Rivolte in carcere, la bufala della strategia occulta smentita anche dal Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 agosto 2022 Mentre la maggior parte dei mass media, come di consueto, sposava senza esercizio critico la tesi propagandata dai taluni magistrati antimafia sul fatto che dietro le rivolte carcerarie del 2020 ci fosse una regia occulta volta a proporre una sorta di riedizione della trattativa Stato-mafia, noi de Il Dubbio lo abbiamo scritto nero su bianco fin da subito che si tratta di una tesi del tutto priva di fondamento. Non ci voleva molto, basterebbe avere una conoscenza a 360 gradi del mondo penitenziario. Finalmente, di recente, a sconfessare definitivamente quella tesi, ci ha pensato la Commissione ispettiva del Dap, presieduta dall’ex procuratore Sergio Lari, nella relazione finale sulle rivolte. Il “papello” di Salerno: le richieste dei detenuti sollecitate dal questore - Sono stati sviscerati diversi episodi, compresa la vicenda del cosiddetto “papello”, definizione ovviamente suggestiva (ed evocativa) di un foglio sottoscritto da una delegazione del carcere di Salerno - il primo penitenziario che ha inscenato la rivolta - su richiesta del questore per intavolare una mediazione. Nulla di oscuro. Ricordiamo che la Commissione aveva il compito di indagare “sull’origine delle rivolte avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020, sui comportamenti adottati dagli operatori per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime poste in essere”, come indicato nel provvedimento Capo del Dipartimento (pcd) istitutivo. È stata presieduta, come detto, dal magistrato in quiescenza Sergio Lari, ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta, coadiuvato da sei operatori penitenziari di lunga esperienza. La relazione è divisa in due parti dove in sostanza ha analizzato tutti gli istituti penitenziari attraversati dalle rivolte, in alcuni fortemente distruttive e relativi decessi che hanno coinvolto 13 detenuti. “Il Dubbio” ha subito escluso ingerenze della criminalità organizzata - Nell’analisi sull’origine delle rivolte, una delle prime domande che si è posta la Commissione ha riguardato l’eventualità che possa esservi stata la regia della criminalità organizzata e, conseguentemente, su questo tema è stato svolto il necessario approfondimento in occasione di tutte le visite ispettive. Questa ipotesi, infatti, era stata avanzata da alcuni organi di stampa, da qualche Sindacato di Polizia penitenziaria nei primi giorni successivi alle rivolte, ma anche - e questo lo sottolinea Il Dubbio - da taluni magistrati come Nino Di Matteo o l’ex capo della Procura nazionale antimafia Cafiero de Raho, sul rilievo che la sospensione dei colloqui in presenza avrebbe danneggiato la catena di comunicazioni tra penitenziario e mondo esterno compromettendo gli interessi del crimine organizzato, oltre che sulla considerazione che la contemporaneità degli eventi e le comuni modalità organizzative delle sommosse avrebbero deposto per una “strategia occulta orchestrata a tavolino”. Ipotesi, appunto, del tutto priva di fondamento. A Melfi i reclusi calabresi non hanno aderito, benché sollecitati - La relazione della Commissione, evidenzia che quando si parla di criminalità organizzata non si può restare nel vago e bisogna intendersi a quale delle diverse organizzazioni criminali operanti in Italia si fa riferimento. Stando alle risultanze dell’indagine ispettiva, si può escludere qualsivoglia ruolo nell’origine delle rivolte della ‘ndrangheta sia perché non vi è stata alcuna sommossa in istituti penitenziari calabresi, sia perché non è stato registrato alcun coinvolgimento di detenuti appartenenti a tale organizzazione mafiosa nelle rivolte attuate presso gli altri istituti penitenziari. Prova ne sia, che in occasione della rivolta verificatasi presso la casa circondariale di Melfi, l’unica avvenuta su iniziativa di detenuti di alta sicurezza, i reclusi calabresi presenti in istituto, malgrado le sollecitazioni ricevute, si sono astenuti da qualsivoglia adesione alla rivolta stessa. Altrettanto può affermarsi per quanto riguarda Cosa nostra” che, come è noto, si caratterizza per avere una struttura unitaria e verticistica e considera la Sicilia suo territorio di appartenenza. Ebbene, dall’attività ispettiva è risultato che questa organizzazione mafiosa non soltanto si è completamente disinteressata a tutte le rivolte in esame, ma ha del tutto ignorato anche quelle che si sono verificate tra il 9 e il 10 marzo negli istituti penitenziari siciliani di Trapani, Siracusa e Termini Imerese, benché le prime due si siano caratterizzate per particolare violenza e drammaticità degli eventi. E questa analisi non sorprende Il Dubbio che ha ben evidenziato la peculiarità dei detenuti appartenenti a Cosa nostra, soprattutto se boss. Anche a Poggioreale si è trattato di detenuti comuni - L’unico caso in cui una rivolta è stata organizzata esclusivamente da detenuti appartenenti al circuito di alta sicurezza, come sottolinea la relazione, è stato quello dell’istituto penitenziario di Melfi. In questa occasione, tuttavia, la rivolta ha coinvolto soltanto una fascia dei detenuti della sezione alta sicurezza di area foggiana, barese e campana che, come è risultato dagli accertamenti ispettivi, sembra abbiano agito autonomamente, in assenza, cioè, di una regia della organizzazione criminale di appartenenza. In un’altra circostanza si è registrata la partecipazione di quattro detenuti di un reparto alta sicurezza alla rivolta organizzata nel carcere di Poggioreale, in data 8 marzo, dai detenuti comuni ivi ristretti. Anche in questo caso si è trattato di iniziativa - peraltro contestata da altri detenuti di alta sicurezza dello stesso istituto penitenziario - che non è risultata essere stata organizzata o avallata dalla organizzazione criminale di appartenenza. Lo stesso Nucleo Investigativo Centrale ha confermato: non c’è stata una regia - Emerge, tranne l’eccezione del carcere di Melfi, che in tutti gli istituti penitenziari, hanno avuto come protagonisti delle rivolte, i detenuti comuni - tra cui molti stranieri - con un’alta percentuale di soggetti appartenenti alle fasce deboli della popolazione penitenziaria: per lo più giovani, nullatenenti, affetti da tossicodipendenza o da fragilità psichiche. Neppure da altre fonti sono emersi elementi idonei a supportare l’ipotesi che all’origine - anche di una sola - delle 22 rivolte in esame vi sia stata la regia di un’organizzazione criminale maliosa. Lo stesso Nucleo Investigativo Centrale (NIC) nelle informative del 20.04.2020 e del 18.08.2021 ha evidenziato come le rivolte siano state poste in essere da detenuti comuni, mentre quelli appartenenti al circuito alta sicurezza, salvo casi sporadici ed isolati, non vi hanno preso parte, rimanendo osservatori neutrali e in alcuni casi, addirittura, esprimendo dissenso o prendendo le distanze dai rivoltosi. Del resto, viene evidenziato nella relazione, tutte le indagini effettuate dal NIC sui telefoni cellulari sequestrati in occasione delle perquisizioni effettuate a ridosso delle rivolte non hanno consentito di trovare riscontro alcuno all’ipotesi che i rivoltosi abbiano ricevuto disposizioni telefoniche da soggetti appartenenti alla criminalità organizzata. Dopo le visite ispettive eseguite carcere per carcere, è emerso ciò che era già chiaro per chi conosce da tempo le problematiche del mondo penitenziario, dal Garante nazionale delle persone private della libertà alle associazioni: vi erano reali situazioni di disagio personale e collettivo dovute alle condizioni di degrado della vita carceraria che - amplificate dalla paura del contagio da Covid 19 (del tutto concreta visto il sovraffollamento in ambiente chiuso) e dalla notizia della sospensione dei colloqui in presenza - hanno dato il via alle rivolte. Riguardo alla relazione del Ministero sulle condotte della Polizia penitenziaria nel marzo 2020 di Gaia Tessitore napolimonitor.it, 23 agosto 2022 “Ego te absolvo a peccatis tuis”: potrebbe concludersi così la relazione finale presentata il 17 agosto dalla commissione ispettiva del ministero della giustizia incaricata di far luce su quanto accaduto durante e dopo le proteste dei detenuti avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020, “sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime”. Una commissione istituita nel luglio 2021 dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, nominato dal ministro Bonafede e succeduto a quel Francesco Basentini che si era dimesso a causa delle polemiche suscitate dalle scarcerazioni di presunti boss per gravi ragioni di salute, nel pieno dell’epidemia Covid. Agli inizi del 2022, però, anche Petralia si è dimesso dal suo incarico, e la relazione è arrivata sulla scrivania del nuovo capo Dap, Carlo Renoldi, accompagnata da un documento di due pagine nelle quali si elencano alcune iniziative messe in atto dal Dipartimento dopo i fatti del 2020. Le più rilevanti consistono nel rifornimento dell’equipaggiamento in dotazione alla polizia penitenziaria per circa ventimila guanti antitaglio, ottomila cinquecento caschi antisommossa, duemila sfollagente e duemila kit antisommossa, come a sottintendere che la soluzione per il controllo e la gestione delle carceri non possa che passare per la violenza. Lascia ancor più perplessi in questo senso l’istituzione, in alcuni provveditorati, dei cosiddetti Gruppi di intervento rapido, gli stessi che (come emerge dagli atti del processo in corso per i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere) hanno esasperato un clima di tensione già esistente, fino a rendersi protagonisti, nel caso del penitenziario casertano, di quella che la stessa procura non ha esitato a definire come una “mattanza”. L’obiettivo della Commissione era quello di esaminare “da dentro” quanto accaduto durante e dopo le proteste che i detenuti avevano messo in atto, preoccupati dal clima di paura provocato dallo scoppio della pandemia e della sospensione dei colloqui in presenza decisa nei primi mesi del 2020. Sono stati ispezionati ventidue carceri, classificati dallo stesso dipartimento come “sedi di rivolte”. Gli istituti sono stati visitati tra il settembre 2021 e il marzo 2022 e per ciascuno è stata stilata una relazione dettagliata, includendo anche i verbali delle persone sentite che, a vario titolo, sono state coinvolte nei fatti (si è scelto di fare eccezione dei detenuti, poiché, secondo quanto scritto, in molti casi coinvolti in procedimento penali pendenti). Il clima di terrore, diffuso dai media e incrementato dalle confuse notizie che venivano da fuori, è stato individuato come una delle cause delle proteste dei detenuti, ma un ruolo viene attribuito anche alla “produzione normativa e para-normativa ‘a cascata’ dettata sull’onda dell’emergenza continua”. In particolare, la relazione chiama in causa il d.l. 8 marzo 2020 (che avrebbe avuto “un effetto significativo sulla genesi di quasi tutte le sommosse in esame, fungendo da detonatore di altre consistenti cause di malessere che già albergavano tra la popolazione detenuta”) e le confuse circolari del Dipartimento - sostituite in breve tempo da nuove indicazioni - che hanno contribuito a creare uno stato di smarrimento generale tra tutti coloro che operavano in carcere, compresi, ovviamente, i detenuti. Dall’esame della documentazione utilizzata dalla Commissione si evince che “tra il 7 ed il 12 marzo 7517 detenuti hanno inscenato manifestazioni di protesta collettive caratterizzate da battiture, rifiuto del vitto, lancio di oggetti ed atti vandalici che hanno interessato cinquantasette istituti penitenziari, nonché più violente rivolte caratterizzate da devastazioni delle strutture, atti di violenza nei confronti del personale penitenziario e sanitario, sequestri di persona, evasioni in massa e altro ancora”. In soli due giorni (tra l’8 e il 10 marzo) sono decedute tredici persone; settantadue detenuti sono evasi dal carcere di Foggia (in parte rientrati e in parte riarrestati in seguito); sono stati avviati numerosi procedimenti penali a carico di detenuti coinvolti nelle proteste e sono stati calcolati - bisognerebbe valutare in che modo, considerando il degrado preesistente delle strutture - milioni di euro di danni. Non può dirsi, allora, che il fenomeno sia stato casuale, né che si sia trattato di un’eccezione: è evidente che la gestione dell’emergenza è stata carente, improvvisata, priva di qualsiasi tipo di lettura che potesse consentire la prevenzione delle reazioni che si sono poi scatenate. Nella relazione si ricercano, istituto per istituto, le motivazioni che hanno spinto i detenuti a protestare. Per esempio, tra gli eventi avvenuti nel carcere di Salerno - il primo in cui ci sono state rimostranze - si fa riferimento a un “papello” consegnato dai detenuti alle autorità durante le trattative per spegnere la protesta. Il documento appare tutt’altro che pretestuoso, tanto che la Commissione segnala come il “papello” contenga precise richieste di cautela sanitaria, a cui si aggiungono richieste di attivazione dei video-colloqui e, ancora, la richiesta di aumento del personale nelle ore notturne. Nonostante i concreti riscontri rispetto al fatto che il documento sia stato redatto dai detenuti dopo l’inizio delle proteste (a seguito di una interlocuzione con il Garante regionale Samuele Ciambriello), si è tentato di dimostrare l’ipotesi di un disegno preordinato all’origine delle sollevazioni, salvo poi constatare che “la diffusione in tempo reale dei contenuti del ‘papello’ sugli organi di informazione […] e all’interno degli istituti di pena, possa avere avuto l’effetto di provocare un effetto emulativo rinforzando analoghi propositi di rivolta dei detenuti più facinorosi anche negli altri istituti”. D’altronde, le indagini sono state svolte dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria che ha analizzato i tabulati telefonici di alcuni cellullari rinvenuti in carcere senza rinvenire nessun elemento utile ad avvalorare l’ipotesi di una “regia occulta”. La Commissione dà piuttosto atto della situazione di totale fatiscenza e sovraffollamento degli istituti e in molti casi si riferisce chiaramente che non può essere sottovalutata l’incidenza sulle proteste delle “poco decenti condizioni di vita dell’istituto e dell’elevato indice di sovraffollamento”, considerati come fattori destinati ad amplificare la paura del contagio e a influire negativamente sullo stato d’animo dei detenuti, molti dei quali fragili e con dipendenze da alcool e assunzione di droghe (una fotografia fedele di quello che accade in molti degli istituti penitenziari e che, da anni, invano, viene denunciato da più fronti). Le condizioni del carcere di Modena sono considerate per esempio “compromesse” ben prima dell’inizio delle proteste; anche qui si dà atto di un elevatissimo numero di persone con problematiche di tossicodipendenza, e i detenuti sono 547 a fronte di una capienza massima di 361. Per quanto riguarda i detenuti che sono stati trovati morti, ufficialmente a causa dell’ingerimento massiccio di psicofarmaci e metadone, vale per tutti lo stesso referto: “Accompagnato da agenti in PMA, in arresto cardiocircolatorio, cianotico, assenza di polso e respiro. Segni esterni traumatismo non evidenti”. Niente di diverso per i detenuti morti durante il trasferimento o una volta giunti alla nuova destinazione. Nel caso specifico, la Commissione sembra mantenere dubbi “per quanto riguarda l’ipotesi […] che da parte della polizia penitenziaria possano esservi state violenze in particolare ai danni di un gruppo di detenuti nella fase prodromica al trasferimento in altri istituti, mentre si trovavano radunati in un locale della caserma agenti in attesa di essere identificati e perquisiti”. Epperò, si prende atto del fatto che in mancanza di video riprese, di verbali di denuncia della polizia penitenziaria o di referti medici, la Commissione non è in grado di esprimere una autonoma valutazione su quanto accaduto. Tornando al tema delle presunte regie occulte, la Commissione esclude anche una possibile regia della criminalità organizzata. Per tutti gli istituti analizzati, - ovvero Napoli Poggioreale, Pavia, Padova, Cremona, Milano San Vittore (tasso di sovraffollamento del 96%), Bologna, Foggia, Matera, Roma Rebibbia N.C., Termini Imerese, Rieti (dove sono deceduti due detenuti e altri sono stati trasportati in ospedale a seguito dell’assunzione di psicofarmarci, eventi per i quali pendono dei procedimenti penali contro ignoti), Melfi (dove pende un procedimento per violenza a danno dei detenuti per il quale è stata richiesta l’archiviazione dalla procura di Potenza), Ferrara, Alessandria, Isernia, Siracusa, Palermo Pagliarelli e Trapani - le problematiche individuate all’origine delle proteste sono sempre le stesse: paura del contagio, sovraffollamento, mancanza di comunicazione con i detenuti, chiusura dei colloqui, omessa fornitura di qualsiasi tipo di strumento di prevenzione del contagio e richieste di provvedimenti di clemenza o di liberazione da parte della magistratura di sorveglianza. L’affannoso e infruttuoso tentativo di individuare una “regia occulta”, oltre che cause esogene alle proteste (la presenza di familiari e attivisti fuori gli istituti penitenziari nei giorni delle rivolte o le richieste da parte di associazioni per provvedimenti di liberazione anticipata), depotenzia le conclusioni della relazione. Quest’ultima, infatti, con riferimento ai fatti di Modena e Melfi, fa trasparire dubbi rispetto al corretto operato della polizia penitenziaria, ma non si spinge oltre in ragione delle indagini ancora in corso o la mancanza di elementi documentali e probatori. L’impossibilità di mettere in relazione la risposta scomposta e violenta degli agenti di polizia penitenziaria con la presunta esistenza di un piano preordinato palesa piuttosto la preoccupante incapacità dell’amministrazione di una lettura efficace della realtà e dei fenomeni che si sviluppano dentro e intorno al carcere. Una deficienza che rende sterile ogni tentativo di ricostruzione a posteriori di ciò che è avvenuto in quei giorni e incapace di proporre qualsiasi minimo miglioramento dell’esistente. Certo, è apprezzabile che si faccia riferimento alla situazione indignitosa di vita dei detenuti, e alla totale impreparazione degli istituti nella gestione dell’emergenza Covid, ma proprio per questo non può accettarsi il meccanismo autoassolutorio con cui si conclude il documento e che stride, portando alla luce tutte le loro contraddizioni, con i comportamenti e le parole della ministra Cartabia in visita in vari istituti penitenziari proprio il giorno di Ferragosto. Infatti, come in un’excusatio non petita, la relazione si conclude con un riferimento alle condotte violente che gli agenti di polizia penitenziaria hanno tenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, definendole “eccezioni alla regola”, “casi isolati che non possono certamente scalfire la reputazione dei tanti servitori dello Stato che ogni giorno lavorano negli istituti penitenziari del nostro Paese in condizioni difficilissime, con spirito di sacrificio e senso di responsabilità istituzionale”. Su quanto la vicenda campana (con tutta la catena di comando coinvolta, fino ai più alti livelli) possa considerarsi un caso isolato, in un contesto nazionale che ha coinvolto in pochi giorni quasi sessanta carceri e provocato tredici morti, bisognerebbe interrogarsi seriamente. Solo in parte, infatti, potrà rispondere a questa esigenza la Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere. Carlo Nordio: “Così cambierei la nostra giustizia” di Domenico Basso Corriere del Veneto, 23 agosto 2022 L’ex procuratore di Venezia è in pole per il ministero. Nordio scende in campo per Fratelli d’Italia e ha pure una carta in mano per diventare Ministro della Giustizia. Nella sua prima intervista da candidato dice di aver accettato perché ormai “sono sei anni che ho deposto la toga” e dopo aver criticato tanto il sistema “Ho un’occasione di cambiarlo e migliorarlo”. Dottor Nordio innanzitutto quanto ci ha pensato prima di accettare la candidatura? “Non ho avuto molto tempo, perché l’offerta è arrivata pochi giorni fa. Ma vi ho pensato molto intensamente perché per me è una rivoluzione. Non ho mai fatto politica, l’ho solo commentata” La sua candidatura resta per molti una sorpresa visto che in più occasioni aveva detto che non si sarebbe mai candidato in politica perché un magistrato deve tenere le distanze da questo mondo. Cos’è cambiato? “È cambiata la mia prospettiva di magistrato. Mi sembra ieri quando ho lasciato la toga, e quindi queste remore mi son rimaste dentro. Poi ho pensato che son passati quasi sei anni dal mio congedo, e quegli scrupoli non hanno più senso. E dopo avere criticato per 25 anni nei miei libri ed editoriali la nostra giustizia, sottrarsi all’invito di mettervi mano in Parlamento sarebbe un gesto di pigrizia, se non proprio di viltà”. Giorgia Meloni è riuscita dove altri non erano riusciti. Chissà quante volte Berlusconi piuttosto che Salvini glielo avranno chiesto. Meloni questa volta è arrivata prima di altri o si tratta proprio di una sua precisa scelta di campo? “Offerte specifiche di candidature non mi erano mai arrivate, anche perché era noto che non le avrei accettate. Giorgia Meloni conosce le mie idee sulle riforme in senso garantista e liberale, come del resto le conoscono Salvini e Berlusconi, con cui abbiamo fatto in vari anni congressi e incontri. Credo siano condivise da tutti, e questo mi onora. E ora la possibilità di attuarle è concreta”. Secondo i sondaggi dovrebbe essere la leader di Fratelli d’Italia a guidare un futuro governo. Lei che ha sempre speso parole di apprezzamento verso Draghi, pensa che la Meloni possa avere la sua stessa autorevolezza internazionale? “Io continuo a ritenere che Draghi sia stato essenziale per l’Italia soprattutto dal punto di vista finanziario, dopo i disastri del governo Conte 2. Ora i tempi sono maturi per un ricambio, e l’autorevolezza di Giorgia Meloni credo sia indiscussa, come lo è la sua appartenenza all’area dell’atlantismo, della Nato, e dell’europeismo. Questo non significa adesione subalterna alle posizioni altrui. Francia e Germania sono attentissime ai propri interessi nazionali, e così dobbiamo fare noi, lealmente ma senza complessi di inferiorità. E guardi che gli stranieri, a cominciare dagli americani, apprezzano i politici che fanno l’interesse del proprio Paese, anche se non coincide completamente con il loro”. Lei è stato il “front man” negli ultimi referendum sulla giustizia. Tre temi sui quali intervenire subito. Il primo potrebbe essere la revisione del codice firmato da Mussolini? “Beh si. In fondo ho presieduto la Commissione per la riforma del codice penale, che giace ancora nel cassetto. Ecco, riprenderla e magari aggiornarla sarebbe una grande emozione”. Berlusconi ha già lanciato una sua proposta: sentenze di assoluzione inappellabili. La proposta era già stata bocciata dalla Consulta. Lei cosa ne pensa? “La sostengo da sempre, a maggior ragione da quando è stato introdotto il principio che una condanna può intervenire solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma. Facciamo un esempio: da noi un imputato viene assolto dopo mesi di udienze, dove i giudici hanno ascoltato gli investigatori, i consulenti, i testimoni. Ebbene quello stesso imputato può esser condannato in appello senza nuove prove a suo carico, solo sulla base dei verbali del dibattimento dove è stato assolto. È un sistema demenziale. Con una formulazione adeguata, la riforma passerebbe anche l’esame della Corte Costituzionale”. La separazione tra la carriera di giudice e pubblico ministero dovrà essere uno dei temi di affrontare nella prossima legislatura? “Certamente si anche se una radicale revisione del codice di procedura, con una effettiva separazione delle carriere e l’eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale potrà avvenire solo con una revisione costituzionale”. Mi dice tre cose di cui ha bisogno subito il Paese e per le quali secondo lei è necessario che si impegni il futuro governo a prescindere da quale sia? “La prima cosa di cui ha bisogno il Paese è la fiducia in sé stesso, nelle sue tradizioni e capacità. La seconda è una concordia civile: giustissima ed essenziale la polemica politica, ma senza demonizzare l’avversario. La terza, quale che sia il governo, è avere il cervello per capire, il cuore per risolversi e il braccio per eseguire”. Quando si parla di Meloni viene sempre evocato, specie dagli avversari, lo spettro del fascismo. Lei si sente di fare da garante su eventuali derive estremiste? “Giorgia Meloni non ha bisogno né di autocertificazioni e tantomeno di garanti. La sua posizione sul fascismo è nettissima, e vien evocata in modo alterato da avversari sprovveduti di altri argomenti, con una petulanza che definirei vessatoria. Il fascismo è morto e sepolto, condannato dalla storia e dal Paese, come il comunismo, i due peggiori flagelli del secolo scorso. Quanto me, come Lei, Basso, ha ricordato in un recente articolo, sono visceralmente nemico di ogni forma di dittatura. Un mio libro è stato dedicato alle ragazze del Soe, che hanno organizzato la Resistenza in Francia e sono state uccise dalla Gestapo”. Lei è un liberale quindi forse sui diritti civili e anche eutanasia è più aperto di molti che sono nel partito di Fratelli d’Italia. Sarà facile far convivere divisioni diverse? “Questo è vero. Io sono iscritto all’associazione Luca Coscioni, e credo che la vita sia un diritto disponibile del singolo. Del resto se, come crediamo, è un dono di Dio, il donatario può farne ciò che crede, altrimenti non sarebbe più un dono ma un usufrutto. Ma queste sono questioni di coscienza, sulle quali sarebbe bene lasciare ai parlamentari libertà di voto. Comunque credo che ognuno abbia il diritto di morire in pace e come preferisce”. Ha messo in conto che questa esperienza le toglierà molto del bello della vita che lei ha sempre apprezzato: i viaggi, la scrittura, qualche piacevole cena e anche il vivere lento di una città, Treviso, di cui lei è innamorato? “Si l’ho meso in conto, ma escludo che possa evitarmi le piacevoli cene con gli amici. Certo, se fossi eletto, dovrei limitare le letture, e forse sarebbe un bene: l’Ecclesiaste dice che chi aumenta il sapere aumenta il dolore. Le racconto un aneddoto: un suo collega venne in giorno a intervistarmi a casa e, impressionato dalle numerose biblioteche, mi chiese se avessi letto tutti quei libri. Risposi “Ahimè sì”. E lui: “Perché ahimè?” Perché, replicai, si contraddicono tutti, e se prima avevo alcune idee chiare oggi le ho dannatamente confuse”. Ma la musica resterebbe”. Perché sarebbe sbagliato avere Carlo Nordio ministro della Giustizia di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 23 agosto 2022 Nonostante abbia lasciato la toga da qualche anno, e sia di fatto l’autore del programma di politica giudiziaria del centrodestra (che non è molto liberale), avere in quel ruolo un ex magistrato, con tutto il suo passato di rapporti, amicizie e inimicizie, non sarebbe opportuno. È stata la settimana delle liste e dei programmi elettorali: la stampa si è “appassionata” al primo aspetto giacché la riduzione del numero dei parlamentari ha creato una lotta senza esclusione di colpi in ogni partito. Tuttavia anche sul fronte delle idee politiche che le coalizioni offrono all’elettorato non mancano elementi di interesse che possono aiutare a capire le differenze e le prospettive per il dopo-voto. Una delle novità più significative viene dai rispettivi piani sulla giustizia penale: ad esempio per la prima volta, dopo molto tempo e salvo colpi di scena dell’ultima ora (piuttosto improbabili), non ci saranno nelle liste magistrati in servizio. Ad oggi le uniche toghe che hanno annunciato la loro candidatura sono quattro ex pubblici ministeri, felicemente ma non rassegnatamente pensionati: l’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho, l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato (entrambi nei Cinquestelle), l’ex sostituto procuratore generale romano Simonetta Matone e l’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, in Fdi. Se queste fossero le sole presenze “togate” ciò dimostrerebbe che la riforma dell’ordinamento giudiziario del governo Draghi sulle cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica ha avuto un forte effetto. Ponendo una serie di limiti al ritorno alla professione per chi viene eletto o che intenda solamente candidarsi, la legge firmata dal guardasigilli Marta Cartabia ha dissuaso i magistrati attivi dal diretto impegno politico, e ciò è certamente un segnale positivo per chi ha denunciato il rischio della strumentalizzazione dell’attività giudiziaria in funzione di una possibile candidatura politica. Il secondo punto in comune che desta attenzione è il fatto che gli ex magistrati sono tutti ex pubblici ministeri e sono candidati nelle fila di partiti populisti. Ha sollevato polemiche il caso di Cafiero e Scarpinato perché entrambi sono passati direttamente dall’impegno sul campo a quello politico, essendo pensionati da pochi mesi - al pari peraltro di Matone, che si candida con la Lega - mentre Nordio aveva appeso la toga cinque anni fa. Nel caso dei primi due ci si interroga fondatamente sulla vicinanza ideologica tra alcuni settori della magistratura e i Cinquestelle, già evidenziata ai tempi dei governi Conte della attuale legislatura. Nondimeno ha destato sorpresa la discesa in campo di Nordio nella formazione di Giorgia Meloni. Il magistrato veneziano aveva sempre tenuto ad accreditare un suo profilo di moderato liberale (tradito solo una volta alle elezioni del ‘76 allorché seguendo l’invito di Montanelli votò Democrazia Cristiana, come rivela nel suo libro “Giustizia ultimo atto”), del tutto lontano dai partiti, di esclusivo profilo tecnico e senza dubbi di parzialità (con l’eccezione, come sempre ricorda lui nel suo libro, delle polemiche suscitate dalla sua presenza a una cena in un ristorante romano dove insieme ad altri fu fotografato l’allora senatore Cesare Previti, all’epoca in cui egli, ancora magistrato, presiedeva una commissione ministeriale per la riforma del codice penale, durante il secondo governo Berlusconi). Non sono polemiche meramente faziose: è opinione comune che il settore giustizia sarà ancora uno dei temi caldi della prossima legislatura, come lo è stato in quella che sta finendo. È in questa direzione che si sono sviluppati l’intervento di Silvio Berlusconi sul tema dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, il dettagliato programma di Azione ed Italia Viva, che pone il delicatissimo tema della separazione delle carriere tra pm e giudici nonché quello del ripristino della prescrizione soppressa da Bonafede in una delle poche (pessime) riforme che i populisti sono riusciti ad attuare. Su questi punti i programmi della coalizione di destra e del Pd latitano, ci sono solo generici accenni, se non - come nel caso della sinistra - assoluto e ostile silenzio. Chi ne scrive invece nel suo libro è Carlo Nordio, anzi si può ben dire che nell’ultima parte sia presentato il programma di politica giudiziaria del centro-destra (oltre ai famosi disegni di legge di riforma costituzionale di FdI mai abiurati da Meloni e di cui questo giornale ha scritto, su cui Nordio in una recente intervista a il Dubbio ha sorvolato). Lo stesso neo-candidato ha motivato il proprio ingresso in politica nonostante lo avesse escluso più volte proprio perché era più opportuno poter applicare le sue idee esposte nel libro e nei numerosissimi editoriali su Il Gazzettino e Il Messagero. Ebbene, con un occhio di doverosa attenzione a ciò che Nordio scrive, essendo indicato come uno dei possibili futuri guardasigilli nel caso di governo di centro-destra, si può ben dire che il suo programma di riforma solo apparentemente ha tratti in comune con quello di Calenda e Renzi. Quest’ultimo espressamente recepisce le osservazioni e le proposte dell’Unione delle camere penali italiane e, dunque, una visione espressamente garantista, mentre certi silenzi e dimenticanze di Nordio celano la feroce avversione di fondo di FdI a temi fondamentali come le condizioni carcerarie e la tutela dei diritti fondamentali delle minoranze. Poi sul tema della separazione delle carriere ci sono diverse considerazioni. Prima di tutto bisogna capire cosa si intenda con questa formula. Nell’attuale ordinamento è già prevista una pressoché totale separazione delle funzioni di inquirente e giudicante, ma il punto cruciale è la reale divaricazione delle carriere, degli organi disciplinari e di assegnazione degli incarichi direttivi, funzione che oggi è affidata a un unico Consiglio Superiore della Magistratura, con tutti i rischi di commistione e condizionamento che la vicenda Palamara ha svelato. Un progetto di legge redatto dalle camere penali, in particolare, suggerisce che, ferma restando la permanenza dei pm nell’ordinamento giudiziario, si debbano istituire due CSM dedicati a ciascuna funzione e totalmente autonomi l’uno dall’altro. Al contrario, non si comprende invece quale sia il modello di separazione che hanno in testa i meloniani (il presunto garantismo di Berlusconi conterà nulla, diciamo la verità, pura testimonianza). Nordio, poi, non lo scrive, e sarebbe necessario, perché - è evidente - oltre alla proposta delle camere penali c’è solo un altro modello, quello che prevede la fuoriuscita dei pm dall’ordinamento giudiziario per sottoporli all’esecutivo. È il modello di stato autoritario che prevede il controllo del governo direttamente sulle procure e sulla polizia giudiziaria, con tutti i gravi rischi del caso. Sarebbe necessario che Fdi esplicitasse cosa intenda davvero quando parla di “separazione delle carriere”. Nordio fa riferimento esclusivamente al modello anglosassone americano, in cui i public attorney sono sotto controllo dell’esecutivo. Un modello non consigliabile per l’Italia. Ma non è il suo unico silenzio: altrettanto grave è quello sul carcere e sulla sua riforma, con cui si possa consentire l’espiazione delle pene con misure alternative, evitando la vergogna di condizioni disumane di detenzione. Anche qui, si tace perché non si vuole una riforma e non è questa l’idea di funzione della pena che piace a Meloni. Basta una rapida lettura delle sue pagine social per trovare i soliti sgangherati e sguaiati appelli al carcere, quelli contro le “folli sentenze” garantiste delle Corti europee e le affermazioni che presuppongono una politica discriminatoria verso le minoranze etniche e di genere. Bisognerebbe che sul punto l’avvocatura italiana fosse netta: il garantismo non è un cavillo per vincere le cause, ma una visione politica rigorosa e irriducibile a tutela dei diritti dell’imputato. È di conseguenza inutile mercanteggiare con i partiti che la ripudiano. C’è poca chiarezza e molta timidezza sul punto anche dei vertici dell’Unione Camere Penali, ma i tempi attuali non suggeriscono mediocri furbizie ed ambiguità. Personalmente auguro a Nordio le migliori fortune: è uomo colto, di vaste letture, penna fertile e fantasiosa come i suoi romanzi di fantasia testimoniano ma forse è opportuno stia lontano dal posto di Guardasigilli e faccia valere l’expertise professionale altrove, in una commissione e nei disegni di legge, dove potrà servire lo Stato senza tentazioni e compromessi di potere. Nell’ultima sorprendente parte del suo libro racconta con grande efficacia i suoi difficili rapporti con certi settori della sua categoria ed in particolare con l’allora potente procura di Milano e alcuni suoi celebri esponenti che a suo dire, non proprio correttamente pubblicarono intercettazioni tra un indagato e un difensore che a lui facevano riferimento. Informa i lettori di custodire gelosamente alcune cordiali lettere dell’ex procuratore capo Borrelli, con cui ebbe modo di chiarirsi. Con ripete spesso Giuliano Ferrara, in Italia una rivoluzione non è possibile perché ci conosciamo tutti. Ecco, i magistrati in particolare si conoscono benissimo tra di loro e come scrive Nordio non dimenticano, al massimo “fanno finta”, i torti subiti. Dunque non è il caso che si occupino di governare il paese né durante ma anche dopo la carriera, specie quando sia stata prestigiosa, carica di gloria e degna di ogni stima. Variabile Nordio, il garantista che può sconvolgere Meloni di Errico Novi Il Dubbio, 23 agosto 2022 L’ex magistrato, candidato da FdI in Parlamento, è agli antipodi rispetto al partito di Giorgia su molti aspetti del programma giustizia. Potrà creare contrasti, ma anche apportare una benefica ventata di novità nel partito che aspira alla maggioranza relativa. Chiamatela variabile Nordio. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, editorialista del Messaggero sulla giustizia, censore delle derive più solipsistiche della magistratura, è una figura chiave del dibattito politico-giudiziario italiano. Ora è tra i più accreditati per la carica di futuro guardasigilli, e intanto è in lizza come candidato al Parlamento sotto le insegne di Fratelli d’Italia. Direte: un’altra toga che, dismessa l’attività di pm, entrato “in quiescenza”, sceglie la politica per continuare a far sentire il proprio peso e assumere nuovo potere. E no, perché Nordio non è mai entrato davvero “in quiescenza”: da anni è un protagonista, a prescindere dalle cariche istituzionali, del dibattito sulla giustizia, e ha continuato a esserlo anche dopo che 5 anni fa ha dismesso le funzioni per raggiunti limiti di età. Non solo. Perché oltre alle sue attività di impietoso divulgatore dei mali della giustizia, ha anche assunto nei mesi scorsi la presidenza del comitato per il Sì ai referendum garantisti. Non è stato un successo, lo sappiamo, ma già in quella occasione Nordio ha dato prova di essere pronto a fare la propria parte se chiamato a “sporcarsi le mani” (le previsioni negative sul quorum erano ampiamente note ben prima che l’ex pm di Venezia scendesse in campo). Ora, proprio lo snodo referendario dell’esperienza recente di Nordio è appunto il motivo per cui lo si può considerare una variabile molto interessante del futuro scenario politico, in particolare sulla giustizia. Nordio sostenne ovviamente la bontà e l’opportunità di tutti e cinque i quesiti garantisti. Fratelli d’Italia remò contro, cioè fece apertamente campagna per il No, sui due che riguardavano non la magistratura ma la sicurezza e in generale la lotta al crimine, ossia il referendum sulla legge Severino e quello sulla custodia cautelare. Adesso Giorgia Meloni candida un giurista ed ex magistrato molto più garantista di lei, rispetto al quale si è trovato, almeno per quei due quesiti, su posizioni contrapposte. Meloni è anche la più accreditata aspirante futura presidente del Consiglio (a voler considerare come indicativi i sondaggi e gli accordi di coalizione). Potrebbe indicare Nordio come guardasigilli. Ma anche se i giochi di maggioranza (sempre che il centrodestra esca vincitore) imponessero soluzioni differenti per via Arenula, Nordio farà certamente sentire, dagli scranni del Parlamento, il proprio preso di figura garantista e innovatrice. Non vuol dire che Meloni si è convertita al garantismo. Ma che le dinamiche di quello che sembra essere oggi il partito destinato a conquistare la maggioranza relativa saranno complicate. Anche contrastate. Perché già immaginiamo le figure “titolari” della giustizia in FdI, come Andrea Delmastro, trovarsi come minimo in disaccordo, per non dire in aperto conflitto, con Nordio su carcere e anticorruzione hard. Vedremo se sarà un balsamo, per FdI, o un detonatore di contraddizioni. Ma per tornare al discorso di partenza, bisogna riconoscere all’ex procuratore aggiunto di Venezia il merito di impegnarsi per dare un contributo, e soprattutto di volersi appunto sporcare le mani. Appostato non più solo sulla relativamente comoda tribuna degli editoriali sul Messaggero ma tra i banchi di Montecitorio. Non è l’unico ex magistrato che può dare qualità alla nostra politica. Anche se rispetto ad altri, nel merito, può incidere nella direzione che, almeno da queste pagine, è auspicata da sempre. Chissà perché nessuno ha candidato Marco Cappato di Andrea Pugiotto Il Riformista, 23 agosto 2022 Assicurare un diritto di tribuna a Marco Cappato sarebbe stato, da parte del partito che avesse deciso di farlo, generoso e lungimirante. Invece no. La sua sarebbe stata una candidatura indipendente non per modo di dire. Se la politica è agire trasformando, allora c’è molta più politica nella giusta causa assunta da Marco Cappato che in questo caotico avvio di campagna elettorale: la scelta, cioè, di farsi compagno di strada di Elena, malata oncologica terminale, fino alla città elvetica di Basilea dove ha potuto darsi la morte il 3 agosto scorso. Da questa esperienza umana integrale - di vita e morte, di diritti e divieti, di coraggio e infelicità, vissuta fino alla fine - scaturisce quello che Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 5 agosto) ha chiamato un “caso Cappato-bis”, dagli inediti risvolti giudiziari, costituzionali, normativi, finanche elettorali. Provo a metterli in fila. Gli sviluppi giudiziari ruotano attorno all’art. 580 c.p. che - dopo la nota sentenza costituzionale n. 242/2019 sorta dal precedente “caso Cappato” - punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio, salvo si tratti di persona 1) affetta da patologia irreversibile, 2) fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili, 3) dipendente da trattamenti di sostegno vitale, 4) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Qui, a mancare, è la terza condizione. Nonostante la diagnosi infausta e senza scampo, la vita di Elena non dipendeva (ancora) da alcun supporto meccanico o terapeutico: il che non consente di scriminare penalmente la condotta di Cappato. È da escludersi l’istigazione. I quattro minuti videoregistrati dove Elena dichiara la sua volontà, le sue ragioni, il suo j’accuse verso l’Italia che la condanna a morire in esilio, attestano un proposito suicidario autonomamente determinato. Elena non viveva una condizione di abbandono terapeutico o affettivo: era curata, amava riamata, ma ha scelto di morire. Sulla sua volontà Cappato non ha influito. Potrebbe configurarsi, invece, l’agevolazione al suicidio che l’art. 580 c.p. punisce “in qualsiasi modo” sia prestata. Autodenunciandosi, Cappato ha qualificato come “indispensabile” il suo aiuto alla scelta di Elena. Spetterà all’autorità giudiziaria accertare se, davvero, si è trattato di condotta materiale direttamente e strumentalmente connessa all’atto suicidario di una persona autosufficiente e non ancora in punto di morte. E saranno sempre i magistrati a valutare se ricorrano gli estremi per una misura cautelare nei confronti di Cappato, che ha già dichiarato la volontà di aiutare, anche in futuro, altri malati italiani che intendessero recarsi in Svizzera dove ottenere assistenza medica alla loro morte volontaria. Qui e ora questo solo si può ipotizzare: l’imputazione per un reato punito con la reclusione da cinque a dodici anni, e un possibile provvedimento cautelare per evitarne il pericolo di reiterazione. Autodenunciandosi, Cappato non ha chiesto di chiudere un occhio, semmai di spalancarli su quanto ha fatto. Obbedendo a un diffuso tic linguistico spinto fino all’abuso, Giovanni Maria Flick (Avvenire, 3 agosto) lo definisce un “atto provocatorio”, intendendo così ridimensionarlo per meglio accantonarlo, perché le provocazioni - come usa dire - non vanno raccolte, sono ostentazioni fini a sé stesse, non dettano legge. È un’etichetta sbagliata. Non si tratta nemmeno di un gesto sacrificale, deriva estranea a chi possiede una cultura politica liberale e libertaria. Né di una mera testimonianza simbolica, come l’obiezione di coscienza del medico all’aborto: un’esenzione per legge a costo zero è facile; la violazione pubblica della legge, comportando il rischio del carcere, è tutt’altro che una passeggiata. Quella messa in atto è una pratica nonviolenta di lotta politica che ha un nome proprio, disobbedienza civile, il cui obiettivo non è trasgredire le regole, semmai cambiarle. “Disobbedire (civilmente) è lo strumento indispensabile per chi vuole andare alla radice dei problemi senza sradicare la pianta della democrazia”; è una praxis essenziale “per ogni tipo di società aperta che voglia autocorreggersi e innovare”: così scrive Marco Cappato in un suo libro - titolato come un manifesto politico - Credere, disobbedire, combattere (Rizzoli, 2017). Cappato è un visionario pragmatico, Considero la sua condotta un di civismo, non di cinismo. Un’autentica lezione di diritto costituzionale, laddove insegna come ribellarsi a una legge irragionevole che le Camere non intendono cambiare o abrogare: pubblicamente disobbedendo e accettandone le conseguenze, si va a processo per chiederne l’impugnazione davanti al Giudice delle leggi. Così, in nome della legalità costituzionale, sarà possibile per la Consulta annullare o rimodulare la norma impugnata. Dipendere da trattamenti salvavita - meccanici o terapeutici - per poter accedere al suicidio medicalmente assistito rappresenta, nel panorama comparato, un unicum legislativo e giurisprudenziale. La strada che porta a una nuova questione di legittimità può rivelarsi tutta in salita. A Palazzo della Consulta non si contesterebbe una norma (l’art. 580 c.p.) per il suo anacronismo rispetto all’avanzare del sapere scientifico e allo sviluppo delle nuove tecnologie. Né si chiederebbe di aggiungervi un’ulteriore eccezione alla regola che punisce l’aiuto al suicidio. Ad essere impugnato direttamente sarebbe, semmai, il giudicato costituzionale della sent. n. 242/2019, per aver introdotto la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale tra le quattro condizioni necessarie a “depenalizzare” il reato. Qui sta il problema. “Contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione” (art. 137, comma 3, Cost.) mentre la quaestio mira proprio a sindacare la soluzione adottata dalla Consulta. Ecco perché simili impugnazioni sono dichiarate inammissibili di default, rappresentando - in forma surrettizia - un sindacato di merito di una decisione d’incostituzionalità della quale si cerca di eludere la forza vincolante (art. 136 Cost.). Così, almeno fino ad oggi, hanno ragionato i giudici costituzionali: serviranno argomenti giuridici di segno opposto - che pure non mancano - per rovesciare tale giurisprudenza. A questo ostacolo processuale se ne aggiunge un altro, squisitamente di politica del diritto. La nostra Corte costituzionale - diversamente da altri tribunali costituzionali - tiene a distanza di sicurezza le scelte di fine vita dal principio di autodeterminazione. La verità (o qualcosa che molto le assomiglia) è che a Palazzo della Consulta, quando sono in gioco i “diritti infelici”, sembra prevalere un riflesso automatico: proteggere le persone da scelte individuali ritenute contrarie al loro bene e guidarle nel loro stesso interesse, anche al prezzo di limitarne l’autonomo volere. Si chiama paternalismo giuridico: una categoria che dovrebbe essere estranea a una democrazia liberale, di cui contraddice il pluralismo etico e la pari dignità sociale tra le persone. Servirebbe una legge facoltizzante, aperta dunque all’opzione individuale, che guardi all’eutanasia non come a un reato, a un peccato o a una pulsione malata. Si tratta, però, di un’aspettativa tradita da troppo tempo, nonostante i tanti moniti e le tentate iniziative legislative, anche popolari. Per svegliare le nuove Camere da questo letargo servirà un interpello quotidiano e Marco Cappato, da parlamentare, avrebbe potuto incarnarlo al meglio. La sua sarebbe stata una candidatura indipendente (e non per modo di dire), capace di intercettare un elettorato reattivo che non vota per appartenenza. Avrebbe limitato il danno reputazionale di un Parlamento incapace di affrontare questioni (letteralmente) di vita e di morte, di cui tantissimi elettori hanno fatto o fanno esperienza diretta o per interposta persona. Eppure, nessun partito si è mostrato così generoso e lungimirante da assicurare a Marco Cappato un diritto di tribuna. Per il Parlamento che verrà, è un pessimo abbrivio. Scarpinato, Di Matteo, Ingroia e gli altri confratelli. Risse elettorali all’antimafia di Giuseppe Sottile Il Foglio, 23 agosto 2022 Maria Falcone, il volto più gentile e cerimonioso dell’antimafia militante, ha scritto una nota dolente perché l’ex procuratore Pietro Grasso, miracolato da Pier Luigi Bersani nel 2013, non è stato ricandidato al Senato della Repubblica. Ce ne faremo una ragione. A Grasso non è andata poi tanto male: per cinque anni è stato al vertice di Palazzo Madama; porta a casa le onorificenze che spettano legittimamente a chi ha ricoperto la seconda carica dello Stato e un ricco, ricchissimo vitalizio. What else? La sorella di Giovanni Falcone, il giudice dilaniato nel maggio del ‘92 a Capaci dal tritolo mafioso, avrebbe potuto consolarsi con il turn over messo in moto in queste ore dal Movimento cinque stelle: esce da Palazzo Madama Pietro Grasso e al suo posto entrano due campioni dell’antimafia, altrettanto intrepidi e titolati. Il primo è Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, già approdato nei libri di storia in uso nelle scuole elementari: negli anni delle stragi, mentre tutti cercavano i killer e i mandanti di Cosa nostra, lui si inventò la boiata pazzasca della Trattativa, un teorema sconfessato dalla Corte d’appello e anche dai supremi giudici della Cassazione, ma con il quale lui ha convissuto per tutta la vita, scrivendo articoli di fondo per il Fatto quotidiano e saggi di voluminoso spessore per Micromega. Il secondo campione convolato a nozze con il partito fondato da Beppe Grillo è Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale antimafia, come Pietro Grasso, che per oltre cinque anni ha annunciato la cattura prossima ventura di Matteo Messina Denaro, la grande primula rossa di Cosa nostra, ma il risultato non è mai arrivato. Dettagli, comunque. Ai fanatici della materia i risultati non interessano. E non interessa nemmeno il merito. Preferiscono gli eroi che vanno a caccia di trame oscure e di regie occulte, che ipotizzano complotti e servizi deviati; e che soprattutto non nascondono l’ambizione di riscrivere la storia d’Italia, riducendo così la vita della Repubblica a un continuo patto scellerato tra la politica e le organizzazioni criminali. Fino all’altro ieri eravamo convinti che la confraternita della Trattativa - pane quotidiano per trasmissioni televisive come “Report” di Sigfrido Ranucci o “Atlantide” di Andrea Purgatori - avesse una leadership compatta, unita e indissolubile. E che Roberto Scarpinato fosse il fraternissimo alleato di Nino Di Matteo che, da rappresentante dell’accusa nel processo celebrato dentro l’aula bunker dell’Ucciardone, ha toccato punte di popolarità talmente alte che gli hanno consentito di essere incoronato come membro togato del Consiglio superiore della magistratura. Ma una dichiarazione di Antonio Ingroia - l’ex procuratore aggiunto di Palermo che imbastì l’inchiesta della Trattativa e arruolò come “nuova icona dell’antimafia” il pataccaro Massimo Ciancimino, figlio e ventriloquo di Don Vito, sindaco democristiano e complice dei sanguinari corleonesi di Totò Riina - ha scombinato all’improvviso tutte le carte del gioco. A differenza del truce Luca Palamara, reliquiario vivente delle nefandezze inconfessabili della magistratura, il ringalluzzito Ingroia non ha chiesto a Scarpinato di chiarire i suoi rapporti di amicizia con Antonello Montante, un reuccio dell’antimafia dei dossier e degli affari. In compenso ha elencato, con acribia giurisprudenziale, i motivi per cui Di Matteo resta il solo eroe duro e puro dell’antimafia chiodata mentre Scarpinato, travolto dalla sua fascinazione verso il potere, ha contrattato la propria candidatura con Giuseppe Conte, capo dei Cinque stelle: un movimento che, oltre ad avere approvato in Parlamento l’orrenda riforma Cartabia, orrendamente impregnata di garantismo, si porta dietro la colpa di avere mantenuto al ministero della Giustizia quel Fofò Bonafede che, subito dopo le elezioni del 2018, chiamò Di Matteo per promettergli la potente direzione dell’Amministrazione penitenziaria ma il giorno dopo si pentì e assegnò l’incarico a un magistrato di profilo più opaco ma sicuramente privo della devastante vocazione di utilizzare il palcoscenico delle carceri per aumentare il proprio prestigio e alimentare la propria vanità. La requisitoria di Ingroia - che non a caso si è già candidato con il Partito comunista di Marco Rizzo e ha trascinato con sé nell’avventura elettorale Gina Lollobrigida, 95 anni, che lui assiste come avvocato - spiazza un altro santone della Confraternita dei Chiodati: Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, saltato in aria con gli uomini della scorta, cinquanta giorni dopo la morte di Falcone, nell’attentato di via D’Amelio a Palermo. Dalla tragedia delle stragi mafiose alla farsa del suo tormento elettorale il passo, per Salvatore Borsellino, è stato breve. Il giorno prima - come racconta lui stesso - raccoglieva le firme per aiutare Luigi De Magistris, altro campione delle porte girevoli tra magistratura e politica, a presentare la propria lista; ma “alle due di questa notte - ha confessato su Facebook - ho letto per la prima volta il rilancio di agenzia che dava notizia della candidatura di Roberto Scarpinato e la mia unica paura è stata a quel punto di svegliarmi stamattina e rendermi conto che si trattava solo di un sogno”. Quando ha verificato che il sogno non era un incubo e nemmeno un abbaglio, Salvatore Borsellino ha mollato De Magistris e si è schierato, ipso facto, per Scarpinato la cui candidatura gli è sembrata, manco a dirlo, “estremamente coraggiosa”. Ora però, dopo la scomunica di Ingroia, è ripiombato nel dubbio più atroce. Lui, “il fratello del giudice Paolo” - che in nome della santissima inchiesta sulla Trattativa non esitò ad abbracciare e baciare in una pubblica piazza il pataccaro Ciancimino - è stato un devoto di Nino Di Matteo. Lo ha difeso, adorato e consacrato come il migliore apostolo dell’antimafia. Gli ha persino conferito il dogma dell’infallibilità. Pensate che quando Fiammetta Borsellino, la più giovane figlia di Paolo, ha sollevato dei dubbi sul ruolo di Di Matteo, allora giovane pubblico ministero a Caltanissetta, nel depistaggio delle indagini su via D’Amelio, lui è andato su tutte le furie e ha invitato a mezzo stampa la nipote a chiedere scusa al magistrato e a non scalfirne per nessuna ragione il mito. Ora sarà costretto a scegliere: voterà per Ingroia che è rimasto fedele a Di Matteo o per Scarpinato che ha fatto la sua trattativa per un posto al Senato con il partito che ha prima illuso e poi tradito Di Matteo? Mai l’antimafia ha avuto una coscienza così lacerata come in questa vigilia elettorale. Il giudice Savarese: “Toghe davvero libere: perché mi candido al Csm” di Paolo Comi Il Riformista, 23 agosto 2022 “Gli ultimi due anni hanno visto un esercizio del potere disciplinare sul quale occorre nei prossimi anni innanzitutto fare chiarezza. Il prossimo Csm dovrà usare questo potere nel modo più rigoroso”. Il magistrato del Tribunale di Napoli: “La magistratura è assoggettata a un processo di lenta ma inesorabile gerarchizzazione che va combattuta, perché contraria alla Costituzione e alla Cedu. Dobbiamo svincolarci da pressioni e condizionamenti letali per la libertà dei cittadini”. “Nel mio programma cito ripetutamente una frase di Linos Sicilianos, giudice alla Corte europea dei diritti dell’uomo: “Judges must be free”, i giudici devono essere liberi. Liberi da interferenze di poteri diversi da quello giudiziario e liberi da pressioni o condizionamenti che vengono dallo stesso ordine giudiziario. Questo aspetto soprattutto mi interessa e deve interessare la società civile: l’indipendenza interna del magistrato che può essere minata ogni giorno da un “clima” tanto generale, quanto apparentemente innocuo, di scarsa libertà”, afferma Edoardo Savarese, giudice del tribunale di Napoli e scrittore, candidato come indipendente alle prossime elezioni del Csm. Giudice Savarese, ma l’indipendenza del magistrato non dovrebbe essere un prerequisito? Certo. Ma nelle cose del mondo accade che ci dimentichiamo i prerequisiti fondanti, per i quali invece bisogna essere vigili ed esserlo sempre di più. Questo vale per il funzionamento di tutte le istituzioni, oggi più che mai, e vale per la magistratura. Assoggettata a un processo di lenta ma inesorabile gerarchizzazione che va combattuta, perché contraria alla Costituzione e alla Cedu. Perché letale per le libertà dei cittadini. E questo va spiegato ai cittadini. Questo va ricordato ai magistrati che si accingono al voto, e hanno in questo una grande responsabilità personale. Ha ragione allora Palamara quando dice che in Italia certi processi sono ‘pilotati’? Se si riferisce ai libri di Palamara, non so se l’autore abbia ragione oppure torto. Escludo che i processi siano pilotati. Se vi sono stati casi “politicamente sensibili”, ove le tesi di Palamara fossero confermate dalla Storia, saremmo di fronte a una patologia circoscritta. Altro è il tema vasto dell’uso politico della giustizia. E dell’uso della giustizia che la politica fa a suo uso e consumo. Sono questioni sulle quali, certamente, un bagno di verità e di linguaggio franco dovrebbe finalmente essere iniziato. Ma da tutti i protagonisti in gioco. Dobbiamo essere però consapevoli che sia l’aspetto della indipendenza esterna, sia il profilo di quella interna, non sono un problema solo italiano. Riguardano gli assetti del potere giudiziario nel mondo occidentale, che vive la sua crisi sistematica, ormai, dello Stato di diritto. Nel suo programma è prevista una ‘penalizzazione’ per i fuori ruolo, in particolare quelli nominati dalla politica. Se venisse attuata, tanto per fare un esempio, un magistrato con il cv come quello di Raffaele Cantone non potrebbe mai diventare procuratore... Non è detto che Cantone non avrebbe potuto essere nominato. Il senso del mio programma è chiaro, anche sotto questo aspetto, nel favorire e quindi preferire nella nomina chi si sia occupato per più tempo di giurisdizione. L’esercizio concreto e proficuo della giurisdizione deve tornare a essere il faro del Csm, ma anche della formazione culturale del singolo magistrato sin dall’inizio. Il processo è lo spazio-tempo che dà senso alla funzione del magistrato terzo e imparziale. Il resto è del tutto secondario. Il potere disciplinare del pg della Cassazione è sconfinato ed è avvolto nel mistero assoluto, si pensi ai provvedimenti di archiviazione. Nel Palamaragate, poi, medesime condotte sono state valutate in maniera differente. Cosa propone? Sul potere disciplinare sarebbe necessaria una rimeditazione profonda (ci sono recenti studi accademici di grande interesse). La stragrande maggioranza dei ricorsi proposti da giudici di paesi europei alla Corte di Strasburgo riguardano l’uso illegittimo, abusivo, coartante del potere disciplinare. È una casistica molto interessante che studio da tempo. Il problema, anche qui, non riguarda solo noi. Certo è che gli ultimi due anni hanno visto un esercizio del potere disciplinare sul quale occorre nei prossimi anni innanzitutto fare chiarezza. Il prossimo Csm, a legislazione invariata, dovrà essere il custode più rigoroso dell’uso imparziale e trasparente del disciplinare. Potrebbe e dovrebbe costituirsi su questo un gruppo di lavoro ad hoc, per monitorare, rendere conto, e anche proporre al legislatore i cambiamenti necessari. L’università dovrebbe in questo darci una mano: un dossier Italia sull’uso del disciplinare per i magistrati, da sottoporre al governo, al Parlamento e alla Corte di Strasburgo (nella quale, da internazionalista di formazione quale sono, confido non poco). Nei giorni scorsi ha inviato una mail ai suoi colleghi in cui faceva outing, sottolineando però che avrebbe potuto essere un “terribile autogol” elettorale. Ci sono discriminazioni per i magistrati o le magistrate omosessuali ai fini della carriera? Questo è uno di quegli argomenti di cui non si parla mai... Il tema dell’orientamento sessuale e di genere nella magistratura effettivamente è poco indagato. Il mio orientamento sessuale l’ho reso pubblico da molto tempo, attraverso la mia attività di romanziere e anche di autore di articoli sulla stampa. In questo credo di essere stato trasparente e militante. Non penso di aver subito discriminazioni. Anzi, nell’ambiente giudiziario, e mi riferisco anche all’avvocatura, questa sincerità mi ha sempre ripagato. È stata liberante per me e per gli altri. Immagino ci sia anche chi non gradisca... per varie ragioni. L’Italia mi pare piuttosto ingessata su questo tema, ancora nel 2022. Mi permetto però di pensare che chi come me ha affrontato certe battaglie abbia appreso la lezione forse più importante: conservare la libertà irriducibile della propria coscienza, che non può restare un fatto interno, ma deve alla fine entrare in comunicazione con gli altri. Un’ultima domanda. Un consiglio di lettura, per i lettori e per i suoi colleghi, sia candidati che votanti alle prossime elezioni del Csm? Certo: “Diario di un giudice” di Dante Troisi, lo consiglio anche a me stesso. Pistola taser, danni anche letali. Servono linee guida e indicazioni per i medici di pronto soccorso di Giuseppe del Bello La Repubblica Pistola taser, danni anche letali. Servono linee guida e indicazioni per i medici di pronto soccorso. La Gran Bretagna si dota di regole che pongono limiti all’utilizzo e aiutano i medici a gestire le lesioni fisiche. Le freccette tolte solo da personale medico. Pistola taser, baluardo anticrimine o pericolosa arma? Addirittura necessaria per alcuni, a partire da Matteo Salvini che ne propugna l’estensione a una platea più vasta. “Difesa personale” è la bandiera che sventola a nome del centrodestra. Ma risale ormai al 14 marzo di quest’anno lo spartiacque che tutt’ora divide in due l’Italia: quella dei paladini della pistola elettronica e quella degli oppositori di uno strumento ritenuto a rischio-offesa. Vero è che non è stata concepita per uccidere, insistono questi ultimi, ma il pericolo di danni, talvolta letali c’è. Tra l’altro, quand’anche non si arrivi a conseguenze estreme, non è escluso che sul fisico del destinatario quegli impulsi elettrici possano lasciare il segno. A distanza di 6 mesi dalla distribuzione dei taser (TX2 è la sigla identificatrice) a Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Cagliari, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Messina e Catania) e di quattro capoluoghi di provincia (Caserta, Brindisi, Reggio Emilia e Padova), si comincia a fare un primo bilancio. Nessun dato ufficiale, ma solo qualche numero (presuntivo e da fonti criptate), in attesa che ad esprimersi sia il ministero dell’Interno. In Italia, TX2 è stato usato poche decine di volte, una di queste anche a Genova per impedire un suicidio. La ritrosia istituzionale a diffonderne l’utilizzo potrebbe essere correlata anche alle polemiche che continuano a divampare e alle perplessità sempre più sentite dagli ambienti medici. In Usa e Gran Bretagna - D’altro canto, oltre agli States dove della pistola elettronica si fa gran uso da decenni, ci sono anche altre nazioni che hanno maturato una lunga esperienza. Per esempio, la Gran Bretagna che, avendone liberalizzato l’impiego dal 2004 (la si può acquistare e detenere in casa, purché in possesso di porto d’armi e finalizzata a funzione difensiva all’interno delle mura domestiche), oggi corre ai ripari. Non per porre limitazioni particolari oltre quelle già in vigore, ma per indirizzare i medici. In che senso? Semplicemente a gestire le lesioni fisiche derivanti dalla pistola taser. In Gran Bretagna prime linee guida - A sviluppare le linee guida (pubblicate su Emergency Medical Journal, costola del BMJ, da Anthony Bleetman, Alan E Hepper e Robert D Sheridan) ci hanno pensato gli esperti del Defence Science and Technology Laboratory (Dstl) del Regno Unito che, tra le raccomandazioni, ne hanno inserito una ritenuta fondamentale: se la sonda della pistola è penetrata nella pelle in una regione anatomica non particolarmente vulnerabile, bisogna prima stirare la cute che circoscrive la sede di penetrazione e poi estrarre con forza il corpo della sonda. Attenzione alle parti sensibili del corpo - Un’acquisizione che ha convinto a dotare gli agenti di polizia britannici di modelli taser più recenti a cui è stato aggiunto uno strumento di plastica utilizzato per rimuovere la sonda. Le cose cambiano e l’approccio va rivisitato in ambiente ospedaliero qualora dal dardo elettronico lanciato dalla pistola e deformato dall’impatto col corpo fossero raggiunte aree “sensibili” come occhi, testa, collo o genitali. In questo caso dovrebbero essere esclusivamente i medici a rimuovere freccetta e relativa sonda. La pistola può provocare un’aritmia cardiaca - Taser non è infatti soltanto strumento di deterrenza, viste le lesioni che può provocare. “I due dardi che, collegati a fili conduttori, partono dalla pistola, trasmettono una scarica ad alta tensione (in genere 50mila volt) - aveva spiegato a Salute a marzo scorso Maurizio Santomauro, direttore del centro di Cardiostimolazione del Policlinico della Federico II di Napoli e presidente del Giec (Gruppo intervento emergenze cardiologiche) - ma a basso amperaggio (tra i 6 e i 10 milliampère), rilasciata in brevissimi impulsi ravvicinati (di 4 o 5 microsecondi, con picchi fino a 6 ampère, a un ritmo di circa 15 impulsi al secondo). Per ottenere l’effetto desiderato entrambe le freccette devono colpire il bersaglio. E sono proprio questi impulsi, i responsabili potenziali di un’aritmia cardiaca oltre che della contrazione dei muscoli periferici”. Il protocollo di utilizzo in Italia - Per evitare abusi il ministero degli Interni ha elaborato un protocollo di utilizzo a cui ogni agente si deve attenere, ricorda Santomauro, si va “dall’individuazione del pericolo, alla dichiarazione al soggetto di essere armato di pistola elettronica, all’esposizione dell’arma, alla scossa di avvertimento con puntamento del taser fino all’utilizzo delle scariche elettriche. L’agente comunque deve tener conto delle particolari condizioni di vulnerabilità in cui si deve evitare l’uso (minori, donne incinte, tossicodipendenti, alcolizzati, cardiopatici e pazienti psichiatrici)”. Al pronto soccorso fare l’elettrocardiogramma - Gli esperti britannici sostengono giustamente, spiega il presidente Giec, che “i medici devono essere consapevoli delle possibili lesioni secondarie: i pazienti che approdano al pronto soccorso dovrebbero essere sottoposti a elettrocardiogramma mentre il monitoraggio cardiaco andrebbe preso in considerazione nei cardiopatici, nei portatori di pacemaker o di defibrillatore impiantabile. Ritengo che anche il nostro Paese debba adottare un protocollo o delle linee guida che, alla stregua della Gran Bretagna, consenta al personale medico di conoscere le conseguenze del taser e del loro corretto trattamento”. E c’è chi rifiuta l’impiego - I 4482 TX2 distribuiti in Italia sono stati dati in dotazione alle forze dell’ordine in 14 città metropolitane, e molte di queste ne hanno esteso l’uso anche alla polizia locale. Ma ci sono almeno due eccezioni per ora, aggiunge lo specialista: “Roma e Torino si sono opposte, negando la possibilità di impiego ai vigili urbani”. La questione per ora non è stata risolta in via definitiva. Foggia. Ennesima tragedia in via delle Casermette: 30enne si toglie la vita in carcere Gazzetta del Mezzogiorno, 23 agosto 2022 Un detenuto di 30 anni, di Cerignola (Foggia), si è suicidato in cella ieri, nel giorno del suo compleanno. Lo si apprende dal Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. Il detenuto - ricostruisce la sigla sindacale - era “in carcere per una serie di reati contro i familiari e si sarebbe impiccato nella sua stanza dopo una videochiamata con i parenti”. Con quello di ieri sale 5 il numero dei suicidi avvenuti nel carcere dauno. Secondo il sindacato questo avviene “anche a causa della grave carenza di personale per cui un solo poliziotto è costretto a gestire e controllare contemporaneamente più posti di servizio e nel contempo i detenuti nelle loro stanze”. Sempre il Sappe ricorda che “sabato un detenuto ha appiccato il fuoco alla sua stanza provocando un enorme nube di fumo che ha invaso la sezione detentiva che avrebbe potuto generare una tragedia” e che qualche giorno fa è “stato rinvenuto un bustone con droga e telefonini”. Torino. Sciopero della fame nella sezione femminile del carcere per denunciare le condizioni di vita torinoggi.it, 23 agosto 2022 Sedici militanti e attivisti dell’Associazione Marco Pannella di Torino partecipano all’iniziativa non violenta di Rita Bernardini (Nessuno tocchi Caino) giunta al sesto giorno. L’associazione Marco Pannella di Torino aderisce allo sciopero della fame di Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, giunta oggi al sesto giorno dell’iniziativa nonviolenta, sulla grave situazione in cui versano le carceri italiane nelle quali si è registrato il numero record di 53 suicidi di detenuti da inizio anno a oggi (presso il carcere delle Vallette il 15 agosto si è tolto la vita un detenuto di 25 anni). Uno sciopero della fame a staffetta che coinvolge sedici attivisti e militanti Radicali. Questa adesione segue l’esempio delle ragazze del femminile del carcere delle Vallette di Torino comunicata a Rita Bernardini durante la visita di Nessuno tocchi Caino del 19 agosto scorso. Lo sciopero della fame è a sostegno delle volontà manifestate dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e del Capo del Dap Carlo Renoldi affinché si proceda per l’immediato a ridurre la popolazione detenuta in forte sovraffollamento, con misure come la liberazione anticipata speciale. Per quel che riguarda la vita in carcere, l’iniziativa nonviolenta è a sostegno della volontà di far aumentare i contatti dei detenuti con i familiari attraverso un maggior numero di telefonate e di video chiamate e con la concessione dei trasferimenti richiesti dai detenuti per avvicinamento alla famiglia e per motivi di studio e di lavoro. Altri obiettivi più a lungo termine sono rivolti a tutte le forze politiche impegnate nella campagna elettorale affinché l’esecuzione penale e la riforma della giustizia siano nel concreto aderenti ai principi della Costituzione italiana e della Convenzione europea. Il segretario regionale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) del Piemonte Mirco Savastano, dirigenti sindacali locali e diversi poliziotti penitenziari hanno avviato iniziative a sostegno di quelle annunciate oggi dal segretario generale Aldo Di Giacomo che ha cominciato lo sciopero della fame ed ha rivolto un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Bologna. Carcere Pratello: “Troppi detenuti e poco personale, a rischio lo spettacolo di teatro” bolognatoday.it, 23 agosto 2022 Il progressivo aumento dei giovani detenuti nel carcere minorile del Pratello di Bologna, che ad oggi sono 45, e “la grave carenza di organico mettono a rischio le rappresentazioni teatrali della Compagnia del Pratello dal 26 al 29 agosto”. A lanciare l’allarme è il segretario nazionale della Uil Pa Polizia penitenziaria, Domenico Maldarizzi. In una nota, Maldarizzi spiega che “abbiamo appreso che la direzione del Pratello, giustamente, sta valutando l’idea di sospendere la manifestazione proprio per il grave sovraffollamento dell’Istituto e per la gravissima carenza di personale”. Proprio per questo, aggiunge, “oggi abbiamo inviato una nota a tutti i livelli della giustizia minorile”, chiedendo che “si intervenga con sollecitudine”. La presenza di ben 45 ragazzi all’interno del carcere minorile, afferma infatti Maldarizi, fa sì che “il personale presente sia costretto giornalmente a turni di servizio prolungati e continuamente richiamato in servizio per garantire quel minimo di sicurezza che, evidentemente, preoccupa la direzione al punto tale di pensare ad una sospensione di una delle attività trattamentali ‘fiore all’occhiello’ del Pratello”. Per questo, chiosa il sindacalista, se “la finalità della pena è e deve essere sempre riabilitativa e rieducativa, come previsto dal nostro ordinamento penitenziario e dalla Costituzione, per tutte le istituzioni deve essere una priorità assoluta restituire alla normalità dei ragazzi che spesso, per primi, hanno subito violenza”. Carcere, Fp Cgil: “Giovane con il cellulare, al Pratello difficile gestione e sovraffollamento” Insomma, sintetizza Maldarizzi, “quei ragazzi non possono essere considerati dei numeri, e la capienza della struttura non può essere valutata solo sulla base dei letti e delle celle a disposizione”. Purtroppo, chiosa il segretario nazionale della Uil Pa Polizia penitenziaria, “la cosa che più ci rattrista è sapere che nessun sfollamento di ragazzi, più volte richiesto, viene autorizzato, né tantomeno vi è un aumento adeguato di personale di Polizia penitenziaria e dell’area educativa”. Tuttavia, conclude Maldarizzi, “se non si corre subito ai ripari, tutto ciò non può che ricadere su un aumento del clima di tensione tra i minori ristretti, che potrebbe sfociare in eventi critici ben più gravi di quelli che ormai giornalmente accadono”. Pisa. Pet therapy in carcere, il progetto pilota al Don Bosco di Lino Cavedon Quattro Zampe, 23 agosto 2022 Meraviglioso il progetto pilota, da ripetere e da esportare, promosso alla Casa Circondariale di Pisa “Don Bosco” con i cani Nana ed El Niño dell’associazione DoReMiao. Commoventi e pieni di sentimenti i testi scritti sul corso dai ragazzi e dalle ragazze detenute. Se la rieducazione di un detenuto è un compito ineludibile per la struttura penitenziaria che lo ospita, la mediazione di un animale domestico rappresenta una opportunità particolarmente efficace. L’animale, infatti, non evoca nulla di ciò che è successo nella relazione con gli umani, ma offre al detenuto condizioni di libertà emotiva, assenza di giudizio, opportunità per un lavoro di introspezione finalizzato a incontrare la parte migliore di sé. Molti istituti di pena in Italia stanno riscontrando i benefici di tale scelta finalizzata a ridurre il rischio di recidività da parte del detenuto, una volta rientrato nella società. Anche l’Istituto Don Bosco di Pisa, all’inizio di quest’anno, ha attivato un percorso di Educazione Assistita con i Cani all’interno delle sezioni maschile e femminile. L’impegnativo progetto è stato realizzato dall’associazione DoReMiao, esperta nella relazione riabilitativa dei detenuti. Dopo qualche anno di interruzione causa Covid, l’équipe è ritornata dove aveva iniziato: nel 2014, infatti, la direzione della Casa Circondariale di Pisa aveva autorizzato l’avvio di un progetto pilota di pet therapy. Il mondo del carcere è fortemente deprivato di emozioni, come si evince dalla significativa riflessione di Barbara Bellettini, presidente di DoReMiao: “A ogni cancello che si apre”, commenta lei, “troviamo personale che sorride alla sola vista del passaggio dei nostri cani. Qualcuno si trattiene un po’ di più e ci racconta del suo che è a casa ad aspettarlo. Le mani affondano nel mantello, qualcuno si china per farsi leccare, altri indugiano in uno sguardo intenerito”. Si intuisce all’istante che l’ingresso in carcere con i cani è sempre un po’ una festa per i detenuti, ma a volte anche per il personale di polizia. Pure un’insegnante ne ha avuto riscontro, riferendo un aneddoto rilevante: “un detenuto che segue i miei corsi ha detto che il giovedì non potrà più venire a lezione perché deve stare con i vostri cani. Sono contenta, si vede che gli fanno bene”. Nella sala polivalente dell’Istituto, le operatrici preparano il setting per realizzare le varie attività: le ciotole per l’acqua e le attrezzature varie per gli esercizi di abilità. Un bel cerchio di sedie ha la funzione di aprire il dialogo per creare un piacevole confronto. “In un attimo”, ci racconta Barbara, “Nana si lancia fuori dalla sala, inutile chiamarla… le risate nel cortile ci avvertono che i ragazzi sono arrivati e che lei, come sempre, li ha sentiti prima di noi”. Alla sezione maschile c’è chi porta sempre un pacchetto di fette biscottate per Nana e El Niño. Al reparto femminile, il venerdì, le ragazze si organizzano acquistando un pacchetto di würstel. In un ambiente dove la privazione della libertà porta con sé, come ricaduta, l’impossibilità di offrire qualcosa agli altri, per i cani gli ospiti riescono a trovare, comunque, il modo di portare dei doni. “Qualcuno”, prosegue Barbara, “oltre al cibo ha tenuto da parte una scatolina di cartone per fare un gioco di problem solving. Le ragazze si offrono di ricamare il nome dei cani su un triangolo di stoffa per fare delle bandane personalizzate. Una detenuta ha staccato dalla parete della sua cella una cartolina che raffigura un cane e ce la regala per ringraziarci di questi momenti passati insieme”. Le due ore di incontro settimanale scorrono sempre molto velocemente. Ogni volta le operatrici preparano un programma di attività da realizzare, ma spesso devono assecondare il clima della giornata. C’è chi, infatti, ha avuto brutte notizie da casa (il cane ha un tumore e deve essere operato), chi si commuove facendo vedere la foto di una cucciola affidata a una parente, chi chiede di approfondire argomenti che potrebbero servire, una volta uscito, per gestire meglio il proprio cane. Il primo obiettivo dell’équipe è quello di fare in modo che l’esperienza serva a mantenere il legame con la parte di sé propositiva e affettivamente genuina. A tal proposito i detenuti hanno anche momenti di interazione spontanea con i cani, avendo cura che ogni approccio sia sempre corretto e rispettoso affinché si riesca a creare un legame reciproco fatto di riconoscimento, fiducia e scambio. A metà maggio il progetto si è concluso con due momenti di restituzione in cui sono stati consegnati gli attestati e proiettato un montaggio delle foto scattate nel corso degli incontri. Sono state due giornate molto commoventi, anche grazie al contributo dei partecipanti. Al reparto maschile i ragazzi hanno voluto lasciare una loro testimonianza per evidenziare le ricadute positive del progetto nel loro percorso detentivo. Al femminile le ragazze hanno scritto, di loro pugno, due presentazioni dei cani coinvolti. Le loro parole sono la testimonianza più viva e sincera di cosa significhi un progetto di Educazione Assistita con il cane in Carcere. In tali progetti hanno un ruolo prezioso anche i Funzionari giuridico-pedagogici, tutto il personale di Polizia Penitenziaria e il Direttore che ha creduto nel progetto riabilitativo. Victor: “È stata un’esperienza unica” - Il corso con i cani è stata un’esperienza unica per me. Mi ha fatto molto piacere stare a contatto con i cani, in alcuni momenti ho pensato di essere fuori e di godere la libertà con il mio quattro zampe. La pet therapy è molto utile per la gente come noi che ha perso ogni contatto con la natura e poi ti permette di ridurre il livello di stress e di ansia. Otar: “Giocare con i cani fa bene e fa rilassare” - Il corso di pet therapy per me è stato una bellissima esperienza: avere contatto con i cani, fare esercizi con loro, conoscere bene i loro comportamenti e tutti i quattro zampe in generale. Chi ama i cani capisce quando sia importante il contatto con loro. Quando hai la possibilità, dopo qualche anno, di giocare con questi animali bellissimi senti che ti fa veramente piacere e rilassare psicologicamente. Mi fa ricordare tante belle cose che ho passato con loro. Per me questo corso è molto importante, specialmente per noi detenuti. Ringrazio tutti gli operatori per il loro impegno assoluto, loro fanno di tutto per continuare questo corso. Alex: “Il corso mi ha ridato tranquillità e serenità” - Ho scelto questo corso per la passione per i cani. Stare in loro compagnia queste settimane mi ha ridato tranquillità e serenità, mi mancavano molto. Il corso è stato molto utile per scoprire nuovi metodi per passare del tempo alternativo con il mio quattro zampe. Sarebbe molto importante per me vedere il mio cane e fare con lei i giochi e gli esercizi di educazione che ho imparato grazie ai volontari del corso. Ringrazio di cuore i volontari che in queste settimane ci hanno regalato emozioni oltre ad averci fatto stare bene. Spero che corsi così continuino perché aiutano a stare bene e per quelle due ore in compagnia fanno staccare i pensieri dal carcere, ma soprattutto regalano emozioni indescrivibili. Grazie di cuore. Andrea: “Consiglio questo corso a tutti i detenuti!” - Cosa dire di questa esperienza… Beh, semplicemente stupenda! Inizialmente ho creduto che fosse più un corso “militare”, invece no: le istruttrici sono persone simpatiche e amichevoli. Ciò si rispecchia su quello che stiamo cercando di imparare a far fare a El Niño e Nana e, probabilmente ai nostri futuri cani: insegnar loro le cose giocando. Nel malaugurato caso dovessi star qui fino al novembre del 2023, spero tantissimo di potervi partecipare nuovamente. Mi mancano quei due piccoli meticci di Birba e Lampo, e questo corso mi fa sentire più vicino a loro, purtroppo solo “spiritualmente”. Spero di rivederli prima che muoiano… Consiglio questo corso a tutti gli “ingabbiati” che, come me, amano i cani: li segnerà positivamente per tutta la vita, rompendo anche la monotonia e la tristezza che purtroppo il carcere offre. Angelo: “Si esce dalla realtà carceraria” - Sto frequentando il corso di pet therapy e l’ho trovato molto istruttivo per chi ha avuto un primo approccio con gli animali. Non che questo sia il mio caso, perché io sono sempre stato amante degli animali, specie dei cani, con i quali ho convissuto fin da piccolo. Un’altra cosa importante di questo corso è che ti fa uscire per un attimo dalla realtà carceraria e ti fa stare a contatto con i cani che sono degli esseri speciali, almeno per quanto riguarda il mio punto di vista, e vorrei tanto che questo corso continuasse anche per dare modo ad altre persone di conoscerlo e frequentarlo. Perché stare a contatto con gli animali è bello e fa bene all’uomo. Il progetto pilota ti fa capire quanto sia vera questa cosa e, soprattutto, ti insegna a conoscere tante informazioni che non sai sui cani. Giovanni: “Vi chiedo col cuore di far continuare questa straordinaria esperienza coi cani” - Il corso di pet therapy è stato molto d’aiuto sia a livello fisico che mentale per chi, come me, ha degli amici a quattro zampe. È stato un ritorno alle mie mattinate con loro, cani che danno amore senza chiedere nulla in cambio e questi sono in assoluto i sentimenti più nobili. Personalmente la frequentazione del corso è stata costruttiva e mi ha dato la possibilità di riflettere molto: farlo in un ambiente ristretto ti fa rendere conto di come le piccole cose abbiano un’importanza che non valutiamo. Passate le vacanze estive, spero che questo corso possa riprendere con più partecipanti, non so quanto possano essere prese in considerazione le nostre richieste, ma vi chiedo col cuore di attivarvi affinché questa straordinaria esperienza possa continuare, ringraziandovi per la vostra sensibilità alla nostra accorata richiesta. Cordialità. Giuseppe: “Per me i cani fanno parte della famiglia” - Mi chiamo Giuseppe Oracolo, grazie per essere stato inserito in questo gruppo di pet therapy. Per come sono fatto io tale corso mi ha aiutato e mi ha arricchito, ho avuto la fortuna di conoscere delle volontarie che mi hanno fatto capire e insegnato tante cose a me sconosciute, a partire da come rapportarsi con un animale: il cane. Questo corso mi piace anche perché è un momento di socialità e di contatto con persone e animali esterni. Se possibile, mi piacerebbe continuare ancora a seguirlo, con il benestare della direzione, perché vedo effetti positivi sia sulla personalità, sia nel rapportarmi con gli altri. Sono stato molto contento di aver conosciuto le istruttrici che mi hanno dato tanto e che mi hanno fatto stare bene. Vorrei far presente alla direzione che il gruppo, comprese le istruttrici, chiederà l’approvazione per poter continuare questo corso. Alla fine vorrei dire solo grazie di cuore alle istruttrici che mi hanno dedicato tempo e insegnato molto. Vorrei anche ringraziare i cani con i quali abbiamo lavorato e che ci hanno insegnato, anche loro, come comportarsi con un quattro zampe. Per me, infatti, i cani sono dei componenti della mia famiglia. Spero in una risposta positiva per quanto riguarda il prolungamento di questo corso. Nana: “Ciao a tutti, mi chiamo Nana, sono una Border Collie e ho tre anni e mezzo” - Ora vi racconto la sua storia. Nana viene da un allevamento di Border Collie di Lajatico. Purtroppo era l’ultima di una cucciolata, infatti, a sei mesi era rimasta da sola fino a quando una meravigliosa mamma l’adottò, il suo nome è Barbara. Nana è una cagnolina che ama stare in mezzo alle persone, perché ha un carattere iperattivo e frenetico. D’altronde è nella razza e nel suo essere. Siamo contente di lei perché notiamo un cambiamento da quando è arrivata, perché ha imparato a conoscerci; ciò vuol dire che siamo state brave (ci prendiamo il merito) nonostante il luogo in cui ci troviamo, siamo riuscite a metterla a proprio agio. A noi piace lavorare con lei proprio per questo. Cerchiamo di impegnarci sulla concentrazione per riuscire a calmarla, soprattutto con esercizi adatti a lei come il percorso di agility, che poi è il suo preferito… Abbiamo imparato tante cose grazie a questa splendida esperienza lavorativa di pet therapy. Vorremmo che il corso non finisse o, quantomeno, potesse ricominciare, perché i cani, con il loro modo di amare, riescono a farci compagnia e a farci stare bene avendo anche noi degli affetti e dei pelosetti a casa, e riescono a distogliere i nostri pensieri per quelle due ore, riuscendo a distrarci un po’ da quella malinconia che proviamo. Grazie a voi per questa stupenda avventura. El Niño: “Spero tanto, un giorno, di poterci giocare fuori” - Mi chiamo El Niño, il significato del mio nome è “il bambino”, ma sono tanto grande e un po’ testardello. Ipoteticamente ho sette anni, e sono stato adottato dal canile. Inizialmente il mio carattere era molto insicuro e diffidente verso le ragazze, ma ben presto, con il loro modo di amare gli animali e mostrando rispetto, la mia diffidenza è andata a scemare. Ho imparato cosa vuol dire dare fiducia alle ragazze e questo mi ha permesso di riuscire a divertirmi con loro e loro a divertirsi con me. Hanno capito il mio punto debole: ricevere tante coccole! Ammetto di essere un po’ “monello”, ma se mi impegno faccio ciò che mi chiedono di fare, perché so che alla fine ho il mio bocconcino di würstel e la Maddalena è una di quelle che mi pensa sempre. È una bella esperienza, ma ciò che mi gratifica di più è che in quelle poche ore riesco a distogliere i loro pensieri dalle loro sofferenze! Spero un giorno di poterci giocare fuori. Palermo. “Esco all’aperto”. Il cinema per i ragazzi del carcere minorile esperienzeconilsud.it, 23 agosto 2022 Si apre con la proiezione dell’ultimo film di Pif “E noi come stronzi restammo a guardare”, con la partecipazione del regista palermitano, “Esco all’aperto”, la prima rassegna di cinema ospitata all’interno del cortile dell’istituto penitenziario per minori “Malaspina” di Palermo, in corso dal 22 agosto al 12 settembre. Ideata da “Spazio Acrobazie. Laboratorio di riqualificazione e produzione attraverso la mediazione artistica”, la rassegna, a cura di SudTitles, realtà impegnata nella promozione della cultura cinematografica da un decennio, è promossa dall’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana in collaborazione con l’Associazione Acrobazie e ruber.contemporanea. L’iniziativa, sostenuta dall’Assessore ai Beni Culturali e identità siciliana, Alberto Samonà e promossa dalla direttrice del carcere Malaspina, Clara Pangaro, si apre con la proiezione dell’ultimo film di Pif “E noi come stronzi restammo a guardare”. Il 29 agosto l’attore palermitano Roberto Lipari incontrerà i ragazzi per la presentazione del film “Tuttapposto”. La rassegna proseguirà con la proiezione il 6 del film “Ariaferma” di Leonardo di Costanzo e si chiuderà il 12 settembre con Elvis di Baz Luhrmann. Pensata come un format replicabile che nel biennio del progetto toccherà i diversi istituti penitenziari della città con selezioni di film dedicate, la prima rassegna “Esco” è costruita sulla visione di quattro film, commentati da registi e attori, chiamati a sollecitare i ragazzi sui temi della contemporaneità, incoraggiando momenti di confronto e di condivisione tra i ragazzi detenuti, le loro famiglie, gli operatori culturali e penitenziari, con il coinvolgimento di figure rappresentative della giustizia e della magistratura cittadina. Lorenza Carlassare, la libertà e la forza del pensiero critico di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 23 agosto 2022 1931-2022. Addio alla grande costituzionalista. La sua lettura avanzata della Carta ha fatto da guida a generazioni. Ma era capace di spiazzare Il libro con le sue memorie di giurista non lo abbiamo fatto più, ma il titolo l’avevamo scelto: “Io dissento”. Lo stesso di un curioso volume illustrato, uscito negli Stati uniti, che racconta la vita di Ruth Bader Ginsburg, la coraggiosa giudice della corte suprema Usa con la quale aveva più di un tratto in comune. Lorenza Carlassare però non aveva trovato un presidente della Repubblica disposto a nominarla giudice della Corte costituzionale. Cosa di cui si dispiaceva il giusto, considerandolo il riconoscimento della sua totale indipendenza: “Sono rimasta libera”. Alla libertà non ha mai rinunciato, anche quando le sue scelte spiazzavano la comunità di costituzionalisti della quale è stata per decenni un punto di riferimento. Ricordiamo un episodio per esserne stati testimoni. Una sera del giugno 2013 ricevette nella casa di Roma una telefonata di Franceschini che le chiedeva di far parte della commissione di saggi incaricati di studiare proposte di riforma. Il presidente del Consiglio era Enrico Letta, il ministro delle riforme Quagliariello, la maggioranza già quella larghissima centrodestra-centro-Pd. Eravamo certi che avrebbe rifiutato, invece accettò. “Da anni dico che limitate modifiche alla Costituzione sono necessarie e utili - ci spiegò - adesso mi si offre una possibilità di far pesare le mie opinioni. Dire di no non è sempre la scelta più nobile”. Andò a finire che si dimise dalla commissione dopo un mese, appena il parlamento - gli interessi di Berlusconi pesavano ancora molto - gliene offrì la scusa. Anche quella volta aveva dimostrato quanto fosse ridicola l’accusa di conservatorismo che ciclicamente pioveva su di lei e sui costituzionalisti che difendono la Carta. Spiazzante fu anche la sua scelta di dire di sì, pur tra molti dubbi, al taglio dei parlamentari nel referendum di due anni fa. A convincerla il fatto che quella riforma avrebbe reso inevitabile una nuova legge elettorale. Speranza, abbiamo visto, vana. Eppure ulteriore testimonianza di come Carlassare non abbia mai perso di vista il problema della rappresentanza. Citava Vezio Crisafulli - che considerava “la figura dominante nella mia vita di studiosa” senza dimenticare Carlo Esposito e Livio Paladin - per il quale “lo Stato può dirsi veramente rappresentativo in quanto esso sia organizzato in modo da dar vita ad un collegamento stabile ed efficiente tra lo Stato medesimo e la collettività popolare”. La necessità di cambiare le leggi elettorali che da trent’anni sacrificano la rappresentatività a una presunta governabilità era per Carlassare un urgente obbligo costituzionale. A chi meccanicamente invocava “stabilità” rispondeva, sempre lontana dai conformismi e attenta alla sostanza dei problemi, che “nessuna stabilità sarà mai possibile fino a quando le fratture sociali resteranno così profonde. È un bene: non si possono ingessare le fratture prima di ricomporle. Le ingiustizie così acute della nostra società sono crepe sulle quali nessun governo per quanto numericamente forte deve sentirsi stabile”. Io, in fondo, amo istintivamente lo stato di diritto e il costituzionalismo perché detesto il potere. La mancata rappresentanza parlamentare degli interessi delle minoranze non era questione formale. Carlassare citava episodi per i quali era arrabbiatissima. Quando vide Mario Monti andare a fare visita a Marchionne nel momento in cui l’amministratore della Fca stava facendo terra bruciata attorno al sindacato conflittuale, la Fiom, protestò: “Nessuno in parlamento che si sia alzato per criticarlo. Chiaro, per colpa della legge maggioritaria non c’è un solo rappresentante della sinistra schierato in difesa dei lavoratori”. Più che l’essere stata la prima donna titolare di cattedra di diritto costituzionale (nel 1978) le interessava ricordare che era rimasta troppo a lungo la sola. Ha insegnato per brevi periodi a Messina e Verona, poi a lungo a Ferrara e a Padova. Le piaceva ritornare con la memoria soprattutto al periodo di Scienze politiche a Padova, anni Settanta, ai seminari nei quali cadeva il muro tra docente e studenti. Ma è stato agli ex allievi di Ferrara che ha consegnato, quasi quindici anni fa una specie di testamento. Bellissimo: “Io, in fondo, detesto il potere. Amo istintivamente lo stato di diritto e il costituzionalismo perché se è vero che il potere è necessario è comunque importante ostacolarlo e limitarlo”. Lorenza Carlassare nella vita ha sofferto, è stata vedova due volte, ma è rimasta una donna allegra e straordinariamente simpatica. La sera in cui aspettavamo il risultato del referendum contro la riforma Renzi, 2016, avevamo un appuntamento telefonico. Quando arrivò la certezza della vittoria del No la cercai senza riuscire all’inizio a trovarla. Ebbi paura che fosse troppo tardi, Lorenza aveva allora 85 anni. Ma poi richiamò. Era in casa di amici a festeggiare. “Utopie”, il viaggio di Gaetano Pecorella nell’Italia refrattaria a ragione e garantismo recensione di Francesco Petrelli Il Dubbio, 23 agosto 2022 Spazia in cinquant’anni di storia italiana e cala una sonda inesorabile nella politica giudiziaria di questo Paese il volume che ci ha regalato Gaetano Pecorella: “Utopie - Scritti di politica penale”, che guarda alla ragione, non solo come strumento del diritto, ma come fine ultimo del processo penale. Un processo visto come modello ideale, nel quale l’uomo (l’accusato), così come nell’illuminismo critico di Kant, non è mai ridotto a mezzo per il raggiungimento di altri scopi. Per quanto nobili o ragionevoli essi appaiano. Ed è proprio la tensione fra i valori della libertà e quelli della sicurezza e dell’autorità, e il conflitto fra i principi costituzionali della legalità e della presunzione di innocenza e le pulsioni giustizialiste, che trova in questi scritti, che spaziano dagli anni 70 del nostro vecchio codice inquisitorio alle attuali prospettive riformatrici “Futuribili”, una risposta coerente e inequivoca. Si tratta di una tensione tutta interna alla storia politica di questo Paese che si esprime nella difficoltà di comprendere il vero ruolo delle garanzie in una moderna democrazia, e il valore universale della cultura garantista, così come emerge in maniera plastica dall’esemplare teorizzazione dell’onorevole Pecchioli - citata da Pecorella in un suo scritto del 1977 - secondo cui “occorre segnalare i limiti e anche i pericoli di un astratto ed esasperato garantismo che da alcune parti viene oggi riproposto” ammonendo che “il problema fondamentale è quello di un equilibrio fra diritti dei singoli e diritti della collettività in una società in trasformazione secondo valori sociali e morali ben diversi da quelli dei vecchi sistemi liberali”. Dimenticando, come sottolinea l’Autore, che quella pretesa “revisione” del garantismo si traduce inevitabilmente in uno “scadimento delle libertà costituzionali”, fondamento di ogni collettività democratica presente e futura e condizione di ogni suo “valore sociale e morale”. C’è così il tema del “processo penale come terreno di confronto e di scontro politico” (1977) che ha attraversato la lunga e drammatica stagione degli anni di piombo e dei processi di terrorismo (con la “rottura” della legittimazione dell’intero sistema penale). Un tema che riassume in sé anche il complesso e contraddittorio percorso compiuto dal codice Rocco verso il cd. “inquisitorio garantito”, segnato nel volgere degli anni ‘ 70 da vistose inversioni autoritarie, con espansione dei poteri di polizia e conseguente compressione del diritto di difesa. È il campo di confronto con le teorie del “controllo sociale” e dunque della formazione del “consenso” e del “dissenso” negli anni delle rivendicazioni sociali e sindacali, dello stragismo di stato e delle lotte di classe e dunque del “processo politico”. 2. Argomenti trattati nell’alveo di una formazione esplicitamente e dichiaratamente marxista, quella del processo inteso come strumento della lotta di classe, ovvero “della lotta delle classi subordinate contro il ceto dominante”, che si sviluppano e si evolvono nel tempo con coerenza dimostrando non solo la compatibilità di questa visione del mondo con la tutela delle garanzie individuali, ma anche come sia questa la sua unica possibilità di affermazione. Ne discende infatti nitida l’idea dei diritti della persona, dei diritti civili e sociali come diritti che, in una democrazia moderna e matura, stanno o cadono tutti insieme. I temi così solo apparentemente si disgiungono e si separano negli anni, per poi riannodarsi e ricongiungersi nei diversi contesti, arricchendosi di nuovi argomenti e allargandosi verso nuovi e imprevisti orizzonti politici, nei quali la storia stessa dell’Unione delle Camere Penali e delle sue battaglie funge da fucina e da cassa di risonanza al tempo stesso. Al centro di molte riflessioni la figura del giudice, la cui collocazione ordinamentale campeggia problematicamente negli scritti dedicati alla separazione delle carriere, nella cui mancata realizzazione viene lucidamente colto il peccato originale del fallimento del codice accusatorio: “il punto di partenza non è il pubblico ministero: è il giudice. La parte malata del processo penale, la vera riforma a cui deve porsi mano, non riguarda la posizione del pubblico ministero: riguarda la funzione del giudice e del giudicare” (Congresso UCPI, Abano Terme, 1994). La mancanza del giudice ordinamentalmente terzo costituisce la radice di molteplici fenomeni distorsivi: da quello della espansione del potere inquisitorio delle procure a quello conseguente della ricerca del consenso da parte dei pubblici ministeri ed a quello strettamente connesso della mediatizzazione del processo penale, con la inevitabile perdita della “verginità cognitiva” del giudice del dibattimento. Ma la mancanza di un giudice terzo è anche perdita di legittimazione del potere giurisdizionale davanti all’opinione pubblica. 3. A ben vedere, anche la “crisi della legalità” è frutto dello sbilanciamento del giudice sul fronte della lotta al fenomeno criminale: una volta piegato alla figura di “giudice di scopo” il giudicante sarà inevitabilmente indotto a interpretare la legge e la norma processuale come altrettanti strumenti di repressione dell’illecito, stravolgendone la radice garantistica e liberale. Come ricorda Pecorella: “L’idea stessa della riserva di legge nasce in funzione della tutela della libertà dei consociati che attraverso il controllo politico scelgono coloro che potranno limitare i loro diritti in funzione del bene comune. Ciò non vale evidentemente per i giudici, che sono reclutati per concorso, e sono politicamente irresponsabili”. Controverso e attualissimo il tema della irreversibilità della crisi del principio stesso di legalità, come crisi del potere legislativo, ma anche della moltiplicazione delle fonti, e del cd. cambio di paradigma, dalla prevalenza del diritto alla egemonia del fatto e del precedente giurisprudenziale (“una legislazione più chiara, meno ondivaga, sicuramente vincolerebbe di più i giudici, ma lo spazio di potere che hanno conquistato con la interpretazione creativa, soprattutto da parte della Corte costituzionale, è un territorio a cui molto difficilmente la magistratura potrebbe rinunciare”). Ed altrettanto attuali e controversi i temi della del “Tornare alla giuria” come unica via verso la realizzazione dell’accusatorio, e quello del pm “organo dello Stato- amministrazione, come vera realizzazione della separazione delle carriere (“Oltre la separazione delle carriere”), quello del “contraddittorio anticipato” nel procedimento cautelare e quello della inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pubblico ministero. 4. La raccolta apre con uno scritto recente, “lettera a un giovane avvocato”, che si rannoda a quel “crepuscolo del rito accusatorio” che chiude la raccolta gettando uno sguardo severo sullo stato attuale del processo penale. Sulla questione irrisolta dei rapporti profondi che corrono inevitabilmente fra processo penale e Costituzione, fra struttura ordinamentale ed esercizio concreto della giurisdizione, fra collocazione del giudice all’interno di quella struttura ed esercizio dei suoi poteri. Nasce da quelle basi materiali, da ciò che la magistratura intera, nella sua essenza monolitica, pensa di sé e del suo governo, una resistenza antimoderna alla ritualità dell’accusatorio. Non sono le ragioni indicate da Michele Taruffo ad avere impedito che l’accusatorio si affermasse, non una sopravvalutazione del “contraddittorio per la prova”, ma una autentica, connaturata propensione verso i valori più profondi della cultura inquisitoria, al cui successo certamente ha contribuito la natura ordinamentalmente ancipite della magistratura: “La doppia casacca del magistrato, ora giudice, ora pubblico ministero, ha fatto si, nel tempo - come ricorda Pecorella - che risultasse sempre meno comprensibile la inutilizzabilità degli elementi di prova formati nel corso delle indagini”. Collocata all’intersezione di tutti i ragionamenti sulla legalità sostanziale e processuale, c’è la figura del difensore, consapevole della difficile stagione che attraversa fra la difficoltà del difendersi provando con le indagini difensive e l’ineffettività della difesa di ufficio, fra compressione del diritto di astensione e nuova deontologia, fra l’espulsione dal contraddittorio, a causa dell’asimmetria delle parti “davanti al giudice (non) terzo”, e l’inserimento dell’avvocato in Costituzione. 5. Accanto all’ipotizzato utopico mondo della ragione e al processo che gli si addice, si intravedono tuttavia i “distopici” mondi dell’irrazionale, del modello accusatorio irragionevolmente piegato (dagli innumerevoli “pacchetti sicurezza”) alle ragioni della “lotta al crimine”, atrofizzato e distorto dalle finalità tecnocratiche dell’efficientizzazione. I distopici mondi del populismo e del giustizialismo che mettono alla prova le fondamenta stesse del diritto penale liberale e del giusto processo. Il modello processuale così lungamente vagheggiato lotta per la sopravvivenza ma, come dimostrano questi scritti, conserva intatte quelle ragioni che ne avevano imposto l’avvento. Una straordinaria testimonianza di come, anche laddove lo sguardo acuto e lucido sullo stato reale del processo penale accusatorio svela tutti i segni del fallimento, resta altissima la tensione morale, l’invito a non arrendersi mai, nella consapevolezza della necessità di continuare a difendere quel modello come unica possibilità di sopravvivenza dello spirito democratico che governa la nostra incompiuta Costituzione, la cui vivida trama sembra essere sempre al centro del pensiero di Pecorella. Proprio perché, come scriveva Calamandrei: “c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità. Quindi polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente”. Ed è solo così, forti di questa “polemica verso il presente”, che si può navigare sicuri verso quell’isola dell’utopia di Tommaso Moro, ricordata dall’Autore, dove la ragione sembra oramai essersi nascosta per sempre. Dalla vendetta alla giustizia di Dacia Maraini Corriere della Sera, 23 agosto 2022 La più grande conquista dei Sapiens - che rischiano oggi la sesta estinzione per la loro presunzione e la loro fede in una tecnologia completamente scollegata da una maturità etica - è stata la pratica della democrazia. Per la democrazia la vendetta è un male. Nel clima di paura e di odio che sta crescendo in tutto il mondo si inserisce l’orrendo attentato alla vita di uno scrittore che ha avuto il torto, secondo un pensiero vendicativo e fanatico, di raccontare a modo suo il senso del bene e del male nella religione islamica. In “Versetti satanici”, pubblicato 34 anni fa, si racconta di due uomini che scampano a un incidente aereo. I due sono costretti a convivere per salvarsi ma si scoprono profondamente nemici: uno rappresenta l’angelo del bene, l’altro l’angelo del male. Ci può essere convivenza fra i due? Il romanzo è stato definito dalla critica internazionale una satira grottesca e fantasiosa. Ma a detta di molti, ciò che più ha offeso gli intolleranti sembra sia stato un momento del libro in cui l’angelo del bene si trasforma in femmina. L’ira di Khomeini si è espressa in una fatwa disumana: chi ucciderà lo scrittore farà il bene della sua religione e andrà in paradiso. Da principio, viste le tante minacce di morte, Salman Rushdie ha accettato la protezione della polizia inglese. Ricordo che è uno scrittore di origine indiana che vive in Inghilterra e scrive in inglese. Ma poi, sentendosi prigioniero e limitato in ogni movimento, ha rifiutato con coraggio la scorta . E così è stato facile colpirlo mentre si accingeva a una conferenza, senza protezione, davanti a un vasto pubblico. Alcuni coraggiosi sono subito intervenuti, ma ormai era tardi. Lo scrittore era stato raggiunto da una decina di coltellate. Vorrei ricordare che la più grande conquista dei Sapiens -che rischiano oggi la sesta estinzione per la loro presunzione e la loro fede in una tecnologia completamente scollegata da una maturità etica - è stata la pratica della democrazia . Per la democrazia la vendetta è un male. Il passaggio dalla vendetta alla giustizia è sacro e fondamentale per la convivenza degli umani. La vendetta infatti dipende dal capriccio personale e si compie in maniera selvatica, feroce e incontrollabile, e spesso si tramanda da generazione in generazione; mentre la giustizia si compie in nome di una legge stabilita collettivamente, nel rispetto della persona, perfino di quella che è stata denunciata per il male fatto. Possiamo dire che oggi non è solo la brutalità del gesto a indignarci, ma l’arcaismo di un pensiero che considera da eliminare chi riflette sul mistero del rapporto fra bene e male. Devianze, la politica che deraglia di Paolo Di Paolo La Repubblica, 23 agosto 2022 Polemica tra Letta e Meloni, ma entrambi sbagliano a usare quella parola. Il vocabolario sgangherato di questa campagna elettorale estiva genera (o recupera) lemmi fuori fuoco, che diventano boomerang. Vedi alla voce “devianza”. Il peggio è che poi, per un’intera giornata, i leader politici si rimpallano termini senza costrutto, non valutando appieno il rischio di farsi prestare le parole (sbagliate) dall’avversario. Se Giorgia Meloni dice “combatterò le devianze” lo fa con un truce - e non so quanto consapevole - recupero di un armamentario ideologico vetusto e pedagogicamente reazionario. Pure intendesse alludere a Freud, a Foucault o alle teorie sociologiche della Scuola di Chicago, il risultato suona piuttosto rozzo. Suona cioè come il distillato di una convinzione tardo-ottocentesca sull’attività fisica che funziona da antidoto a certe pericolose inclinazioni (l’alcol, la droga, la violenza; a dire il vero, molti accigliati padri della patria di allora includevano anche omosessualità e masturbazione). Corse, sforzo muscolare e nerbate raddrizza-schiena da scuola militare: contro tutti i vizi della gioventù debosciata! È una visione passatista e semplicistica del mondo. Militaresca, stile Opera nazionale Balilla per l’assistenza e per l’educazione fisica e morale della gioventù. Misteriosamente e discutibilmente viene assorbita nelle risposte di Enrico Letta e dei social ufficiali del Pd: l’hashtag scelto dal segretario per controbattere è #VivaLeDevianze. Ma per quanto voglia - anche qui, nelle intenzioni - suonare ironico, risulta invece forzato, impreciso, controproducente. Perché assumere un termine così scivoloso? E che cosa vuole definire, di preciso, Letta con la parola “devianza”? La tossicodipendenza? L’abuso di alcol? Chi sarebbero i “deviati”? Vogliamo farne una lista? Qualcuno ha ricordato quelle inquietanti in virtù delle quali si spedivano in manicomi donne deviate in quanto “instabili”, “ciarliere”, “ninfomani”. Nella lista di Fratelli d’Italia figuravano - con qualche emendamento tardivo - droga, alcolismo, tabagismo, ludopatia, autolesionismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori. Un tale minestrone che mi fa provare imbarazzo anche per il povero social media manager che, senza fiatare, ha assemblato nella card buona per i social questioni così delicate e difformi. Letta vuole chiarire che la sua visione del mondo è diversa da quella di Meloni? Bene. Allora perché usa il termine “devianze”, facendosi dettare insieme un pezzo di agenda e di vocabolario? Se #VivaLeDevianze sta per viva le differenze è un altro concetto, che tuttavia non può presupporre nessun giubilo di fronte a patologie fisiche e a malattie sociali. Una dialettica più congrua e forse più efficace richiederebbe, intanto, uno spostamento dell’asse lessicale: perché rispondere agli avversari con le parole degli avversari? È una questione di lucidità linguistica che, mi rendo conto, all’ultimo mese di una complicatissima campagna elettorale è difficile preservare. Ma anche in vista dei confronti televisivi diretti - non so quanto decisivi in una stagione in cui un’uscita social fa, come si vede anche in questo caso, più rumore - sarebbe auspicabile una rapida ridefinizione del vocabolario politico. Quanto più quello della destra è tonitruante, grossolano e conservatore, quando non retrogrado, tanto più quello della sinistra dovrebbe proporsi - no, non sofisticato - preciso. Ovvero aderente alle realtà che evoca, alla loro complessità, capace di suggerire e rendere visibili le differenze, senza buttarle a caso in un minestrone lessicale riscaldato. Le parole non sono un accessorio buono per i “salotti” invisi a Meloni. Sono tutto ciò di cui disponiamo per definire il nostro rapporto con il mondo; e per provare - in campagna elettorale si dovrebbe poter dire senza fumisterie, ma anche senza imbarazzo - a cambiarlo. A qualcuno piace cacciare le streghe di Gianluca Nicoletti La Stampa, 23 agosto 2022 Quando in un Paese qualcuno comincia a indire crociate contro la “devianza” dovrebbe scattare un segnale d’allarme. Sarà forse perché a ogni elenco di devianti si accompagna sempre quel sentore di putridume che precede ogni gloriosa proclamazione della porzione eletta dell’umanità. Per questo ogni persona di buon senso ha per un attimo la tentazione di prepararsi a fare la valigia. Non solo perché chi si senta dalla parte del giusto sia obbligato a dire “viva i devianti”, piuttosto per timore che alla fine in ognuno di noi (e nelle persone a noi care) potrebbe essere scoperto il “segno” del deviante. Esattamente come gli inquisitori scovavano nelle streghe il segno del demonio. Non è un’esagerazione, ognuno dovrebbe cominciare a riflettere su quanto potrebbe anche lui essere personalmente coinvolto in un possibile censimento dei devianti. Si dirà che m’importa, non bevo non mi drogo, non ho disturbi alimentari, non sono obeso, non passo le giornate chiuso in camera davanti a un computer. Alla fine sono fatti che non mi riguardano. È la scrollata di spalle di chi evita di essere sincero con se stesso, già nel primo elenco superficiale e raffazzonato di “devianze”, su cui si discute da ieri, è dissimulata la volontà di separare modi d’essere giudicati “malati”, dalla parte presunta sana della popolazione. Non basti dire che tutto ciò che richieda un intervento clinico sia patologico, quindi non c’è nulla di scandaloso nel classificare una serie di comportamenti “malati”. È la scusa vigliacca che mi sono sentito opporre tutte le volte che me la sono pubblicamente presa con illustri maestri di pensiero, di ogni orientamento ideologico, che usavano categorie della neuro divergenza per insultare i loro antagonisti. Anche allora mi veniva indicata la voce dell’enciclopedia Treccani che definiva “autismo” o “mongolismo”, dicendomi con stizza: sono termini medici, basta con questa mania del politicamente corretto! Nessuno si poneva il problema che intere famiglie di persone in quello spettro venivano mortificate e caricate di uno stigma, solo per l’uso disinvolto della definizione di uno stato usato a guisa d’insulto. È la leggerezza nell’accettare gradualmente come possibili le nette separazioni, tra gente sana e gente deviata, che a me fa paura. L’insistere apparentemente neutrale su un problema di “integrità”, è il lasciapassare a una società sempre più spietata verso la sua parte più fragile. Nell’approssimazione con cui si definisce il “male” su cui intervenire, sembra quasi esserci un calcolo molto sottile. Il tossico o l’alcolista non è razionalmente categorizzabile con chi abbia un disturbo alimentare, eppure se messi tutti insieme nel calderone dei devianti possono rendere lecito che, in quel bollitore di umanità che fugge da uno standard aureo e definito, possano prima o poi entrarci anche i matti, i malati cronici, i disabili. Fino a sconfinare senza fatica ai dissidenti, ai reprobi, agli empi, ai peccatori tutti. Puntare al consenso appellandosi a una parte della società da salvaguardare è la peggiore menzogna di ogni passato arruffapopoli. Sarebbe veramente di sollievo se lo scontro politico avvenisse su campi meno logorati dall’abuso, almeno per ciò che riguarda il proclamarsi, con uguale inconsistenza, difensori degli “eletti” come pure protettori (di maniera) dei reietti. La grande ricchezza, nella più brutale diseguaglianza di Gaetano Lamanna Il Manifesto, 23 agosto 2022 Le leggi (nazionali e regionali) sono usate per cristallizzare privilegi e rendite di posizione, aiutando la progressiva concentrazione della ricchezza in poche mani. Nel mezzo di un’emergenza globale, i tre leader della destra sono impegnati in una propaganda martellante sui loro temi preferiti: meno tasse per i ricchi (flat tax), pace fiscale per gli evasori (maxi-condono), presidenzialismo. Un misto di populismo fiscale e di sovranismo politico. Lo Stato è criticato per la lentezza burocratica che frena l’espandersi del dinamismo economico delle imprese. Ma la destra italiana sa bene che l’attuazione del “credo” liberista (privatizzazione dei servizi pubblici, destrutturazione dei rapporti di lavoro e delle tutele sociali, revisione del Pnrr per liberare il mercato dalle pastoie e dai vincoli della transizione ecologica) dipende dall’attività legislativa e di governo. In una parola la destra al potere come garante del profitto privato e della società dell’abbondanza. C’è da dire che la pagina sul fisco dell’Agenda Draghi, rimasta desolatamente bianca, ha fornito un assist formidabile alla coalizione di destra, aiutata anche, vorrei aggiungere, dall’inspiegabile arrendevolezza di quanti ancora oggi dichiarano di sentirsi orfani del presidente Draghi e ne invocano il ritorno. Così Meloni, Salvini e Berlusconi possono lanciarsi in promesse mirabolanti, rivendicare di avere scongiurato la riforma del catasto e di avere affossato la legge delega. Nei loro discorsi preannunciano un governo che taglierà le tasse e farà decollare un helicopter money con un nuovo carico di sussidi, bonus e incentivi che pioverà sugli italiani. Una montagna di soldi che non ci sono, una politica fiscale demagogica e irresponsabile, esplosiva per i conti pubblici, disastrosa dal punto di vista redistributivo, pericolosa per la coesione sociale e per la stessa tenuta democratica. L’affermazione di Joseph Stiglitz, secondo cui “l’ineguaglianza è il risultato di forze politiche e di forze economiche” si adatta perfettamente al caso italiano. Nell’annuale presentazione dei Rapporti sull’economia delle regioni, Banca d’Italia ci fornisce i dati di un paese con una ricchezza superiore al resto d’Europa. Il patrimonio finanziario e immobiliare delle famiglie italiane si aggira intorno ai 10 mila miliardi di euro, pari a sei volte il Pil. Solo i depositi sui conti correnti bancari raggiungono una cifra equivalente al Pil (1700 miliardi). Si stima inoltre che 100 miliardi, o forse più, siano ben conservati nelle banche svizzere. Le famiglie proprietarie di casa sono l’81 per cento. Le stime statistiche però non spiegano tutto. Dicono che il patrimonio delle famiglie italiane è mediamente di 168 mila euro; che il patrimonio di una famiglia del Nord (211 mila euro) è il doppio di una del Sud e delle isole. Emergono distanze significative tra le aree del paese. Ma la “media” nasconde altre differenze importanti. Comprende miliardari e multimilionari e, insieme, lavoratori poveri, precari, famiglie indigenti. Include evasori impuniti e contribuenti onesti. Nel dato medio scompaiono disparità e disuguaglianze e non è un caso che i politici liberal-liberisti di casa nostra lo preferiscano. Hanno così mani libere quando si tratta di modulare e indirizzare gli interventi pubblici. Le leggi (nazionali e regionali) diventano strumento di cristallizzazione di privilegi e rendite di posizione, aiutano la concentrazione della ricchezza in poche mani. Anche l’autonomia differenziata, che insieme al presidenzialismo ridisegna l’assetto istituzionale dello Stato, è un chiaro tentativo di ingessare i divari territoriali e gli attuali rapporti sociali. Dunque il federalismo dei ricchi che segue il fisco dei ricchi. Ce n’è abbastanza per concludere che la questione fiscale si lega direttamente alla giustizia sociale ed è questione politica par excellence. La logica proporzionale del prelievo fiscale, oggi prevalente, accentua disuguaglianze e distorsioni. Al contrario, ripristinando criteri di equità e progressività, come prevede la Costituzione, è possibile riattivare meccanismi positivi di redistribuzione e usare la leva fiscale per orientare una nuova domanda sociale e ambientale e nuovi comportamenti e stili di vita, in linea con un’economia sostenibile e con una società solidale. Sulla questione fiscale, a sinistra, permangono posizioni ondivaghe e inadeguate, tendenti a contemperare riduzione del carico fiscale sul lavoro e timide proposte per aumentare le tasse sulle grandi eredità (oggi lo 0,03 del gettito complessivo). Sarebbe ora di uscire da proposte spot, poco efficaci sul piano propagandistico e poco credibili per riconquistare un largo consenso popolare. E impegnarsi per una riforma strutturale del sistema fiscale. Stati Uniti. Contro il dolore sostituire gli oppiacei con la cannabis di Giulia Crivellini* e Federica Valcauda** Il Manifesto, 23 agosto 2022 Condanna al pagamento di oltre 650 mila dollari a tre tra le maggiori distribuzioni farmaceutiche americane: Walmart, Walgreens e CVS. Il motivo? Il loro ruolo all’interno dell’epidemia di overdose da farmaci oppiacei che sta destando preoccupazioni in alcuni Stati americani vista la facilità di prescrizione e di distribuzione attraverso queste catene. In Usa condannati tre tra i maggiori distributori farmaceutici per l’epidemia di overdose da farmaci oppiacei in alcuni Stati. Gli Stati Uniti con il loro sistema di Common Law in base al quale la legge si forma attraverso le nuove decisioni e l’affinamento di decisioni precedenti riescono sempre a farci vedere un nuovo lato della medaglia. Così è successo di recente con la condanna al pagamento di oltre 650 mila dollari da parte del giudice di Cleveland Dan A. Polster a tre tra le maggiori distribuzioni farmaceutiche americane: Walmart, Walgreens e CVS. Il motivo? Il loro ruolo all’interno dell’epidemia di overdose da farmaci oppiacei che sta destando preoccupazioni in alcuni Stati americani vista la facilità di prescrizione e di distribuzione attraverso queste catene. I dati dicono che da aprile 2020 ad aprile 2021 sono state 100 mila le morti per overdose, di cui 75 mila relative agli oppiacei, tra cui quelli approvati dalla Federal Drug Administration. Allarmanti anche i dati relativi agli oppioidi sintetici (alcuni, come il Fentanyl, scambiati anche nel mercato nero) e a farmaci come l’Oxycodone che vengono prescritti con estrema facilità creando non di rado stati di dipendenza. Il CDC (“Centers for Disease Control and Prevention”) ha stimato il costo economico e sociale dell’abuso di oppioidi legalmente prescritti: 80 miliardi di dollari l’anno, con costi sociali più elevati in alcune contee. Un costo che è anche una responsabilità politica riconosciuta dal tribunale e a cui poco è servita la linea difensiva delle tre catene farmaceutiche incentrata sul mero eseguire quanto richiesto nelle prescrizioni. La condanna, la prima emessa da un giudice federale, prevede che il risarcimento sia destinato a due contee dell’Ohio per finanziare programmi di istruzione e prevenzione e come rimborso per i costi di gestione della crisi. L’Italia non vive - ancora - questo allarme ma non permette allo stesso tempo cure alternative per i dolori cronici. Nuovi recenti studi, come quelli del Sidney Kimmel Medical College Filadelfia, del Norwegian Institute of Public Health di Oslo e dell’Ospedale Niguarda di Milano rilevano come la cannabis possa sostituire in tutto o in parte gli oppiacei nel trattamento del dolore senza le ricadute di questi ultimi. Nonostante le evidenze scientifiche si continua ad ignorare l’importanza di proporre la cannabis terapeutica come cura primaria, non alternativa o ‘ opzionale’. Oggi le possibilità per vivere senza entrare nel vortice tossico degli oppiacei ci sono e anche le case farmaceutiche dovrebbero tenerle in considerazione se non vorranno pagare in futuro altri risarcimenti milionari. *Tesoriera Radicali Italiani *Membro direzione Radicali Italiani “La Svezia non consegni Zinar a Erdogan: rischia il carcere” di Roberto Pietrobon Il Manifesto, 23 agosto 2022 Intervista ad Abdullah Deveci, avvocato del 26enne curdo, attivista e omosessuale arrestato venerdì: “In Turchia sarà detenuto e torturato. Faremo ricorso alla Corte di giustizia europea. Da tre anni i servizi segreti svedesi Säpo hanno una profonda cooperazione con il Mit turco”. Zinar Bozkurt, all’anagrafe Mehmet, è un ragazzo di 26 anni, arrivato in Svezia otto anni fa. È un attivista per i diritti del popolo curdo, ha militato in Turchia nell’Hdp (il partito progressista filo-curdo) ed è omosessuale dichiarato. Venerdì è stato arrestato perché l’ufficio migrazione svedese ha rigettato la sua richiesta di asilo. La Svezia, dove è in corso la campagna elettorale per le legislative del prossimo 11 settembre, aveva visto approvata la richiesta di adesione alla Nato il maggio scorso, con il voto favorevole della maggioranza del parlamento, dai socialdemocratici ai conservatori. Le richieste di estradizione fatte dal governo turco di dissidenti turchi e curdi nella penisola scandinava è stato uno dei punti principali per dare il via libera all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. Il giovane Zinar però non è inserito nella lista dei “desideri” avanzata da Erdogan. Abbiamo chiesto al suo avvocato, le motivazioni di questo arresto. Avvocato Abdullah Deveci, lei è il legale che ha seguito la vicenda di Bozkurt fin dall’inizio. Venerdì il suo cliente è stato arrestato come immigrato irregolare ricevendo il decreto di espulsione dalla Svezia. Ci puoi spiegare questa decisione dell’Agenzia per l’immigrazione svedese e della Säpo (il servizio segreto svedese, ndr)? Quali sono le motivazioni alla base di questo provvedimento? Il mio cliente è stato ritenuto in possesso dei requisiti per ottenere un permesso di soggiorno, ma Säpo è intervenuto e ha deciso che non gli sarebbe stato concesso un permesso di soggiorno e di lavoro e ha persino deciso un divieto di reingresso di 10 anni in tutta l’Ue. La valutazione dei servizi di sicurezza svedese è di natura politica e quindi lo è la decisione dell’Agenzia per l’immigrazione. Perché ritiene che l’estradizione sia illegittima e quali rischi corre Zinar in Turchia? Non hanno nessuna prova che il mio cliente appartenga al Pkk, né hanno messo alcuna prova sul tavolo. Questa decisione avviene solo perché è curdo e simpatizza con le organizzazioni curde e perché Säpo ha una profonda cooperazione con il Mit turco (i servizi segreti di Ankara, ndr), nient’altro. Ha annunciato che farete ricorso presso la Corte di giustizia europea perché avete il fondato timore che Zinar possa essere, anche in considerazione del suo orientamento sessuale, oltre che arrestato anche torturato. Crede che il vostro ricorso verrà accolto? Il motivo per cui considero l’estradizione illegale è che Zinar era arrivato in Svezia con un permesso di lavoro. All’inizio non ha avuto problemi nemmeno in Turchia, ma ora Säpo lo ha definito un terrorista e ne ha fatto un bersaglio per il regime fascista turco. Rischia 10 anni di carcere a causa della politica della Säpo e sarà sottoposto a tortura in Turchia. In un paese in cui esistono questi rischi, la Svezia, con la sua storia di diritti umani, non dovrebbe inviare nessuno. Ci auguriamo che il tribunale dell’Ue prenda sul serio il caso e possa fermare l’estradizione. Se tutti noi, svedesi e di altri popoli, combattiamo insieme e mostriamo al tribunale quali crimini potrebbero essere commessi in Turchia, penso che potremmo far approvare il ricorso. A Bozkurt era già stato negato lo status di rifugiato nel 2020, prima dell’iter di adesione della Svezia alla Nato con le conseguenti richieste turche di consegna di oppositori politici curdi e turchi. Crede che l’accelerazione sul caso sia legata alle richieste di Erdogan o ci sia una strategia dei socialdemocratici di mostrarsi come partito dell’ordine e della legge, visto che è uno dei temi principali della campagna elettorale in corso? È vero che il caso di Zinar riguardava già indagini della Säpo nel 2020. È dal 2019 che i servizi segreti sono entrati in scena in questi casi e da tre anni collaborano con il Mit turco. La settimana prossima si svolgerà l’incontro in Finlandia tra i leader scandinavi e il dittatore Erdogan. Zinar viene sacrificato sull’altare della Nato. Nel Sahel l’insicurezza è più cronica che da cronaca di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2022 Nel Sahel, da cui sono tornato da qualche settimana, l’insicurezza è più cronica che da ‘cronaca’. Il quotidiano ne è totalmente colonizzato e la sabbia, da questo punto di vista, ne costituisce una delle metafore più convincenti. In bilico tra fragilità ed eternità, la sabbia ben rappresenta la permanente sfida ad ogni pretesa di vana sicurezza. In quella porzione dell’Africa tutti sono coscienti che è la precarietà a dettare il ritmo e le stagioni del tempo. La vita, il lavoro, la pioggia, i raccolti, il cibo, i viaggi, i matrimoni, la salute, la scuola, la politica, i progetti, la fede religiosa, gli appuntamenti, le amicizie, la pace e gli amori. Tutto sembra condizionato dal sapore dell’insicuro umano transitare. La ‘sicurezza’ è un’utopia nella quale pochi hanno creduto. Naturalmente hanno ragione loro e la sabbia, dalla quale tutti discendiamo. Ci sono momenti storici nei quali le promesse arroganti e illusorie della sicurezza, la greca hybris, sono smascherate e appaiono nella loro nudità. Come tombe ricoperte di sabbia che il vento torna a rendere visibili agli occhi distratti dei passanti, così viene a riconfigurarsi la percezione dell’esistenza. È bastata l’iniqua risposta ad una malattia, né migliore né peggiore di altre che hanno caratterizzato la storia delle epidemie, per mettere in ginocchio buona parte del mondo ‘civilizzato’. Le telecamere della video-sorveglianza, sparse ovunque, i tracciamenti dei movimenti delle persone e l’abusiva supervisione del loro stato di salute non sono stati altro che tragiche cifre di una sconfitta. Paure, di cui la storia dell’Europa è stata accompagnata e marcata, che sono riapparse, dissepolte, riviste, corrette e pronte per l’uso. La morte, espunta dall’immaginario come una vergognosa debolezza da cui sfuggire, la fragilità dei corpi, le solitudini degli anziani e l’incomprensione dei giovani, hanno mostrato quanto si teneva, volutamente, nascosto. L’uso politico della paura ha contribuito a creare quanto fino a poco tempo fa sarebbe apparso inconcepibile: una selezione tra i cittadini di uno stesso Paese, discriminati, eliminati, condannati e socialmente disprezzati. L’insicurezza si è gradualmente impadronita del tessuto sociale, già sconnesso e preparato da anni di scientifica divisione consumista. Appare dunque particolarmente eloquente e fuorviante, per esempio, quanto letto su uno dei vari manifesti di propaganda per la prossima campagna elettorale. ‘Stop Sbarchi - Più Sicurezza’, la data messa bene in mostra è quella del 25 settembre prossimo. Per chi sarebbe concepita una sicurezza che scaturisce dall’insicurezza di chi parte da lontano per sfuggirla e si trova a ‘sbarcare’ in una società che le vicende sanitarie e belliche ha ulteriormente reso fragile? Sarebbe più onesto riconoscerci come ‘associati’ di un mondo che, attraversato dalla fragile precarietà del momento, accoglie l’insicurezza come un’apocalisse che ci rivela un comune destino. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia