“Telefonate libere per i detenuti: così si ferma l’ecatombe dei suicidi in cella” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 agosto 2022 Dopo la relazione del Dap sulle rivolte in carcere, Antigone rilancia la proposta per aumentare le chiamate. Sono 54 le persone che si sono tolte la vita, mentre Rita Bernardini da giorni ha ripreso lo sciopero della fame. La chiusura totale al mondo esterno durante l’emergenza pandemia, è stata una delle micce che ha dato il via alle rivolte. Una chiusura che ha, di fatto, aggravato ciò che era già persistente: il rapporto rarefatto dei detenuti con i propri affetti. La legge sull’affettività, mai più varata, non riguarda soltanto la sfera sessuale (possibilità che esiste in quasi tutti i paesi europei), ma è volta anche a incrementare i colloqui visivi e telefonici con i propri familiari. Questa mancanza isola ancor di più il detenuto e incrementa la frequenza dei suicidi, giunti quest’anno già a 54 persone che si sono tolti la vita, l’ultimo a Foggia. L’associazione Antigone, partendo dalla relazione della commissione ispettiva del Dap in merito alla genesi delle rivolte e conseguenze, rilancia la proposta di liberalizzare le telefonate a disposizione dei detenuti. Come già detto, ad innescare le proteste nelle carceri non fu una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. A scriverlo, ricordiamo ancora una volta, è la Commissione ispettiva del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), presieduta dall’ex procuratore Sergio Lari, nella relazione finale sulle rivolte nelle carceri avvenuta nel marzo del 2020. La richiesta fatta da Antigone di consentire chiamate oltre i 10 minuti a settimana fu accolta -Già in quei giorni di marzo l’associazione Antigone aveva capito che quelle chiusure sarebbero state un aggravio enorme per chi, già normalmente, ha rapporti rarefatti con i propri affetti. Tanti erano i detenuti e i familiari che si rivolgevano all’associazione in un misto di paura, preoccupazione, ansia, dovuto a quanto stava accadendo con il diffondersi del Covid-19, di cui inizialmente sapevamo tutti molto poco e per il quale tutti avevamo negli occhi le immagini terribili di ospedali al collasso e delle ambulanze che sfrecciavano nelle città deserte. Per questo, da subito, Antigone aveva chiesto al Dap di dotare i detenuti di telefoni e tablet, consentendo videochiamare ai familiari, ben oltre i 10 minuti alla settimana previsti dal regolamento penitenziario. Quella richiesta fu accolta e in pochi giorni oltre 1.000 telefoni e tablet arrivarono nelle carceri, superando anni di ostruzionismo su questo tema. Oggi Antigone sta chiedendo la stessa cosa come strumento per prevenire i suicidi. L’associazione osserva che l’esito della relazione della Commissione del Dap dovrebbe farci capire quanto l’affettività, il poter sentire e vedere i propri familiari, sia importante per chi è detenuto. Anche, appunto, nel prevenire qualsiasi intenzione suicidaria. Per questo Antigone chiede di liberalizzare, al più presto, il numero di telefonate a disposizione dei detenuti. La liberalizzazione delle telefonate è tra le proposte della commissione Ruotolo voluta dalla ministra Cartabia - E pensare che la liberalizzazione delle telefonate rientra anche tra le proposte della commissione presieduta da Marco Ruotolo (ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma Tre) voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Da gennaio, la relazione, era già sul tavolo, ma oramai sembra tutto vanificato. Tra le linee guida c’è appunto la “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza qualora non vi siano “particolari esigenze cautelari, per ragioni processuali o legate alla pericolosità”. In particolare, la proposta prevede la possibilità di acquistare al sopravvitto apparecchi mobili “configurati in maniera idonea e funzionale con le dovute precauzioni operative (senza scheda e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati) per evitare qualsiasi forma di utilizzo indebito”. Per cui il detenuto sarebbe libero di utilizzare l’apparecchio nei tempi e con le modalità indicate dall’Amministrazione (es. solo nella camera di pernottamento). “Ciò - si legge nella Relazione depositata oramai quasi otto mesi fa - consentirebbe di alleggerire il sistema con evidenti benefici per coloro (e non sono pochi) che, non avendo disponibilità economiche, potrebbero chiamare gratuitamente avvalendosi delle video-chiamate con Skype o simili applicazioni, come già sta avvenendo”. E risolvere anche l’annoso problema, legato alle difficoltà di verifica dell’intestazione dell’utenza telefonica, soprattutto per i detenuti stranieri. Le video chiamate potranno essere effettuate con i cellulari di recente acquistati dall’Amministrazione (3.200) o nelle sale attrezzate e video sorvegliate, già predisposte in diversi istituti, secondo le esigenze organizzative interne di ciascuno di questi. Rita Bernardini è in sciopero della fame dal 16 agosto e con lei parenti di reclusi e le detenute delle Vallette di Torino - Il trend del numero dei suicidi è fortemente in crescita. Le telefonate possono salvare la vita, ma non basta. Sono anni che le istituzioni non riescono a dare risposte necessarie a far rientrare nella legalità costituzionale l’esecuzione penale. Ed è ciò che ora richiede con forza ancora una volta Rita Bernardini come presidente di Nessuno Tocchi Caino. Dalla mezzanotte del 16 agosto scorso ha ripreso lo sciopero della fame. Subito si sono uniti, attraverso una staffetta, diverse persone, soprattutto mogli, compagne e figlie dei detenuti. Si sono aggiunte anche le detenute del carcere di Torino. All’iniziativa nonviolenta aderisce l’associazione Marco Pannella. Ha annunciato di aver aderito nella forma dello sciopero della fame a staffetta che coinvolge sedici attivisti e militanti Radicali. Questa adesione segue, appunto, l’esempio delle ragazze del femminile del carcere delle Vallette di Torino comunicata a Rita Bernardini durante la visita di Nessuno tocchi Caino del 19 agosto scorso. Lo sciopero della fame è a sostegno delle volontà manifestate dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e del Capo del Dap Carlo Renoldi affinché si proceda per l’immediato a ridurre la popolazione detenuta in forte sovraffollamento, con misure come la liberazione anticipata speciale. L’associazione Marco Pannella, per quel che riguarda la vita in carcere, sottolinea che l’iniziativa nonviolenta è a sostegno della volontà di far aumentare i contatti dei detenuti con i familiari attraverso un maggior numero di telefonate e di video chiamate e con la concessione dei trasferimenti richiesti dai detenuti per avvicinamento alla famiglia e per motivi di studio e di lavoro. Altri obiettivi più a lungo termine sono rivolti a tutte le forze politiche impegnate nella campagna elettorale affinché l’esecuzione penale e la riforma della giustizia siano nel concreto aderente ai principi della Costituzione italiana e della Convenzione europea. Anche il Coordinamento del carcere Due Palazzi di Padova aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” di don Riboldi - Anche il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova - attraverso il sito di Ristretti Orizzonti - esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Ha annunciato che aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla ministra Cartabia e al Capo del Dap Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Il coordinamento ha osservato di aver registrato tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. “La politica miope e ideologica non si occupa delle carceri” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 24 agosto 2022 Le proposte del Garante nazionale dei detenuti. Dopo l’ennesimo suicidio a Foggia, leader politici e partiti restano in silenzio: “Non è tema da campagna elettorale, non porta consensi”, dice Mauro Palma: “Servono più istruzione e più operatori sociali”. E rivedere la detenzione per chi ha pene molto brevi. L’ultimo caso è avvenuto lunedì, nel carcere di Foggia. Un detenuto si è suicidato, a trent’anni, nel giorno del suo compleanno. L’ennesima tragedia nelle carceri italiane di cui la politica politicante, quella che si scanna tra tweet e devianze, non sembra volersi occupare. Nessun commento, nessuna riflessione: “Non è tema da campagna elettorale”, dice al Foglio il Garante nazionale dei detenuti. E le ragioni di questo scollamento, spiega Mauro Palma, in carica fino al prossimo febbraio, sono almeno tre: “C’è disinteresse perché è un settore che non porta voti e consensi. C’è la miopia di gran parte della politica, che non si proietta in avanti ma guarda solo l’immediato, rinunciando a ridurre i costi che il mancato reinserimento dei detenuti produce, sul piano sociale, sanitario e su molti altro livelli”. E c’è poi un terzo tema: “Aver reso il carcere terreno di scontro ideologico. Da un lato si vuole tutti fuori, dall’altro tutti dentro a marcire, buttando via la chiave”. È chiaro allora che partendo da queste basi un dibattito efficace diventa impossibile. “Bisogna porsi su un altro piano, perché se il diritto penale non riesce a costruire anche percorsi di positività, a riaffermarsi come strumento sussidiario insieme ad altri modelli di regolazione sociale, è inutile”, argomenta Palma. Il carcere “andrebbe depurato di questo elemento di rappresentazione simbolica. Non serve l’approccio duro, né quello troppo compassionevole, ma ragionare in termini di funzionalità”. Nel frattempo, quello di lunedì in Puglia è stato il 53esimo suicidio dall’inizio dell’anno, a fronte dei 61 complessivamente registrati del 2021. Per il Garante, questi non sono gli unici numeri su cui riflettere: “Ci sono stati anche 19 decessi per cause da accertare e qualche suicidio non si può escludere”. Quanto alle cause, dice ancora Palma, è sempre difficile individuare con certezza le responsabilità di qualcuno o di qualcosa: “Leggo interpretazioni, tutte vere, legate al sovraffollamento e alle difficili condizioni dei penitenziari. Ma le vedo come concause”. Di fattori ce ne sono anche altri: “L’inutilità del tempo sottratto ai detenuti: oggi sono in carcere 1.342 persone che hanno avuto una pena inferiore a un anno mentre altre 2.592 hanno una condanna compresa tra uno e due anni: quasi 4 mila persone per cui il carcere non può far nulla”. Troppo poco tempo per costruire un reale percorso di conoscenza e di riabilitazione, ma abbastanza per cucire addosso al detenuto quello stigma che ne pregiudica spesso il reinserimento sociale: “Il rischio in questi casi è che il carcere sia inutile in partenza e aggravante in uscita. Questo spiega anche perché molti suicidi avvengano poco dopo l’inizio della detenzione e altri verso la fine”. Accanto a questa traiettoria “interna”, Palma ne individua un’altra, “esterna”, che riporta di nuovo alle miopie dei partiti. Se i detenuti non percepiscono un’attenzione politica sulle condizioni delle carceri - nemmeno minima, a ridosso delle elezioni, “si può alimentare un senso di abbandono, che in certi casi porta anche all’autodistruzione”. Per tutte queste ragioni, “il carcere dovrebbe recuperare un rapporto con il corpo, anziché annichilirlo, a cominciare dalla sessualità. Non è pensabile oggi l’abolizione tout court del carcere ma una riduzione seria è invece molto molto possibile. Sono questi i nodi che dobbiamo affrontare”, sottolinea il Garante. I tempi sarebbero anche propizi, essendo la campagna elettorale - almeno in linea teorica - il momento dei programmi e delle proposte. A questo proposito Palma individua e suggerisce le tre priorità che tutti partiti potrebbero inserire nelle loro agende: “Un investimento culturale, ovvero istruzione e formazione massiccia all’interno delle carceri. Su quasi 55mila detenuti ce ne sono 1.200 che frequentano l’università ma anche 900 analfabeti”. C’è poi una dimensione che non riguarda direttamente i detenuti, ma risulta comunque decisiva per la vita negli Istituti di reclusione: “Una verifica delle competenze e una revisione dei regolamenti interni, che riservi maggiore attenzione alle necessità di chi è recluso e potenzi tutti i percorsi di connessione con il mondo esterno. È necessaria una maggiore presenza di operatori sociali. Compiti che oggi vengono a volte ricoperti dalla polizia penitenziaria che, oltre al ruolo di sorveglianza, finisce per farsi carico di altri tipi di problemi per i quali non è preparata”. Infine, conclude Palma, bisognerebbe istituire delle “Case di controllo e accoglienza, con il supporto e la responsabilità dei sindaci”. A beneficiarne sarebbero tutte quelle persone che “non accedono a misure alternative in quanto senza fissa dimora, pur avendone diritto. Una situazione che riguarda migliaia di detenuti con pene brevi. Sarebbe anche una risposta al sovraffollamento e permetterebbe di restituire centralità ai territori”. Meno strumentalizzazioni, più soluzioni: i candidati prendano nota. Assoluzioni inappellabili: così la commissione Lattanzi ha anticipato l’idea del Cav di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 24 agosto 2022 “In Italia, ogni anno migliaia di persone vengono arrestate e processate pur essendo innocenti. Il processo è già una pena, che colpisce l’imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro. Per questo non deve trascinarsi all’infinito, in appelli e controappelli. Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili”. Queste le parole del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, che alla vigilia delle elezioni promette - sul fronte della giustizia penale - il ritorno all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, sulla falsariga dunque di quanto già previsto allora con la legge Pecorella del 2006, poi cassata un anno dopo dalla Corte Costituzionale per asserita violazione del costituzionalizzato principio di “parità delle parti processuali”. Dichiarazioni che, come ovvio, hanno scatenato, vuoi aperto consenso, vuoi ampio dissenso. Come noto, la disciplina dell’appellabilità delle sentenze penali era stata profondamente modificata con la citata legge 46/2006, la quale aveva operato un massiccio ridimensionamento del potere d’appello del Pm contro le sentenze di proscioglimento, in particolare prevedendone tout court la loro inappellabilità. Questo perché si era cercato di rimediare, probabilmente con un rimedio un po’ troppo radicale ma condivisibile nei fini, alle incongruenze che effettivamente sussistono nel caso di condanna per la prima volta in appello di un imputato assolto in primo grado (di fatto all’imputato verrebbe sottratto un grado di giudizio di merito, perché non potrebbe impugnare nel merito la pronuncia che lo ha condannato in secondo grado ma solo ricorrere per Cassazione). Si trattava però - come chiosato da più osservatori - di una situazione troppo radicale perché si inseriva in maniera disorganica e incongruente nel sistema complessivo dei poteri d’appello, creando delle disparità di trattamento che, ben presto, hanno indotto la Corte Costituzionale a dichiararne l’illegittimità costituzionale. Specularmente, condividendo l’originario intento di evitare un accanimento persecutorio da parte del Pm nella fase delle impugnazioni, si poneva anche la limitazione all’appellabilità del Pm nel caso di sentenza di condanna in primo grado, introdotta con il d. lgs. 11/ 2018 in attuazione di una direttiva di delega contenuta nella Legge Orlando (l’odierno art. 593, comma 1, c. p. p.), possibile solo “quando modificano il titolo di reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato”. Ad oggi, dunque, si è invertito il paradigma: la legge Pecorella dichiarava inappellabili tanto da parte del Pm quanto da parte dell’imputato le sentenze di proscioglimento, tranne che nei casi di emersione di nuove prove, sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado; oggi, le sentenze dibattimentali di proscioglimento rimangono sempre appellabili tranne alcune eccezioni che coinvolgono tanto il Pm quanto l’imputato. La proposta di un ritorno alla legge Pecorella avanzata dal Presidente di Forza Italia, accolta con favore dall’Unione delle Camere Penali Italiane e con maggior diffidenza da parte dell’Anm (che boccia in pieno la proposta, già cassata - a suo dire - dalla Consulta), avrebbe come terreno di ispirazione la Relazione della Commissione Lattanzi la quale, istituita dalla uscente ministra Cartabia, aveva già (re) immaginato l’introduzione di una generale inappellabilità da parte del Pm delle sentenze di assoluzione in primo grado con l’ovvia previsione di contraltari tali da non pregiudicare il principio di “parità delle parti” tanto caro alla Consulta del 2007. La Commissione Lattanzi, prendendo le mosse proprio dalle recenti indicazioni della giurisprudenza costituzionale in materia di impugnazioni, rimarca con forza la “diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art 112 Cost. - e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti - quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. - e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi - quello dell’imputato” (sent. 34/ 2020). E ancora, “il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost”. La soluzione, coraggiosa, immaginata dalla Commissione sarebbe dunque quella di rendere solamente ricorribile per Cassazione, da parte del Pm, una sentenza assolutoria di primo grado (che, come tale, non ha soddisfatto a monte il canone necessario per la pronuncia di una sentenza di colpevolezza dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”), mezzo di impugnazione ritenuto ugualmente e maggiormente in grado di attivare il controllo di legalità (sulla corretta applicazione della norma sostanziale), di legittimità (su eventuali errores in procedendo) e di razionalità del giudizio di fatto (sulla corretta applicazione delle regole della logica) della decisione. Ovviamente tale innovazione porterebbe con sé dei necessari contraltari, individuati in parte dalla stessa Commissione, che solo la dialettica parlamentare tra le diverse forze politiche potrà maggiormente enucleare, analizzare e - alla fine - dirimere. Si tratta di una proposta, quella del Presidente di Forza Italia che, analizzata in un’ottica apartitica e senza ideologie, potrebbe contribuire a ridisegnare il complessivo sistema delle impugnazioni, e dell’appello in particolare, all’insegna di una maggior (e forse definitiva) chiarezza interpretativa e dogmatica sulla natura di tale mezzo di impugnazione a tutto favore dell’efficienza e della certezza della Giustizia penale italiana, esigenze quest’ultime costantemente richieste e auspicate dalle Istituzioni sovranazionali. *Avvocato, Direttore Ispeg “Il terzo polo è garantista al 100%: va superata la riforma di Cartabia” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 24 agosto 2022 Francesco Bonifazi, senatore di Italia viva e fedelissimo di Matteo Renzi, spiega senza mezzi termini che “l’obiettivo è riportare Mario Draghi al governo” e sul programma del terzo polo in tema di giustizia è netto: “come terzo polo abbiamo un’identità nettamente garantista, senza sbavature - commenta - anche sul tema delle carceri il nostro programma sulla giustizia è chiaro, la pena deve tendere alla rieducazione: non lo dicono Renzi e Calenda, lo dice la Costituzione”. Senatore Bonifazi, chiusa la partita delle liste si apre la campagna elettorale vera e propria: qual è l’obiettivo minimo del terzo polo e di Matteo Renzi? L’obiettivo del terzo polo non è solo un numero, ma quello di offrire un progetto serio agli elettori, una casa per i riformisti e per i liberali, alternativa a populisti e sovranisti. Riportare al centro del dibattito la competenza e non la simpatia e le vecchie e superate ideologie novecentesche. Saremo determinanti e se gli italiani ci daranno fiducia lavoreremo dal giorno dopo le elezioni per riportare Mario Draghi alla guida del Paese. All’alleanza tra Renzi e Calenda si è arrivati dopo la rottura tra il secondo e il centrosinistra di Enrico Letta, ma al momento dell’accordo tra i due da Italia viva piovvero critiche al fondatore di Azione. Come faranno Renzi e Calenda ad andare d’accordo? Io penso che dobbiamo uscire da questa dinamica caratteriale e se vogliamo anche folkloristica: Renzi e Calenda non devono andare in vacanza, ma portare le loro competenze in Parlamento. Hanno lavorato insieme, il primo da presidente del Consiglio, il secondo da ministro dello Sviluppo economico, producendo risultati eccellenti. Penso, solo per fare un esempio, a industria 4.0, che ha permesso di far crescere la produttività davvero. Hanno discusso in passato? Vero. Ma la politica è il centro della discussione per antonomasia, in democrazia. Il governo Draghi ha portato avanti la riforma del penale, del civile e del Csm, improntate al garantismo: in che modo il terzo polo ha intenzione di continuare su questo lavoro e su una certa idea di giustizia, vista ad esempio l’emergenza carceri tuttora in corso? Il merito della riforma Cartabia è stato quello di superare quella Bonafede, un vero e proprio schiaffo in faccia al garantismo e ai principi costituzionali. A mio avviso non è però entrata nel profondo delle questioni che sono dirimenti: lo strapotere delle correnti che condizionano l’operato della magistratura e la responsabilità civile. I magistrati devono andare avanti perché sono bravi, non perché sono iscritti a una corrente. E come chiunque svolga una funzione così delicata e importante, se sbagliano devono pagare. Ci sono sette milioni di italiani che in occasione dei referendum sulla giustizia hanno scelto di andare a votare sì rinunciando a una domenica di sole: dobbiamo ripartire da quei voti, che dimostrano come la necessità di cambiamento non sia solo nelle parole di politici e addetti ai lavori. Da avvocato che esercita la professione credo che quelle voci debbano essere ascoltate con attenzione. Come terzo polo abbiamo un’identità nettamente garantista, senza sbavature: anche sul tema delle carceri il nostro programma sulla giustizia è chiaro, la pena deve tendere alla rieducazione. Non lo dicono Renzi e Calenda, lo dice la Costituzione. Quali punti del programma saranno per voi imprescindibili nel caso in cui doveste arrivare a un risultato tale da rendervi protagonisti per la formazione di un nuovo governo? Dagli interventi sulla produttività, al lavoro, al fisco, alle politiche energetiche, vogliamo riportare l’agenda Draghi al centro dell’azione di governo. Agenda Draghi significa sviluppo e crescita. Significa puntare su uno Stato che investe e non che elargisce mance, che è nettamente ancorato a un posizionamento atlantista ed europeista, che punta sul lavoro e non sui sussidi, sui rigassificatori e non sulla decrescita. Calenda senza mezzi termini dice che l’obiettivo è che non vinca nessuno: cercherete dunque di sabotare la formazione di un nuovo governo, così da mandarla per le lunghe e far sì che sia Mario Draghi a scrivere la prossima legge di bilancio? Sabotare è una parola che non mi piace: noi abbiamo perso un referendum cercando di cambiare questo Paese e far sì che la volontà degli elettori fosse rispettata; sognavamo e sogniamo ancora un’Italia in cui il giorno dopo le elezioni si sa chi ha vinto e chi governerà per 5 anni. Mi auguro quindi che in questa legislatura si riesca finalmente a portare a compimento una riforma che consenta l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Giocando con le attuali regole del gioco, vale a dire quelle di una Repubblica parlamentare, il giorno dopo le elezioni, se Giorgia Meloni non avrà la maggioranza, proveremo a riportare Mario Draghi a Palazzo Chigi, così come abbiamo fatto già una volta mandando a casa Giuseppe Conte. Molti dei collegi contendibili sono raggruppati tra Emilia- Romagna e Toscana, dove voi dovreste avere un buon bacino di voti. Non credete che un vostro buon risultato finirebbe per avvantaggiare la destra proprio in questi collegi? La destra non la avvantaggiamo noi, ma la politica miope di Enrico Letta. Il Pd aveva tre strade: una, quella che personalmente avrei ritenuto inaccettabile ma numericamente sensata, consisteva nel costituire una grande alleanza dai moderati al M5S. La seconda, quella di allearsi in un progetto riformista con Italia viva e Azione. La terza, far correre da solo il Pd seguendo una vocazione maggioritaria. Ha scelto di dire no a Italia viva e sì a Fratoianni, un vero stratega del rancore personale, direi. Poi, il primo giorno di campagna elettorale, ha proposto di alzare le tasse. Credo che Giorgia Meloni dovrebbe davvero ringraziarlo: a fare campagna elettorale per lei ci pensa il segretario del Pd. A proposito di Pd, Conte ha prima aperto a un futuro riavvicinamento ai dem, per poi ripensarci. Voi invece sareste pronti a un governo centrosinistra- terzo polo? Noi siamo pronti a riportare Mario Draghi alla guida del paese. E a questo lavoreremo, cercando di rimediare alla sciagurata scelta di Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi che ha privato l’Italia di un leader solido e credibile. Ci aspetta un autunno durissimo, l’inflazione mette in difficoltà le famiglie, la crisi energetica e il costo delle bollette rischiano di mettere in ginocchio le imprese. Affrontare queste difficoltà con un governo credibile è il primo dei nostri obiettivi. Carlo Nordio: “Vorrei assoluzioni non appellabili e carriere separate” di Domenico Basso Corriere della Sera, 24 agosto 2022 L’ex procuratore di Venezia è in pole per la carica di Guardasigilli. L’ex magistrato garantisce sul posizionamento atlantico di Meloni e avverte: “Sui diritti resto un liberale”. Dottor Nordio innanzitutto quanto ci ha pensato prima di accettare la candidatura? “Non ho avuto molto tempo, perché l’offerta è arrivata pochi giorni fa. Ma vi ho pensato molto intensamente perché per me è una rivoluzione. Non ho mai fatto politica, l’ho solo commentata” La sua candidatura resta per molti una sorpresa visto che in più occasioni aveva detto che non si sarebbe mai candidato in politica perché un magistrato deve tenere le distanze da questo mondo. Cos’è cambiato? “È cambiata la mia prospettiva di magistrato. Mi sembra ieri quando ho lasciato la toga, e quindi queste remore mi son rimaste dentro. Poi ho pensato che son passati quasi sei anni dal mio congedo, e quegli scrupoli non hanno più senso. E dopo avere criticato per 25 anni nei miei libri ed editoriali la nostra giustizia, sottrarsi all’invito di mettervi mano in Parlamento sarebbe un gesto di pigrizia, se non proprio di viltà”. Giorgia Meloni è riuscita dove altri non erano riusciti. Chissà quante volte Berlusconi piuttosto che Salvini glielo avranno chiesto. Meloni questa volta è arrivata prima di altri o si tratta proprio di una sua precisa scelta di campo? “Offerte specifiche di candidature non mi erano mai arrivate, anche perché era noto che non le avrei accettate. Giorgia Meloni conosce le mie idee sulle riforme in senso garantista e liberale, come del resto le conoscono Salvini e Berlusconi, con cui abbiamo fatto in vari anni congressi e incontri. Credo siano condivise da tutti, e questo mi onora. E ora la possibilità di attuarle è concreta”. Secondo i sondaggi dovrebbe essere la leader di Fratelli d’Italia a guidare un futuro governo. Lei che ha sempre speso parole di apprezzamento verso Draghi, pensa che la Meloni possa avere la sua stessa autorevolezza internazionale? “Io continuo a ritenere che Draghi sia stato essenziale per l’Italia soprattutto dal punto di vista finanziario, dopo i disastri del governo Conte 2. Ora i tempi sono maturi per un ricambio, e l’autorevolezza di Giorgia Meloni credo sia indiscussa, come lo è la sua appartenenza all’area dell’atlantismo, della Nato, e dell’europeismo. Questo non significa adesione subalterna alle posizioni altrui. Francia e Germania sono attentissime ai propri interessi nazionali, e così dobbiamo fare noi, lealmente ma senza complessi di inferiorità. E guardi che gli stranieri, a cominciare dagli americani, apprezzano i politici che fanno l’interesse del proprio Paese, anche se non coincide completamente con il loro”. Lei è stato il “front man” negli ultimi referendum sulla giustizia. Tre temi sui quali intervenire subito. Il primo potrebbe essere la revisione del codice firmato da Mussolini? “Beh si. In fondo ho presieduto la Commissione per la riforma del codice penale, che giace ancora nel cassetto. Ecco, riprenderla e magari aggiornarla sarebbe una grande emozione”. Berlusconi ha già lanciato una sua proposta: sentenze di assoluzione inappellabili. La proposta era già stata bocciata dalla Consulta. Lei cosa ne pensa? “La sostengo da sempre, a maggior ragione da quando è stato introdotto il principio che una condanna può intervenire solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Facciamo un esempio: da noi un imputato viene assolto dopo mesi di udienze, dove i giudici hanno ascoltato gli investigatori, i consulenti, i testimoni. Ebbene quello stesso imputato può esser condannato in appello senza nuove prove a suo carico, solo sulla base dei verbali del dibattimento dove è stato assolto. È un sistema demenziale. Con una formulazione adeguata, la riforma passerebbe anche l’esame della Corte Costituzionale”. La separazione tra la carriera di giudice e pubblico ministero dovrà essere uno dei temi di affrontare nella prossima legislatura? “Certamente si anche se una radicale revisione del codice di procedura, con una effettiva separazione delle carriere e l’eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale potrà avvenire solo con una revisione costituzionale”. Mi dice tre cose di cui ha bisogno subito il Paese e per le quali secondo lei è necessario che si impegni il futuro governo a prescindere da quale sia? “La prima cosa di cui ha bisogno il Paese è la fiducia in sé stesso, nelle sue tradizioni e capacità. La seconda è una concordia civile: giustissima ed essenziale la polemica politica, ma senza demonizzare l’avversario. La terza, quale che sia il governo, è avere il cervello per capire, il cuore per risolversi e il braccio per eseguire”. Quando si parla di Meloni viene sempre evocato, specie dagli avversari, lo spettro del fascismo. Lei si sente di fare da garante su eventuali derive estremiste? “Giorgia Meloni non ha bisogno né di autocertificazioni e tantomeno di garanti. La sua posizione sul fascismo è nettissima, e vien evocata in modo alterato da avversari sprovveduti di altri argomenti, con una petulanza che definirei vessatoria. Il fascismo è morto e sepolto, condannato dalla storia e dal Paese, come il comunismo, i due peggiori flagelli del secolo scorso. Quanto me, come Lei, Basso, ha ricordato in un recente articolo, sono visceralmente nemico di ogni forma di dittatura. Un mio libro è stato dedicato alle ragazze del Soe, che hanno organizzato la Resistenza in Francia e sono state uccise dalla Gestapo”. Lei è un liberale quindi forse sui diritti civili e anche eutanasia è più aperto di molti che sono nel partito di Fratelli d’Italia. Sarà facile far convivere divisioni diverse? “Questo è vero. Io sono iscritto all’associazione Luca Coscioni, e credo che la vita sia un diritto disponibile del singolo. Del resto se, come crediamo, è un dono di Dio, il donatario può farne ciò che crede, altrimenti non sarebbe più un dono ma un usufrutto. Ma queste sono questioni di coscienza, sulle quali sarebbe bene lasciare ai parlamentari libertà di voto. Comunque credo che ognuno abbia il diritto di morire in pace e come preferisce”. Ha messo in conto che questa esperienza le toglierà molto del bello della vita che lei ha sempre apprezzato: i viaggi, la scrittura, qualche piacevole cena e anche il vivere lento di una città, Treviso, di cui lei è innamorato? “Si l’ho meso in conto, ma escludo che possa evitarmi le piacevoli cene con gli amici. Certo, se fossi eletto, dovrei limitare le letture, e forse sarebbe un bene: l’Ecclesiaste dice che chi aumenta il sapere aumenta il dolore. Le racconto un aneddoto: un suo collega venne in giorno a intervistarmi a casa e, impressionato dalle numerose biblioteche, mi chiese se avessi letto tutti quei libri. Risposi “Ahimè sì”. E lui: “Perché ahimè?” Perché, replicai, si contraddicono tutti, e se prima avevo alcune idee chiare oggi le ho dannatamente confuse”. Ma la musica resterebbe”. Tutti ex questa volta i magistrati nelle liste di Tiziana Maiolo Il Riformista, 24 agosto 2022 Sarà stata la norma sulle porte girevoli, sarà che conviene di più far politica quando si è ancora in servizio, o acquattarsi in qualche ministero, fatto sta che, per la prima volta, il Csm non ha ricevuto nessuna domanda. Una novità ci sarà davvero, nel Parlamento che nascerà dopo le elezioni del 25 settembre: l’assenza di magistrati in servizio. Sarà stata la norma sulle porte girevoli, sarà che conviene di più far politica con la toga addosso, oppure acquattarsi in qualche ministero, fatto sta che, per la prima volta di sempre, il Csm non ha ricevuto nessuna domanda. Tutte le toghe italiane resteranno al loro posto anche dopo il 25 settembre. Ma un altro fatto nuovo è all’orizzonte, si va in Parlamento dopo la pensione. Lo fanno i sindacalisti e ora anche le toghe, un vero squadrone di ex (e che ex!) che si accinge a dare l’assalto al Palazzo d’Inverno. Ci sono i due prestigiosi pm “antimafia”, Roberto Scarpinato e Federico Cafiero de Raho, i quali hanno già dichiarato di voler continuare la lotta anche senza toga. Chissà se hanno mai sentito lo slogan del maggio francese “ce n’est qu’un debut, continuons le combat”, e si sa come è andata a finire. Ma loro ci proveranno, con il partito di Travaglio, pardon, volevamo dire di Conte. Poi c’è Luigi De Magistris, ex sindaco di Napoli, reduce da una sfortunata candidatura in Calabria, l’unico a essere riuscito, con una truppa di sigle dalle posizioni un po’ radicali, soprattutto sulla guerra, come Rifondazione e Potere al popolo, a raccogliere ben sessantamila firme in dieci giorni. Giustamente ne è orgoglioso, qualora la sua lista superasse il 3% e lui entrasse in Parlamento, la sua dichiarazione in cui si vanta di “un risultato contro il sistema” non promette molto bene. Non proprio un linguaggio da uomo delle istituzioni. Ma la vera novità sarà la presenza di due garantisti e riformatori doc come Simonetta Matone, candidata a Roma con la Lega e di Carlo Nordio, che correrà con Fratelli d’Italia nella sua città veneta, Treviso. La loro presenza potrebbe essere dirompente, prima di tutto per i partiti che hanno offerto loro la candidatura. Simonetta Matone, che ha lasciato la magistratura un anno fa pur non avendo ancora 70 anni, l’età pensionabile delle toghe, è stata già candidata a guidare la città di Roma con Enrico Michetti. Una carica politica, in un mondo che lei conosce bene, fin da quando, alla fine degli anni Ottanta, fu capo segreteria del ministro guardasigilli socialista Giuliano Vassalli. Le cose che ha fatto in seguito sono tante, come pm del tribunale dei minori soprattutto. E al fianco delle donne maltrattate. Ma l’impronta che ha lasciato come giudice di sorveglianza a Roma, quella è indimenticabile. Perché ha vinto una grande scommessa sulla fiducia nei confronti dei detenuti, concedendo 990 permessi di uscita dal carcere e vedendone ritornare ben 981. Un record. A Rebibbia, dove ha incontrato anche esponenti del terrorismo e dell’eversione sociale di destra e di sinistra, ha rotto per la prima volta il muro che separa il carcere dal resto del mondo, con un convegno nazionale dal titolo rivoluzionario, “Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna”. Invitati di rilievo, il presidente del Senato Francesco Cossiga, il ministro di giustizia Mino Martinazzoli, l’ex presidente della Camera Pietro Ingrao. Aderirono tutti, insieme ai tanti magistrati, parlamentari e gente dello spettacolo. Tutto il carcere di Rebibbia fu mobilitato, i detenuti misero in scena l’Antigone di Sofocle, incaricato dell’organizzazione un certo Salvatore Buzzi, detenuto “comune”, che rivelerà in seguito grandi capacità organizzative in altri settori. Era la fine del 1983, alla presidenza del consiglio c’era un certo Bettino Craxi. I detenuti ricordarono la giudice Matone con una targa che dice “A Simonetta, che a molti spezzò la chiave dell’attesa”. Ecco, è proprio la parola “chiave” che potrebbe entrare, insieme all’ingresso di questa toga in Parlamento nel gruppo della Lega, nella cultura di Matteo Salvini, con un senso rovesciato a quello tante volte usato in passato: la chiave che apre, non quella che chiude. Anche se è giusto ricordare che proprio il leader della Lega di aperture ne ha già mostrate diverse, con la proposizione dei cinque referendum sulla giustizia. Ma proprio su questo potrebbe però aprirsi qualche contraddizione interna a un altro partito, Fratelli d’Italia, con l’ingresso di Carlo Nordio. Perché proprio su due referendum che riguardavano la detenzione, quello sulla legge Severino e quello sulla custodia cautelare, il partito di Giorgia Meloni aveva impegnato una campagna contraria. Mentre, anche se può apparire paradossale, l’ex procuratore aggiunto di Venezia, potrebbe avere vita facile, sia come parlamentare che come eventuale ministro, nelle riforme costituzionali che più gli stanno a cuore. Quelle che consentirebbero l’attuazione del sistema accusatorio del codice di procedura penale del 1989, cioè l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e la separazione delle carriere tra il giudice e il rappresentante dell’accusa. Ma nel frattempo ci saranno tutte le “quisquilie” quotidiane da affrontare, come ben sa l’attuale guardasigilli Marta Cartabia, all’interno di partiti che, come del resto la gran parte di quelli di sinistra, devono ancora maturare la cultura della chiave. Quella che apre, non quella che chiude. “Io, candidata sorteggiata al Csm, dico: la parità è un’illusione” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 agosto 2022 Parla Monica Marchionni, magistrato di Sorveglianza a Siracusa candidata con l’estrazione ex lege che mira a garantire la parità di genere. Monica Marchionni è magistrata di Sorveglianza a Siracusa. Bolognese, in magistratura dal 1994, in occasione delle elezioni del Csm, previste per il 18 e 19 settembre prossimi, si presenta nel Collegio 4 come candidata sorteggiata ex lege nella lista dei giudici. A spiegare il percorso che l’ha portata alla candidatura al Consiglio superiore della magistratura è proprio la giudice Marchionni, che sottolinea prima di tutto di non appartenere a nessuna corrente. “Il movimento indipendente “Altra proposta” - dice al Dubbio - ha nei mesi scorsi scelto i propri candidati attraverso un sorteggio. All’inizio del mese di agosto, con l’intervento della riforma Cartabia, è stato notato che le liste dei quattro collegi non contenevano un numero pari di magistrati uomini e donne, senza assicurare la parità di genere, e si è proceduto ad un ulteriore estrazione di nominativi innanzi al comitato elettorale presso la Corte di Cassazione. L’estrazione ex lege mira esclusivamente a garantire la parità di genere”. Su questo sistema di scelta dei candidati - tema di grande attualità per le novità apportate - Marchionni si sofferma in particolar modo e si pone al tempo stesso una domanda: “Il soggetto estratto a sorte in Cassazione, che entra in una competizione elettorale già avviata da mesi, che risulta essere davvero indipendente perché estraneo alle correnti e alle loro logiche, che strumenti ha per svolgere una campagna elettorale tra i suoi colleghi? Ci troviamo di fronte ad una fictio, ad uno specchietto per le allodole. A mio avviso, questo sistema non assicura né la parità di genere né la vera indipendenza. Il sorteggio potrebbe davvero essere un valido strumento per il futuro a condizione che siano tutti gli aspiranti al Csm sorteggiati, superando il sistema delle correnti. Pongo all’attenzione il mio caso. Io sono stata sempre lontana dalla vita associativa. Per me la sfida è ardua in questa competizione elettorale, ma non mi sottraggo e cercherò di portare all’attenzione dei miei colleghi una serie di temi e problemi che affrontiamo ogni giorno nel nostro lavoro”. La mancata adesione a correnti penalizza. “Ma nonostante questo - prosegue Marchionni -, la voglia di andare fino in fondo è tanta, per far sentire la mia voce e far comprendere che sono al servizio della magistratura. Non mi arrendo certo in questa fase della competizione a meno di un mese dal voto. La mia presenza vuole aprire un varco con la speranza di un risveglio che possa portare a voltare pagina nella storia della magistratura. Sono profondamente convinta che l’amministrazione della giustizia e l’amministrazione di chi se ne occupa, ossia dei giudici, sono cose ben diverse che richiedono competenze altrettanto diverse. La prima, l’amministrazione della giustizia, richiede la conoscenza della legge, la seconda, l’amministrazione dei giudici, richiede la conoscenza delle persone che contano. Dopo l’esperienza maturata nella magistratura e, soprattutto, dopo i noti fatti del “Palamaragate”, con la possibilità accordata dalla riforma, seppur minima, del sistema elettorale per il Csm, voglio credere che le cose possano cambiare in meglio. Anche per amministrare i giudici deve poter non servire altro che la conoscenza della legge. Come me, tanti ormai si augurano che siano finiti i tempi delle correnti. Il cammino sembra ancora arduo e votare per una perfetta sconosciuta, come me, che ha l’unico merito di avere sempre lavorato, disinteressandosi delle questioni di palazzo, può sembrare inutile. Ma non è così. Ci deve pur essere un inizio”. Dopo la laurea a Bologna nel 1991, il concorso in magistratura nel maggio 1992. E qui la mente va ad un anno finito sui libri di storia. “Il concorso - ricorda Marchionni - del 20, 21 e 22 maggio 1992 ci ha permesso di dare simbolicamente l’ultimo saluto alla dottoressa Francesca Morvillo. Il mio primo incarico nel 1995 è stato a Siracusa, dove sono rimasta svolgendo tutte le funzioni, eccetto quelle requirenti. Non ho mai pensato di lasciare la Sicilia, terra che amo profondamente con tutte le sue contraddizioni, nonostante i carichi di lavoro siano stati, soprattutto nei primi anni, ben oltre la soglia del concetto di esigibilità, comunque inteso. Sono stata giudice del Tribunale penale. Ho potuto constatare che qui si viola qualunque norma del codice penale. Poi Giudice di Corte di assise nel maxi processo alla mafia di Vittoria con più di cento imputati, celebrato in meno di un anno, con sentenza depositata nel termine di novanta giorni. Come Gip, ho emesso l’ordinanza di custodia cautelare nel procedimento “Mar Rosso” per lo sversamento in mare di mercurio proveniente dalla zona industriale di Melilli Priolo e dove iniziò ad emergere la figura dell’avvocato Piero Amara, risultato poi grande amico del dottor Palamara”. Marchionni conosce bene, per la delicata funzione che svolge, il pianeta carcere. “In Sicilia - commenta - le cose non vanno bene, come del resto in tutta Italia. Nel 2006 con l’indulto si riuscirono a svuotare le carceri. Poi però le cose sono di nuovo cambiate, in peggio. Con il Covid abbiamo cercato di ampliare la possibilità di accedere alle misure alternative, ma ormai anche quei tempi sono passati. Registro di nuovo una situazione preoccupante. Siamo inondati di istanze di 35-ter”. Un’ultima riflessione la giudice Marchionni la rivolge al suo programma elettorale. “Condivido appieno - conclude - sia il sistema del sorteggio temperato che quello della rotazione negli uffici direttivi. L’ordinamento giudiziario, a mio modo di vedere, dovrebbe essere materia di interesse e di studio durante l’intera vita professionale del magistrato, così da garantire a tutti noi una concreta preparazione sul punto e una reale possibilità di accesso consapevole agli uffici direttivi. La necessità di determinare i cosiddetti carichi esigibili è ormai stringente, data l’inadempienza che si protrae da anni, ora più che mai per porre argine alla nozione vaga di “risultato atteso”, affidata alla discrezionalità, non meglio regolamentata, del capo dell’ufficio”. Obiettivi ambiziosi che non spaventano la giudice del Tribunale di Sorveglianza di Siracusa nella sua corsa al Csm. Veneto. Carceri, siglato accordo Regione-Provveditorato di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 agosto 2022 La Regione Veneto impegnerà 200mila euro per assumere figure di educatori professionali da affiancare ai funzionari giuridico pedagogici già presenti in carcere. È quanto prevede, in sintesi, l’accordo di collaborazione “per la realizzazione di attività di assistenza tecnica e di rafforzamento delle capacità gestionali, tecniche e specialistiche finalizzate alla promozione di percorsi di inclusione socio-lavorativa a favore dei detenuti”, firmato a Venezia, nella sede di Palazzo Balbi, dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, e dal Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto, Maria Milano Franco d’Aragona. Saranno quattro i funzionari con competenze giuridico pedagogiche assunti alla Regione, tramite l’ente strumentale ‘Veneto Lavoro’, con un contratto a termine della durata di tre anni. La loro funzione sarà quella di collaborare con le figure professionali già presenti nelle carceri per facilitare l’attuazione di progetti di formazione e inclusione lavorativa dei detenuti. Gli Istituti penitenziari a cui destinare questi operatori di supporto saranno individuati dal Provveditorato. “Quello che abbiamo siglato è un bel progetto, unico nel suo genere, che sappiamo essere il primo a livello nazionale - sottolinea il Governatore, che definisce le nuove risorse “facilitatori a favore dell’inclusione e di quei progetti formativi che sono anche un percorso di dignità all’interno delle carceri”. L’accordo, approvato lo scorso 19 luglio dalla delibera n. 855 della Giunta Regionale, rientra nel percorso di attuazione delle “Linee di indirizzo per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento socio-lavorativo delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, limitativi o privativi della libertà personale”, approvate il 28 aprile 2022 dalla Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, e del Protocollo d’intesa del 28 giugno 2022 tra Ministero della Giustizia, Conferenza Stato-Regioni e Cassa delle Ammende. Durante la presentazione del protocollo è stato sottolineato come questa collaborazione potrebbe anche contribuire a ridurre eventi critici, in particolare nel campo della prevenzione dei suicidi, eventi che negli ultimi mesi hanno assunto proporzioni allarmanti. Veneto. Per i detenuti formazione e inserimento lavorativo di Alda Vanzan Il Gazzettino, 24 agosto 2022 Una dotazione finanziaria da parte della Regione di 200mila euro, l’assunzione per tre anni di quattro funzionari che affiancheranno gli operatori penitenziari. Obiettivo: favorire l’inclusione lavorativa, la formazione, l’istruzione dei detenuti. È quanto prevede il protocollo - il primo del genere in Italia - firmato ieri a Palazzo Balbi dalla Regione del Veneto e dal Provveditorato triveneto dell’amministrazione penitenziaria. “È un tema su cui si misura la civiltà di una comunità - ha sottolineato il governatore Luca Zaia -. Il protocollo fa seguito a due progetti già partiti, uno sulla giustizia riparativa e uno di reinserimento socio-lavorativo. Il Veneto tra l’altro è la prima regione in Italia a utilizzare i fondi della Cassa Ammende”. I contenuti dell’intesa sono stati illustrati dal provveditore Maria Milano Franco d’Aragona: “La Regione, tramite Veneto Lavoro, assumerà 4 funzionari che saranno formati per poi lavorare all’interno delle carceri, si affiancheranno ai nostri educatori per un lavoro comune sulle competenze lavorative dei detenuti”. “Mettiamo a disposizione risorse per assumere delle figure professionali di educatori che possiamo considerare dei facilitatori a favore dell’inclusione e di quei progetti formativi che sono anche un percorso di dignità all’interno delle carceri - ha detto Zaia -. Il ruolo rieducativo rimane fondamentale nel mondo carcerario per completare la pena con il reinserimento di quei cittadini che non hanno rispettato la legge”. Durante la presentazione del protocollo è stato sottolineato come il frutto di questa collaborazione potrà, tra l’altro, concorrere alla diminuzione degli eventi critici, in particolare nella prevenzione del rischio di suicidi: “Per noi sono un grande fallimento - ha detto il provveditore -. Ce ne sono stati 52 in Italia, di cui due in Veneto, a Padova e Verona, entrambi di origini albanesi”. Attualmente in Veneto i detenuti sono 2.392 per la metà extracomunitari. Circa il 50 per cento dei reclusi è in attesa di giudizio. Sono invece circa 2mila, contando anche il personale amministrativo, gli operatori penitenziari. E c’è sempre il problema del sovraffollamento delle carceri. “In Veneto è circa del 30-40%, ma dipende da istituto a istituto. Alcuni infatti hanno capienza diminuita rispetto a quella reale per lavori di ristrutturazione in corso”, ha detto il provveditore. Che punta a ristrutturare le strutture: “Non tutti hanno le docce in camera. Non è un lusso averle, ma un modo per stemperare le tensioni. Nelle parti che stiamo sistemando ho chiesto che venga inserita l’aria condizionata: come garantiamo il caldo d’inverno, dobbiamo garantire il fresco d’estate. Se la detenzione è migliore, calano le tensioni e le aggressioni”. Torino “Rammarico per l’ennesimo suicidio. Servono risorse adeguate per il carcere” comune.torino.it, 24 agosto 2022 Monica Cristina Gallo, Garante della Città di Torino per i diritti delle persone private della libertà, ha visitato questo pomeriggio la casa circondariale Lorusso e Cutugno. Insieme al profondo rammarico per il nuovo caso di suicidio, la Garante ha rinnovato l’invito a tutti i responsabili della gestione della realtà carceraria a una riflessione finalizzata a una radicale modifica delle prassi sinora adottate e ha nuovamente avanzato la richiesta di allocare risorse che allo stato attuale risultano gravemente insufficienti. “La notizia dell’ennesimo suicidio all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno - dichiara la Garante Monica Gallo - ci ha toccato profondamente. E’ passato poco più di un anno da quando Moussa Balde si era tolto la vita nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Corso Brunelleschi e poco meno di un mese dal gesto estremo di un detenuto pakistano nel carcere torinese e siamo nuovamente a registrare amaramente il precipitato disastroso di tutta una serie di criticità che, se non definiscono una dinamica di causa-effetto, certamente costituiscono un contesto incapace di disinnescare un fenomeno che, da potenziale, è ormai diventato una realtà a livello nazionale. Con quello delle ultime ore il macabro conteggio dei suicidi nelle carceri italiane somma cinquantadue morti dall’inizio dell’anno, di cui nove solo nei primi quindici giorni di agosto, e al momento al di là delle consuete dichiarazioni di profilo istituzionale, tocca prendere atto che le iniziative di contrasto sono state assenti o inefficaci. Lo testimonia ancora una volta la morte di un ragazzo di venticinque anni, recluso presso il Lorusso e Cutugno dal 2 agosto, che dopo un primo tentativo di suicidio ne ha posto in essere un secondo, il tutto dopo appena due settimane di detenzione. L’Ufficio della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino segnala ormai da tempo un trend relativo ad arresti e presenze nella Casa Circondariale torinese (1345 le presenze, ben 310 in più della prevista capienza regolamentare) caratterizzato da una giovane e talvolta giovanissima età delle persone recluse. Una parte di questa popolazione carceraria ha davanti a sé una pena inferiore ai due anni e non vi è chi non veda che l’applicazione di misure alternative esterne alla struttura potrebbe contribuire ad attenuare quella ormai cronica dimensione di sovraffollamento che è la cifra che caratterizza l’esperienza detentiva italiana. Una dimensione che si somma a condizioni di stress psico-fisico che coinvolgono tutti coloro che a diverso titolo e ruolo sono presenti in quella particolare area del territorio che è il carcere. In ordine a questo profilo, giova ricordare come le persone soggette a osservazione psichiatrica, in mancanza di un’area adeguatamente predisposta e presidiata, siano attualmente distribuite nei diversi padiglioni della struttura di via Aglietta, prive di un’assistenza psichiatrica che copra continuativamente le ventiquattro ore. Un ultimo rilievo, fra i molteplici che possono essere evocati, riguarda la presenza di mamme con bambini la cui entità numerica è sì contenuta, sono quattro con altrettanti bambini, ma la cui gravità rimane altissima, sia nei termini della qualità dell’intervento pubblico sia in quelli di impatto sugli incolpevoli minori coinvolti. Anche in questo caso non possiamo che registrare con perplessità la mancata approvazione della proposta di legge avanzata in Parlamento che ha visto interrompere il suo iter a causa del recente scioglimento delle Camere. La politica ha certamente le sue tempistiche, ma anche lo sviluppo cognitivo dei bambini, di quei bambini in particolare, dovrebbe essere tenuto in debito conto da chi è chiamato a perseguire e realizzare l’articolo 3 del mandato costituzionale: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli […], che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]. La Garante dei diritti delle persone private della libertà personale esprime in conclusione il profondo rammarico per la notizia del suicidio e al tempo stesso invita tutti i responsabili della gestione della realtà carceraria a una riflessione che abbia come obiettivo una radicale modifica delle prassi sinora poste in essere, una modifica che passi anche attraverso forme condivise di denuncia che smarcandosi dalla postura formalmente istituzionali puntino a un’effettiva applicazione del disposto normativo, rivendicando con forza l’allocazione di risorse che allo stato attuale sono gravemente insufficienti. È inutile piangere sul latte versato, specie - conclude la Garante - se la gestione del latte è in capo alle istituzioni e il pianto dura poco più di ventiquattro ore”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Delegazione della Cgil in carcere: “Serve un direttore stabile” casertanews.it, 24 agosto 2022 Carenze di organico e criticità organizzative e gestionali: sono alcuni dei punti problematici emersi durante la visita effettuata al carcere di Santa Maria Capua Vetere da una delegazione sindacale della Fp-Cgil; è stata inoltre sollevata anche la questione della sospensione amministrativa dal lavoro, ritenuta ingiusta, degli agenti coinvolti nei pestaggi dei detenuti dell’aprile 2020. In una nota, i sindacalisti Carmela Ciamillo (Responsabile Fp-Cgil Funzioni Centrali Caserta), Orlando Scocca (Fp-Cgil Campania Polizia Penitenziaria), Sergio Zacchia e Aniello de Luca (Fp-Cgil Polizia Penitenziaria), sottolineano che “la struttura carceraria da tempo vive una condizione di disagio, dettata da molteplici situazioni di precarietà che si riverberano nella quotidianità del personale di Polizia Penitenziaria. Chiediamo l’assegnazione definitiva del Direttore, perché al momento Donatella Rotundo non è il dirigente assegnato definitivamente. Inoltre è necessario colmare le lacune agli organici della Polizia Penitenziaria senza procedere ad assegnazioni provvisorie che, sicuramente, non giovano all’assetto organizzativo dell’Istituto”. Mirko Manna, della Fp Cgil nazionale, afferma che interesserà nuovamente della situazione di Santa Maria Capua Vetere “l’Amministrazione Penitenziaria e le Istituzioni affinché intervengano con provvedimenti definitivi e non ad personam, che minano il principio di trasparenza della pubblica amministrazione. Inoltre - aggiunge Manna - come organizzazione sindacale lamentiamo la sospensione di 102 poliziotti imputati per le presunte violenze avvenute ai danni dei detenuti nell’aprile 2020; al Capo del Dap chiediamo di essere garante per questi lavoratori e per le loro famiglie. In Italia vige la presunzione di innocenza, come garanzia costituzionale, fino al terzo grado, e se per vale per i cittadini deve valere anche per i poliziotti penitenziari”. Catanzaro. Un “dolce” lavoro per i detenuti di Mariachiara Monaco calabria.live, 24 agosto 2022 Un “dolce pensiero” è la giusta definizione per annunciare lo splendido lavoro, che stanno svolgendo i detenuti della Casa circondariale di Catanzaro, in collaborazione con la parrocchia San Pio X, gestita da Don Franco. Si tratta di un vero e proprio laboratorio di pasticceria, voluto fortemente dalla direttrice Angela Paravati: “Il laboratorio è nato dall’ascolto, dall’attenzione alle capacità non svelate: la passione di un detenuto per la creazione dei dolci e la sua abilità nel realizzare torte, biscotti, pasticcini, caratterizzati da una grande creatività, oltre che dall’ottimo gusto, hanno coinvolto sempre di più tutta la comunità, ed ho cercato di creare un ambiente di lavoro adatto per sviluppare questa iniziativa”, spiega. E, visto la recente pandemia e la crisi economica da essa scaturita, i detenuti hanno scelto di donare in più occasioni i dolci da loro confezionati, alla Caritas, che assiste anche i profughi ucraini. Il parroco, portavoce della comunità, ha accolto il dono a nome di tutte le persone che ricevono quotidianamente assistenza e sostegno, nello spirito cattolico riassunto nella frase di Gesù: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me “. La detenzione quindi, come seconda possibilità, una vera e propria finestra sulla vita che si consuma al di là della cella, senza alcun pregiudizio. Si può studiare, lavorare, consapevoli degli errori commessi in passato. Non bisogna dimenticare che tutto ciò viene sancito anche nell’articolo 27 della Costituzione italiana, all’interno del quale viene evidenziato il principio del ‘finalismo rieducativo della pena’, inteso come creazione dei presupposti necessari a favorire il reinserimento del condannato nella comunità, eliminando o riducendo il pericolo che, una volta in libertà, possa commettere nuovi reati. “In questo laboratorio si sono svolti anche corsi di formazione per altri detenuti, con il rilascio di attestati professionali, e - ciò che conta di più - qui si impiegano quotidianamente le energie per creare qualcosa di “buono” per gli altri”, conclude la direttrice. L’obiettivo è creare lavoro: “La produzione dei dolci si intensificherà sempre di più e diventerà un’opportunità di reinserimento in collaborazione con l’associazione Amici con il cuore e la Cooperativa Promidea. I percorsi di rieducazione in carcere hanno alla base sempre il principio dell’attenzione al prossimo, che, sia pur in un’ottica laica, coincide con quello che è stato il messaggio di Cristo”, dichiara Don Franco. Reinventarsi pasticceri, fornai, operatori ecologici, sarti, apprendere un mestiere e, magari, trovare anche un impiego stabile, tutte queste cose non rappresentano più una mera illusione anche grazie ai finanziamenti destinati a queste iniziative dalla Fondazione “Progetto Sud”. In tutto infatti, sono otto le idee finanziate nell’ intero sud Italia, da Napoli a Siracusa, ed ovviamente Catanzaro. Si tratta di un investimento da 2,34 milioni di euro, tradotti in stage, corsi con chef stellati; sono 115 invece gli inserimenti lavorativi attesi entro il termine delle iniziative, di cui 47 con contratto a tempo indeterminato. Belluno. “Il senso della pena nel Terzo Millennio”, convegno sulla situazione carceraria bellunopress.it, 24 agosto 2022 Si è tenuta nel pomeriggio di ieri all’Hurban Hub Dolomiti di via Caffi, 11/B a Belluno la conferenza dal titolo “Il senso della pena nel Terzo Millennio” con moderatrice l’avvocato Sonia Sommacal, membro della Camera penale di Belluno e vicepresidente Adu, Associazione diritti umani. Molti gli interventi, alcuni fuori programma, con testimonianze dalle carceri italiane. In apertura è intervenuto il sindaco di Belluno Oscar De Pellegrin seguito dal professor Daniele Trabucco. Sono intervenuti l’onorevole Rita Bernardini, presidente dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” promotrice dell’iniziativa insieme alla Camera penale di Belluno, Erminio Mazzucco presidente provinciale dell’Ordine degli avvocati e membro della Camera penale di Belluno, Sergio D’Elia, segretario dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, Roberto De Nart giornalista fondatore di Bellunopress, Federico Vianelli presidente delle Camera penale di Treviso e delle Camere penali del Veneto, Francesco Santin presidente della cooperativa sociale Bihyster, Enrico Marignani presidente giuristi cattolici italiani di Treviso, Filiberto Dal Molin medico fondatore della struttura sanitaria Salus, Elisabetta Zamparutti tesoriera dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”. La conferenza, seguita alla visita al carcere di Belluno da parte degli organizzatori cade a ridosso della polemica di ferragosto, che ha coinvolto il capo del Dap Dipartimento amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi che come consuetudine aveva disposto la visita di ferragosto alle carceri di Rebibbia. All’iniziativa istituzionale aveva risposto Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe che aveva commentato dicendo: “Vorrei capire perché Renoldi, anziché a Rebibbia femminile, il 15 agosto non va a Poggioreale, affollato da oltre duemila detenuti…” Ma qual è la situazione delle carceri italiane oggi? Il Rapporto “Space” 2021 del Consiglio d’Europa che va dal gennaio 2020 al gennaio 2021 sulla popolazione carceraria e le condizioni di detenzione in Europa, redatto sulla base dei dati di 49 amministrazioni penitenziarie degli Stati membri, evidenzia innanzitutto una forte riduzione della popolazione carceraria nel 2020 per effetto della pandemia di Covid-19. Con significative le differenze tra i vari Paesi dell’Unione europea, riguardo alla densità della popolazione carceraria, al tasso di suicidi nelle carceri, alla lunghezza della detenzione. Sono 3 i fattori che hanno fatto diminuire la popolazione carceraria. 1) Le restrizioni alla circolazione delle persone con la conseguente diminuzione di alcuni tipi di reati. 2) I sistemi giudiziari hanno rallentato, meno sentenze, meno condanne definitive. 3) Gli istituti penitenziari in alcuni tra i Paesi oggetto di osservazione hanno attuato programmi di rilascio dei detenuti per limitare la propagazione del virus. A fine gennaio 2021 la popolazione carceraria nelle 49 amministrazioni penitenziarie (su 52) che hanno fornito informazioni era pari ad 1.414.172 persone pari ad una media di 102 detenuti ogni cento mila abitanti. I tassi più alti di detenzione sono stati osservati in Russia (328 detenuti ogni 100,000 abitanti), Turchia (325), Georgia (232), Azerbaigian (216), Slovacchia (192), Lituania (190) e Repubblica ceca (180). I più bassi numeri invece si hanno in Islanda (41), Finlandia (43), Bosnia-Erzegovina (50), Paesi Bassi (54) e Slovenia (54). L’Italia, insieme alla Francia, all’Austria, al Belgio, al Lussemburgo e alla Croazia si colloca tra i paesi con un tasso inferiore alla media europea (tra i 5 e il 25% in meno rispetto al dato medio di 102 persone ogni 100 mila abitanti). Il rapporto “Space” fornisce le statistiche per tasso di detenuti donne, di stranieri, di ultracinquantenni, di detenuti in attesa di sentenza definitiva. La media di detenzioni femminili è del 4,7 %, la percentuale di stranieri è del 15,3%, quella dei detenuti over 50 è del 16,1%. La detenzione cautelare rappresenta il 21,7% del totale, mentre il tasso di densità della popolazione carceraria ogni 100 persone è l’85,4 %. L’Italia, pur collocandosi tra i Paesi a più basso tasso di detenzione, sia maschile che femminile (nel 2021 erano complessivamente 53.329 persone, con una media di 90 ogni 100 mila abitanti), sale poi nella graduatoria tra gli Stati con il più alto tasso di detenuti stranieri (superiore al 32,4% rispetto alla media), detenuti over 50 e detenuti in attesa di sentenza definitiva (31,6%) Sovraffollamento. Il peggiore tasso di densità (oltre il 25% della media europea) della popolazione nelle carceri è stato riscontrato in Romania (119.3) in Grecia (111,4 per 100 posti), in Turchia (108,3), a San Marino (112,5), a Cipro (110.5), in Belgio (108,4). Secondo quanto riportato dal quotidiano Repubblica, al 19 giugno 2022 vi sono quasi 55mila detenuti, quattromila in più della capienza”. Nella relazione annuale del Garante al Parlamento si evidenzia inoltre che vi sono oltre mille persone in cella con condanne a meno di un anno. Di cui più di duemila donne, venti delle quali con al seguito i figli. E 1.800 gli ergastolani. I detenuti oggi in carcere sono 54.846, numero cui corrispondono 53.793 persone effettivamente presenti nelle prigioni italiane. Rispetto a una capienza effettiva di 50.883 detenuti. Dei 54.846 detenuti, 52.549 sono uomini e 2.297 donne. Sempre sulla questione del sovraffollamento, secondo il rapporto Space 2021, l’Italia e la Francia sono tra i 10 paesi nel mirino. L’Italia risulta ospitare 105.5 detenuti ogni 100 posti disponibili e la Francia con 103,5 detenuti ogni 100 posti disponibili, anche se non superano il 25% della media europea. Attenzione però, perché alcuni Stati non fanno riferimento al numero di detenuti che la struttura è stata progettata per ospitare, ma al numero maggiore di detenuti che gli istituti di pena possono accogliere senza che se ne compromettano le funzionalità. Il report rileva anche che il 22% dei detenuti negli istituti penitenziari europei non sta scontando una condanna definitiva, dato peraltro sottostimato, in quanto alcuni Stati considerano condannati in via definitiva anche i detenuti che abbiano riportato una sola condanna in primo grado. In Italia, risultano sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere il 31.5% dei detenuti. Elevato il numero dei suicidi. L’Italia è decima in Europa per tasso di suicidi nelle carceri con 11,4 ogni 10 mila persone (dati 2020). Siamo sopra il 25% del tasso medio. Peggio di noi la Francia (27,9), seguita da Lettonia (19,7), Portogallo (18,4), Lussemburgo (18), Belgio (15,4), Spagna (14), Lituania (13,2), Estonia (12,8) e Olanda (12,7). A togliersi la vita sono detenuti che aspettano sentenza definitiva. Nel 2020 nel nostro paese si sono uccisi in carcere, 61 detenuti, 32 non ancora condannati in via definitiva. Sembra contraddittorio, ma il numero più basso di suicidi si è riscontrato in Paesi con alto tasso di detenuti e una elevata densità della popolazione carceraria come Romania (4,1), Polonia (4), Slovacchia (3,8), Turchia (2,1), Bulgaria (1,4), Azerbajan (1,8), Ungheria (2,9), Cipro (0). Bologna. Le Cucine Popolari entrano alla Dozza. “I nostri pasti per i detenuti” Corriere di Bologna, 24 agosto 2022 La solidarietà scavalca le mura della Dozza ed entra in carcere con un carico di cibo. È la nuova iniziativa delle Cucine Popolari di Roberto Morgantini che oggi porterà nell’istituto penitenziario di via del Gomito pietanze da ogni parte del mondo per restituire almeno per un giorno ai detenuti i sapori della loro terra. L’iniziativa, organizzata su invito della direttrice del carcere Rosa Alba Casella, mira a “fare sentire i detenuti, soprattutto quelli di altre nazionalità, un po’ meno distanti dalle proprie origini”. I “nostri volontari - spiegano dalle Cucine Popolari - metteranno a disposizione tutta la loro conoscenza culinaria per soddisfare, con una proposta variegata di pietanze, tutta l’interculturalità presente in un sistema eterogeneo come lo sono le carceri”. L’obiettivo dell’iniziativa è manifestare, “anche con sporadici episodi, la nostra solidarietà anche ai detenuti, ricordando, a loro e alla società civile, di continuare a far parte sempre e comunque del genere umano. Alla Dozza porteremo, se non il sapore della libertà, almeno il gusto della solidarietà. Di questo ne siamo già orgogliosi”. Gorgona (Li). I detenuti in scena con lo spettacolo “Metamorfosi” Ristretti Orizzonti, 24 agosto 2022 Sabato 10, domenica 11 e lunedì 12 settembre, dopo il debutto dello scorso giugno, il carcere della Gorgona torna ad aprire le porte al pubblico per “Metamorfosi”, spettacolo che vede protagonisti i detenuti-attori della casa circondariale. Metamorfosi” è il secondo episodio della trilogia “Il teatro del mare” ideata da Gianfranco Pedullà e realizzata artisticamente in collaborazione con Francesco Giorgi e Chiara Migliorini. Chi volesse assistere allo spettacolo dovrà inviare richiesta di prenotazione entro le 10 di lunedì 5 settembre all’indirizzo pubblico@tparte.it, indicando nome, cognome, luogo e data di nascita e allegando copia della carta d’identità. La partenza è prevista alle 8 di mattina dal porto di Livorno con il traghetto Superba, con spettacolo alle 11 e a seguire pranzo a buffet. Nel pomeriggio sarà possibile incontrare gli artisti coinvolti nel progetto o visitare in parte l’isola. Si ricorda che durante il viaggio verranno ritirati i cellulari e i documenti che saranno consegnati alle autorità per tutta la permanenza sullisola. Non sarà possibile portare con se? macchine fotografiche o telecamere. Per info: Compagnia Teatro Popolare d’Arte - Tel. 055.87.20.058 - pubblico@tparte.it. Democrazia e decisioni, un sistema che si è bloccato di Walter Veltroni Corriere della Sera, 24 agosto 2022 I cittadini siano messi nelle condizioni di scegliere col voto tra alternative chiare e quella vincente possa generare un governo capace di attuare le promesse fatte agli elettori. “Ai cittadini non interessa nulla della legge elettorale, i veri problemi sono altri!”. Quante volte abbiamo sentito ripetere, recentemente, specie da uomini politici, questa frase? È vero, certo, che in una famiglia i pensieri più assillanti sono per il reddito, il lavoro, il destino dei figli. Eppure c’è un legame indissolubile tra la efficienza di un sistema politico e i problemi concreti, quotidiani, di famiglie, lavoratori e imprese. Se la macchina delle decisioni non funziona, se è imprigionata in un gorgo irrazionale, come quella italiana, ne discende che la comunità avverta che nessuno dei suoi problemi potrà essere, per tempo, affrontato e risolto. E così la democrazia diventa un puro costo, i politici una casta. I cittadini avvertono quando la gelatina imbriglia le istituzioni e le costringe nella spirale dell’ingovernabilità. Davvero si può pensare che qualcuno abbia ritenuto razionale far cadere il governo Draghi con una guerra in atto, una escalation del costo energetico e di materie prime, una pandemia in agguato permanente, una crisi finanziaria e sociale devastante? E che si precipiti verso elezioni in settembre, prima volta, con una campagna elettorale iniziata in modo inquietante: con le risse sulle liste e, ancor peggio, con lo stupro di una donna usato per fini elettorali. Non è quindi proprio questa, davvero, la prova di una distanza siderale, oggi, tra governanti e governati? La democrazia che non decide genera domande di tutela. È sempre stato così, nella storia contemporanea. La democrazia è una macchina che ha bisogno del funzionamento di ogni ingranaggio. A cominciare dal modo in cui i cittadini, nel momento più alto dell’esercizio dei loro diritti politici, il voto, siano o no messi nelle condizioni di scegliere tra alternative chiare, con la sicurezza che quella vincente genererà un governo capace, in cinque anni, di attuare, in stabilità, le promesse fatte agli elettori. Le promesse su cui il patto, qualcuno lo chiamò persino il contratto, tra cittadini e politica si stipula. Invece, da più di dieci anni, la democrazia è una porta girevole sempre attiva. Abbiamo visto davvero di tutto: governi con formule alternative guidati dalla stessa persona, alleanze tra soggetti che avevano giurato agli elettori che mai avrebbero governato insieme, partecipazioni continuative a coalizioni senza aver mai vinto le elezioni. Così i governi si sono succeduti con la stessa vorticosa frequenza di quelli della prima repubblica, mostrando la fragilità di un sistema che non trova pace perché è dominato da una legge elettorale definita demenziale dagli stessi che l’hanno votata in Parlamento. Se si aggiunge poi che si è deciso un taglio dei parlamentari senza avere un briciolo di visione d’insieme e che le promesse di riforma della legge elettorale e dei regolamenti delle Camere formulate in quel momento - quelle che valsero la nascita di un governo giallorosso dopo quello gialloverde - sono state bellamente disattese, si capisce bene come la maionese istituzionale stia impazzendo e come si diffonda la tentazione perniciosa all’astensione. La disaffezione dei cittadini gli spagnoli lo chiamano desencanto, nasce oggi proprio dal fatto che in questi anni si è appannata la bellezza della alternatività delle politiche, dei valori, dei programmi. E che la fantasia policromica dei vertici dei partiti è andata sostituendo il puro gioco di palazzo, rosario di formule e scissioni, alla passione civile di chi continua a pensare che tra gli schieramenti debba esserci una visibile, nitida, appassionante differenza. Quella che esiste - dai diritti sociali a quelli civili, dall’ambiente all’immigrazione - e che meriterebbe di poter preludere, con il voto dei cittadini, a ruoli definiti, governo e opposizione, per cinque anni. Ma questo comporta la legittimazione reciproca, l’accettare - tanto più se si è governato insieme - che tutti abbiano pari diritto a guidare questo paese. La democrazia è accordo bipartisan sulle regole e divisione netta quando si governa. In Italia succede il contrario. Credo sarebbe importante che le forze politiche decidessero di mettere finalmente ordine nel sistema elettorale, motore principale dell’ingranaggio, scegliendo una volta per tutte quale strada imboccare: o maggioritario o proporzionale. Tertium non datur. Quello che non è più sopportabile è l’inganno consumato nei confronti degli elettori, convinti, quando votano, di scegliere una coalizione che governerà. Da dieci anni, infatti, succede esattamente il contrario. Se tutti vogliono il proporzionale lo si faccia, con garanzie contro la frammentazione, e ciascun partito recuperi, se la ha, quella identità e autonomia progettuale che ormai è annacquata da differenze profonde, nelle sedicenti coalizioni, su questioni delicate, a cominciare dalle alleanze internazionali dell’Italia, oggi minacciate dalle pesanti interferenze alla Medvedev. L’alternativa, per la quale fu sprecata per pochi voti una occasione referendaria preziosa nel 1999, è un assetto bipolare forte, dato da un vero maggioritario, che riporti nell’alveo dei partiti le differenze che oggi si manifestano in forma di atomizzazione del sistema politico. Ma è cosa di ieri. Oggi non conta. Oggi basterebbe fare una campagna elettorale civile, fondata sui programmi e sulle profonde differenze di valori e programmi che esistono, o dovrebbero esistere, tra gli schieramenti. Se i partiti le mostreranno, invece di perdersi in attacchi personali reciproci o in promesse grottesche, allora riaccenderanno un po’ di passione civile. Come ha detto su questo giornale il saggio Edgar Morin, rivolgendosi alla sinistra: “Non si può fare politica indicando come obiettivo solo quello di respingere i partiti di destra. Bisogna proporre una concreta trasformazione progressista della società”. Sarebbe importante se le forze politiche si impegnassero oggi a discutere, insieme, dei grandi temi istituzionali. Servirà una democrazia che funzioni, con i guai che abbiamo alle porte. Altrimenti la politica finirà con l’essere una partita a stadi vuoti, giocata dai professionisti ma senza la partecipazione degli altri. Il rischio autoritario, quello vero, nasce lì. Diceva Calamandrei: “La democrazia per funzionare deve avere un governo stabile: questo è il problema fondamentale della democrazia. Se un regime democratico non riesce a darsi un Governo che governi, esso è condannato”. Gli scartati della politica di Massimo Ammaniti La Repubblica, 24 agosto 2022 Nei programmi dei partiti in vista delle elezioni poca attenzione per sanità, disabili e adolescenti in difficoltà. È una notizia di questi giorni riportata sul giornale americano Miami Herald: la commissione di Miami ha approvato un piano pilota per trasferire forzosamente i senzatetto della città nell’isola Virginia Key dove costruire per loro 50-100 abitazioni. Nonostante siano passati secoli e secoli e nonostante la nostra coscienza civile sia molto cambiata da allora, siamo ritornati agli anni bui del Medio Evo quando i malati mentali e gli emarginati erano costretti a vivere sulle barche che solcavano le acque dei fiumi per allontanarli dal consesso umano delle città. Hieronymus Bosch ne fornì una potente raffigurazione nel quadro La nave dei folli. Riproporlo oggi potrebbe sembrare, questa sì, un’idea folle che ripugna a chiunque abbia una sensibilità umana. Eppure lo stesso Donald Trump, che in cuor suo si prepara a divenire il candidato repubblicano alla Presidenza degli Stati Uniti, si è scagliato contro i senzatetto che bivaccano e sporcano le città in un discorso tenuto a fine luglio a Washington. Nel suo linguaggio sprezzante le città vanno ripulite dai senzatetto accusati di creare disordini e violenze nei quartieri cittadini per cui vanno trasferiti con misure di ordine pubblico in appositi campi di segregazione realizzati con tende. Non è la prima volta che Trump costruisce campi di segregazione, durante la sua presidenza ne aveva realizzati per i migranti che venivano dal Messico, addirittura strappando i bambini ai genitori che poi venivano rinchiusi in questi campi nonostante i loro pianti e le loro sofferenze. Adesso è la volta dei malati mentali, dei tossicodipendenti e dei poveri emarginati, anche loro verranno rinchiusi in questi campi per non turbare la tranquillità dei cittadini che hanno paura che la loro presenza nelle strade possa far crollare il valore delle loro case. Anche in questo caso si ritorna ad un passato lontano del Milleseicento e del Millesettecento quando vagabondi, ladri e persone affette da disturbi psichici venivano concentrati in grandi asili in uno stato di abbandono e di contenzione. È un programma di pulizia sociale che non prevede nessun recupero dal momento che questi concentramenti diventano istituzioni totali che con le proprie regole quasi carcerarie annullano l’identità personale di quanti vi sono reclusi. Ci si può chiedere perché i senzatetto negli Stati Uniti sono così numerosi, come ha messo in luce un’indagine effettuata a Los Angeles che ne ha rilevati circa 120 mila che vivono nelle strade in uno stato di abbandono, dormendo sui marciapiedi, rovistando i cassonetti alla ricerca di cibo, esposti a pericoli continui. È il sintomo drammatico di un sistema di protezione sociale quasi inesistente, di un’organizzazione sanitaria che privilegia solo quanti sono coperti da assicurazioni, di continue espulsioni dal mondo del lavoro e di mancanza di un’edilizia popolare. Per non parlare poi di quello che è successo negli Stati Uniti in campo psichiatrico l’apertura dei manicomi al pari di quello che è successo in Italia con la legge Basaglia, ma con una differenza fondamentale che i malati sono stati espulsi e abbandonati a loro stessi perché l’impegno economico dell’assistenza era troppo oneroso. Tutti questi motivi hanno contribuito ad ingrossare l’esercito dei senzatetto, che sono divenuti invisibili nonostante popolino i marciapiedi o le scale delle metropolitane delle città. Adesso si riparla di loro non per aiutarli, curarli e sostenerli con misure di supporto e di assistenza, ma solo perché disturbano con la loro presenza per cui devono essere cancellati dal panorama quotidiano delle città. Il discorso recente di Trump disegna il futuro di una società che espelle e rinchiude quanti non sono in grado di provvedere a se stessi in modo soddisfacente e sono incapaci di adeguarsi al sistema produttivo, che richiede efficienza e flessibilità per adattarsi a nuove e più complesse mansioni. Per fortuna in Italia dopo gli anni ‘70 del secolo scorso è maturata una consapevolezza sociale dei diritti di quanti si trovano in difficoltà nella società per problemi psichici, per disabilità, per svantaggi economici o per l’età avanzata, condizioni che ne compromettono l’autonomia personale. Si sono realizzati negli ultimi decenni obiettivi significativi come la chiusura dei manicomi e la creazione dei servizi territoriali, l’apertura delle scuole ai bambini disabili, anche se negli ultimi anni si è verificato un generale arretramento sacrificando i servizi territoriali di prevenzione ed intervento precoce in quanto l’assistenza medica è incentrata negli ospedali, come malauguratamente si è verificato in Lombardia durante la pandemia. Di questi temi non si parla nella campagna elettorale, i partiti si accusano vicendevolmente per i provvedimenti adottati durante la pandemia, ma che progetti hanno per la sanità? Come affrontare l’assistenza ai disabili? Come sostenere le famiglie e come aiutare gli adolescenti in difficoltà quando compaiono i primi segni di sofferenza? Non è sufficiente proporre in campagna elettorale, come è stato fatto, l’aumento della natalità se poi i bambini e gli adolescenti non hanno un adeguato sistema di protezione e di sostegno sanitario e scolastico. Campagna elettorale sui social. Ma il sentiment degli utenti oscilla tra rabbia e tristezza di Gabriele Bartoloni La Repubblica, 24 agosto 2022 Nell’analisi di Izi su 250 mila tweet e un milione di interazioni su Facebook prevalgono reazioni negative ai temi proposti in questa fase dai partiti. Nei primi giorni della campagna elettorale a tenere banco nel dibattito sui social network sono stati i temi identitari delle forze politiche che si sfideranno alle urne il prossimo 25 settembre: lavoro, diritti, tassazione, politica estera e immigrazione. Più nello specifico: reddito di cittadinanza, flat tax, pensioni e persino il ponte sullo Stretto. Tutti argomenti affrontati dalle pagine social dei partiti e recepiti dagli utenti con un sentiment prevalentemente negativo. Sono i risultati che emergono da un’analisi condotta da Izi Spa tra il 10 e il 22 agosto. L’agenzia demoscopica ha analizzato l’andamento del dibattito online attraverso l’analisi di due tra i principali terreni di scontro all’interno di cui si articola il dibattito via social: Twitter e Facebook. Su un totale di 250 mila tweet e più di un milione interazioni Fb analizzate, il tema portante risulta essere quello riguardante la macrocategoria “lavoro e diritti”. Al suo interno troviamo molte delle misure-bandiera portate avanti dalle forze politiche: dal salario minimo alla creazione di 800 mila posti di lavoro attraverso la sburocratizzazione. Una misura, quest’ultima, proposta da Silvio Berlusconi e rilanciata a poche ore dalla presentazione del programma del Partito democratico incentrato su tre temi-chiave: scuola, lavoro e ambiente. Una sovrapposizione non casuale. Non solo: il tema dell’aumento degli stipendi per gli insegnanti (proposta dei dem) si è intrecciato con la polemica sull’introduzione del “docente esperto” (contenuta all’interno del decreto Aiuti bis), “attirando - si legge nell’analisi di Izi - critiche ed insulti in molti casi anche relativi ad altri temi” Non è un caso che nessuna delle tematiche prese in analisi abbia generato un sentiment positivo. Anzi, dall’analisi emerge che nel 90 per cento dei casi gli utenti Facebook e Twitter hanno risposto con un feedback prevalentemente negativo. Il sentimento a prevalere è la rabbia (82 per cento), a seguire la tristezza (5 per cento) e la paura (3 per cento). La gioia si riscontra solo nell’8 per cento dei casi. Il macrotema andato per la maggiore, “lavoro e diritti”, ad esempio, ha generato un’attenzione negativa nel 89 per cento dei casi. Stessa cosa per il secondo tema portante della campagna social: le tasse. Qui le divisioni tra i partiti - molto distanti sul fisco - hanno creato un spirale di reazioni a partire dal ritrovato attivismo del Cavaliere. La polemica sul presidenzialismo provocata dalle parole di Berlusconi contro Mattarella e gli slogan anti-burocrazia del Cav, hanno aiutato a spingere gli altri temi cari al centrodestra, flat tax in primis. Il macrotema “tassazione e incentivi”, infatti, risulta sul podio degli argomenti più affrontati sui social. L’attenzione sul tema è cresciuta soprattutto tra il 16 e il 19 agosto, giorno in cui Matteo Salvini ha rilanciato la sua idea di flat tax (aliquota al 15 per cento da finanziare con la revisione del reddito di cittadinanza), di gran lunga più incisiva rispetto alle proposte presentate degli alleati. Anche il capitolo immigrazione ha generato un elevato numero di interazioni via social. Del resto, si tratta di un tema su cui le forze politiche sovraniste hanno sempre cercato (spesso con buoni risultati) di racimolare consensi. Lega e Fratelli d’Italia, oltre a rilanciare i soliti anti immigrazione, di recente hanno proposto il ripristino dei decreti sicurezza voluti da Salvini dell’epoca dal governo Conte I. Visto il contesto internazionale, anche la politica estera è riuscita a ritagliarsi uno spazio rilevante all’interno del dibattito sul social. Due i fattori che l’hanno portata ad affermarsi: il primo riguarda il botta e risposta a colpi di inglese, spagnolo e francese tra Enrico Letta e Giorgia Meloni; il secondo, invece, coincide con la proposta di revisione del Pnrr avanzata dalla leader di FdI. Al contrario, i temi che riguardano la giustizia, la sanità e la sostenibilità sono stati poco o nulla trattati. Il tutto nonostante la centralità della questione climatica o i tentativi di renderla tale da parte del fronte progressista. La balla dei falsi profughi: ecco i dati di Gianfranco Schiavone Il Riformista, 24 agosto 2022 Secondo la leader di FdI, solo l’8% dei migranti irregolari ha ottenuto protezione o asilo. Ma i dati 2021 della Commissione nazionale la sbugiardano: tra approvazioni dirette e ricorsi è stata riconosciuta a 6 su 10. Con la consueta aggressività che la contraddistingue la signora Meloni si lasciava andare, in una intervista rilasciata a Fanpage, alle seguenti affermazioni: “Anche con una interpretazione molto generosa delle norme sui rifugiati che è stata applicata dall’Italia in questi anni solamente l’8% di chi è sbarcato illegalmente ha ottenuto il diritto ad asilo o protezione. Volgari falsità, sbugiardate dai dati reali, quelli della Commissione nazionale sul diritto d’asilo. Che nel 2021 mette a verbale come la protezione sia stata riconosciuta al 28% dei richiedenti, ai quali va aggiunto un ulteriore 14% di riconoscimenti di status di protezione speciale. Se aggiungiamo anche i ricorsi, arriviamo al 60% di approvazioni. Con la consueta aggressività che la contraddistingue, il 19 agosto, la signora Meloni si lasciava andare, in una intervista rilasciata a Fanpage, alle seguenti affermazioni: “Anche con una interpretazione molto generosa delle norme sui rifugiati che è stata applicata dall’Italia in questi anni solamente l’8% di chi è sbarcato illegalmente ha ottenuto il diritto ad asilo o protezione”, aggiungendo subito dopo che “Gli altri, per la quasi totalità uomini soli adulti in età da lavoro, sono semplicemente immigrati illegali. Una situazione insostenibile, anche in termini di sicurezza, per l’Italia e per l’intera Europa”. Le opinioni in democrazia sono libere e ogni tesi può essere presentata al pubblico dibattito, ma il primo criterio per valutarla è capire su quali assunti essa poggi. Non c’è nulla di male nel sostenere, ad esempio, che la terra sia piatta; altro è però dimostrarlo. Secondo i dati ufficiali forniti dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo nel 2021 la protezione internazionale è stata riconosciuta, già in sede amministrativa, al 28% dei richiedenti (14% status di rifugiato e 14% status di protezione sussidiaria) al quale va aggiunto un ulteriore 14% di riconoscimenti di status di protezione speciale, la forma di asilo basata sul nostro diritto interno in attuazione dell’art.10 della Costituzione. Complessivamente dunque si arriva al 42%. Si tratta altresì di dati incompleti in quanto non comprendono gli esiti dei ricorsi giudiziari avverso i dinieghi; dati che la Commissione nazionale non rende pubblici, anche se pur dovrebbe. Dunque per capire quale sia l’esito dei ricorsi è necessario ricorrere a degli studi scientifici; uno dei più accurati e recenti è senza dubbio uno studio di Monia Giovannetti pubblicato sulla rivista Questione Giustizia il 3.05.2021 con il titolo “La protezione internazionale nei procedimenti amministrativi e giudiziari”. Nel prendere in esame il decennio 2010-2020 l’autrice acutamente evidenzia come “anche l’analisi sugli esiti amministrativi positivi, evidenzia un andamento assai irregolare e significativamente condizionato dagli interventi normativi intercorsi negli ultimi anni” per successivamente esaminare gli esiti dei procedimenti conclusi presso i Tribunali ordinari dal 2016 fino al primo semestre 2020; manca dunque a questo studio un’analisi dell’ultimo anno, il 2021; tuttavia esso abbraccia un arco temporale molto ampio e dai dati consolidati emerge che sui 138mila procedimenti definiti il tasso di accoglimento è risultato del 37,5%. L’analisi prosegue poi sui procedimenti in appello (non più possibili dall’agosto 2017) e sul contenzioso in Cassazione che non esamino in questa sede perché esorbita dalle ristrette finalità di questo articolo. Cosa ci dicono dunque i dati sull’esito del contenzioso? Adottando un atteggiamento il più prudente possibile è difficile non convenire con le valutazioni dell’autrice del saggio laddove, nelle conclusioni, analizzando la traiettoria dei contenziosi ancora pendenti, evidenzia come si possa “giungere a ipotizzare che coloro i quali giungeranno ad avere un titolo di soggiorno per protezione e dintorni, saranno il 59% (ovvero 6 su 10) anche all’esito delle relative impugnazioni giurisdizionali”. Qualunque punto di vista si adotti dunque, anche il più restrittivo possibile, e persino volendo fingere che i ricorsi non esistano, l’affermazione che solo l’otto per cento di coloro che chiedono asilo in Italia ne hanno diritto non è una svista né una lettura riduttiva ma è solo una grossolana e volgare falsità. Perché Meloni lo ha fatto? La motivazione mi appare chiara: cercare, come fece il suo predecessore Salvini, di fingere che i ricorsi non esistano o ignorare i dati della protezione speciale sostenendo che si tratta di un “regalo”, non sarebbe servito a nulla perché se si accettano i dati di realtà ovvero che uno su tre o persino uno su due dei richiedenti asilo che giungono in Italia hanno diritto alla protezione sulla base del diritto internazionale ed europeo al quale l’Italia è vincolata, non si può poi più sostenere pubblicamente che gli stessi possono essere respinti alle frontiere e affondati in mare. Ne deriverebbe la fine della proposta del blocco navale e di tante altre sciocchezze ad essa in qualche modo collegate, compresa quella degli hotspot in Africa, o quella della legittimità dei respingimenti e delle riammissioni e così avanti. Se la realtà si scontra con il proprio percorso di conquista di potere, dunque semplicemente va negata. La terra è rotonda, anche la Meloni lo sa; ma che diventi piatta se serve! Potremmo chiudere qui l’analisi su questa pagina di consueta volgarità politica ma chiedo invece al lettore un ulteriore sforzo per riflettere sulla questione di coloro, che sono comunque molti, che, pur chiedendolo, non ottengono alcun diritto alla protezione. Essi vengoper no inquadrati dalla Meloni - ma anche da una lunga fila di altri politici e di variegati opinionisti - solo come falsi avventurieri, invasori e nemici. Facciamoci però la semplice domanda: chi sono queste persone e perché esse arrivano affrontando ogni sorta di rischio, attraversando i deserti e morendo in mare e nelle rotte via terra in numero così elevato come se fossero in guerra? Perché non sono venuti in modo legale, nello stesso tempo rispettando le regole e mettendo al riparo le loro vite? Sono dunque orde di pazzi criminali? Le risposte ci sono anche se non le vogliamo vedere perché ci pongono di fronte a una realtà sgradevole: sono persone che vengono per cambiare la loro vita (come hanno fatto milioni di emigranti italiani) e lo fanno ricorrendo a vie estreme e pericolose non per loro folle scelta ma perché quei canali di ingresso regolare che tutti invocano di volere, persino a destra, semplicemente non esistono; non è infatti quasi possibile entrare regolarmente in Italia inseguendo l’obiettivo di quasi tutti i progetti migratori: il lavoro. Non esiste nel nostro ordinamento la possibilità per un cittadino straniero di fare ingresso regolare in Italia per ricerca di lavoro in presenza di precisi requisiti verificabili riferiti alle sue risorse economiche o a sponsorizzazioni di terzi e al possesso di documenti validi. Eppure la migrazione per ricerca lavoro legata all’esistenza di una catena di contatti è il modo consueto in cui avvengono, ovunque, le migrazioni, e spetta al legislatore non certo ignorare od ostacolare questa realtà ma solo regolarla in modo rigoroso evitare distorsioni e soprattutto per far sì che le migrazioni non siano più organizzate e guidate dalle organizzazioni criminali, oggi veri padroni incontrastati della scena, ma da meccanismi trasparenti e da procedure legali. Ovviamente tale approccio ha un senso se politicamente si accetta che le migrazioni sono una dimensione ineludibile che caratterizza la fase storica che viviamo e non qualcosa che si può rimuovere, negare o da cui si può fuggire. Improntata da sempre su un approccio iniquo e irrazionale, la normativa italiana ha invece previsto che il (quasi) unico canale di ingresso regolare in Italia per lavoro sia quello costituito da un incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro che dovrebbe avvenire prima dell’ingresso in Italia dello straniero nell’ambito di quote predeterminate attraverso i cosiddetti decreti flussi il cui numero è quasi sempre sottostimato e soggetto a procedure burocratiche estenuanti. Prevedere che il datore di lavoro assuma a distanza e con tempi indefiniti una persona che non ha mai incontrato rappresenta un approccio irrazionale che ha prodotto distorsioni profonde poiché la gran parte degli stranieri da più di vent’anni a questa parte sono stati e sono tuttora costretti a entrare in Italia in modo irregolare, o regolare per i fortunati che non hanno bisogno di visto, ma poi, entrambe le categorie, sono dovuti rimanere a soggiornare illegalmente e lavorare in nero quasi sempre in condizioni di grave sfruttamento. Ciò perché, oltre a irrazionalmente non prevedere l’ingresso regolare per ricerca lavoro, la normativa vigente (mai modificata dalla sinistra quando pur avrebbe potuto) non prevede la possibilità di regolarizzare ex post la propria condizione di soggiorno in caso di una prospettiva concreta di inserimento sociale e lavorativo. Unica possibile finestra sono state le periodiche regolarizzazioni, o sanatorie che dir si voglia, attraverso le quali sono passate milioni di persone oggetto di altrui giochi: la sanatoria è infatti decisione arbitraria della congiuntura politica di un dato momento mentre la scelta se usarla o ignorarla non è dello straniero che vuole così emergere, bensì è appannaggio del datore di lavoro/padrone che tutto decide e dispone. Emerge quindi una storia di lungo corso del sistema italiano di gestione delle migrazioni ben diversa e orrenda rispetto alla facile immagine dell’orda degli stranieri pazzi, avventurieri e criminali che invadono l’italico suolo e attentano alla nostra sicurezza, ovvero quella di milioni di persone costrette a scelte drammatiche per arrivare da noi salvo poi vivere qui con diritti dimezzati come lavoratori sfruttati stretti nella morsa della mancanza di permesso di soggiorno e del ricatto del lavoro nero. Dopo tanti anni dall’inizio della storia dell’Italia come paese non più solo di emigrazione ma anche di immigrazione, per gran parte della società italiana - non solo quella che vota a destra - lo straniero è purtroppo ancora una sorta di “non-persona”, utile per tutto, anche per la scalata al potere dei soggetti più spregiudicati, ma che non conta nulla, per riprendere una ancor valida nozione proposta più di vent’anni fa dal grande sociologo Alessandro Dal Lago recentemente scomparso. Droghe. La macchina della violazione dei diritti di Giada Girelli* Il Manifesto, 24 agosto 2022 “Le Nazioni Unite, la comunità internazionale, gli Stati Membri hanno la responsabilità storica di invertire la devastazione causata da decenni di “guerra alla droga” globale. Esortiamo gli Stati Membri e le agenzie ONU a fondare le loro politiche di droga sui diritti umani”. E’ questa la raccomandazione di una storica dichiarazione del gruppo di esperti del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU presentata da Marco Perduca su questa rubrica lo scorso 10 agosto, una delle più recenti manifestazioni di una progressiva quanto fragile rivoluzione nell’approccio alle droghe. Il tema delle politiche sulle droghe è delicato, complesso e contrassegnato da retoriche cieche alle evidenze scientifiche. Per questo è fondamentale una nuova risorsa, la prima in Italia, che offre una guida al tema dei diritti: “Droghe e Diritti Umani: le politiche e le violazioni impunite” scritto da Susanna Ronconi e Sergio Segio per SocietàINformazione, con il sostegno di Fight Impunity, edito da Milieu. Il volume ricostruisce le troppe violazioni causate da decenni di guerra alle droghe: dalla pena di morte per reati di droga, con oltre 4.000 vittime nell’ultimo decennio, alle esecuzioni extragiudiziali e i trattamenti forzati. Ma sono discussi anche abusi meno evidenti ma non meno gravi: l’assenza di servizi di riduzione del danno, la mancanza di farmaci palliativi, l’uso eccessivo del carcere - con 1 persona su 5 al mondo detenuta per reati di droga. Emerge così come le violazioni e la violenza siano legate non tanto alle droghe, bensì alle politiche; che non sono conseguenze imprevedibili di leggi e pratiche, ma caratteristiche strutturali di approcci punitivi. Il volume va nel profondo di cause, attori, e sviluppi politici, soprattutto internazionali; denuncia le responsabilità della governance globale, particolarmente dell’Agenzia Onu sulle droghe e il crimine (Unodc), nel “privilegiare il linguaggio e le strategie basate sulla repressione”, nel santificare un approccio punitivo figlio dell’ideologia. Un tema centrale è la tradizionale separazione tra il ‘mondo’ dei diritti umani e quello delle droghe. Un muro che inizia a sgretolarsi solo recentemente, arrivando dopo un lungo silenzio (e pur tra forti resistenze) a maggiori sensibilità, e a posizioni prima impensabili su temi critici come la decriminalizzazione, raccomandata oggi da diversi attori Onu. In questo processo è impossibile non citare il ruolo della società civile, incluse le associazioni dei consumatori, nell’imporre un cambio di prospettiva verso le persone che usano droghe non come criminali, ma appunto come persone, con diritti e dignità; troppo spesso vittime di una guerra di stato che più che i narcotrafficanti (che dalla guerra traggono enormi profitti) colpisce i più vulnerabili tra chi di droghe fa uso. Il volume ripercorre l’impegno della società civile a colmare il vuoto delle istituzioni e portare avanti un essenziale lavoro di documentazione, di denuncia degli abusi e degli “assordanti silenzi” di troppe autorità di fronte ai danni della guerra alla droga, e di promozione di strategie alternative più efficaci e umane. Se il tema dei diritti è consolidato nelle discussioni internazionali, diversa è la pratica, dove gli approcci punitivi sono prevalenti, gli abusi sono la regola, e discriminazione e violenza scandiscono la vita dei consumatori anche nei paesi ritenuti più progressisti. Ciò dimostra che la decriminalizzazione è essenziale ma non sufficiente. Urgono politiche di legalizzazione tese non a eliminare le droghe (obiettivo dimostratosi irrealistico) ma a promuovere salute e diritti; accompagnate da un ripensamento strutturale, con i diritti, la dignità e l’empowerment come principi guida. *Harm Reduction International, Analista Senior Diritti Umani e Giustizia Stati Uniti. “Salman, sei nostro fratello”: scrittori in piazza per Rushdie di Viviana Mazza Corriere della Sera, 24 agosto 2022 Il reading davanti alla New York Public Library, nella Grande Mela, in solidarietà con l’autore accoltellato il 12 agosto: presenti romanzieri, giornalisti, amici. “Cercai sull’elenco, trovai numero di telefono e indirizzo di Salman Rushdie, presi la metro fino a casa sua. Non era in casa, era in vacanza in Italia, ma sua suocera mi fece entrare. Parlammo, mi diede carta e penna per scrivergli un messaggio... Quello era un mondo nel quale l’unica follia che poteva succederti era di trovarti sull’uscio un lettore esuberante. E quel mondo si chiamava civiltà. Cerchiamo di tenercelo stretto”. Così lo scrittore americano Jeff Eugenides, parlando ieri al suo turno, sugli scalini della New York Public Library, ha raccontato il suo primo tentativo, da giovane, di incontrare Rushdie a Londra, prima della fatwa dell’ayatollah Khomeini che lo condannò a morte nel 1989. Come non pensarci dopo che, il 12 agosto, il giovane americano Hadi Matar ha preso un bus dal New Jersey per andare a pugnalare dieci volte Rushdie al festival di Chautauqua, nello Stato di New York? Paul Auster e Siri Hustvedt hanno letto brani dal memoir di Rushdie Joseph Anton, Gay Talese uno stralcio da La caduta dei Golden, Colum McCann un passaggio di Out of Kansas, un racconto che rivisita la sua prima influenza letteraria (Il Mago di Oz) e il rapporto con il padre. Non potevano mancare I versi satanici, letti dall’autore britannico Hari Kunzru, mentre l’iraniana Roya Hakakian si è tuffata in Harun e il mar delle storie, il primo libro (per ragazzi) dopo I versi. Il pittore italiano Francesco Clemente ha recitato Nel sud, da lui illustrato: “La mia amicizia con Salman si basa sul disaccordo su tutto, proprio come i personaggi di questo racconto”. Gli intellettuali che hanno letto le opere di Rushdie ieri mattina a Manhattan, in un evento organizzato dall’associazione per la libertà di espressione Pen America, sono anche cari amici dello scrittore, desiderosi di fare qualcosa per lui. E la possibilità di vedere in livestream l’evento sul sito della biblioteca di New York non era solo un modo per raggiungere il pubblico mondiale dei suoi lettori. Serviva anche per rivolgersi a Salman, ancora ricoverato in ospedale: si sta riprendendo e ha recuperato il suo humour, anche se rischia di perdere un occhio, e ha fatto sapere che avrebbe seguito l’evento online. Alcuni dei presenti si erano confrontati con lui sui brani da leggere. “Ti ho pensato ogni ora di ogni giorno. Ti voglio bene come a un fratello”, ha detto Paul Auster. Parole simili a quelle che pubblicò trent’anni fa in un articolo sul “NewYork Times”: ogni mattina, quando si metteva a scrivere, pensava all’amico che viveva nascosto dall’altra parte dell’oceano, e lo ringraziava perché stava difendendo anche la sua libertà. Auster annuisce. “Mi succede di nuovo, ora che è ricominciato. Le persone come Salman combattono perché tutti abbiano il diritto di esprimersi - dice al “Corriere”. Non ha chiesto questo, voleva essere solo un romanziere, ma ha scritto un libro e si è trovato nel mezzo di una reazione politica violenta che gli ha cambiato la vita. Allora ha avuto il coraggio di iniziare a esprimere i suoi valori profondi. Nessuno dei suoi saggi su questi temi sarebbe stato concepito se la storia non lo avesse forzato ad essere non solo un romanziere, ma anche un portavoce, ed è difficile fare entrambe le cose, ma lui c’è riuscito”. Auster e Hustvedt, marito e moglie, sono amici di Rushdie da trent’anni. “Lo abbiamo conosciuto durante la fatwa”, ci spiega lei a margine dell’evento. “Quando lo vedevamo a cena a Londra, ci scambiavamo 3-4 telefonate segrete, andavamo all’indirizzo comunicato in segreto, c’erano agenti di guardia fuori, me ne dimenticavo per poi ritrovarli a tarda notte assonnati. Quello era il tempo dei segreti. Ma il Salman che viveva a New York girava da uomo libero. Veniva spesso a cena da noi. Una volta, all’inizio della nostra amicizia, quand’ero terrorizzata che gli accadesse qualcosa, mi guardò e mi disse: “Siri, io non ho nulla da temere dal pubblico”“. Alla scrittrice l’aggressore ricorda “il profilo degli sparatori di massa: solitario, arrabbiato, un giovane che sente la propria mascolinità umiliata e che trova uno sfogo ideologico, rinnegato dalla madre laica. Mi sembra abbia poco a che fare con le politiche degli Stati”. L’Iran? “Colpevole nel senso che non hanno mai cancellato la fatwa, è rimasta là per chi, folle o meno, volesse seguirla”. Gli amici di Rushdie, inclusa la giornalista Tina Brown, sottolineano che si è battuto per il pluralismo delle idee, sfidando il politically correct come le lobby religiose. A chi chiede se in America anche la “sinistra woke”, quella più impegnata sul tema dei diritti, non abbia la colpa di opporsi alla libertà di espressione, Hustvedt replica d’essere “contraria a chiunque legiferi sulle credenze umane... ma attenzione: oggi il problema più grande è la violenza dei nazionalisti bianchi e dell’estrema destra che influenza l’intero Partito repubblicano”. Rushdie, già copresidente del Pen, diceva che gli scrittori in prigione vanno difesi celebrando con gioia le loro storie, le metafore. È ciò che è accaduto ieri alla Public Library, conclude la portavoce Suzanne Nossel: “Beccati questo, ayatollah”. Corea del Nord. A luglio decine di detenuti morti per fame nelle carceri asianews.it, 24 agosto 2022 Nel solo mese di luglio almeno 35 prigionieri sono morti di fame in un carcere a nord di Pyongyang, in Corea del Nord, perché i familiari non hanno potuto consegnare razioni extra di cibo a causa delle restrizioni imposte per il Covid-19. Secondo quanto riferiscono alcune fonti interne, rilanciate in un lungo reportage pubblicato da Radio Free Asia (Rfa), i decessi per malnutrizione sono avvenuti nella prigione di Kaechon, nella provincia di South Pyongan. I lavori forzati per diverse ore al giorno cui sono sottoposti i detenuti sono causa di un enorme sforzo fisico e la loro sopravvivenza è legata ai pasti aggiuntivi che vengono forniti dai parenti in visita. Questo, almeno, è quanto avveniva prima della pandemia. A maggio la Corea del Nord ha dichiarato lo stato di “massima emergenza nazionale” per l’escalation di contagi legati al virus, iniziata il mese precedente. Il provvedimento è stato ritirato a fine luglio, ma in tutti questi mesi le famiglie che vivono lontane dalla prigione non hanno potuto assistere i propri congiunti. Ciò ha provocato un picco nei casi di malnutrizione all’interno della popolazione carceraria e “oltre 20 donne hanno perso la vita” in poche settimane. “La scorsa settimana - afferma la fonte dietro anonimato - ho visitato mia sorella nella prigione di Kaechon - e mi ha detto che almeno 20 detenute sono morte per fame e lavoro duro”. Prima della pandemia, il numero mensile dei decessi era fra i tre e quattro, aggiunge la fonte. “Vi sono almeno 50 prigioniere - prosegue - cui è stata riscontrata una grave malnutrizione nel carcere femminile, che sono state isolate assieme a un gruppo di malate. Non possono nemmeno alzarsi o restare sedute. Sembra che stiano aspettando solo di morire”. “Quando sopraggiunge il decesso… le guardie entrano in cella e impilano i cadaveri da una parte. A fine mese gli altri detenuti trasportano le vittime su una barella per seppellirli sulle montagne dietro la prigione”. I prigionieri, conclude, “non riescono a sopportare il duro lavoro mangiando solo una palla di riso”. Dopo aver affrontato durissime critiche internazionali sul trattamento dei prigionieri, la Corea del Nord nel 2015 ha iniziato a punire i funzionari delle carceri in cui si registravano numerosi decessi di detenuti. Fra i provvedimenti presi, quello di permettere visite mensili invece di trimestrali come avveniva in passato. Inoltre, il 10% del cibo portato deve essere condiviso con l’intera popolazione carceraria, di modo che nessun detenuto fosse escluso da razioni extra, anche quelli senza familiari. Tuttavia, dall’inizio della pandemia nel 2020 le visite sono tornate a essere trimestrali causando una forte riduzione del cibo disponibile e innescando una nuova ondata di malnutrizione. Ciononostante, le autorità invece di rimediare alla crisi hanno scelto di imporre una stretta ancora maggiore sulla diffusione delle notizie. Pyongyang ha dichiarato la “vittoria” nella lotta al Covid-19 - mai menzionato in questi mesi, salvo un generico riferimento a una “febbre virale” - il 10 agosto scorso, dichiarando la nazione libera dalla pandemia. Tuttavia, dal Paese filtrano conferme di continue disposizioni di quarantena in appositi centri per persone infette o casi sospetti. Una fonte a South Pyongan riferisce che quanti presentano temperatura superiore a 37 gradi vanno separati dalla comunità. “La dichiarazione delle autorità sulla fine della massima emergenza - conclude - è solo falsa propaganda”.