Comunicato sulla drammatica situazione nelle carceri di Coordinamento Carcere Due Palazzi Ristretti Orizzonti, 22 agosto 2022 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: - liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione - liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. Coordinamento Carcere Due Palazzi - Granello di Senape/Ristretti Orizzonti - Giotto Cooperativa Sociale - WorkCrossing Cooperativa Sociale - Associazione Amici della Giotto - AltraCittà Cooperativa Sociale - Coristi per caso - Solidalia Cooperativa Sociale - Volontà di Sapere Cooperativa Sociale - Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale - Pallalpiede - TeatroCarcere - Scuola Edile - Antigone Padova - Commissione Carcere Camera Penale di Padova - Insegnanti scuole in carcere Hanno dato la propria adesione: - Associazione Closer Venezia - Cooperativa sociale “Rio Terà’ dei Pensieri” Venezia - Cooperativa sociale “Il Cerchio” Venezia - Il Granello di senape O.d.V Venezia - Associazione Loscarcere - Marcello Pesarini e Giovanni Russo Spena - Enrichetta Vilella, operatrice carceraria - Mventicinque Società Cooperativa Sociale - Vicenza Un contenitore che marcisce. Così è il carcere bollente in estate di Isabella De Silvestro Il Domani, 22 agosto 2022 Oltre alle zanzare, nelle celle dilagano blatte e acari. I detenuti vengono colpiti dalla scabbia, docce e ventilatori sono pochissimi. A Milano e Napoli si sono verificate proteste, il caldo straziante aumenta anche i casi di suicidio. Aprire le finestre serve a poco: le strutture carcerarie, vecchie e fatiscenti, moltiplicano l’afa estiva. L’aria è stantia, l’umidità imperversa e gli odori ristagnano. Le alte temperature associate ad elevati valori di umidità favoriscono il diffondersi di muffe e acari. Anche la doccia è un lusso per la maggioranza dei detenuti: il 58 per cento delle celle nelle galere italiane ne è privo, malgrado il regolamento del 2000 desse tempo cinque anni al sistema carcerario per dotare di docce tutte le celle delle strutture penitenziarie. A Opera una sezione di 54 persone dispone di quattro docce, una delle quali è rotta. Le pareti circostanti sono ricoperte di muffa. Entrare in un carcere ad agosto è un’esperienza straniante. I lunghi corridoi in genere trafficati appaiono spogli e silenziosi. Gli agenti penitenziari sono avvolti da una nuvola di sopore, qualcuno sonnecchia sulla sedia, qualcun altro ascolta la radio per tenersi sveglio. L’impressione generale è che la svogliatezza e l’incuria, quelle che incombono sugli ambienti carcerari durante tutto l’anno, ad agosto prendano definitivamente il sopravvento. La scuola carceraria durante la pausa estiva è utilizzata dai pochi detenuti iscritti all’università che nelle ore del mattino possono occupare le aule per preparare gli esami della sessione estiva. La temperatura delle aule-celle è infernale, il silenzio è spezzato dal ticchettio incessante delle infiltrazioni che sgocciolano sui banchi e sul pavimento, scrostano le pareti e rendono irrespirabile l’aria. Tra parassiti e cibo marcio - Aprire le finestre serve a poco: le strutture carcerarie, vecchie e fatiscenti, moltiplicano l’afa estiva. L’aria è stantia, l’umidità imperversa e gli odori ristagnano. Le alte temperature associate ad elevati valori di umidità favoriscono il diffondersi di muffe e acari. Tra i detenuti sono molti i casi di scabbia. Si ha l’impressione di stare dentro un contenitore che marcisce a vista d’occhio. Un detenuto mostra la pelle arrossata da strane punture su tutto il corpo. Oltre alle zanzare, in parecchie celle dilagano le blatte. Il cibo inviato dalle famiglie, in mancanza di un numero sufficiente di frigoriferi, si guasta velocemente e deve essere buttato. Nelle cosiddette “stanze di pernottamento” si suda in due, in quattro, in sei, uno sopra l’altro, stipati, col naso a pochi centimetri dalla branda superiore o dal soffitto. Nel carcere milanese di Opera nelle scorse settimane i detenuti hanno protestato battendo pentole e stoviglie contro le sbarre delle celle. Chiedevano ventilatori. L’amministrazione ha risposto mettendo in funzione due ventilatori in corridoio per l’intera sezione. Una protesta simile è avvenuta a Napoli il 7 giugno scorso: fuori dal penitenziario di Poggioreale i familiari dei detenuti insieme agli attivisti hanno manifestato per denunciare le misere condizioni di vita in una delle carceri più sovraffollate del paese, dove sono ospitati 700 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare: 2.200 anziché 1.500, in pratica il 50 per cento in più. In galera l’estate è la stagione più dura e, nonostante il livello di malessere dipenda dalla struttura del carcere, dallo spessore delle mura e dalla posizione, il disagio riguarda tutti i penitenziari. Materassi bagnati - Racconta un detenuto: “Sulla mia cella batte il sole fino a sera. Per riuscire ad addormentarmi mi stendo sul pavimento. Dopo un paio d’ore mi sveglio per il mal di schiena e mi trasferisco sulla brandina, dove sudo fino a bagnare addirittura il materasso. In sezione non ci sono lavatrici e ogni giorno laviamo a mano le lenzuola fradice di sudore”. Le celle delle prigioni italiane sono stanzini incandescenti dove le temperature possono raggiungere i 40 gradi. Ottenere un ventilatore è quasi impossibile. Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha permesso alle amministrazioni carcerarie di metterli in vendita, ma con molte limitazioni: le pale rotanti sono considerate pericolose e si prediligono i ventilatori a batteria dal momento che spesso nelle celle mancano le prese di corrente e, quando ci sono, si teme un sovraccarico dell’impianto elettrico. Così solo un’esigua minoranza ottiene un minimo di sollievo dall’aria mossa da un ventilatore. Il resto della popolazione detenuta è condannato a rigirarsi nel letto senza riuscire a prendere sonno nell’afa soffocante. La situazione è tragica soprattutto per chi abita le celle che hanno da una parte finestre schermate da fittissime grate che impediscono quasi del tutto il passaggio d’aria, dall’altra la chiusura ermetica delle porte blindate. Non c’è acqua - Anche la doccia è un lusso per la maggioranza dei detenuti: il 58 per cento delle celle nelle galere italiane ne è privo, malgrado il regolamento del 2000 desse tempo cinque anni al sistema carcerario per dotare di docce tutte le celle delle strutture penitenziarie. A Opera una sezione di 54 persone dispone di quattro docce, una delle quali è rotta. Le pareti circostanti sono ricoperte di muffa. Ma c’è di peggio. In diverse carceri manca direttamente l’acqua. Come a Santa Maria Capua Vetere, dove la struttura penitenziaria non è collegata alla rete idrica comunale e si è affrontato il problema consegnando a ogni detenuto quattro bottiglie d’acqua al giorno. In altre galere l’acqua è razionata. Non si tratta di una misura legata alla siccità straordinaria di quest’anno, ma di una situazione che si ripresenta ogni estate, senza che le amministrazioni intervengano in maniera organica con misure risolutive. Mancano i fondi per ristrutturazioni e bonifiche urgenti e si procede mettendo toppe su strutture che, anche se il modo di dire suona beffardo, fanno acqua da tutte le parti. Passeggio soffocante - Nei regimi a celle chiuse, dove si è condannati a passare venti ore al giorno sulla propria branda, l’unico momento di respiro è rappresentato dal passeggio. Ma i cortili di cemento, su cui è concesso camminare per un paio d’ore la mattina e un altro paio subito dopo pranzo, più che un sollievo assomigliano a una forma di tortura supplementare. Niente prati a smorzare il riverbero del caldo o alberi sotto la cui ombra ci si possa riparare. Alcuni detenuti passeggiano a petto nudo, bagnandosi di tanto in tanto con una bottiglietta d’acqua per resistere al caldo. I carcerati più anziani sono spesso costretti a rinunciare all’unica attività fuori dalla cella perché il sole delle due del pomeriggio risulterebbe per loro insostenibile. L’agosto in galera è un tempo speso a boccheggiare, augurandosi che passi in fretta. Tutte le attività che alleviano la monotonia e l’angoscia della detenzione cessano. La scuola è chiusa, i laboratori e i seminari sono sospesi e sono pochissimi i volontari che attraversano le porte blindate delle strutture per raggiungere i detenuti. Chi lo fa è deriso più o meno benevolmente dalle guardie che non si stufano di chiedere se in agosto il malcapitato non abbia di meglio da fare che entrare in galera per il suo volontariato. Più violenze - La mancanza di stimoli e di relazioni con gli esterni, insieme alle temperature infernali e all’insalubrità dell’ambiente, alimentano tensioni e disordini fra i detenuti. In estate si registra una crescita di eventi critici come risse e violenze, chiaramente collegati all’acuirsi dei sintomi di depressione e ansia. Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa l’Italia si colloca al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere, dove l’incidenza del suicidio è 16 volte più alta che fuori. Quest’anno si sono già tolte la vita 39 persone detenute, una cifra che non si raggiungeva da oltre un decennio, e gli episodi di autolesionismo sono all’ordine del giorno. La pena è inflitta anche ai visitatori, perlopiù parenti dei detenuti, che in molti casi si vedono costretti ad attendere per ore sotto il sole il turno del colloquio. Le file con genitori anziani, bambini ancora in fasce o donne incinte prese a sventolare ventagli ed asciugarsi il sudore descrivono un malfunzionamento e un’ingiustizia verso persone innocenti che, se durante l’anno è grave, d’estate si fa insopportabile nella sua insensatezza. L’estate carceraria è insomma l’inferno dell’inferno. Il caldo non fa che esasperare problematiche antiche che vengono aggirate da decenni e per le quali non è sufficiente qualche intervento sporadico: sovraffollamento, strutture fatiscenti, lungaggini burocratiche, mancato rispetto dei diritti e della dignità delle persone detenute e insufficienza di attività rieducative. Tutte cose che con la calura di Ferragosto si vedono molto meglio. Voci inascoltate di bambini detenuti di Lorenzo Marone La Repubblica, 22 agosto 2022 Sui ventisette bambini rimasti in carcere con le madri a causa della caduta del governo più voci hanno giustamente detto. Personalmente, conosco bene la realtà degli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), dentro uno di questi è ambientato il mio ultimo romanzo, conosco la proposta di legge dell’amico e onorevole Paolo Siani, che mirava a sostituire gli Icam con delle case famiglia nelle quali i bambini avrebbero potuto svolgere una vita quasi ordinaria. Non posso allora non unirmi al coro di disapprovazione generale, provare rammarico e rabbia per una proposta già passata alla Camera con il benvolere di tutti, e che doveva solo essere discussa in Senato prima di diventare legge. Da due anni mi occupo della questione, per scrivere “Le madri non dormono” mai mi sono documentato, ho chiesto, letto, cercando di sviscerare a fondo i diversi temi, dal diritto alla maternità, a quello dei minori innocenti di non crescere in un ambiente deprivato. Ho cercato di raccontare la vicenda da più punti di vista, e di non emettere giudizi, cosa troppo facile, m’interessava fotografare la realtà dei fatti. E i fatti dicono che i bambini di due, tre, quattro anni, nel pieno dello sviluppo di un’identità, di un carattere, non possono e non devono vivere in detenzione, seppur attenuata, sottostando alle regole di un carcere che, come tutti i carceri, ha sbarre, grate, lucchetti, telecamere e serrature. La precarietà della politica investe ogni settore, nulla è programmabile nel lungo periodo, i governi non durano, i ministri tornano a casa, le proposte di legge restano proposte. La precarietà, mi scoccia ripeterlo, investe tutto, ci fa instabili per abitudine, inaridisce gli animi e l’entusiasmo, ci rende incapaci di pensare al domani, a chi verrà, incapaci sempre più d’ascoltare i bambini. Ventisette di loro continueranno a crescere negli Icam, tanti altri, invece, nei rioni delle periferie, dentro prigioni invisibili che gli sono spettate per nascita. Vorremmo, come dice Paolo Siani, un Paese in cui nessun destino sia già segnato alla nascita. Vorremmo tornare a credere nella politica. Ecco tutto. Non dimentichiamoci dei bambini in carcere di Riccardo Rossotto lincontro.news, 22 agosto 2022 Nell’eterna discussione, mai risolta in modo definitivo, sul tema del “Come” e sul tema del “Quando” si costruisca la nostra personalità, ci sono alcuni elementi condivisi anche a livello scientifico. Al di là del Dna che ci viene trasferito dai nostri genitori e che contiene i geni del nostro carattere, il periodo che incide, inconsapevolmente, di più sulla nostra successiva formazione è lo “0-3”. I primi trentasei mesi di vita. Un periodo che nella stragrande maggioranza dei casi non riusciamo a ricordare ma che ci plasma, ci segna, ci resterà dentro per tutta la vita. Come affrontare la vita dopo i primi 36 mesi - In quei tre anni, iniziamo anche solo istintivamente, la nostra vita di relazione, interagiamo per la prima volta con persone, cose, immagini e suoni. Per la prima volta nella nostra esistenza affrontiamo la realtà nella quale “nuoteremo tutta la vita”. In funzione di come viviamo, sia fisicamente sia psicologicamente, quel periodo della nostra prima infanzia, assumeremo poi certe posture caratteriali, fisiche, psicologiche. Dunque, stiamo parlando di uno “slot” temporale decisivo per il nostro futuro. Poi, l’educazione, il contesto naturale e sociale, la formazione scolastica completeranno la costruzione della nostra personalità, del “chi siamo” come esseri umani. Una ferita sociale conosciuta e sottovalutata - Perché siamo di fronte, noi spettatori distratti, a uno scandalo che deve finire. Sul quale dobbiamo eticamente, e non solo, gridare il nostro malessere, la nostra rabbia, il nostro dolore, la nostra volontà che si ponga fine ad una tragedia già scritta. In questo agosto del 2022, nelle nostre devastate carceri, ci sono 27 minori, da 0 ai 3 anni, reclusi con le proprie madri. Senza alcuna colpa, salvo quella di essere figli di una mamma carcerata. La proposta di legge per porre fine a questa tragedia era finalmente pronta e condivisa. Mancava solo l’approvazione finale del Senato, dopo il parere favorevole della Camera. Sia la destra sia la sinistra erano pronte a votare favorevolmente ma, poche ore prima, la caduta del Governo Draghi ha interrotto il percorso legislativo. Bimbi prigionieri delle nostre prigioni - “Gli innocenti assoluti”, come li ha denominati Luigi Manconi, il primo a denunciare sui media questo scandalo, stanno pagando un prezzo altissimo in termini di costruzione del loro futuro, per questioni burocratiche-amministrative. Questi bimbi rimangono prigionieri nelle celle delle nostre prigioni contaminando, senza alcuna colpa, per sempre la formazione della loro vita. Nel corso dell’ultimo ventennio, dall’inizio del terzo millennio, il numero di questi bimbi “prigionieri” è sempre stato superiore alle 10 unità, talvolta ha raggiunto addirittura quota 50. “Una cifra in apparenza modesta ma una grande infamia, forse la più oltraggiosa per la nostra civiltà giuridica tra quante se ne consumano quotidianamente nei luoghi di privazione della libertà personale”. Così ha scritto Manconi. Una proposta di legge che va portata avanti - Il mandato al dimissionario Governo Draghi è stato definito di ordinaria amministrazione, in senso “ampio”, proprio per non compromettere i vari dossier aperti sul Pnrr, sulla lotta alla pandemia, suoi provvedimenti economici causati e conseguenti alla guerra in Ucraina. Ebbene, l’augurio/invito che lanciamo dalle colonne di questa testata che si è sempre battuta per i diritti civili degli italiani, negati o messi in dubbio, è proprio quello che il Governo con i capigruppo parlamentari, trovi, al più presto, una soluzione tecnico-giuridica che permetta la calendarizzazione del completamento dell’iter normativo di questa proposta di legge. Anche, magari, utilizzando lo strumento del decreto legge, motivato, in questo caso, dall’urgenza umanitaria. Se 27 bambini vi sembran pochi - Dobbiamo, come scrive Manconi, far sì che la politica, proprio durante una campagna elettorale importante per il futuro del Paese, sia capace di risolvere la sofferenza di quei 27 bambini e si occupi responsabilmente della loro sorte futura “condizionata in profondità dall’esperienza attuale”. In caso contrario, non stupiamoci poi troppo dell’astensionismo o dei fenomeni di anti-politica, ormai sempre più dilaganti in tutto il mondo. Salvini questa volta non indossa la divisa ma la candida: operazione spot con la Penitenziaria di Andrea Aversa Il Riformista, 22 agosto 2022 Il tema delle carceri, insieme a quello della giustizia, era scomparso dall’agenda politica dei partiti impegnati in questa strampalata campagna elettorale. Ci ha pensato Matteo Salvini a riproporre l’argomento. E lo ha fatto a modo suo. L’occasione è arrivata dopo i fatti accaduti in Calabria. La calda estate delle carceri ha infatti travolto anche un istituto di pena minorile. Quello di Catanzaro. Un incendio divampato in due aree del penitenziario ha costretto gli agenti in servizio a chiamare i vigili del fuoco. Questi ultimi sono intervenuti, domando le fiamme e portando in salvo un detenuto e quattro poliziotti. In totale, le persone vittime del fumo tossico ed evacuate dai loro reparti sono state 18. Sono bastate poche ore al leader della Lega per strumentalizzare la vicenda. “Solidarietà alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria, dopo l’ennesima follia registrata nelle Carceri italiane - ha dichiarato Salvini - Nell’istituto penale per minori di Catanzaro è stata sfiorata la tragedia perché tre ragazzi hanno appiccato un incendio. Gli agenti hanno tutte le ragioni per protestare e chiedere maggiori attenzioni e tutele. Anche per questo, la Lega valuta con attenzione la candidatura di un rappresentante della Polizia Penitenziaria in una regione del Sud”. Insomma, il Segretario del Carroccio ha presentato la sua nuova versione: le divise non le indossa più ma le candida alle elezioni. Cosa voglia dire presentare un agente della penitenziaria in una lista elettorale, rispetto al dramma rappresentato dalle carceri italiane, è difficile capirlo. Quindi vi è solo una spiegazione: dando un contentino attraverso una candidatura a un poliziotto, la Lega rafforza uno dei suoi bacini elettorali (le forze dell’ordine) e fa un’operazione del tutto demagogica e propagandistica. Salvini non è stato certo il primo ad aver strumentalizzato il tema carceri, per ottenere voti e consenso e non sarà certo l’ultimo. Anche a sinistra è in atto questo tentativo con la candidatura di Ilaria Cucchi. Quest’ultima ha avuto in passato, per la storia che ha visto purtroppo vittima il fratello Stefano, diversi scontri proprio con Salvini. E ricordiamo ancora il Capitano del Papeete che all’uscita dal carcere di Santa Maria Capua Vetere cercava in tutti i modi, non senza imbarazzo e difficoltà, di giustificare le terribili immagini che hanno mostrato la ormai nota mattanza. Certo il giustizialismo manettaro della Lega ha avuto un freno grazie alla campagna referendaria condotta per una giustizia giusta. Avventura intrapresa insieme al Partito Radicale e finita molto male. Ora, a riproporre la giustizia come argomento cardine per la futura azione di governo, è stato Silvio Berlusconi. Il “nemico” per antonomasia delle toghe politicizzate. Lo sappiamo bene: l’attuale sistema carcerario è disumano e degradante per l’intera comunità penitenziaria, della quale fanno parte sia i detenuti che gli agenti. Ma cercare di indagare in modo più profondo ragioni e cause di eventi così drammatici, non farebbe certo male. Soprattutto a chi si candida alla guida del Paese. Salvini avrebbe dovuto fare lo stesso anche per gli episodi avvenuti a Catanzaro. Anche perché qui c’è una motivazione in più: si è trattato di minori. Di giovani, di ragazzi che forse hanno già segnato la loro vita. Noi ci auguriamo di no ma conoscendo il funzionamento delle carceri italiane che tutto fanno alle persone tranne che riabilitarle, le speranze di assistere a un lieto fine sono davvero poche. La politica continua anche in emergenza di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 22 agosto 2022 Come operatore che entra saltuariamente in carcere, in collegamento con responsabili delle biblioteche, responsabili del settore educativo pedagogico sempre in attesa di essere riposizionati in maniera più efficace attraverso l’approvazione del DDL Mirabelli, assieme al personale sanitario e in collaborazione con gli agenti di polizia penitenziaria, ho aderito all’appello del Coordinamento del Carcere Due Palazzi di Padova. Le richieste in esso contenute sono apparentemente di stampo emergenziale, anche in seguito all’ondata di suicidi che è giunta a mettere in allarme la Ministra Cartabia ed i vertici del DAP. Più precisamente si può dire che l’emergenza Covid ha messo a nudo le carenze storiche della sanità pubblica fuori e dentro le sbarre, e sono poche le voci che si sono sollevate anche in questo inizio di campagna elettorale, quale ad esempio quella di Arturo Scotto, contrario alla svendita della Sanità Pubblica. Vorrei invertire la vulgata per la quale anche le forze politiche più sensibili alle tematiche sociali, in tempo di elezioni, è bene che accantonino gli argomenti scomodi. Ho dalla mia i seguenti argomenti: 1) parlare di carceri, di pace vera e superamento della logica spartitoria degli stati nazionali e delle potenze armate, di diritti di tutti e tutte al di là dell’origine etnica, proprio durante il mese che vedrà contrapporsi le forze politiche in base a parole d’ordine artefatte e lontane dalla realtà, potrebbe essere un ottimo incentivo, sanamente provocatorio, per ribaltare il copione che allontana sempre di più i cittadini dalla partecipazione; 2) ricostruire il legame che esisteva fra volontariato, terzo settore e mondo della rappresentanza politica sarebbe un incentivo contro la dispersione di energie, che si traduce ormai da anni nell’indebolimento del pensiero, nel peggioramento delle condizioni di lavoro del volontariato e terzo settore; 3) il secondo punto potrebbe aumentare il peso di queste energie all’interno dei momenti rappresentativi, come i tavoli ai quali partecipa la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Ci riflettano le forze politiche: lasciare scoperti durante la campagna elettorale i settori che possono ribaltare la logica della sussidiarietà e della carità, può essere un punto di non ritorno; ridare a noi, a loro, importanza, può essere la rinascita di uno snodo di futura importanza. Lombardia. Contro i suicidi in carcere più sinergie tra sistema penitenziario e sanitario quibrescia.it, 22 agosto 2022 La Regione Lombardia ha aggiornato il piano per la prevenzione: in Italia il numero di persone che si tolgono la vita in prigione è 20 volte superiore a quello che si registra fuori. Il piano per la prevenzione del rischio suicidi nelle carceri è stato aggiornato dalla Regione Lombardia Il nuovo documento è stato elaborato da un gruppo di lavoro costituito da rappresentanti delle aree sanitaria e penitenziaria con l’obiettivo di fornire linee di indirizzo comuni affinché ogni istituto penitenziario intraprenda azioni più efficaci per la presa in carico dei detenuti con problemi di disagio psichico. L’emergenza Covid in ambito penitenziario ha provocato restrizioni per i contatti dei detenuti con l’esterno, un elemento che ha reso più dure le condizioni di pena. Si tratta insomma di un quadro difficile che, tra le sue conseguenze, ha provocato anche un aumento del tasso di suicidi in carcere, come rilevato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. In Italia infatti il numero dei suicidi in carcere è 20 volte superiore a quello che si registra fuori. A togliersi la vita, sono soprattutto i giovani tra i 20 e 30 anni, nel 2022 sono già 49. “Un argomento da affrontare con molta attenzione”, ha evidenziato la vicepresidente e assessore al Welfare di Regione Lombardia, Letizia Moratti. “E, proprio per questo, è necessario discuterne. Un percorso potrebbe consistere nel coinvolgimento degli attori del sistema penitenziario e sanitario, detenuti compresi, attivando una rete di attenzione per rilevare eventuali segnali di disagio e sofferenza emotiva correlabili ad un rischio di suicidi. E come altri ambiti hanno dimostrato, la prevenzione diventa fondamentale”. Il piano regionale del rischio suicidi dovrà essere trasmesso alle varie articolazioni territoriali, sanitarie e penitenziarie per definire in modo congiunto, in ogni carcere, un “piano locale di prevenzione”. Mantova. “Dialogo e vicinanza”, il carcere anticipa il piano anti-suicidi della Regione di Sandro Mortari Gazzetta di Mantova, 22 agosto 2022 La direttrice Metella Romana Pasquini Peruzzi: da noi già tempo seguiamo le linee indicate e, infatti, la situazione è tranquilla. La situazione in molte carceri italiane è sempre più difficile. Il sovraffollamento e le condizioni di detenzione in strutture anche fatiscenti, unite alle recenti restrizioni anti Covid, hanno esasperato i detenuti. La conseguenza è un aumento degli atti di autolesionismo fino ad arrivare al gesto estremo. Per prevenire qualsiasi tentazione dei più fragili di togliersi la vita la Regione ha aggiornato il piano per la prevenzione del rischio suicidi. Il nuovo documento è stato elaborato da un gruppo di lavoro costituito da rappresentanti delle aree sanitaria e penitenziaria. L’obiettivo è quello di fornire linee comuni a ogni istituto penitenziario affinché intraprenda azioni più efficaci per la presa in carico dei detenuti con problemi di disagio psichico. Il piano regionale del rischio suicidi dovrà ora essere trasmesso alle varie articolazioni territoriali, sanitarie e penitenziarie per definire in modo congiunto, in ogni carcere, un piano locale di prevenzione, che conterrà comportamenti e azioni che in carcere a Mantova “già applichiamo da tempo e che ora dovranno solo essere codificati” dice la direttrice Metella Romana Pasquini Peruzzi. “La situazione qui è abbastanza tranquilla - spiega. Non c’è sovraffollamento e come presenze oscilliamo tra le 110 e le 115 persone e riusciamo a seguirle tutte con attenzione, tanto che non si sono verificati qui suicidi o atti di autolesionismo. Ai detenuti ripeto sempre che siamo consapevoli che si trovano in una struttura vecchia, che stiamo cercando di migliorare con una serie di lavori; ma a loro ricordo anche che proprio per le nostre dimensioni riusciamo a parlare con tutti visto che c’è un contatto di conoscenza importante e che aiuta”. Il carcere di Mantova, dunque, già si sta muovendo lungo linee che “abbiamo aggiornato in base alle ultime disposizioni. Abbiamo già prodotto un piano locale formalizzando una serie di interventi che già poniamo in atto”. La direttrice fa degli esempi: “I detenuti che entrano in carcere per la prima volta meritano un’attenzione particolare da parte di medico, psicologo e psichiatra e dell’area giuridico-pedagogica per intercettare malessere e stati di disagio psichico e allertare i servizi di sorveglianza in caso di bisogno. Il personale e tutte le figure che operano in carcere, volontari compresi, devono essere accorti nell’intercettare persone che al momento non destano preoccupazioni ma che lanciano segnali subliminali e intervenire per prevenire. Puntiamo anche a stare vicino a chi è in prossimità di un’udienza, soprattutto se è in attesa del giudizio di primo grado che potrebbe tramutarsi in una condanna e che per questo ha bisogno in quel momento di un’attenzione particolare”. Un altro momento delicato è quando il detenuto riceve dalla propria famiglia notizie di malattie o di lutti. “Insomma - dice la direttrice - abbiamo presente tutta una serie di situazioni a cui dobbiamo prestare massima attenzione coinvolgendo tutte le figure che lavorano in carcere, istituzionali e non, per essere in grado di intercettare qualsiasi momento di fragilità di un detenuto e accompagnarlo in modo che lo superi. Per questo abbiamo anche organizzato incontri settimanali con varie figure settoriali per fare il punto della situazione sia sui detenuti entrati da poco sia su quelli che si trovano in carcere da tempo. Considerando le buone pratiche in atto qui a Mantova - conclude Pasquini Peruzzi - già il piano locale è declinato sulla falsariga di quello regionale”. Genova. Carcere di Marassi, è allarme sovraffollamento: 717 detenuti e una capienza di 550 genovatoday.it, 22 agosto 2022 Fabio Pagani, segretario Uilpa Polizia Penitenziaria: “Struttura al collasso, mancano gli spazi nelle celle e a breve l’istituto non potrà più accogliere nuovi arrestati perché tutti i reparti sono saturi”. Fabio Pagani, segretario regionale della Uilpa Polizia Penitenziaria, ha lanciato l’allarme sovraffollamento per quello che riguarda il carcere di Marassi: “È sold out - sorride amaramente - con numeri da record, 717 detenuti su una capienza di 550”. “Si tratta di un carcere sovraffollato e in grave difficoltà - spiega Pagani - e circa l’80% dei detenuti è di origine straniera, molti sono davvero di difficile gestione per i nostri agenti. Solo grazie allo straordinario impegno che mettono in campo ogni giorno, riconosciuto anche dal direttore della struttura, viene garantita dignità e vivibilità, evitando derive in una struttura davvero al collasso. Mancano gli spazi nelle celle e a breve l’istituto non potrà più accogliere nuovi arrestati perché tutti i reparti sono saturi”. Ma questo non è l’unico aspetto che preoccupa la Uilpa, il segretario prosegue: “Ci sono anche questioni operative, passerelle mediatiche e parole che poi non portano a nulla, ministero e Dap distanti dalle frontiere e dalle prime linee, che teorizzano e progettano soluzioni secondo noi impraticabili e utopiche che producono effetti devastanti. Una su tutte l’apertura delle celle per tante ore al giorno che non solo non ha impedito l’aumento dei suicidi (52 ad oggi) ma ha determinato l’esponenziale numero di aggressioni e di feriti. Noi crediamo - chiosa Pagani - che l’agente in sezione è lo Stato e rappresenta lo Stato. Detto questo oggi affermiamo che lo Stato nelle carceri è preso a calci, pugni e schiaffi. Non solo, ma si continuano ad ammassare detenuti. Nonostante la positività di sette poliziotti e 18 detenuto al Covid. I baschi blu continuano a salvare vite e a subire umiliazioni, nell’attesa che l’amministrazione penitenziaria si renda conto che Marassi è sold out”. Pianosa (Li). L’ex carcere cerca una nuova stagione con l’associazione degli Amici dell’isola di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2022 Il sindaco Davide Montauti con Alessandro Scotto e il Parco nazionale dell’arcipelago toscano, avevano candidato l’isola ad accedere ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma non ce l’hanno fatta. “A Pianosa quando arriva la barca è sempre un evento”. Bastano le parole di Alfredo Mitrano, per capire dove stiamo approdando. Pianosino di nascita, figlio di un secondino (così si chiamavano allora) che ha lavorato sull’isola negli anni Cinquanta fino al 1964, è lui il nostro Caronte in questa striscia di terra di dieci chilometri quadrati che ha accolto nel corso dei secoli i romani, i turchi, per poi diventare dal 1856 una colonia penale e poi un carcere di massima sicurezza. Qui sono passati il presidente Sandro Pertini incarcerato dal 1931 al 1935 per motivi politici ma anche Renato Curcio, Michele Greco, Pippo Calò, Nitto Santapaola, Pippo Madonia, Giovanni Brusca e i fratelli Graviano. Fino al 1997 (anno di dismissione del carcere) sull’isola abitavano fino a duemila persone. Oggi, da ottobre a marzo/aprile, a custodire le case abbandonate e gli undici detenuti in articolo 21 (ovvero assegnati al lavoro esterno) restano due agenti di polizia penitenziaria oltre ai compagni di Alfredo che hanno costituito l’associazione Per la difesa dell’isola. Appena scesi dalla nave, sono gli agenti ad accoglierci al porto: un campano e un sardo, innamorati di Pianosa e appassionati del loro mestiere. A far loro compagnia, nei mesi dove il turismo latita, sono solo il sole, le onde del mare, il vento e il silenzio. L’ex abitazione del direttore, oggi diventata un piccolo albergo, è aperto solo in questa stagione. La Casa dell’agronomo e del ragioniere (figure fondamentali ai tempi del carcere) sono ormai abitate solo dai fantasmi. Dove un tempo c’erano lo spaccio, il cinema, il tabaccaio è tutto abbandonato. Alfredo ci porta a vedere la sua casa: “Qui abitavamo noi e la famiglia Batignani. Pensa che uno dei figli, Massimo, nonostante da anni si fosse trasferito a Massa Carrara, ha voluto farsi seppellire qui. L’isola senza i detenuti che ci sono ancora ora si svuoterebbe”. A luglio ed agosto, questo angolo di terra fuori dal mondo, torna a popolarsi. Molti arrivano, si godono il mare e prima di sera tornano senza farsi troppe domande su ciò che sta loro attorno. Ad aprire gli occhi ai turisti sono gli Amici di Pianosa che hanno ristrutturato le vecchie poste e realizzato un museo iconografico che racconta la storia dell’isola: un viaggio nel tempo che narra i volti di chi ha abitato in questo posto mitologico. Per il presidente dell’associazione Alessandro Scotto e i suoi soci, la loro è una missione: custodire Pianosa. In quest’ultimi anni hanno restaurato la torre dell’orologio, la cappella dei detenuti e altri luoghi storici. Un modo per evitare il tramonto dell’isola. Qualche mese fa il sindaco Davide Montauti con Scotto e il Parco nazionale dell’arcipelago toscano, hanno candidato l’isola ad accedere ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Con venti milioni di euro avrebbero creato un albergo diffuso all’interno di Forte Teglia; il recupero degli spacci per farne un mercato dei prodotti bio a chilometro zero; un laboratorio didattico nella caserma Bombardi. Ma non solo. Il lungo muro carcerario, fatto costruire dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa negli anni Settanta per proteggere il carcere da attacchi terroristici, sarebbe stato in parte recuperato e trasformato per diventare fonte di produzione di energia pulita attraverso l’installazione di pannelli fotovoltaici. Nulla da fare: Pianosa non è stata ammessa e tutto è rimasto un sogno. Eppure qui c’è così tanto da fare che nessuno si è arreso. L’ultima idea di Scotto e della sua associazione è avviare una raccolta della plastica spiaggiata: “Si tratta di rifiuti lanciati in mare o lasciati dai turisti in giro che diventano un danno incredibile per il paesaggio. Stiamo verificando anche la possibilità di usare un robot per identificare la plastica sul fondo marino”. Un’idea condivisa dall’amministrazione comunale che nei prossimi mesi darà avvio a un recupero dei terreni dell’ex colonia penale. Il parco ha, finalmente, ottenuto gli usi civici dei campi che sono di proprietà del Comune: “Abbiamo fatto - spiegano dagli uffici del sindaco - una manifestazione d’interesse e si sono presentate oltre aziende agricole pronte ad investire su Pianosa”. Chi è nato ho abitato qui non smette mai, anche quando è lontano, di sentire un richiamo verso l’isola: “Io lo so - spiega Alfredo - cosa significa svegliarsi qui. Accompagnarvi oggi è stato un dono perché ogni volta che torno per me è una gioia”. Trento. “Sapori di libertà”, torna la cena a tema con storie dal carcere vitatrentina.it, 22 agosto 2022 Saranno una serie di storie dal carcere ad arricchire, venerdì 2 settembre 2022 alle 19, “Sapori di libertà”, la cena a tema del progetto “Liberi Da Dentro”, cofinanziato da Fondazione Caritro, che si svolgerà presso l’AlmaMed Hotel San Leonardo, struttura a tre stelle con bar, ristorante e pizzeria a Vigolo Baselga. Un appuntamento che punta a ripetere il successo riscosso lo scorso lunedì 23 maggio, quando il format della cena a tema con storie dal carcere si era tenuta a “Le Formichine. Cucina solidale” di Rovereto. Grazie ai reali e intensi racconti che si potranno ascoltare tra una portata e l’altra, ai partecipanti sarà data la possibilità di riflettere concretamente sull’importanza che i percorsi di reinserimento socio-lavorativo hanno per le persone recluse. Non vi saranno solo narrazioni, poiché alcuni dei testimoni saranno coinvolti direttamente nella preparazione e nella distribuzione delle pietanze agli ospiti, ai quali spiegheranno che lo studio ed il lavoro sono elementi preziosi per qualunque essere umano. Liberi Da Dentro, giunto quest’anno alla sua quarta edizione, è un progetto implementato da una rete di soggetti appartenenti al mondo non profit che realizza differenti attività di carattere culturale nelle quali si coinvolgono volontari, soggetti detenuti, dimessi dal carcere e sottoposti a misure di comunità, cittadini, con l’obiettivo di costruire un ponte tra carcere e città, di diffondere sul territorio una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone, di sensibilizzare la comunità su queste tematiche. La rete dei partner di Liberi da Dentro vede coinvolte varie realtà del Terzo settore trentino: A.P.A.S. ODV, Dalla Viva Voce APS, Scuola di preparazione sociale, Fondazione Franco Demarchi, Associazione culturale Sanbaradio e Caritas Diocesana. Il costo della cena (comprensiva di antipasto, primo, secondo, dolce, acqua e caffè) è di 30 euro a persona. Il menù è consultabile nel dettaglio sulle pagine Facebook e Instagram di “Liberi Da Dentro”. Per prenotare è necessario inviare una e-mail a liberidadentro@gmail.com (comunicare eventuali allergie o esigenze particolari). Per informazioni sul progetto: Aaron Giazzon, A.P.A.S. ODV - 348 74 77156 L’arte scritta su tutti i muri che trasforma le periferie di Elisabetta Pagani La Stampa, 22 agosto 2022 Viaggio nella street art d’Italia, tra piccoli borghi e periferie urbane. Una guida alle opere migliori, dai micro disegni a intere facciate dipinte. Alcuni dominano interi quartieri, ne ingigantiscono l’anima su facciate dimenticate. Altri sono minuscoli, dettagli da scovare in una caccia al tesoro urbana. Altri ancora, come da sempre succede con l’arte, nascondono al loro interno un ulteriore messaggio. Per vederli basta girare per strade e piazze con lo sguardo fisso sul muro. È quella la tela su cui “persone che spesso sfidano molti ostacoli - spiegano Anna Fornaciari e Anastasia Fontanesi - creano la forma di arte per noi più democratica, aperta e accessibile al mondo”. L’arte urbana. Che, sottolineano, racchiude al suo interno espressioni diverse: il graffiti writing (essenzialmente scritte realizzate con le bombolette), street art (un aspetto più figurativo), neo muralismo (solitamente realizzato su commissione e con dimensioni imponenti). “L’Italia ha una scena di arte urbana molto vivace. Negli ultimi 5 anni i progetti di questo tipo sono esplosi, Puglia e Abruzzo hanno anche leggi ad hoc. E altrettanto succederà nei prossimi 5-10 anni - osservano Fornaciari e Fontanesi -. Certo l’Italia non sarà mai Bristol o Manchester, dove l’arte urbana è talmente libera da essere invadente in senso positivo, ma è giusto così, da noi ci sono più beni da tutelare. E l’arte urbana trova comunque i suoi spazi”. Spazi che Fornaciari e Fontanesi, coppia nel lavoro e nella vita, fondatrici del blog “Travel on Art”, raccontano in un libro, Street art in Italia. Viaggio fra luoghi e persone (in libreria dal 20 settembre) che vuole essere “la prima guida alla scoperta dell’arte urbana in Italia”. Un percorso attraverso 17 regioni, 58 destinazioni e 500 opere scelte in base al “potenziale turistico del territorio, e alla qualità artistica e all’impatto sociale dell’opera”. Abituate a viaggiare molto all’estero, negli ultimi due anni, complice la pandemia, le due autrici hanno concentrato le loro incursioni in Italia, con l’obiettivo di proporre itinerari fuori dalle rotte più comuni ma “adatti anche a chi viaggia con bambini piccoli o animali (loro si muovono sempre con il cane Thor, ndr.)”. Per questo motivo, spiegano, le opere suggerite sono state create quasi tutte legalmente: “La street art nasce illegale, veicolando un messaggio di protesta molto forte - spiega Fornaciari - poi c’è stata una evoluzione fino ad arrivare al mural advertising, che non è street art ma pubblicità attraverso la street art. Detto questo, noi pensiamo che debbano continuare a esistere entrambe le forme di street art, legale e illegale, ma nella guida, a parte un’eccezione per un progetto della nostra città, Reggio Emilia, abbiamo privilegiato opere legali perché spesso quelle illegali si trovano in posti dismessi, complessi da raggiungere. E la nostra vuole essere una guida per tutti”. Anche con l’arte urbana legale si affrontano tematiche importanti, ci tengono a sottolineare, portando ad esempio il progetto Cheap, nato da un gruppo di sei donne a Bologna. Molti dei murales indicati nascono da progetti che coinvolgono un quartiere, una comunità, che nascono in aree difficili, che puntano alla riqualificazione. Come il progetto 167B Street dell’omonimo quartiere di Lecce, “spesso associato a immagini di degrado e marginalizzazione. Il progetto di street art ha coinvolto la parrocchia, i bambini, artisti di tutto il mondo. L’arte urbana può cambiare l’immaginario di un luogo, richiamare l’attenzione su una situazione - sottolinea Fontanesi - ma da sola non può cambiare nulla, servono politiche sociali e urbanistiche”. I muri da vedere, nati durante festival, residenze artistiche, su commissione oppure no, sono moltissimi. Tre, secondo le autrici, gli imperdibili: “I muri di Blu a Rebibbia, che su di noi hanno avuto un impatto devastante; Camo, borgo piemontese con più opere che abitanti, tra cui quelle di Andrea Ravo Mattoni; i micro interventi di “Quore Spinato” ad opera di Cyop & Kaf nei Quartieri Spagnoli di Napoli”. A quale modello guardate? Le nostre domande di giornalisti a chi si candida per il governo di Anna Del Freo articolo21.org, 22 agosto 2022 Non serve guardare molto lontano per vedere i rischi delle derive illiberali. Non serve guardare alla Turchia - percepita da molti come “altro da noi” per via della religione, e invece vicinissima - dove 23 giornalisti sono ancora in carcere per reati d’opinione. Non serve guardare alla Bielorussia - percepita come una riserva di Putin e dunque facente parte di un’Europa cui non apparterremo mai, e invece a noi prossima - dove sono in galera 28 reporter, o ancora alla Russia medesima, dove nelle carceri sono chiusi 24 giornalisti. Per capire i pericoli concreti all’orizzonte basta anche restare dentro la casa comune, l’Unione europea, e vedere in che situazione si trova la libertà di espressione in Ungheria, o come stanno i giornalisti in Polonia (uno è anche in carcere): sarà subito evidente che la democrazia e la libertà di espressione (un binomio inscindibile) non sono commodities a disposizione di tutti, per cui si apre un rubinetto e via. Sono beni preziosi in pericolo anche dentro la Ue. Il Governo di estrema destra della Polonia ha varato atti legislativi con cui punta a impedire che editori stranieri possano possedere mezzi di comunicazione polacchi. Il risultato è il controllo ormai quasi totale dei media da parte dello Stato. In Ungheria, il bavaglio alla libera informazione continua da anni, con i giornalisti indipendenti spiati e minacciati. Anche la Slovenia, con il precedente governo, aveva rischiato una deriva simile, specie durante la pandemia, usata per limitare, con la scusa dell’emergenza, la libertà di stampa. In settembre, in Italia si voterà per rinnovare le Camere. Ed ecco la prima domanda che i giornalisti e i loro rappresentanti dovranno porre al nuovo Governo che ne scaturirà: dove vi collocate voi? A quale modello guardate? Alle democrazie liberali nordiche, prime in tutte le classifiche internazionali per la libertà di espressione, come Norvegia, Danimarca e Svezia (Rsf index 2022), alla Germania, 16esima pur con tutte le sue magagne, alla Francia, 26esima ma pur sempre migliore del nostro 58esimo posto, oppure ai Paesi sovranisti e autoritari dell’Est Europa? La risposta non è scontata. Per avvicinarsi ai modelli liberali nordici, un Governo degno di questo nome dovrebbe risolvere finalmente una serie di questioni che si trascinano da anni e anni. Al futuro parlamento e governo, dunque, ancora, noi dobbiamo chiedere: siete disposti a risolvere il conflitto di interessi che caratterizza vergognosamente l’Italia da decenni? Siete pronti a prendere in mano la questione devastante delle querele temerarie? Volete garantire ai cittadini di questo paese un servizio pubblico televisivo che punti sulla qualità e sull’indipendenza dell’informazione senza considerarlo di vostra proprietà? Siete disposti a rivedere l’autorità e le regole dell’Antitrust che non funzionano più, in modo da garantire il pluralismo dell’informazione invece delle fusioni che lo uccidono? Un Governo che guardi all’Europa liberale e democratica non può prescindere da tutto questo. Ma c’è di più. La politica deve prendere atto finalmente della crisi economica che ha colpito il sistema dell’informazione e che, una volta di più, ne mette a rischio la tenuta e la stessa esistenza. Invece di gridare, come facevano alcuni partiti nella scorsa campagna elettorale, a un auspicato e auspicabile, dal loro punto di vista, “taglio dei contributi pubblici all’editoria” peraltro mal gestiti e insufficienti, il nuovo Parlamento dovrebbe preoccuparsi di sostenere in modi diversi e innovativi un settore allo stremo, prendendo coscienza del fatto che moltissime testate sono morte per motivi economici e che i giornalisti sono una categoria fatta sempre di più da precari sottopagati e privi di garanzie. Il mondo dei periodici è praticamente sparito, i quotidiani hanno redazioni sempre più vuote e puntano, più che sull’informazione, sull’organizzazione di eventi e convegni a pagamento. Le radio hanno subito una forte operazione di concentrazione e scomparsa del pluralismo. Sul web dilagano siti fatti da persone sfruttate e senza garanzie e nessuno si cura di certificarne in qualche modo l’attendibilità. Quanto agli editori, La Federazione italiana editori giornali - la Fieg - peraltro sempre meno rappresentativa, chiede da anni ai Governi solo di finanziare i tagli e non domanda altro che espellere i giornalisti contrattualizzati per sostituirli con un esercito di precari. Più poveri e di conseguenza meno indipendenti. Dobbiamo chiedere ai politici, al nuovo Parlamento e al nuovo Governo, se si riconoscono veramente nei valori della Costituzione, di non cedere alla tentazione di favorire un sistema informativo comodo e asservito, ma di dimostrare che ne preferiscono uno forte, magari scomodo, ma che assicuri ai cittadini una completa democrazia. Zuppi, il cardinale si smarca dalle pressioni del calendario elettorale di Dario Di Vico Corriere della Sera, 22 agosto 2022 Se nel centrosinistra qualcuno nei giorni scorsi si era illuso che la nuova Cei targata Zuppi potesse/volesse far da argine contro l’avanzata elettorale delle destre, o almeno stroncasse l’uso salviniano della simbologia religiosa a fini di partito, dovrà cambiare passo e registro. Prendendo la parola dal palco di Rimini il neo-presidente dei vescovi italiani non ha lasciato alcun margine di dubbio: il lavoro che attende la Chiesa italiana - ha fatto capire - è di più largo respiro e di più lungo esito. Non può farsi carico dei tempi e delle scadenze della transizione italiana e soprattutto delle contraddizioni di un quadro politico nel quale è difficile combinare gli umori dell’elettorato e gli impegni di politica economica presi con l’Europa. La Chiesa lavora per diffondere “la passione per l’uomo” che volendo potremmo arrivare a tradurre come passione per la polis, per la comunità ma questa tensione immessa nel calendario italiano finisce per assomigliare a una traversata nel deserto. Formula assai cara ai politici di qualche generazione fa, quando volevano indicare una stagione di semina più che di raccolto. Nessuno può mettere in dubbio come la stessa formazione politico-culturale di Zuppi - made in S.Egidio - lo porti a privilegiare i temi del welfare e della lotta alla povertà e quanto la sua sensibilità sia lontana dai populismi di qualsiasi specie ma non è per la via elettorale che l’Italia degli anni Venti potrà diventare d’incanto più compassionevole, giusta e inclusiva. Almeno non grazie a un appoggio esplicito dei vescovi invocato per tagliare la strada al sovranismo. Serve un ampio e oscuro lavoro in sala macchine per ricucire la società scossa dalle pandemie, per rivalutare la cultura comunitaria contro l’esasperazione dell’individualismo, per mettere al primo posto l’esperienza della vita e zittire “i tecnici di laboratorio” ovvero quelli che Zuppi considera i tanti grilli parlanti di questa nostra epoca. E davanti all’ampiezza di questo lavoro la Cei non pare volersi tirare indietro sia prendendo come riferimento continuo della propria presenza il popolo delle periferie sia accollandosi persino le sfide più delicate della seconda modernità: “Non abbiamo capito ancora cosa sia davvero l’uomo digitale”. All’uditorio riminese che lo ha ricompensato con un interminabile applauso il presidente della Cei ha indicato come segnalibro l’enciclica “Fratelli tutti” di papa Bergoglio, laddove al cristiano viene indicata la via dell’amicizia sociale verso ogni essere umano e alla politica viene chiesto di avere come anima “la carità sociale”. Di suo Zuppi ha aggiunto un elogio senza se e senza ma del Terzo Settore per la capacità che ha dimostrato nella pandemia di interpretare la sofferenza e il disagio e lo ha indicato come “interlocutore decisivo per le istituzioni presenti e future. Sottolineo “future”. Ma, e la domanda è più che lecita, la Chiesa italiana dell’anno di grazia 2022 è in grado di farsi carico di quest’impegno? Non è - come ha avuto modo di scrivere sul Corriere Andrea Riccardi - che spesso i discorsi ecclesiastici non sono capaci di parlare della vita comune? Insomma, posto che non abbia ancora trovato le “nuove parole per incrociare il discorso pubblico” (sempre Riccardi) e che quindi non sarà protagonista nell’immediato, saprà però diventare quel sarto della società italiana di cui c’è un grandissimo bisogno? È evidente che nella risposta a questa domanda si gioca la presidenza Zuppi che appare come un fattore di netta discontinuità e non solo in ambito religioso. La sua è un’empatia contagiosa (esiste addirittura una pagina Facebook “Zuppi che fa cose”), i ciellini ieri lo hanno amato come pochi e lui li ha salutati leggendo un passo di don Giussani ma adesso arriva il difficile: riconnettere la struttura ecclesiale con le periferie è in fondo anch’esso un programma ambizioso. Migranti. Pochi permessi di soggiorno e meni sbarchi. I decreti Sicurezza non sono mai scomparsi di Vitalba Azzollini Il Domani, 22 agosto 2022 I cosiddetti decreti Sicurezza sono al primo punto nel capitolo sull’immigrazione del programma del centrodestra per le elezioni del 25 settembre. Si tratta dei provvedimenti (d.l. n. 113/2028 e d.l. n. 53/2019) che rappresentano l’emblema della gestione del Viminale da parte di Matteo Salvini, leader della Lega. Può essere utile chiarire se, come talora si afferma, tali decreti siano stati davvero “smantellati” nel 2020, a seguito delle modifiche del governo Conte-bis, succeduto a quello Conte I che li aveva varati. Le modifiche - Le modifiche ai decreti Sicurezza hanno riguardato, innanzitutto, quanto richiesto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con una lettera ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio, nel giugno 2019. Mattarella aveva rilevato che la sanzione - da 150.000 euro a 1.000.000 di euro - per l’inosservanza del divieto di ingresso, transito e sosta nelle acque italiane risultava sproporzionata rispetto alle condotte sanzionate. Ora la sanzione, divenuta penale, va da 10.000 a 50.000 euro. Inoltre, siccome la Corte Costituzionale (sentenza n. 186/2020) aveva dichiarato illegittimo il divieto di registrazione alle anagrafi comunali dei richiedenti asilo, che impediva loro l’esercizio di una serie di diritti (avere un medico di base, prendere la patente di guida ecc.), tale divieto è stato eliminato. Tra le altre modifiche, si segnala la norma per cui il rifiuto o revoca del permesso di soggiorno non possono essere disposti se violano il “rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato”. Con questa formula si è cercato di rimediare al venire meno della “clausola generale” di protezione per motivi umanitari, che il primo decreto Sicurezza ha eliminato e sostituito con una serie di permessi specifici (per protezione speciale, cure mediche, calamità naturale ecc.). Ancora, è stata portata da uno a due anni la durata del permesso di soggiorno per protezione speciale, nonché estesa la convertibilità in permessi per motivi di lavoro di diverse tipologie di permessi di soggiorno. Si è sancito il divieto di respingimento o rimpatrio di una persona verso uno Stato ove essa rischi “trattamenti inumani o degradanti” - oltre che tortura, come già previsto nel Testo Unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998) - formalizzando così un principio della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU, art. 3). È stata vietata l’espulsione anche nei casi di rischio di violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, in conformità alla CEDU (art. 8), e disposto il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, in tali casi. È stato introdotto un nuovo Sistema di accoglienza e integrazione per richiedenti asilo e dei rifugiati (SAI), riformando il sistema precedente. Il SAI si articola in due livelli: il primo dedicato ai richiedenti protezione internazionale, esclusi invece dal primo decreto Salvini, e ad altre categorie da tutelare; il secondo ai titolari di protezione, con servizi aggiuntivi finalizzati all’integrazione. L’accoglienza avviene tuttavia solo “nei limiti dei posti disponibili”, e sono noti i problemi di sovraffollamento nei periodi di arrivi più consistenti. Gli stranieri possono essere trattenuti nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), in attesa di essere rimpatriati, non più per 180 giorni, ma per 90 giorni, prorogabili di 30 in talune circostanze. Tuttavia, i rimpatri continuano a essere problematici, quindi il termine resta solo teorico. La durata del procedimento per l’acquisizione della cittadinanza, portato a 48 mesi dal primo decreto Salvini, è tornato a 24 mesi, com’era precedentemente, ma prorogabili a 36 mesi. Nonostante la riduzione, i tempi difficilmente saranno rispettati, come dimostra l’esperienza pregressa. Permane il potere del ministro dell’Interno, con i ministri della Difesa e dei Trasporti, di vietare il transito e la sosta in acque italiane a navi non militari, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero in caso di violazione delle leggi di immigrazione, ma con una limitazione: non possono essere oggetto di divieto le operazioni di soccorso comunicate alle autorità competenti e allo Stato di bandiera, effettuate nel rispetto delle indicazioni fornite dall’autorità per la ricerca e soccorso in mare. Restano perplessità sul fatto che alle navi delle organizzazioni non governative (ONG) o ad altri soggetti privati potranno essere irrogate sanzioni qualora, ad esempio, pur operando in conformità al diritto del mare, essi non rispettino l’indicazione di riportare i naufraghi in un paese non sicuro, come la Libia. È stato comunque eliminato il sequestro della nave. Resta, invece, immodificata la norma sulla revoca della cittadinanza italiana a seguito di condanna definitiva per gravi reati commessi dallo straniero, con una discriminazione rispetto agli italiani per nascita, ai quali la cittadinanza non può essere revocata. Né è stato ripristinato l’appello contro le sentenze di rifiuto della protezione internazionale, abolito da Salvini. Rimangono pure le norme sul diniego di asilo in caso di condanna anche non definitiva per certi reati, in violazione del principio costituzionale di non colpevolezza. In conclusione, nonostante significative modifiche, i decreti Sicurezza non sono stati del tutto “smantellati”. Ne resta l’impianto, che potrà essere oggetto di interventi da parte di un governo di centrodestra. Esponenti del centrodestra tornano a parlare dell’attività delle ONG, che incentiverebbe le partenze dei migranti (pull factor, fattore non dimostrato). Al riguardo, serve rammentare che, al di là del citato potere di divieto del Viminale, se pur a certe condizioni, resta il Codice di condotta per le operazioni di salvataggio dei migranti in mare, voluto nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti. Si tratta di un atto privo di valore normativo, ma vincolante per le parti. Minniti chiese alle ONG di sottoscrivere gli obblighi che ne derivavano, come condizione per proseguire la propria attività. Dal Codice emerge un atteggiamento di sospetto verso le navi di soccorso: tra l’altro, le ONG possono essere sottoposte a ispezioni; si impegnano a non trasferire i naufraghi su altre navi; non possono entrare nel mare libico, se non in situazioni di pericolo, e senza ostacolare la guardia costiera; hanno il divieto di inviare comunicazioni o segnali luminosi per agevolare la partenza e l’imbarco di natanti con migranti, salvo in casi di ricerca e soccorso. Alcune disposizioni del Codice, da un lato, violano norme internazionali (ad esempio, l’impegno a non entrare nelle acque libiche comprime il diritto di passaggio inoffensivo delle navi); dall’altro, paiono perseguire il fine pratico di limitare le attività delle ONG. Anche il Memorandum con la Libia, sempre a opera di Minniti, anticipa alcuni punti in tema di immigrazione presenti nel programma di centrodestra. Insomma, se quest’ultimo andrà al governo troverà la strada spianata da quanto già fatto non solo da Salvini, ma pure dal centrosinistra. India. In stallo il caso del 28enne italiano arrestato per non aver pagato il pedaggio di un ponte di Federico Negri Il Secolo XIX, 22 agosto 2022 Federico Negri, di Pozzolo Formigaro (Al), è stato incarcerato per non aver pagato il pedaggio del ponte di confine tra Nepal e Uttar Pradesh. “A Federico Negri viene contestato l’articolo “14 A” del “Foreigers act”, che costituisce l’ipotesi più grave, dal punto di vista penale”. Così l’avvocato Claudio Falleti, del Foro di Alessandria, che segue passo dopo passo le vicende relative al pozzolese di 28 anni detenuto in India. La situazione è ancora in stallo e il ragazzo, arrestato a inizio luglio per non aver pagato un pedaggio all’ingresso nel Paese dal Nepal, resta rinchiuso in una cella della città di Sonauli. La preoccupazione è enorme, ma qualcosa si muove: le autorità nazionali indiane hanno concesso la prima autorizzazione per la visita consolare. Adesso, si attende l’ok da parte dello Stato dell’Uttar Pradesh affinché il console D’Andrassi possa incontrare Federico. Falleti, uno dei massimi esperti di Diritto internazionale, afferma che “siamo ancora nella fase istruttoria, la cui conclusione avverrà solo il 5 ottobre, termine per il quale spero che le autorità straniere si renderanno conto dell’accaduto. Federico è senza precedenti penali, non è pericoloso per la sicurezza nazionale e auspichiamo perciò che il giudice d’appello disponga la liberazione su cauzione”. Dalle informazioni raccolte dal legale della famiglia Negri, risulta fra l’altro che il ponte di confine tra Nepal e Uttar Pradesh sia piuttosto ampio e percorso ogni giorno da migliaia di persone, soprattutto a piedi, come del resto stava facendo Federico il 5 luglio quando fu fermato perché privo di permesso di soggiorno, non avendo pagato il pedaggio di 40 euro. Al momento, le uniche notizie sulle condizioni di salute di Federico provengono dal collega indiano dell’avvocato Falleti. Questi ha riferito che il pozzolese si trova rinchiuso in una cella, insieme a un numero imprecisato di detenuti. “Rivolgo un appello anche alla politica - prosegue l’avvocato - che in questo momento di transizione è certamente impegnata in altre cose. Ringrazio i dirigenti e i funzionari del ministero degli Esteri e il console a New Delhi, chiedendo però che anche il ministro Di Maio possa adoperarsi e interessarsi personalmente, chiamando il ministro indiano per evitare che un ragazzo incensurato corra il rischio di scontare una pena dai 2 agli 8 anni di carcere”. “Il tema degli italiani all’estero - dice Falleti - è molto delicato, sentito dalla Farnesina ma poco percepito dalla politica. Sono diversi i casi nel tempo di sparizioni, rapimenti, carcerazioni o reati commessi ai danni di nostri connazionali, molti ancora irrisolti”. Stati Uniti. “Una carneficina”: l’esecuzione più cruenta in 40 anni di pena di morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 agosto 2022 Che l’iniezione letale sia, come viene propagandato, il metodo di esecuzione delle condanne a morte più moderno, pulito e indolore, è una tesi priva di fondamento e purtroppo spesso smentita. Negli Usa si usa l’espressione “botched executions” per definire le esecuzioni “fallite”, “andate male”, “problematiche”, in cui - per usare un eufemismo - il protocollo non ha funzionato a dovere. Il 28 luglio, in Alabama, è andata peggio che in altre occasioni. L’autopsia privata, pagata dall’organizzazione per i diritti umani Reprieve USA, effettuata sul corpo di Joe Nathan James, le cui conclusioni sono state pubblicate dalla giornalista Elizabeth Bruening sul quotidiano “The Atlantic”, ha descritto quella che gli esperti hanno definito una “carneficina” e la più lunga esecuzione degli ultimi 40 anni, da quando si è iniziato a usare il metodo dell’iniezione letale. L’esecuzione è iniziata alle 6 di sera e James è stato dichiarato morto alle 9.27. Personale non qualificato ha tentato per tre ore e mezza di trovare una vena per inserire l’ago: ne danno testimonianza i numerosi segni di punture sulle braccia di James e le tumefazioni intorno ai polsi fatte dai lacci che bloccavano l’uomo sul lettino dell’esecuzione. Secondo l’anestesista Joel Zivot della Emory University, “i polsi e le mani erano pieni di buchi di ago. Mentre James era bloccato sul lettino è accaduto qualcosa di terribile, senza che un avvocato potesse protestare o altre persone potessero osservare quanto stava succedendo. C’erano segni di punture anche in zone non anatomicamente vicine a una vena conosciuta, così come di un cutdown”, una procedura medica per cui si incide in profondità un braccio per far emergere una vena. Non è noto se questa proceduta sia stata eseguita in anestesia. Secondo la direzione degli istituti di pena, “non è accaduto nulla fuori dall’ordinario”. Nel febbraio 2018, sempre in Alabama, l’esecuzione di Doyle Ray Hamm non aveva avuto luogo perché, dopo due ore e mezzo trascorse a cercare una vena, il tempo era scaduto. Morte ai “blasfemi” in Pakistan di Raymond Ibrahim* opinione.it, 22 agosto 2022 Il 4 luglio 2022, un meccanico cristiano in carcere da cinque anni e in attesa di processo con la falsa accusa di “blasfemia” per aver presumibilmente offeso il profeta musulmano Maometto, è stato condannato a morte per impiccagione da un tribunale pakistano. Cinque anni prima, il 5 giugno 2017, Ashfaq Masih, 34 anni, aveva litigato con Muhammad Naveen, un rivale che aveva aperto un’officina meccanica vicino a quella di Masih. Secondo la dichiarazione di non colpevolezza resa da Masih, Muhammad “era geloso perché i miei affari andavano meglio” e, dopo il loro diverbio, “mi minacciò di terribili conseguenze”. Il giorno successivo, il 6 giugno, secondo il racconto di Masih, “Muhammad Irfan è venuto nel mio negozio per equilibrare le ruote della sua moto. L’ho fatto e gli ho chiesto di pagarmi la manodopera, come stabilito tra di noi. Muhammad Irfan si è rifiutato di saldarmi e ha detto: “Sono un seguace di Peer Fakhir (un musulmano ascetico) e non chiedermi soldi”. Gli ho detto che sono un credente in Gesù Cristo e non credo in Peer Fakhir e gli ho chiesto gentilmente di pagarmi la manodopera”. A quel punto Muhammad Irfan si recò, o forse tornò, nel negozio rivale di Muhammad Naveed e, pochi istanti dopo, intorno al negozio del cristiano si era formata una folla di musulmani. Come spiega Masih: “Entrambi (Muhammad Naveed e Muhammad Ashfaq) hanno cospirato contro di me e hanno presentato una falsa denuncia formale a mio carico. Ho raccontato a un agente di polizia come sono andati realmente i fatti, ma lui non ha registrato la mia versione e ha condotto un’indagine privata. Non ho nemmeno pronunciato parole dispregiative contro il profeta Maometto né avrei potuto pensare di farlo”. Insieme al proprietario del negozio rivale Muhammad Naveed, Muhammad Irfan, il denunciante, ha anche convinto altri due musulmani - Muhammad Nawaz e Muhammad Tahir - a mentire e a dire alla polizia che “hanno sentito Masih pronunciare parole dispregiative contro il profeta musulmano”, anche se nessuno di loro era presente durante il diverbio tra Irfan e Masih. Masih è stato accusato ai sensi della sezione 295 C del Codice penale del Pakistan, che afferma: “Chiunque con le parole, sia pronunciate sia scritte, o con rappresentazione visibile o qualsiasi attribuzione, allusione, insinuazione, direttamente o indirettamente, offende il sacro nome del Profeta Maometto (pace a Lui), deve essere punito con la morte o il carcere a vita, ed è anche passibile di multa”. Il problema di questa legge non è tanto che la sentenza è estrema e irrevocabile, quanto piuttosto che i musulmani la sfruttano regolarmente per risolvere rancori personali contro le minoranze non musulmane in Pakistan. Il fatto è che le minoranze non musulmane del Pakistan, per lo più cristiane e indù, sanno che è meglio non dire qualsiasi cosa che possa essere erroneamente interpretata come offensiva sul profeta musulmano perché conoscono bene le terribili ripercussioni. Fin dall’infanzia, viene insegnato loro a mostrare nient’altro che deferenza per il profeta dell’Islam. Ciò, tuttavia, non impedisce ai musulmani di accusare falsamente questi “infedeli” di aver offeso Maometto. Amnesty International ha notato questa dinamica in un rapporto stilato quasi tre decenni fa, nel 1994: “(In) tutti i casi noti ad Amnesty International, le accuse di blasfemia (in Pakistan) sembrano essere state mosse arbitrariamente, fondate esclusivamente sulle convinzioni religiose delle minoranze individuali. (...) Le prove disponibili in tutti questi casi indicano che le accuse sono state presentate come misura per intimidire e punire i membri delle comunità religiose minoritarie (...) l’ostilità nei confronti di gruppi di minoranze religiose sembrava in molti casi essere aggravata da inimicizia personale, rivalità professionale o economica o dal desiderio di ottenere un vantaggio politico. Di conseguenza, Amnesty International ha concluso che la maggior parte delle persone che ora sono accusate di blasfemia, o condannate per tali accuse, sono prigionieri di coscienza, detenuti esclusivamente per le loro convinzioni religiose reali o presunte in violazione del loro diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione [corsivo aggiunto)”. L’implicazione che, quando si tratta di casi di blasfemia, le aule dei tribunali pakistani ospitano processi non equi sembrerebbe una descrizione adeguata del recente processo ad Ashfaq Masih. Nonostante i cristiani in Pakistan sappiano che devono essere estremamente attenti a dire qualsiasi cosa che possa essere fraintesa come un’offesa a Maometto, il pubblico ministero ha dichiarato: “Il 15 giugno 2017, alle 12, Ashfaq Masih, mentre era seduto in negozio, ha pronunciato parole blasfeme nei confronti del profeta Maometto e ha detto cose [che] non possono essere ripetute”. Il giudice musulmano che presiede il caso, Khalid Wazir, è arrivato al punto di affermare che “non si può credere che un musulmano rivolti la frittata al riguardo”, definendo al contempo le prove presentate dalla squadra di difesa di Masih come “non credibili”. Così, il 4 luglio 2022, Khalid ha sentenziato che il 34enne cristiano, che ha una moglie e una figlia piccola, “sarà impiccato, previa conferma dell’Onorevole Alta Corte”. Considerando che Masih era già in carcere da cinque anni, la sua famiglia è rimasta inorridita quando il giudice ha pronunciato la condanna a morte. Non gli era stato permesso di vedere o stare accanto a sua madre, morta nel 2019, perché era dietro le sbarre. Da allora, “il caso ha avuto molteplici rinvii, riprogrammazioni, il giudice non si è presentato, così come i testimoni, e persino l’avvocato del denunciante non ha registrato la loro presenza”. Secondo il fratello maggiore di Masih, Mehmood: “L’improvvisa sentenza mi ha stupito e non ho saputo cosa fare. Non appena mi sono leggermente ripreso sono uscito dall’aula e ho iniziato a piangere perché per me era la fine del mondo. Sono corso a casa e ho informato la mia famiglia. Mia moglie e anche i bambini hanno iniziato a piangere. Quando la notizia si è diffusa i miei parenti hanno iniziato a farci visita per consolarci, ma non è stato facile per me dato che Masih è il mio unico fratello e gli voglio molto bene”. A proposito di questa sentenza, Nasir Saeed, direttore del Center for Legal Aid Assistance and Settlement, un ente di beneficenza che sostiene i cristiani perseguitati in Pakistan, ha dichiarato che il verdetto è stato “deplorevole, ma prevedibile”. E ha aggiunto: “Non ricordo nessun caso in cui il tribunale di primo grado abbia deciso di concedere la libertà su cauzione o di liberare chiunque fosse accusato di aver violato la legge sulla blasfemia. I giudici sono consapevoli che casi del genere sono fatti per punire e risolvere rancori personali con gli oppositori, soprattutto contro i cristiani. A causa delle pressioni esercitate dai gruppi islamici, i giudici dei tribunali di grado inferiore sono sempre riluttanti a liberare le vittime, ma prendono decisioni popolari per salvare la loro pelle e trasferire il loro fardello all’Alta Corte. Il caso di Masih era molto chiaro: il proprietario del negozio lo voleva sfrattare e Naveed era un rivale in affari che lo ha coinvolto in un caso di falsa blasfemia. È innocente e ha già trascorso cinque anni in prigione per un crimine che non ha mai commesso”. Il caso di Masih è ora almeno la terza condanna a morte di questo tipo dall’inizio di quest’anno. Nel febbraio 2022, Zafar Bhatti, 58 anni, un altro cristiano che stava scontando l’ergastolo con la falsa accusa di aver offeso Maometto in un messaggio telefonico, è stato condannato a morte. Nel gennaio 2022, Aneeqa Atteeq, una donna musulmana è stata condannata a morte dopo che un tribunale pakistano l’ha dichiarata colpevole di aver offeso Maometto nei messaggi di testo che aveva inviato a un uomo tramite WhatsApp. La donna ha offerto una spiegazione più plausibile, se non banale: l’uomo che l’aveva denunciata si stava “vendicando” di lei perché aveva rifiutato le sue avances. Per quanto sia orribile essere accusati di blasfemia in un’aula di tribunale pakistana, è ancora peggio cadere nelle mani di una folla inferocita di pakistani. Un reportage pubblicato dieci anni fa ha rilevato che in Pakistan, solo tra il 1990 e il 2012, “cinquantadue persone sono state vittime di esecuzioni extragiudiziali con l’accusa di blasfemia”. Più di recente, nel marzo 2022, una donna musulmana e le sue due nipoti hanno massacrato Safoora Bibi sgozzandola, dopo che un parente delle tre assassine aveva semplicemente sognato che Bibi aveva offeso Maometto. Nel febbraio 2022, una folla inferocita di musulmani ha lapidato a morte un uomo mentalmente disabile dopo che si era sparsa la voce che aveva bruciato una copia del Corano. Nel dicembre 2021, una folla si riversò in una fabbrica dove uccise un uomo dello Sri Lanka e poi ne bruciò il corpo, a causa delle voci che si erano diffuse in merito al fatto che avesse offeso Maometto. Almeno, l’uomo venne ucciso prima che il suo corpo fosse bruciato, a differenza di una giovane coppia cristiana che un’altra folla pakistana aveva lentamente bruciata viva nel 2015 perché accusata di aver offeso l’Islam. Quest’orribile modo di uccidere i presunti “blasfemi” di recente è visibile anche in Nigeria. Due mesi fa, alcuni studenti universitari hanno lapidato a morte e bruciato Deborah Emmanuel, una studentessa cristiana che aveva rifiutato le avances sessuali di un giovane musulmano. Quest’ultimo ha reagito al rifiuto dicendo ad alta voce che la ragazza aveva insultato Maometto, il profeta dell’Islam. In poco tempo, si è raggruppata una folla e l’ha uccisa. Per quanto oppressive siano le “leggi sulla blasfemia” in Pakistan, non sono limitate a un Paese né sono un sottoprodotto di esso. Sono, purtroppo, i sottoprodotti dell’Islam. Non soltanto si verificano in tutto il mondo islamico (ad esempio, in Indonesia, in Iran, in Malesia, in Oman e in Bangladesh), ma hanno iniziato a diffondersi in Occidente, come in Francia e in Spagna. “Quando si tocca il Profeta”, ci ha avvisato tutti Yello Babo, un religioso musulmano che ha difeso la lapidazione e il rogo del corpo di Deborah Emmanuel da parte di una folla in Nigeria, “diventiamo pazzi. (...) Chiunque tocchi il profeta, non merita nessuna punizione: va semplicemente ucciso!”. *Tratto dal Gatestone Institute - Traduzione a cura di Angelita La Spada Il Libano è ostaggio del suo sistema politico di Giulia Gozzini affarinternazionali.it, 22 agosto 2022 Sullo sfondo di una disastrosa e apparentemente inarrestabile spirale negativa principiata nel 2019, quando la valuta nazionale iniziò progressivamente a svalutarsi, il Libano si trova nuovamente intrappolato in un rovinoso stallo politico. A distanza di tre mesi dalle elezioni parlamentari (le prime tenutesi dopo la rivoluzione dell’ottobre 2019 e l’esplosione del porto di Beirut dell’agosto 2020), nulla sembra essere cambiato. L’eredità delle elezioni - Sebbene i risultati elettorali non abbiano rappresentato un mutamento drastico nello status quo, essi hanno pur sempre inaugurato un nuovo corso nella politica libanese, infrangendo il monopolio della rappresentanza politica detenuto dai partiti tradizionali e istituzionalizzando l’eredità politica della rivoluzione con l’elezione di 13 candidati indipendenti: due eventi senza precedenti e dunque significativi poiché occorsi in un sistema deliberatamente costruito per conservare il potere nelle mani delle elite e dunque per impedire una tale possibilità. Tuttavia, le consultazioni non possono comunque dirsi una vittoria delle cosiddette ‘forze del cambiamento’. Parimenti, sarebbe poco lungimirante affermare - come molti hanno fatto all’indomani della pubblicazione dei risultati - che si tratti di una sconfitta di Hezbollah. Per quanto l’alleanza guidata dal duo sciita Hezbollah-Amal - che include fazioni cristiane, armene e druse - benché abbia perso la maggioranza in Parlamento, essa rimane comunque il più ampio blocco parlamentare. A ben guardare, inoltre, sono le componenti non sciite della coalizione ad aver registrato le peggiori performances. Del resto, come dimostrato dalla rielezione di Berri a speaker del Parlamento, il partito di Dio non necessita di una maggioranza parlamentare per penetrare il sistema e mantenere la sua egemonia. Tra gli alleati, colpisce in particolare la scarsa prestazione del cristiano Free Patriotic Movement del presidente Aoun che ha perso voti e seggi a fronte di un’impressionante crescita ottenuta dalle cristiane Forze Libanesi di Geagea, opposte ad Hezbollah e sostenute dai sauditi. Sebbene questo risultato incida significativamente sugli equilibri intra-comunitari (rendendo le FL il primo partito cristiano e, dunque, sfidando la leadership finora indiscussa del FPM), la vittoria apparente di Geagea non sembra potersi materializzare politicamente. La rielezione di Berri, per quanto con la più esigua maggioranza mai vista, e le consultazioni per la designazione del nuovo primo ministro hanno già mostrato l’incapacità delle FL di costruire una larga coalizione e quindi di influenzare concretamente l’esecutivo. Nel campo sunnita, il ritiro dalla politica di Saad Hariri, pur non avendo sensibilmente condizionato l’affluenza, ha tuttavia mostrato interessanti tendenze interne alla comunità. Nessuna leadership sunnita alternativa è emersa, ma il voto sunnita (occorre comunque ricordare il boicottaggio elettorale dei sostenitori dell’ex premier) è stato disperso tra i candidati indipendenti e nuove molteplici leadership locali, decretando una frammentazione politica interna senza precedenti. Rappresentanza comunitaria frammentata - La rappresentanza politica delle comunità appare dunque estremamente frammentata con l’eccezione rilevante del fronte sciita ancora saldamente nelle mani di Hezbollah e Amal. I gruppi indipendenti hanno sicuramente riportato una grande vittoria, registrando ottimi risultati in tutto il Paese e, dunque, dimostrando la disaffezione diffusa verso la vecchia classe politica. Oltre ad avere un problema di coesione interna, che rende la creazione di un fronte di opposizione unito praticamente impossibile, gli indipendenti si trovano tuttavia intrappolati in un dilemma di coerenza. Dal momento che il Parlamento è diviso in molteplici gruppi, nessuno dei quali avente la maggioranza, gli indipendenti dovranno presto decidere se rimanere coerenti con la loro impostazione “purista”, contribuendo tuttavia alla paralisi istituzionale, o se - per costruire una maggioranza - scendere a patti e coalizzarsi con partiti tradizionali come le FL, che incarnano tuttavia quello stesso potere settario che vogliono abbattere. Un’interpretazione realista delle elezioni - Per quanto le urne abbiano rivitalizzato lo spirito della thawra, il successo degli indipendenti deve, dunque, essere contestualizzato. Malgrado risultati talvolta deludenti, le forze politiche tradizionali controllano ancora il 90% del Parlamento. La loro popolarità dimostra che i loro consueti strumenti di mobilitazione hanno ancora rilevanza. Del resto, patronage e clientelismo politico sono ancor più politicamente redditizi: il collasso economico e le conseguenti multiple crisi che affliggono il Paese hanno, infatti, reso molti Libanesi sempre più dipendenti dalle comunità settarie. Sullo sfondo di un Paese sempre più povero e prossimo al collasso, le elezioni hanno consegnato un parlamento frammentato e polarizzato dove l’identificazione di una maggioranza politica risulta problematica. Nel migliore dei casi, i partiti saranno in grado di creare maggioranze fluide, per temi. Nel peggiore, il Libano sarà bloccato nell’ennesimo stallo politico. La formazione del governo sarà, dunque, complicata e faticosa, caratterizzata da estenuanti contrattazioni i cui i partiti si affanneranno a settare l’equilibrio di potere in loro favore e a massimizzare la loro quota nell’esecutivo. Tale sfibrante processo sarà inoltre inevitabilmente connesso alle elezioni presidenziali. Se entro il 1° novembre un nuovo presidente non sarà stato ancora designato (eventualità molto probabile), il consiglio dei Ministri - in conformità alla Costituzione libanese - dovrà assumere i poteri presidenziali; i partiti sono, quindi, perfettamente consapevoli che al nuovo governo potrebbe essere concesso un pieno potere esecutivo, il che alza ulteriormente la posta in gioco. Lo stallo economico - Il rischio di uno stallo politico si traduce inevitabilmente in un potenziale vuoto nelle posizioni di leadership e dunque in un’assenza possibilmente fatale di riforme. Tuttavia la catastrofe sociale ed economica libanese sta raggiungendo livelli insostenibili. È quanto mai urgente il bisogno di lanciare un piano di ripresa economica che mitighi l’impatto della guerra in Ucraina e affronti le cause delle crisi deliberate e sclerotizzate del Paese, crisi che hanno condannato più dell’80% della popolazione a vivere al di sotto della soglia di povertà, in quella che la Banca Mondiale classifica come una delle tre crisi più gravi a livello globale dalla metà del XIX secolo. Il nuovo governo dovrà raggiungere un accordo finale con il Fondo Monetario Internazionale per un pacchetto di salvataggio, inevitabilmente subordinato alla realizzazione di un insieme di riforme a lungo rimandate. Tuttavia, tale accordo non può dirsi sufficiente per costruire un’economia sostenibile, equa e inclusiva. Il costante peggioramento delle condizioni umanitarie nel Paese richiede anche l’indifferibile attuazione di un’ambiziosa politica di protezione sociale. Tuttavia, al momento, il contesto politico necessario alla sua realizzazione semplicemente non esiste. Di conseguenza, il Libano rischia di rimanere bloccato, nella migliore delle ipotesi, in un cattivo equilibrio, aggrappandosi - come finora - alla resilienza della sua società civile e al sostegno economico della diaspora per sopravvivere; altrimenti, il rischio è quello di un’implosione, con un violento scoppio della rabbia sociale che potrebbe sfociare in tensioni e violenza. È tempo di un cambio generazionale - In assenza di una maggioranza assoluta e in un sistema consociativo come quello libanese - dove il processo decisionale si fonda sul consenso - qualsiasi fragile maggioranza si rivelerà inutile e fonte di un deleterio stallo sulle questioni più divisive (come la formazione del governo, l’elezione del presidente, i negoziati con il FMI, la demarcazione marittima con Israele, le riforme strutturali). Così, l’iniziale clima celebrativo - successivo alla convinzione che una breccia fosse stata aperta in un sistema fino ad ora infrangibile - si scontra con la triste consapevolezza che i postumi delle elezioni potrebbero rivelarsi piuttosto nefasti per il futuro. Per salvare il Libano da questo disastro colposo e trasformarne veramente il sistema politico, occorre che il Paese faccia finalmente i conti con il proprio passato e si liberi di quella stessa elite che ha controllato e infestato la politica libanese dalla fine della guerra civile nel 1990. Affinché ciò avvenga, è necessario costruire un’alternativa politica. Queste elezioni ci hanno insegnato che non basta scendere in piazza e protestare, ma è necessario coinvolgersi attivamente in politica. E, come sempre, il motore del cambiamento non può che risiedere nelle giovani generazioni, più consapevoli e determinate a rivendicare per sé e per il proprio Paese un nuovo e più brillante futuro.