbagliato, ma sta pagando per quell’errore. Ritengo che i candidati debbano varcare le porte del carcere: ascoltare storie, esperienze, disagi, ingiustizie, fa accorciare le distanze, ridurre l’indifferenza. Il carcere esiste, non è e non può diventare una discarica sociale. Il tema della detenzione, così come quello della giustizia, che sia equa e certa nei tempi, riguarda tutti noi. Restare in silenzio, considera il carcere un luogo che dà sicurezza alla collettività, è un errore colossale. In relazione ai detenuti pensiamo di essere vittime, ma ci rendiamo conto che spesso siamo complici”. L’emergenza sanitaria “ha triplicato i problemi in carcere: il disagio di detenuti, degli agenti di polizia e di tutti gli operatori penitenziari è certamente aumentato. La politica perché non pensa a provvedimenti seri di ristoro per loro? So bene che bisogna rispettare il dolore delle vittime, il principio della certezza della pena, ma è necessario anche garantire il diritto alla salute, alla vita. Non si può morire in carcere e di carcere. Mi aspetto che qualcuno dei candidati decida di spendere qualche ora del proprio tempo per visitare gli istituti di pena durante questa campagna elettorale e dire pubblicamente quale strategia lungimirante mettere in campo per migliorare la vita nelle carceri, depenalizzare i reati minori ed investire in misure alternative al carcere. Candidati, dimostrate, insomma, che del carcere e della giustizia vi interessa”, conclude il garante campano. Roma. Giustizia nel caos: i nuovi processi sospesi per sei mesi di Ermes Antonucci Il Foglio, 25 agosto 2022 Il presidente del tribunale capitolino sospende per sei mesi la fissazione delle udienze di competenza collegiale. Galletti (presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma): “Decisione grave, governo e politici non dicono niente?” Una paralisi di sei mesi per i processi penali di competenza del tribunale in composizione collegiale, cioè quelli basati sui reati più gravi (come i delitti di criminalità organizzata, contro la Pubblica amministrazione, violenza sessuale). Lo ha stabilito, con un provvedimento adottato prima di Ferragosto e senza alcuna interlocuzione con l’avvocatura, il presidente del tribunale di Roma, Roberto Reali. Una decisione che farebbe impallidire la Commissione europea, con la quale il nostro paese si è impegnato a ridurre la durata media dei processi penali del 25 per cento entro il 2026. Nello specifico, il provvedimento, adottato l’11 agosto, “sospende, a decorrere dal 15 ottobre 2022, per sei mesi l’assegnazione dei processi di competenza collegiale provenienti dall’udienza preliminare”. Tradotto con un esempio: a partire da metà ottobre, se un amministratore pubblico dovesse essere rinviato a giudizio con l’accusa di abuso d’ufficio, con la prima udienza fissata a tre mesi, dovrà aspettarne nove, restando appeso sulla graticola di accuse che potrebbero rivelarsi del tutto infondate (la disposizione ovviamente non si applica ai casi in cui sono state adottate misure di custodia cautelare). Alla base della sua decisione, il presidente Reali ricorda la situazione di sofferenza vissuta dal tribunale capitolino in termini di organico: su un totale di 373 magistrati ordinari previsti, ne sono presenti 322, di cui 5 prossimi alla quiescenza e 11 al trasferimento. Ancor più grave la situazione per i giudici onorari: di 197 previsti, ne risultano in servizio soltanto 102, quasi il 50 per cento. Ciò, tuttavia, non giustifica una decisione così drastica come quella adottata dal presidente del tribunale più importante d’Italia. “La situazione drammatica del tribunale di Roma in termini di organico è nota, ma una paralisi totale per ben sei mesi rischia di compromettere la credibilità del sistema proprio sui processi relativi ai reati più gravi”, dichiara al Foglio Antonino Galletti, presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma. “La gravità della decisione - aggiunge - sta anche nel fatto di aver previsto una regolamentazione tout court, che non fa distinzione tra i singoli casi e non tiene conto, ad esempio, della gravità dei reati”. Esterrefatto si dichiara anche l’avvocato Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma: “Non si può ratificare l’irragionevole durata del processo attraverso un decreto. Cosa diremo ai cittadini imputati, magari innocenti, e che aspettano la trattazione del loro processo? Cosa diremo alle persone offese, che restano in attesa di un giudizio su vicende spesso che incidono macroscopicamente sui loro diritti?”, si chiede Comi. Galletti annuncia che l’Ordine valuterà l’impugnazione del provvedimento, ma si dice “sorpreso che a fronte delle nostre denunce, né chi ci governa né chi aspira a farlo ha pronunciato una sillaba”. In effetti, né dal ministero della Giustizia, né dal Csm, né dai candidati alle elezioni è giunto alcun commento sull’incredibile vicenda. Firenze. Lo sciopero della fame del segretario del sindacato Spp per Sollicciano di Jacopo Starni Corriere Fiorentino, 25 agosto 2022 “Sollicciano è l’emblema del fallimento del sistema carcerario italiano”. Lo ha detto il segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo, nel corso di una conferenza stampa organizzata ieri mattina all’ingresso del penitenziario fiorentino, dove ha annunciato uno sciopero della fame per sensibilizzare le istituzioni sul degrado delle carceri italiane e di quelle toscane. Secondo Di Giacomo, “Sollicciano è uno degli istituti penitenziari peggiori d’Italia, insieme a Poggioreale e a quello di Torino. Abbiamo avuto un suicidio dall’inizio dell’anno, c’è sovraffollamento. Inoltre, è carente di agenti e di personale sanitario: non è pensabile che lo psichiatra venga solo una volta a settimana. È un carcere in cui sicuramente lo Stato ha perso il controllo e da cui bisognerebbe ripartire: far capire, cioè, alle organizzazioni criminali che nelle carceri comanda lo Stato”. Per quel che riguarda il futuro del carcere, Sollicciano, come altre carceri, “va assolutamente ricostruito” anche con le risorse del Pnrr, “per ridare dignità alla pena e ai lavoratori”. Su questo, “ho sentito Nardella: dico che ce ne vorrebbe di più di sindaci come lui, a disposizione, perché in altre realtà questo non succede”. Altro tema, la droga in carcere. Secondo il sindacalista Di Giacomo “a Sollicciano entrano sostanze stupefacenti. In che modo? Agenti penitenziari corrotti, familiari dei detenuti, droni”. Benevento. La Lonardo fa suo l’appello del Garante campano dei detenuti ntr24.tv, 25 agosto 2022 La senatrice Sandra Lonardo Mastella (Noi Di Centro) fa suo l’appello del Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, che ha invitato i candidati alle Politiche a recarsi in visita presso le carceri del territorio per toccare con mano la realtà della detenzione e le condizioni in cui versano gli ospiti delle strutture. Per Ciambriello il tema carceri è assente dai programmi elettorali dei vari schieramenti: “Condivido e sostengo l’invito di Ciambriello - spiega la senatrice - perché non debbono esistere classificazioni di sorta all’interno di una comunità. Dietro le sbarre ci sono persone che hanno commesso degli errori e stanno pagando il loro debito con la società, ma non per questo possono essere considerati cittadini di serie B o addirittura dei reietti cui non assicurare nemmeno i minimi livelli di assistenza”. La Lonardo di recente è stata in visita alla casa circondariale di Benevento “Capodimonte”, dove ha potuto appurare in prima persona le condizioni in cui versano i detenuti, ai quali non viene garantita continuità assistenziale per via della mancata presenza di un medico H24, senza contare l’assenza di una psichiatra fissa a scapito della continuità terapeutica e le difficoltà nell’approvvigionamento dei farmaci di fascia C. “Sarebbe opportuno che tutti i miei colleghi e competitor - conclude la Lonardo - prendessero a cuore la questione, perché non si può fondare una campana elettorale solo su taluni argomenti sottacendo quelli più spinosi. Non esistono differenze tra essere umani ed è per questo che vanno aiutati tutti indistintamente: sono in attesa di incontrare il direttore generale dell’Asl Gennaro Volpe per un sereno confronto che mi consenta di capire meglio cosa c’è che non funziona”. Trapani. Partito Radicale: “Le condizioni delle carceri cittadine sono di assoluta illegalità” tp24.it, 25 agosto 2022 Mancanza di acqua nelle celle, condizioni igieniche precarie e presenza di topi e scarafaggi. È questa la situazione riscontrata durante l’ispezione per la verifica dei diritti della popolazione carceraria nelle carceri di Trapani organizzata dal Partito Radicale e dal Dap che ha concesso l’autorizzazione alla visita che si sono tenute il 16 e il 17 agosto nelle carceri di Trapani e di Castelvetrano. “Le condizioni delle carceri di Trapani sono di assoluta illegalità”, sono queste le parole del presidente della Fondazione “Giuseppe Gulotta”, Baldassare Lauria che annuncia a breve una relazione/denuncia alla procura della Repubblica ma anche alle autorità sanitarie per le condizioni di assoluta invivibilità. “C’è stato assicurato - dice Lauria - che per due volte al giorno l’acqua arriva, ma noi non l’abbiamo vista. C’è poi un grosso deficit di quelle attività che servono a rieducare i detenuti, che hanno manifestato uno stato di abbandono da parte dell’istituzione carceraria, che non assicura i servizi di psicologia, psichiatria e di offerta didattica. In molte celle poi c’è sovraffollamento, molte sono destinate ad una sola persona e spesso occupate da due o tre persone”. Per quanto riguarda le carceri di Castelvetrano c’è, invece, una situazione diversa, ospita 57 detenuti e le condizioni non sono critiche come a Trapani che ha, invece, 457 detenuti, che, nonostante la professionalità della polizia penitenziaria, ma con la carenza dell’organico e la mancanza di servizi non consente che ci sia quella funzione rieducativa dell’istituzione. Della situazione nelle carceri trapanesi ne abbiamo parlato con l’avvocato Baldassare Lauria della Fondazione Gulotta: La commissione ha certificato la correttezza della polizia penitenziaria. La Uila: “Ora basta denigrare la Polizia Penitenziaria; in Sicilia 600mila euro di danni” - E riguardo alla vita nelle carceri e in particolare alle rivolte avvenute nel 2020, si è conclusa l’ispezione della commissione che doveva accertare eventuali irregolarità o illegittimità commesse nel ristabilire l’ordine che ha certificato le corrette procedure della polizia penitenziaria. “Non avevano dubbi, ma con questa relazione è stata acclarata la certezza che la Polizia Penitenziaria ha operato nella piena legittimità e legalità come sempre”, così commenta Gioacchino Veneziano Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria Sicilia la relazione finale della Commissione ispettiva voluta dall’ex Capo del DAP Presidente Dino Petralia e dal suo Vice Consigliere Roberto Tartaglia, incaricata di fare luce sulle rivolte nelle carceri del 2020, che aveva il compito di indagare anche su eventuali condotte irregolari o illegittime poste in essere dalla Polizia Penitenziaria per ristabilire l’ordine e la sicurezza nelle carceri siciliane. “A parte i danni di oltre €.600.000 causati dai rivoltosi in Sicilia che pagheranno i contribuenti - dichiara il segretario dalla UILPA Polizia Penitenziaria Siciliana - la commissione ha acclarato la correttezza della Polizia Penitenziaria nel gestire eventi drammatici, per cercare di evitare il peggio e per stabilire l’ordine e la sicurezza negli istituti penitenziari oggetto di rivolta, accertando pure che al personale di Polizia mancava una formazione specifica, ovvero di appositi protocolli operativi uniti ad equipaggiamenti idonee a fronteggiare siffatte azioni di guerriglia”. “Insomma - chiosano dal sindacato di settore della Polizia penitenziaria Siciliana - in uno scenario di guerra di difficilissima gestione operativa, la Polizia Penitenziaria ha dimostrato anche in occasione di eventi eccezionali come le rivolte, coraggio, alto senso del dovere, responsabilità, rispettando leggi e la integrità personale e dei detenuti affidatati”. “Come lavoratori prima e poi da sindacalisti - conclude Gioacchino Veneziano - ringraziamo Presidente dott. Sergio Enna. Niente acqua calda per le docce, i detenuti protestano La Sicilia, 25 agosto 2022 Carabinieri e polizia hanno cinturato la casa circondariale impedendo il transito a ridosso delle mura. Hanno battuto a lungo le sbarre delle celle in segno di protesta. Oltre due ore di dissenso, al carcere di Enna, con slogan che, nella tarda serata di ieri sono stati uditi da tutto il circondario. I detenuti protestano perché, a causa del guasto di una caldaia, non avrebbero acqua calda per la doccia. Carabinieri e polizia hanno cinturato la casa circondariale impedendo il transito a ridosso delle mura. La protesta è cessata poco prima di mezzanotte. Nei scorsi giorni vicino al carcere erano stati esplosi giochi d’artificio probabilmente per festeggiare il compleanno di un detenuto. La storia di “zio Genny” in un film di Massimiliano Saggese Il Giorno, 25 agosto 2022 La storia di Gennaro Speria l’ex detenuto che per espiare le proprie pene andò a piedi a Roma, dal Papa, portandosi un crocifisso in legno di 40 chili sulle spalle e che ha trasformato, con la pandemia, la sua officina meccanica, Area 51, dove lavoravano ex detenuti, in un centro di assistenza per le famiglie povere, è diventata una pellicola. Un docufilm “Rozzano 20089” dove la vita di Gennaro si intreccia con quella di due rapper, diretto e realizzato da Maria Stella Regè con il supporto di Andrea Bertolini. Il 17 settembre sarà presentato al teatro Litta nell’ambito del Festival Visioni dal Mondo ideato e diretto da Fabrizio Bizzarri e Maurizio Nichetti e a Rozzano, ma non solo, c’è molta attesa per questo film. La pellicola è fra le dieci finaliste in due diverse categorie; nuovi talenti e concorso nazionale. È ambientata ovviamente a Rozzano ed è un viaggio per indagare in quelle che sono le storie più nascoste, di rivincita nella vita ma anche di povertà e difficoltà. Gennaro da due anni con la colletta alimentare dà da mangiare a circa duemila famiglie. Fra loro i poveri invisibili: stranieri clandestini, zingari, giostrai, comunità varie come quella filippina o musulmana. Aiuta anche le chiese, come quella evangelica, ed ha pure organizzato spedizioni di generi di prima necessità in Ucraina. Sono tre le storie che s’intrecciano. C’è Genny, ex carcerato che trascorre le sue giornate presso l’associazione no-profit Area 51, c’è quella di un giovane rapper, Marchino, ragazzo dal passato difficile che, a seguito di un periodo trascorso in comunità, ha incominciato a dedicarsi alla musica, e sta cercando di sfondare come rapper. E infine quella di Sarso, anche lui giovane rapper, il quale si sente in trappola e sogna di lasciare tutto per andare a vivere a Barcellona. “Voglio raccontare quelle storie difficili che a Rozzano si vivono quotidianamente e che non vede nessuno - spiega Genny - e raccontare anche le storie di chi ha vinto. Di chi si è preso una rivincita sulla vita. Io ho realizzato una oasi dove aiutando ex detenuti o giovani che vengono mandanti in affido aiuto me stesso a fare pace col passato e vorrei trasmettere a chi vuole ascoltare che è possibile fare pace con il passato”. Stupri in piazza, aborto negato: la campagna elettorale sul corpo delle donne di Oriana Liso La Repubblica, 25 agosto 2022 “Io leggevo e non capivo perché. Perché alcuni giornali raccontavano la storia che mi riguardava, la violenza che avevo subito, con dettagli e descrizioni circostanziate? Che bisogno avevano di farlo? Ci stavo male io, perché riguardava me, e pensavo alla mia famiglia, a mio padre che dovevano leggere particolari che avrei preferito non sapessero, già così era troppo”. Sono passati tanti anni, era il 2005 quando è successo e queste parole hanno almeno dieci anni: una ragazza, 22 anni soltanto, era stata violentata da un branco vicino casa sua, a Milano. Lei era con un amico, chiacchieravano in macchina quando erano stati aggrediti, lei violata brutalmente. Aveva denunciato tutto, con la lucidità della disperazione che aveva messo in fila facce, abiti, particolari, tanto che il branco era stato arrestato. Caterina, l’ho sempre chiamata così sul giornale in tutti questi anni, una volta mi aveva chiesto proprio questo: perché i giornali - certo, alcuni giornali, alcuni giornalisti - mi hanno fatto passare anche questo? Ho pensato alle parole di Caterina nella nuova gogna social. Che no, non è per lo stupratore, e direi quasi magari: ma è per una donna che a Piacenza è stata vittima di una violenza sessuale per strada. Esposta, espostissima, anche alla telecamera di un cellulare: ed è quel video, prima con una ripresa non pixelata e poi con la sua voce riconoscibile, che la leader del partito che si candida a governare l’Italia ha condiviso, dopo però che un quotidiano lo aveva fatto. Giorgia Meloni ha detto di non essere pentita di averlo condiviso, precisando che la vittima non era riconoscibile - lo era, lo era - ma per il giornale che per primo ha messo online quel video visto e condiviso da tanti? Vale il diritto di cronaca, sempre e comunque? E qual è il diritto di una donna violentata che sente la sua voce mentre implora pietà e sa che il vicino di casa, la collega al lavoro, un padre o un marito può sentire quelle parole, quelle preghiere? La vittima, sappiamo, è di origini ucraine, straniera come il suo aggressore, che è nordafricano: possiamo dirlo che se la donna fosse stata italiana forse ci sarebbe stato qualche scrupolo in più nel pubblicare quel video con l’audio così chiaro? E possiamo dire che per una volta sarebbe cosa buona e giusta se non solo la procura - che ha aperto un’inchiesta sulla diffusione di quel video - prendesse provvedimenti? Non so se la donna vittima di questa storia ringrazierà, sicuramente non è la sua priorità: ma noi donne, tutte per una volta, dovremmo ringraziare in quel caso. Perché al posto di quella donna potremmo esserci noi. I numeri dell’aborto in Italia - Il numero fa impressione: quando - difficilmente possiamo usare il se - anche i cinque stati Usa avranno il via libera richiesto alle corti statali, una donna su tre tra i 15 e i 44 anni non potrà più abortire, neanche nel caso di malformazioni del feto o del rischio della sua stessa vita. Dopo che la Corte Suprema a fine giugno ha abolito la sentenza Roe versus Wade che quasi quarant’anni fa aveva reso legale l’interruzione di gravidanza, sono già 21 milioni le donne americane che nel loro stato non possono abortire. A meno, come racconta Massimo Basile qui, di non avere mezzi economici per andare in uno degli stati dove è ancora consentito. Un gap economico e ovviamente sociale: in stati del Sud come il Mississipi o l’Alabama, le donne afroamericane che finora ricorrevano all’interruzione di gravidanza erano in numero quattro volte superiore rispetto alle donne bianche. E i sondaggi dicono che la battaglia dei Democratici per evitare ulteriori restrizioni sul diritto all’aborto porta gradimento e popolarità: va cavalcata quindi, e qui siamo sul piano esclusivo del vantaggio elettorale. Sul corpo delle donne si fa politica da sempre, non ci si scandalizza mica. E non dobbiamo andare lontano per saperlo. Gli ultimi dati certificati dal Sistema di sorveglianza epidemiologica sono quelli relativi al 2020: sono state 66.413 le interruzioni volontarie di gravidanza (con un tasso di abortività di 5,4 ogni mille donne tra i 15 e i 49 anni), il 9,3% in meno rispetto al 2019 (durante la pandemia era una delle prestazioni indifferibili per cui non è stato sospeso il servizio, anche se la difficoltà di spostamenti fuori casa potrebbe avere influito), confermando un trend in discesa e mantenendo l’Italia tra i paesi con un minor ricorso all’aborto volontario. Nel 1983 gli aborti registrati erano stati 243.801. I fattori sono diversi: la prevenzione, la presenza di consultori e la contraccezione, anche di emergenza (con le pillole del giorno dopo), portano meno donne a dover chiedere l’Ivg. All’aborto farmacologico ha fatto ricorso il 35,1% delle donne, un valore in aumento rispetto all’aborto chirurgico. Ma non vale per tutte. Nel 2020 il numero di aborti è diminuito in tutte le aree geografiche e in tutte le classi di età, con un aumento maggiore tra le ragazze minori di 18 anni: loro rappresentano il 2,4% di tutte le Ivg contro il 18,2% delle donne tra i 25 e i 34 anni. Le donne di origine straniera abortiscono meno di prima, ma sempre più delle altre, e anche qui la questione diventa politica e sociale: Le Ivg tra le donne straniere nel 2020 sono state il 28,5% del totale “mantenendo, per tutte le classi di età, tassi di abortività di circa 2-3 volte più elevati rispetto a quelli delle italiane”. Certo, per abortire servono i medici, e quelli obiettori, per quanto in lieve calo nel 2020, restano la maggioranza: (64,6% dei ginecologi, 44,6% degli anestesisti e 36,2% del personale non medico) con ampie variazioni regionali per le tre categorie. Risultano disponibili 2,9 punti Ivg ogni 100mila donne in età fertile: le Regioni con il maggior carico di lavoro per i ginecologi non obiettori sono Molise, Puglia e Campania. E le Marche? Eccoci qui, torniamo alla politica: nel 2021 la Regione guidata da Fratelli d’Italia si è opposta alla somministrazione della pillola Ru486 nei consultori, anche in quelli all’interno degli ospedali. Anche il Guardian qualche giorno fa, con una corrispondenza dall’Italia, ha raccontato del pericolo che il modello Marche diventi il modello Italia, se (quando?) dovesse vincere il centrodestra con FdI più votato. Chiara Ferragni in versione “dovremmo essere tutti femministi” ha postato una storia Instagram martedì sera, molto netta: “Facciamoci sentire a queste elezioni”, ha scritto, edulcorandola poi in una storia che ha sostituito la prima. “Ora è il nostro tempo di agire e far sì che queste cose non accadano”. Vedremo se follower ed elettori, questa volta, coincidono. L’insicurezza digitale dei partiti di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 25 agosto 2022 Nella retorica elettorale la parola cybersecurity scompare. Nei programmi si parla di digitale e infrastrutture con rari accenni alla sicurezza informatica senza la quale ogni innovazione, tecnologica o sociale, è a rischio. Il digitale è tutto intorno a te. Grazie a connessioni veloci, reti mobili, wi-fi pubblici, hotspot da viaggio, ti accorgi di quanto è importante solo quando non c’è la connettività per accedere alla banca digitale, al concorso sul web, alle notizie online. Te ne accorgi quando non funziona il modem comprato due giorni prima nel negozio Tim, quando ricevi 10 telefonate da Vodafone per confermare la disdetta della rete fissa dopo regolare Pec, o quando Dazn collassa mentre guardi la partita. Siamo insomma come i pesci che non si accorgono di nuotare nell’acqua perché ci stanno dentro, ma se la rete non funziona, e i servizi online sono inaccessibili, noi umani ce ne accorgiamo subito. Solo a quel punto arrivano le lamentele, il laconico comunicato del parlamentare, l’editoriale di turno. Quest’estate ne sono accorti alla Asl di Torino, in diversi comuni toscani, all’Agenzia campana per l’ambiente Arpac, eccetera. Secondo Checkpoint Software l’Italia è quarta al mondo per attacchi informatici nel settore scolastico nonostante manchino tre settimane al rientro a scuola, con una media 3,264 attacchi settimanali a luglio. Gli hacker maligni sono sempre più attivi in questo settore, e ne hanno fatto registrare un aumento del 114% negli ultimi due anni. Akamai Technologies, che a luglio ha registrato e mitigato il più grande attacco DDoS mai lanciato in Europa, ha rilevato come gli attacchi alle applicazioni web nel settore del gaming siano più che raddoppiati rispetto all’anno scorso esponendo gli account dei giocatori al rischio di violazione da parte dei criminali informatici, con conseguente vendita degli account di gioco e furto di informazioni personali, tra cui i dati delle carte di credito. Kaspersky ha rilevato un numero di utenti colpiti da attacchi DDoS di circa 2,5 volte superiore rispetto ai dati del secondo trimestre del 2021, attacchi che sono diventati più lunghi e complicati. Il futuro digitale non è roseo. Eppure, nonostante le prenotazioni vaccinali online, l’e-commerce, lo smart working e la DAD abbiano garantito salute, cibo, lavoro e istruzione in due anni di pandemia, la politica sembra disinteressata alla messa in sicurezza di queste risorse ormai irrinunciabili, ma fragili. Fragili perché esposte al vento degli attacchi informatici che hanno paralizzato pronto soccorsi e ospedali, commercialisti e viticoltori, manifattura e trasporti. Facendo un giro sui siti web dei partiti, bruttini, nei programmi elettorali non c’è quasi traccia della cybersecurity. Però in un mondo digitalizzato e iperconnesso senza la sicurezza informatica ogni innovazione è a rischio. Leggeteli. Mentre nel programma del Centrodestra c’è un rigo per il “Potenziamento delle misure e dei sistemi di cyber-sicurezza”, in quello di Calenda, scaricato dal sito di ItaliaViva, la parola cybersecurity compare tre volte, in quello di Azione, leggermente diverso (provare per credere), nel capitolo Innovazione, digitale e space economy, si dichiara che “le Forze Armate devono incrementare gli investimenti nella formazione continua dei corpi specializzati nella cybersecurity” e poi, in sintonia con lo stile del leader, non si perde l’occasione per polemizzare a distanza con l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale che dovrebbe “anche collaborare con le aziende e non controllarle”. Infine, nemmeno una parola sull’importanza della sicurezza informatica nel programma del Partito Democratico, dei Cinquestelle e in quello dell’alleanza Verdi-Sinistra. Forse ce l’aggiungeranno prima del voto, ma, “per sicurezza”, chiediamogli di mettercela. Spagna. Eutanasia in carcere, il “pistolero di Tarragona” muore così di Marta Duò ilsussidiario.net, 25 agosto 2022 Eutanasia in carcere per il “pistolero di Tarragona”, tra libertà condizionale negata e polemiche da parte delle sue vittime. Il “pistolero di Tarragona” ha ricevuto l’eutanasia in carcere, dopo che aveva visto negata la libertà condizionale a causa di un presunto “elevato rischio di fuga”. L’uomo, Marin Eugen Sabau, è un 46enne di origini romene che ha guadagnato questo “soprannome” per aver ferito gravemente con la pistola tre colleghi dell’azienda che lo aveva licenziato a dicembre. Sabau, il “pistolero di Tarragona”, è rimasto tetraplegico dopo uno scontro a fuoco con la polizia catalana: un proiettile gli aveva provocato una lesione midollare irreversibile e dolori costanti che nessun sedativo è mai riuscito ad attenuare. Per questo motivo l’uomo ha richiesto l’eutanasia due volte, ottenendo infine il via libera medico il 28 giugno scorso. La decisione è stata osteggiata dalle vittime dell’uomo, determinate a proseguire verso il processo e il riconoscimento dei danni, ma il Tribunale di Tarragona ha rigettato ogni ricorso, considerando “prevalente il diritto alla dignità e all’integrità fisica e morale dell’indagato rispetto al diritto alla tutela effettiva dei denuncianti”, come riporta Avvenire. L’uomo però non si è mai pentito del suo gesto e pertanto l’eutanasia è avvenuta in carcere ieri alle 14.30, scatenando numerose polemiche. Marin Eugen Sabau, il “pistolero di Tarragona”, era stato licenziato dall’azienda Securitas, nel centro di Tarragona, presso cui lavorava come vigilante privato. Appassionato di armi, il 14 dicembre scorso aveva fatto irruzione negli uffici della Securitas e aveva sparato contro tre ex colleghi, ferendoli in modo grave. Inseguito dalla polizia, Sabau si era quindi trincerato in una masseria abbandonata, dove era stato infine colpito dal fuoco della polizia catalana. Qui, un proiettile gli aveva lesionato il midollo rendendolo tetraplegico e provocandogli sofferenze continue. Era quindi stato ricoverato nel reparto ospedaliero del penitenziario di Terrassa, a Barcellona, con l’accusa di quattro tentati omicidi. In Spagna, dal 25 giugno 2021 l’eutanasia è legale e può essere richiesta da pazienti affetti da “sofferenza grave, cronica e impossibilitante o malattia grave e incurabile, che causa un patimento intollerabile”. Poiché il “pistolero di Tarragona” avrebbe dovuto ricevere la morte assistita in un ospedale ordinario, senza la vigilanza delle forze dell’ordine, la gip di Tarragona ha rigettato la richiesta di far trascorrere a Sabau le ultime ore di vita in libertà. Uomini nonostante tutto. Anche nell’abisso dei lager sovietici di Matteo Matzuzzi Il Foglio, 25 agosto 2022 Messaggi cuciti con le lische di pesce, lettere, preghiere. Testimonianze da Memorial, in mostra al Meeting di Rimini. In ogni sezione dell’esposizione si alternano voci che sottolineano le condizioni disumane, volte ad annichilire la persona, e altre che parlano della dignità riconquistata, di un bene che può risplendere ovunque Rimini. Il primo nucleo di Memorial si forma alla fine degli anni Ottanta, quando i refoli del disfacimento imminente dell’Impero sovietico si fanno sentire. Siamo in piena perestrojka, c’è la convinzione comune che solo la memoria di quel che è stato può impedire che la tragedia si ripeta. Si avverte l’esigenza di riabilitare le vittime dell’orrore, di chi fu spedito nei lager perché considerato “nemico del popolo”. Si fa un monumento, ma ancora più importanti sono l’archivio e la biblioteca. Alimentare la memoria per riaccendere continuamente una domanda, uno sguardo carico di attenzione e di stima per l’uomo e la realtà. “Uomini nonostante tutto. Storie da Memorial”, è la mostra al Meeting di Rimini che nasce da due percorsi espositivi realizzati a Mosca: il primo è dedicato alle lettere che i padri spedivano dai lager, il secondo riguarda l’universo femminile nei gulag, quei piccoli oggetti che le madri confezionavano nel tentativo di mantenere vivo un legame con i propri affetti più cari lontani migliaia di chilometri. Il vissuto in quei non luoghi di disperazione è conosciuto, libri ne hanno narrato la storia. Vedere però quel che è stato negli oggetti e nelle lettere è un’altra cosa. In ogni sezione della mostra, a cura della Fondazione Russia Cristiana e dell’Associazione Memorial, si alternano voci che sottolineano le condizioni disumane, volte ad annichilire la persona - “Di notte mi svegliai per il freddo terribile… Quel primo freddo in prigione non lo dimenticherò mai. Non so come fare a descriverlo. Morivo di sonno e il freddo mi teneva sveglia”, ricorda Chava Volovic -, e altre che parlano della dignità riconquistata, di un bene che può risplendere ovunque e, nonostante tutto, consentire di restare uomini. Dal momento dell’arresto, la persona non è mai sola, neppure al gabinetto. A volte, nelle baracche, le donne appendevano tendine fra una cuccetta e l’altra, sperando così di conquistare un minimo di riservatezza. Appena le guardie se ne accorgevano, requisivano tutto. L’individuo è solo, impotente davanti alla macchina di un potere anonimo, a cui è impossibile chiedere spiegazioni. Questo isolamento è ottenuto distorcendo e calpestando le relazioni che formano una società civile, a partire dai legami famigliari. Annullando (o cercando di annullare) la persona. Si sente forte l’eco di Vita e destino, il capolavoro di Vassilij Grossman. Non più persone, solo numeri. “Era tutto finito. Il passato era tagliato via. Ero solo contro quella macchina enorme, terribile, che voleva annientarmi”, si legge in una testimonianza. Una macchina che puniva i condannati e, ancora di più, i propri cari rimasti nella “civiltà”: “Va a finire che voi siete punite peggio di me: a breve non avrete più neppure il tetto e la razione che invece il carcere offre a me. No, non può essere! Nel paese dei Soviet non è possibile che si muoia di fame e disoccupazione. È assurdo!”, scriverà alla moglie e alla figlia Michail Lebedev, condannato nel 1937 a dieci anni di lager e liberato nel 1946 perché malato di cancro. Otterrà la riabilitazione post mortem nel 1957. I detenuti mostravano una creatività impensabile: per mantenere la memoria s’inventavano di tutto: ricamavano messaggi su un lenzuolo usando una lisca di pesce salvata dalla minestra, chiudevano messaggi per i propri cari su pacchetti di sigaretta con ivi impresso l’indirizzo di casa e li gettavano dai treni, sperando che qualcuno li raccogliesse e li facesse giungere a destinazione. Una prigioniera ricorderà: “Quando sei isolata, senza niente da fare, hai letto, riletto, imparato a memoria i libri che avevi, allora senti fisicamente il tempo come un fardello insopportabile che ti schiaccia, ti soffoca, ti rovina addosso. Pensi: ‘Signore, poter fare qualcosa! Foss’anche rotolare dei massi’”. Scrivevano, come meglio potevano, per continuare a vivere. Scrivevano quel che facevano quando erano liberi e non ridotti a numeri perché solo così, ricordando la propria vita di prima, si ricordavano di essere persone. Non si rinuncia, insomma, a essere vivi. Ogni espressione di umanità, amicizia, spirito di sacrificio assume un valore incalcolabile, distingue l’uomo “dal non umano”. Il 28 dicembre 2021, Memorial è stato liquidato con decreto della Corte suprema russa perché accusato di contravvenire alla legge sugli agenti stranieri. La colpa? “Aver mistificato la memoria della Grande guerra patriottica e di aver creato un’immagine falsa dell’Unione sovietica come stato terroristico”. Detenuti per cannabis terapeutica in Russia. Non solo Griner droghe.aduc.it, 25 agosto 2022 Un cittadino statunitense che è stato imprigionato in Russia per il possesso di piccola quantità di marijuana medica dovrebbe essere riclassificato dal Dipartimento di Stato come persona “detenuta ingiustamente”, sostiene in una lettera una coalizione di senatori bipartisan. Il gruppo di senatori, guidato da Bob Casey (D-PA), sostiene che Marc Fogel sta affrontando una “sproporzionata condanna a 14 anni” per il possesso di meno di un’oncia di cannabis che è stato registrata per uso medico in Pennsylvania. Nella lettera al Segretario di Stato Antony Blinken, si precisa che che Fogel soddisfa diversi criteri per essere considerato una persona detenuta ingiustamente, il che gli darebbe diritto a maggiori risorse diplomatiche per garantire il suo rilascio. La giocatrice della WNBA Brittney Griner, che è stata condannata per lo stesso motivo a nove anni di prigione russa dopo essersi dichiarata colpevole di possesso di cartucce di vaporizzatori di cannabis che era autorizzata a usare in Arizona come paziente registrata di marijuana medica, è già considerata come detenuta ingiustamente dal Dipartimento di Stato. “La recente condanna a 14 anni di Fogel a una colonia penale di massima sicurezza per possesso di meno di un’oncia di marijuana medica può essere intesa solo come uno stratagemma politico dal regime autoritario di Vladimir Putin”, hanno scritto i senatori. “Fogel, un 61enne con gravi condizioni mediche, è già detenuto da un anno. Gli Stati Uniti non possono restare a guardare mentre deperisce in un campo di lavoro forzato russo”. Mentre il Dipartimento di Stato continua a “negoziare il rilascio della Griner” per un simile reato di marijuana di basso livello, il caso di Fogel “meriterebbe lo stesso grado di attenzione politica e intervento diplomatico”. “Esortiamo vivamente il Dipartimento di Stato a modificare la sua strategia date le realtà della situazione di Marc Fogel e ad agire immediatamente per designarlo come ‘detenuto ingiustamente’. Tale designazione fornirà il livello di sostegno garantito alla famiglia di Marc Fogel dopo un anno di comunicazione con il loro congiunto solo per posta e, soprattutto, richiederà una missione dell’inviato presidenziale speciale degli Stati Uniti per gli affari in ostaggio per garantirgli la libertàl. Non possiamo permettere che Fogel venga usato come una pedina politica da Vladimir Putin”. La lettera è stata firmata da nove senatori, inclusi alcuni che in precedenza avevano preso posizioni ostili sulla riforma della cannabis. Sens. Marco Rubio (R-FL), Jon Tester (D-MT), Steve Daines (R-MT), John Hickenlooper (D-CO), Pat Toomey (R-PA), Joe Manchin (D-WV), Shelley Moore Capito (R-WV) e Tim Kaine (D-VA) si sono uniti a Casey nella lettera. In particolare, hanno sottolineato che Fogel “ha vissuto con dolore cronico per decenni” e, dopo che numerosi interventi chirurgici non sono riusciti ad alleviare il suo dolore, “un medico ha raccomandato la marijuana medica come alternativa agli oppioidi per curare il suo dolore cronico” nel 2021. Il tacito riconoscimento della cannabis come alternativa agli oppioidi è particolarmente interessante considerando l’ampia gamma di opinioni politiche nazionali sulla marijuana rappresentate dai firmatari. “Sebbene Fogel abbia violato la legge russa portando 17 grammi di marijuana nel paese, la sua condanna è grossolanamente sproporzionata rispetto a casi simili”, hanno scritto. “Come hanno sottolineato gli avvocati russi, la condanna più comune in casi simili è di cinque anni di libertà vigilata”. Ciò arriva anche poche settimane dopo che altri membri bipartisan della delegazione del Congresso della Pennsylvania hanno similmente chiesto al Dipartimento di Stato di impegnarsi sul caso Fogel. Il mese scorso, un alto funzionario della Casa Bianca ha dichiarato in una telefonata alla stampa che l’amministrazione ha “esaminato” il caso di Fogel “per un po’“ - ma non sono stati fatti annunci e lui non fa parte dello scambio di prigionieri offerto, accordo che coinvolge Griner e Paul Whelan, che sta scontando una condanna a 16 anni per presunto spionaggio in Russia. Al di là della discrepanza nel modo in cui l’amministrazione Biden ha trattato i casi Griner e Fogel, i sostenitori hanno contestato il fatto che il presidente stia spendendo così tanto capitale politico per aiutare un americano che è detenuto per cannabis in Russia mentre si rifiuta di intraprendere azioni significative per adempiere alle promesse della campagna per depenalizzare la marijuana a livello nazionale e liberare le persone che sono incarcerate per questo nelle carceri statunitensi. Biden ha fatto il suo primo commento pubblico sulla politica sulla marijuana da quando è entrato in carica il mese scorso, ribadendo che non crede che le persone dovrebbero essere incarcerate per la cannabis. Ma anche con l’autorità esecutiva di concedere una grazia di massa alle persone, l’amministrazione non ha ancora valutato la questione, ha affermato di recente l’addetto stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre.nLa Russia, da parte sua, ha preso una posizione particolarmente ferma contro la riforma della politica sulla cannabis a livello internazionale attraverso le Nazioni Unite. E ha condannato il Canada per aver legalizzato la marijuana a livello nazionale. Il vice-ministro degli Affari esteri russo, su un account ufficiale di un social media, ha dichiarato a marzo che gli sforzi di legalizzazione negli Stati Uniti e in Canada sono questioni “di seria preoccupazione per noi”. “È preoccupante che diversi Stati membri dell’[Unione europea] stiano valutando la possibilità di violare i propri obblighi di controllo della droga”.