Comunicato sulla drammatica situazione nelle carceri di Coordinamento Carcere Due Palazzi Ristretti Orizzonti, 21 agosto 2022 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: - liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione - liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. Coordinamento Carcere Due Palazzi - Granello di Senape/Ristretti Orizzonti - Giotto Cooperativa Sociale - WorkCrossing Cooperativa Sociale - Associazione Amici della Giotto - AltraCittà Cooperativa Sociale - Coristi per caso - Solidalia Cooperativa Sociale - Volontà di Sapere Cooperativa Sociale - Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale - Pallalpiede - TeatroCarcere - Scuola Edile - Antigone Padova - Commissione Carcere Camera Penale di Padova - Insegnanti scuole in carcere Hanno dato la propria adesione: - Associazione Closer Venezia - Cooperativa sociale “Rio Terà’ dei Pensieri” Venezia - Cooperativa sociale “Il Cerchio” Venezia - Il Granello di senape O.d.V Venezia - Associazione Loscarcere - Marcello Pesarini e Giovanni Russo Spena - Enrichetta Vilella, operatrice carceraria - Mventicinque Società Cooperativa Sociale - Vicenza L’ipocrisia sui suicidi in cella per non occuparsi di carcere di Franco Corleone L’Espresso, 21 agosto 2022 C’è voluto il suicidio di una detenuta di 27 anni nel carcere di Verona (un mese fa nella stessa galera un’altra giovane si era ammazzata) per costringere giornali e media a occuparsi della tragedia della detenzione e delle condizioni di vita delle persone private della libertà. È davvero il segno della crudeltà e della insensibilità del Paese di Cesare Beccaria che si rifiuta di immaginare una riforma umana e civile. Molte voci si sono levate per manifestare dolore sincero, tra queste anche quella del magistrato di sorveglianza che si occupava da tempo del caso della giovane che si è arresa di fronte al difficile mestiere di vivere. Confesso di percepire in tanti commenti un alone di ipocrisia, soprattutto di paternalismo per evitare di affrontare i reali nodi. I cinquantuno suicidi di quest’anno sono davvero tanti, troppi. Ovviamente ogni suicidio ha un contenuto di mistero insondabile e una sua unicità; una scelta che richiede rispetto e non la ricerca di cause o responsabilità banali, buone per mettersi a posto la coscienza. Un numero davvero impressionante è quello dei tentati suicidi, ben 1.078; possiamo valutare a parte gli atti puramente dimostrativi o quelli attribuibili alla ricerca del cosiddetto sballo, ma rimane un quadro di sofferenza diffusa. Per capirne le ragioni profonde e soprattutto agire in funzione preventiva sarebbe necessario costruire un carcere di relazioni umane valide, con l’aiuto di psicologi capaci e sensibili: questo sarebbe un compito del Servizio sanitario pubblico. Evocare la tossicodipendenza o la fragilità rischia di nascondere le responsabilità di scelte politiche che hanno determinato l’incontenibile bulimia della detenzione sociale. Vale la pena ribadire i dati: dei 54.000 detenuti presenti, il 35 per cento è responsabile di violazioni della legge antidroga (detenzione e spaccio) e il 28 per cento è classificato come “tossicodipendente”: oltre 15.000 persone che per tutti, a parole, non dovrebbero stare in carcere. Un fenomeno sociale, culturale, di stile di vita è stato criminalizzato, devolvendo la sua risoluzione a una istituzione totale che proprio per questo soffre il peso di un insostenibile sovraffollamento. Il carcere come extrema ratio, riservato ai soggetti che hanno compiuto gravi delitti e con lunghe pene, già ora si potrebbe fare. Vi sono tanti detenuti, ben ventimila, che hanno un residuo pena breve (6.996 fino a un anno, 7.073 fino a due anni, 6.009 fino a tre anni): una condizione che consente l’applicazione di misure alternative. Dopo il tempo della pandemia, delle quarantene e di restrizioni insopportabili, in assenza di qualsiasi misura di compensazione, almeno va realizzato un piano straordinario di uscita dal carcere che dia speranza. Anche con sperimentazioni coraggiose, come aveva immaginato Sandro Margara che nel 2005 suggeriva la creazione di Case territoriali di reinserimento sociale, con la direzione affidata al sindaco. Una soluzione per dare corpo all’art. 27 della Costituzione, che vieta pene contrarie al senso di umanità e le finalizza al reinserimento in seno alla società. Un articolo che costituisce uno spartiacque fra barbarie e ragione. Proprio quello che Giorgia Meloni un anno fa ha picconato. I partiti ignorano ancora il dramma del carcere di David Allegranti La Nazione, 21 agosto 2022 Cinquantatré. Sono i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Nel 2021 sono stati 57. Un numero enorme e terribile. Pochi giorni fa a Verona c’è stato il caso di Donatella, 27 anni, che per andarsene ha usato il gas del fornello. “Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente…”. Le parole, contenute in una lettera letta durante il funerale, sono del magistrato di Sorveglianza Vincenzo Semeraro. Ma a pochissimi interessa la vita dei ristretti: non portano voti e non portano consenso. A occuparsene sono i Radicali e qualche associazione che svolge un lavoro meritorio, da Antigone all’Altro diritto. “I temi della pena e del carcere dovrebbero essere molto vicini al cuore e alla vita delle persone perché attengono al più critico dei rapporti fra stato e individui: la privazione della libertà personale. Una politica accorta dovrebbe occuparsene, un corpo elettorale accorto dovrebbe chiederne conto”, mi dice la filosofa del diritto Sofia Ciuffoletti. Gli operatori e i volontari chiedono di allargare il diritto alle telefonate. “Dieci minuti a settimana di telefonate forse andavano bene nel 1975, ma oggi non bastano”, dice Antigone. È una richiesta giusta, ma la politica è impegnata nella campagna balneare. Fra flat tax al 23 o al 15 per cento, contorsioni populiste e campi larghi o stretti: a nessuno interessa occuparsi dell’emergenza carceri. Già è stato difficile durante il picco della pandemia spiegare che no, in carcere non si sta meglio che fuori come qualche scanzonato direttore del Fatto quotidiano va sostenendo da anni. Figurarsi oggi. Eppure la (in)civiltà di un Paese si misura anche dallo stato delle sue carceri. Secondo i calcoli di Antigone, in carcere ci si uccide 16 volte in più che nel mondo libero. “A uccidersi sono persone spesso giovani, la maggior parte di chi si è tolto la vita quest’anno aveva tra i 20 e i 30 anni”, spiega l’associazione presieduta da Patrizio Gonnella. I problemi sono sempre gli stessi, da anni: sovraffollamento (tasso ufficiale, a fine giugno, del 107,7 per cento, con 54.841 persone recluse su 50.900 posti); elevata percentuale di detenuti stranieri, di tossicodipendenti e di detenuti affetti da patologie psichiatriche. Da settimane al purtroppo noto elenco si è aggiunto anche il caldo, contro il quale le carceri italiane non sono attrezzate. Prendiamo, in Toscana, il caso di Sollicciano, denunciato anche dal cappellano del carcere don Vincenzo Russo: “A Sollicciano si deve curare l’igiene, dobbiamo dare la possibilità ai detenuti di vivere una normalità, questo non sta accadendo. Loro devono convivere con gli scarafaggi e le cimici: la mattina mi fanno vedere le punture ed è inaccettabile. Poi c’è il problema del caldo, non si respira… I problemi sono tanti. Dalla tossicodipendenza alla malattia mentale. Come ho detto c’è tanto sporco, anche nelle aree comuni. All’interno di Sollicciano ci sono 44 etnie, la convivenza in queste condizioni diventa difficile. Dobbiamo investire queste persone”. Carcere: c’è qualche partito che… offre di più? Donne in carceri per uomini. Più emarginate e sfruttate di Ilaria Sesana Avvenire, 21 agosto 2022 Tn un’estate tragica per le carceri italiane (dove a oggi 53 persone si sono tolte la vita) alcuni fatti di cronaca hanno portato l’attenzione su un’area dell’universo carcerario che solitamente ottiene poca attenzione: la detenzione al femminile. La giovane Donatela Hodo il 10 agosto a Verona e una 36enne (di cui non sono note le generalità) nella casa di reclusione di Roma Rebibbia il 30 luglio portano a tre il numero delle donne che si sono tolte la vita nelle carceri da inizio anno. I dati del ministero della Giustizia (al 31 luglio 2022) evidenziano come il carcere sia un mondo prevalentemente maschile: le donne ristrette sono 2.307 su un totale di circa 55mila detenuti, il 4,1% del totale Una percentuale che, in 20 armi, è rimasta stabile come sottolinea l’associazione Antigone; solo tra il 1991 e il 1993 il dato ha superato il 5%, dunque al di sotto della media europea, pari al 5,3% secondo le ultime statistiche del Consiglio d’Europa. Un quarto delle donne detenute è ristretto nelle quattro case di reclusione femminile del Paese: Pozzuoli (153 le presenze al 31 luglio 2022 a fronte di una capienza di 105 posti), Trani (41 presenze per 32 posti), Venezia “Giudecca” (72 presenze per 111 posti) e Roma “Rebibbia” che, con 325 presenze (a fronte di una capienza ufficiale di 263 posti) è il carcere femminile più grande d’Europa. Tutte le altre detenute sono “sparse” nelle 48 sezioni dedicate nelle carceri maschili: “In questi casi i numeri variano molto: si va da Milano dove ci sono circa 100 presenze femminili ad altre realtà in cui le sezioni dedicate ospitano piccoli gruppi di detenute”, sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice di Antigone. La detenzione in un istituto pensato e abitato in larga maggioranza da uomini comporta una serie di problemi per le donne: “Dei 24 istituti con donne detenute visitati da Antigone nel 2021 il 62,5% disponeva di un servizio di ginecologia e il 21,7% di un servizio di ostetricia”, si legge nel rapporto annuale dell’associazione. Ma le criticità non sono solo strutturali: “Quando il numero delle donne rinchiuse nelle sezioni dedicate è ridotto, le detenute sono particolarmente penalizzate: le attività trattamentali sono “ spostate” verso il gruppo più numeroso, che è quello maschile - continua Marietti. Proprio per evitare questa eccessiva marginalizzazione, l’ordinamento penitenziario in vigore dall’ottobre 2018 prevede esplicitamente che le donne ospitate in istituti maschili debbano essere “un numero tale da non compromettere le attività trattamentali”. Ci sono poi tutta una serie di problemi legati alla tutela della loro salute. “Per le donne il carcere è particolarmente affittivo: molte sono madri e hanno i figli all’esterno. Per questo è importante non interrompere i legami familiari - commenta Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Comune di Roma -. Un’altra grossa difficoltà è l’accesso alle cure mediche e agli esami preventivi. Recentemente abbiamo accompagnato una giovane donna cui hanno tardato a fare un accertamento e ora ha un tumore a entrambi i seni. Certamente le difficoltà legate alla pandemia hanno avuto un peso, ma se la sua condizione fosse stata affrontata in tempo non si troverebbe in questa situazione”. Altro tema cruciale è quello del lavoro, che può rappresentare un’importante occasione di riscatto per le detenute. “Molte delle donne e delle ragazze che incontriamo non avevano esperienze lavorative al di fuori del carcere o venivano sfruttate: per questo le esperienze lavorative o di formazione professionale hanno un grandissimo successo con loro - spiega Stefania Tallei, volontaria della Comunità di Sant’Egidio nelle carceri romane. In generale, penso che il carcere femminile sia da ripensare: si tratta di strutture troppo “maschili” che non tengono conto delle esigenze specifiche delle donne, ad esempio quelle in gravidanza”. Economia carceraria: prodotti di qualità oltre le sbarre di Alessandra Ventimiglia adiscussione.com, 21 agosto 2022 È statisticamente provato che il 68,4% dei detenuti rimessi in libertà senza un lavoro torna a delinquere, mentre tra gli ex detenuti che hanno intrapreso un percorso di formazione e inserimento lavorativo già durante la reclusione, il tasso di recidiva non supera l’1%. “Il lavoro penitenziario è un incentivo determinante per l’inclusione sociale. Il 31 dicembre 2019 soltanto il 30% circa della popolazione detenuta era impiegata in attività lavorative e di questi solo il 13% per datori terzi rispetto all’amministrazione penitenziaria”. I dati li riporta la pagina del progetto Economia Carceraria, una impresa nata nel 2018 da Oscar la Rosa, già volontario per l’associazione “Semi di Libertà”, che ha da sempre l’obiettivo di contrastare la recidiva attraverso la formazione e l’avvio nel mondo del lavoro di persone detenute e Paolo Strano, Presidente dell’associazione. Obiettivo è promuovere e distribuire tutte le produzioni artigianali realizzate nelle diverse carceri italiane. Un Festival riunisce tutte le cooperative attive dietro le sbarre - Il primo Festival nazionale dell’Economia Carceraria è stato organizzato a Roma nel 2018 dall’Associazione Semi di Libertà Onlus, dall’Associazione L’Isola Solidale, dalla Cooperativa Co.R.R.I., dalla Cooperativa O.R.T.O. e da Economia Carceraria srl. In quell’occasione si è concretizzato l’obiettivo di presentare le produzioni carcerarie come materia articolata, ma coesa, di un lavoro che può trarre forza dalla capacità di fare rete. Durante i tre giorni, sono state presentate produzioni di realtà intra ed extra murarie provenienti da tutta Italia, si sono svolti convegni sul tema del lavoro penitenziario e dell’inclusione, organizzato appuntamenti di cucina carceraria e di moda penitenziaria. Da allora si ripete ogni anno e rappresenta un laboratorio permanente di idee e progetti per ripensare in modo efficace le attività svolte nelle strutture detentive, la narrazione di storie e vissuti in grado di mettere in discussione convinzioni e suggerire riflessioni, una esposizione fotografica e una di opere realizzate in carcere, premiazioni, monologhi teatrali, presentazioni di libri, proiezioni audiovisive e molto altro. E-Commerce e prodotti di qualità - Per poter acquistare facilmente questi prodotti, da poco è nato il negozio online di Economia Carceraria, frutto di un lungo lavoro tra cooperative e detenuti impegnati negli istituti penitenziari di tutta Italia. Il catalogo dei prodotti in vendita nel negozio online, ad oggi riunisce circa 13 realtà d’impresa: ci sono i biscotti siciliani di Cotti in Fragranza (Palermo), che dopo l’apertura del bistrot Al Fresco, a Palermo ha stipulato una collaborazione con la cantina veneta Masi per la produzione di prodotti di pasticceria; le paste di mandorla di Dolci Evasioni (Siracusa), i torroni e torroncini di Sprigioniamo Sapori (Ragusa), E ancora: la birra “Pausa Cafè”, prodotta nel Carcere di Saluzzo (Cn), il vino “Fresco di Galera” del Carcere di Sant’Angelo dei Lombardi (Av) e il “Valelapena” del Carcere di Alba (Cn), le giardiniere, le passate di pomodoro, il miele, le marmellate, i succhi di frutta biologici “Rigenera” del carcere di Cremona, i “Banda biscotti” del carcere di Verbania. Come sottolinea Oscar La Rosa, cofondatore di Economia Carceraria: “C’è ancora troppa ingiustificata diffidenza nei confronti di questi prodotti che, invece, sono ottimi dal punto di vista organolettico, hanno un immenso valore etico e sociale e prezzi in linea con il mercato. Noi siamo fiduciosi che la possibilità di acquistarli online possa essere un invito peri consumatori e un volano per questa particolare economia”. Tutti i prodotti sono rintracciabili per categoria o accedendo alla scheda del produttore, che racconta la storia del progetto all’interno del carcere. L’importanza dell’economia carceraria per le persone detenute - Anche altre associazioni si stanno adoperando per trovare lavoro e creare corsi per le persone detenute, poiché imparare un mestiere già all’interno del carcere è fondamentale per sperare in un futuro migliore dopo la scarcerazione e questo non fa che confermare l’efficacia delle iniziative che, anche grazie al supporto di associazioni del terzo settore, sollecitano i carcerati a rimettersi in gioco, avere una reale seconda chance, iniziando un percorso di lavoro e legalità, applicando così il principio sancito dall’art. 27 della Costituzione italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per accedere al portale: https://economiacarceraria.com/ La riforma della Giustizia tributaria funziona, ma è incompleta di Giacinto della Cananea Il Foglio, 21 agosto 2022 Pochi giorni fa, il Parlamento ha approvato la legge sulla riforma della Giustizia tributaria, di cui è possibile stilare un bilancio di pregi e difetti. Tra i pregi, il primo è il buon funzionamento delle istituzioni. Al governo Draghi va riconosciuto il merito di aver inserito alcuni obiettivi nel Pnrr e di aver seguito il procedimento legislativo ordinario, l’unico - d’altronde - accettabile per la presidenza della Repubblica. Al Parlamento va dato atto di aver legiferato in poco più di due mesi, sia pure al prezzo d’una compressione del tempo a disposizione della Camera. Un altro pregio della riforma è che sono state recepite varie osservazioni provenienti da studiosi, magistrati e professionisti. Per esempio, sono stati eliminati i limiti inizialmente posti all’appello per le cause di modesto valore ed è stata introdotta una norma transitoria sull’età pensionabile degli attuali giudici tributari. Il terzo pregio è il più importante sotto il profilo istituzionale: la scelta di fondo a favore di una magistratura tributaria non più onoraria, bensì professionale, dotata di magistrati a tempo pieno. Essa conferma la tendenza alla specializzazione che da tempo è in atto in Italia e altrove. Il quarto merito della riforma è l’aver perfezionato la disciplina processuale con l’ammissione della prova testimoniale. Infine, è stata colta l’occasione per stabilire una definizione legislativa delle liti che giacciono presso la Corte di cassazione. Pur se contestata con argomenti tutt’altro che irragionevoli (ogni misura di questo tipo è eccezionale, ma crea l’aspettativa di un’altra, prima o poi), questa scelta è coerente con quella di fondo di voltare pagina e con la necessità di ripristinare le precondizioni affinché la Cassazione possa svolgere efficacemente il proprio ruolo. Sono stati segnalati, però, alcuni difetti. Il primo è il persistente ancoraggio istituzionale della magistratura tributaria al ministero dell’Economia e delle Finanze, che è parte in causa in molte controversie. Ciò non pregiudica l’avvio della riforma, ma potrebbe, invece, impedirne la riuscita la complessità dei meccanismi previsti per il reclutamento dei nuovi giudici tributari. Esso avverrà tramite un concorso, ma è previsto che cento tra gli attuali giudici tributari provenienti dalla magistratura ordinaria e da quella amministrativa o contabile possano optare per la nuova magistratura tributaria. Il problema è che non sono stati stabiliti adeguati incentivi. Altrettanto può dirsi per gli attuali giudici tributari che provengono dalle professioni (avvocati, dottori commercialisti, consulenti del lavoro). Il terzo difetto riguarda l’assenza di un collegamento tra la nuova magistratura tributaria e la Corte di cassazione, che pure resta il giudice di ultimo grado. Infine, non si è tenuto conto della necessità di rafforzare il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, cioè l’organo di garanzia del suo buon funzionamento. Quanti hanno a cuore le riforme istituzionali, consapevoli che qualsiasi cambiamento è difficile ed è migliorabile, possono ritenere che i pregi sopravanzino i difetti. È necessario - però - che i decisori politici si rendano conto che, in assenza di adeguati incentivi, il rischio che il reclutamento si inceppi va preso molto sul serio. Occorrono, quindi, misure acconce, anche nella prossima legislatura, che si spera ispirata a un sano pragmatismo. Salerno. Rivolta nel carcere. “Non ci fu la regia degli ndranghetisti” La Città di Salerno, 21 agosto 2022 Dietro la rivolta dei detenuti nella Casa circondariale di Fuorni, scoppiata nel marzo del 2020, in piena pandemia Covid, non c’era la longa manus della criminalità organizzata. A questa conclusione è arrivata la Commissione ispettiva, istituita il 22 luglio 2021, dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, per far luce proprio su rivolte e disordini, avvenuti nel 2020, nelle carceri italiane. Ad aprire il capitolo sesto “Ricostruzioni degli eventi e sintesi delle rivolte” è proprio la vicenda del penitenziario salernitano. La ribellione dei detenuti ebbe una importante eco mediatica, specie perché l’Antimafia sosteneva che dietro i disordini, non solo a Fuorni ma in tutta Italia, ci fosse la regia della criminalità organizzata, in particolar modo della ‘ndrangheta. In piena rivolta, una delegazione di detenuti di Salerno consegnò all’autorità un documento, poi denominato “papello”, in cui avevano appuntato le loro richieste per preservare le loro condizioni di salute ed evitare eccessive restrizioni in materia di colloqui e telefonate con i familiari. Su quel “papello”, inizialmente, c’era il sospetto che fosse stato preparato in un periodo fu antecedente alla protesta e quindi la stessa fu considerata premeditata per ottenere più indulgenza e maggiori benefici per i detenuti. Importante, per il chiarimento di questo punto, è stata la testimonianza del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello , che “ha riferito - si legge nella relazione della Commissione - che il documento non era stato preparato precedentemente e di averlo appreso dal vicario del Questore, che aveva partecipato alla mediazione con i detenuti e gli aveva riferito che era stato proprio lui a chiedere ai detenuti di mettere per iscritto quali fossero le ragioni della protesta e le loro richieste”. L’esito degli accertamenti della Commissione hanno chiarito anche le diverse incongruenze di quei giorni, nell’istituto di pena di Salerno. “Mi sono mosso in prima persona - spiega Ciambriello - per far cessare le proteste; sin dall’inizio, ho compreso che erano legate al timore di forti limitazioni ai rapporti familiari, alla preoccupazione del pericolo di contagio per il sovraffollamento e alla mancanza di informazioni su come prevenire l’eventuale contagio da Covid”. “Questo l’ho dichiarato ai membri della Commissione, presieduta dal magistrato Sergio Lari , dalla quale sono stato sentito come persona informata sui fatti l’8 novembre 2021 spiega Ciambriello - Quel “papello” non era preesistente alla rivolta e sono felice che questo sia stato anche riconosciuto dalla Commissione. Quando sono stato sentito, ho anche riferito sul fatto che, a mio avviso, il clamore mediatico sull’accaduto a Fuorni era stato eccessivo e che, almeno per la tipologia di detenuti coinvolti, soprattutto tossicodipendenti, non poteva esser stato tutto architettato dalla ‘ndrangheta”. Conclusione alla quale è ora arrivata la Commissione d’inchiesta istituita dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Parma. Morte in carcere di Mario Serpa, indagata infermiera marsilinotizie.it, 21 agosto 2022 All’esito dell’esame autoptico eseguito sulla salma di Mario Serpa, paolano detenuto presso la Casa circondariale di Parma in regime di “carcere duro”, la Procura della Repubblica di Parma ha iscritto nel registro degli indagati un’infermiera. Sulla sanitaria, in servizio presso la casa circondariale dalla città emiliana, pende l’accusa di “responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”, in quanto non avrebbe somministrato le giuste cure al detenuto, affetto da un’aritmia cardiaca rivelatasi causa del decesso. Come già anticipato, Mario Serpa è stato ritrovato cadavere nella cella che lo ospitava da quando, nel 2012, aveva perso i diritti maturati nel corso del lunghissimo periodo di detenzione cui era sottoposto dal 1983, condannato all’ergastolo per efferati omicidi avvenuti nel corso di quello che, a Paola, è passato alla storia come il periodo in cui la criminalità organizzata ha stretto d’assedio la città. Beneficiario di un regime meno afflittivo rispetto a quello cui era stato sottoposto durante i primi anni, Mario Serpa dovette tornare nella struttura di massima sicurezza parmense quando venne associato all’inchiesta “Tela del Ragno”, incluso per questioni che però - all’esito del maxiprocesso che ne conseguì - lo videro assolto con formula piena. Dalla fine del procedimento però (2017), non gli fu ripristinata la semilibertà goduta in precedenza, nonostante i pareri dell’equipe del carcere e dei giudici stessi, i quali nei suoi confronti così si sono espressi: “Comportamento assolutamente corretto - si legge nelle relazioni - assenza di sanzioni, manifesta cortesia, disponibilità e interesse, relazioni rispettose, frequenza del laboratorio del riuso e svolgimento di attività a turnazione nella distribuzione dei pasti. I rapporti sono assidui con i tre figli, due dei quali affetti da handicap, la moglie del detenuto è morta di cancro nel 2001”. Mario Serpa è morto in carcere, a pochi giorni dal pronunciamento della Cassazione, dove il suo ricorso sul mancato accoglimento dell’istanza presentata contro il regime di alta sorveglianza, era stato considerato con favore. A 69 anni si è spento senza che nessuno si prendesse cura del malessere lamentato ultimamente, senza che nessuno ne ascoltasse la richiesta d’aiuto, finanche “bussata” contro porta e pareti al punto da procurarsi ecchimosi alle falangi. Ora s’attende l’esito dell’inchiesta. Torino. I Sindacati chiedono un’urgente verifica sanitaria nel carcere rainews.it, 21 agosto 2022 Documento firmato da 8 sigle sindacali di polizia penitenziaria. Una richiesta di “verifica urgente delle condizioni igienico-sanitarie, e della salubrità sui luoghi di lavoro del carcere Lorusso e Cutugno di Torino”. È quella inviata da 8 organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria al provveditore regionale della Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, oltre che al ministero della Giustizia, ai garanti dei detenuti regionale e comunale, al sindaco di Torino e allo stesso direttore del carcere. “La richiesta - scrivono Sappe, Osapp, Sinappe, Uspp, Cisl, Cgil, Uil e Fsa - e? motivata dal fatto che potrebbero verificarsi epidemie non controllabili, anche in considerazione dell’elevato sovraffollamento circa il 35% in piu? rispetto all’attuale capienza. In molti locali ci sono cavi penzolanti, copiose infiltrazioni e muffa. E? sufficiente, ma anche necessario, effettuare un sopralluogo e verificare de visu le condizioni di insalubrità? dell’intera struttura”. La verifica, anche nell’area esterna, è richiesta per porre fine “a queste inaccettabili condizioni, con urgentissimi interventi che abbiano luogo; auspichiamo - concludono - che a breve termine vengano restituite le condizioni di salubrità? nei luoghi di lavoro per il benessere di tutta la comunità penitenziaria”. Napoli. Ex detenuti andranno fare ostie per la diocesi di Antonio Averaimo Avvenire, 21 agosto 2022 All’ingresso del Centro di pastorale carceraria dell’arcidiocesi di Napoli, nel rione Sanità, è esposto un logo sul quale sono raffigurati il Pane eucaristico e delle catene spezzate. Quel logo nasce da un disegno che un giorno un detenuto regalò a don Franco Esposito, direttore del centro nonché cappellano del carcere napoletano di Poggioreale. Da settembre assumerà un nuovo significato, visto che proprio lì, nel centro voluto dall’arcidiocesi per ospitare 40 ospiti (è così che preferisce definirli don Franco) trasferiti qui a fine detenzione, prenderanno vita le ostie che i sacerdoti diocesani consacreranno sull’altare delle loro chiese. Lo stesso arcivescovo, Mimmo Battaglia, le consacrerà nella cattedrale di Napoli: da quel momento diventeranno per i fedeli il Corpo di Cristo. In questi giorni, don Franco si è preso un periodo di vacanza, dopo un anno trascorso fra le attività del centro di pastorale carceraria che dirige e lo stesso Poggioreale, il carcere più sovraffollato d’Italia. A tenere le redini del centro sono rimasti i collaboratori. Tra questi Emanuela Scotti. “La caratteristica che accomuna i nostri ospiti è una forte volontà di redenzione - dice la volontaria, che è una giornalista e ha creato un periodico sul quale scrivono esclusivarnente i detenuti. Il pensiero che ciò che fabbricano con le loro mani diventerà il Corpo di Cristo li fa sentire a tutti gli effetti parte della Chiesa e dimenticare il loro passato segnato da gravi errori: non più malfattori, ma operai del Corpo di Cristo. Tra l’altro, un’altra delle caratteristiche che accomuna tutti i nostri ospiti è la fede in Dio, nonostante la loro vita sia andata spesso nella direzione opposta a quella indicata da Cristo e dalla Chiesa”. Ma il laboratorio eucaristico che partirà a settembre nel centro di pastorale carceraria del rione Sanità non rappresenta l’unica attività rivolta ai suoi ospiti. C’è chi, per esempio, fabbrica rosari. Oppure c’è chi impara altri mestieri, per esempio il muratore. Uno degli ospiti, una volta terminato il periodo di soggiorno nel centro dell’arcidiocesi di Napoli, ha trovato lavoro proprio in una ditta edile. Se è potuto accadere, è proprio grazie a quanto ha appreso qui. D’altronde, l’obiettivo che si pone il centro diretto da don Esposito è chiaro: evitare la recidiva dei detenuti presi in carico e, soprattutto, dar loro una possibilità di reinserimento nella società attraverso un percorso di formazione e avviamento al lavoro. Ricevendo, in questo modo, una nuova possibilità: non tornare alle attività criminali per le quali sono finiti in carcere e avere una vita normale da buoni cristiani e onesti cittadini, per dirla con san Giovanni Bosco. Palmi (Rc): In carcere le proiezioni dei documentari targati LaC Storie di Agostino Pantano ilreggino.it, 21 agosto 2022 La nuova iniziativa del Network e del fotografo e documentarista Saverio Caracciolo. Un altro progetto, dall’alto valore sociale, messo in campo dal fotografo e documentarista Saverio Caracciolo che, questa volta, “entra in carcere”. Il giornalista del network LaC, infatti, ha proposto un ciclo di incontri con i detenuti del penitenziario di Palmi, occasione per offrire la proiezione dei suoi documentari del format LaC Storie che parlano della bella Calabria, sia religiosi che di antichi mestieri, folklore, ma anche vita quotidiana di semplici lavoratori, con l’intento di far conoscere ai detenuti le varie sfaccettature culturali ed antropologiche della regione. Il progetto proposto dal videofotoreport di Tropea, al quale il Direttore della Casa Circondariale di Palmi, Mario Antonio Galati, ha espresso particolare interesse per le tematiche da trattare, è stato approvato dagli Uffici del dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria ed avrà la durata di tre mesi, uno per ogni settimana. La prima proiezione si è tenuta venerdì scorso, quando i detenuti hanno potuto apprezzare il documentario sui Carbonai di Serra San Bruno, nel Vibonese, docufilm che ha vinto vari premi in diversi Film Festival nazionali e internazionali. Nel documento è possibile apprezzare La suggestione di un antichissimo mestiere, ancora vivo in Calabria e che negli anni non ha fatto ricorso ad alcuna innovazione tecnologica: si continua a tramandare usando soltanto l’abilità manuale e il sudore di uomini che, a loro volta, l’hanno appreso da altri uomini. Il ciclo di proiezioni sarà coordinato dai Funzionari dell’Area Giuridico-Pedagogica, dal Comandante di Reparto P.P. e dal personale di Polizia Penitenziaria. Gli obiettivi del progetto saranno quelli di promuovere una cultura antropologica della Calabria, e, al contempo, valorizzare le attività del passato, alcune in modo particolare, nella convinzione che potrebbero offrire significative occasioni di lavoro qualificato. Rendere consapevoli i partecipanti dell’importanza di tenere in vita i mestieri tradizionali a rischio di estinzione, ma portatori di elevati gradi di professionalità e qualità dei manufatti. Sensibilizzare i partecipanti sulla tutela dei mestieri antichi, direttamente legata al rispetto delle culture locali e dell’ambiente, spesso travolti dallo sviluppo industriale. Al termine del progetto, se da parte dei partecipanti si rileverà interesse agli argomenti che verranno, volta per volta, trattati, sarà cura dello stesso promotore, coinvolgere e guidare i detenuti interessati, affinché scrivano essi stessi una storia-sceneggiatura per realizzare un cortometraggio, di cui saranno attori protagonisti, nell’ambito di quell’impegno editoriale che il network presieduto da Domenico Maduli onora sin dalla nascita, conosciuto con il nome di CalabriaVisione. Questa offerta di riflessioni intorno alla Calabria di ieri e di oggi, è tra gli obiettivi del progetto i cui destinatari, come sempre avviene con i progetti dall’alto valore sociale in cui si impegna Caracciolo, diventeranno protagonisti, interagendo con lui anche intorno a quegli aneddoti che spesso spiegano il perché di una scelta tecnica anziché un’altra. Caracciolo e il network LaC non sono nuovi ad esperienze come questa, dall’alto valore formativo e all’insegna dell’inclusione, uno tra tutti il progetto di promozione della fotografia per ciechi e ipovedenti. La Costituzione entra in carcere di Antonio Carioti Corriere della Sera, 21 agosto 2022 Sono più di cinquanta i detenuti che si sono tolti la vita in Italia nel corso di quest’anno. Il carcere continua a essere un luogo di pesante afflizione, criminogeno e mortifero. Ma non è detto che sia necessariamente così. Forte della sua lunga esperienza in materia, Cosima Buccoliero, direttrice della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, offre nel libro “Senza sbarre”, scritto con la giornalista Serena Uccello (Einaudi, pp. 129, € 15), una serie di indicazioni su come si possa rendere la detenzione più umana e più rispondente alle finalità rieducative che le assegna la Costituzione. Certamente il carcere è un luogo di coercizione, quindi un “mondo violento” da “manovrare con cautela” come un ordigno sempre innescato. Ma al suo interno possono farsi strada “la rieducazione, la legalità e il rispetto della dignità”, attraverso “l’attivazione di risorse intellettuali e affettive in vista di una rielaborazione della colpa”. A qualcuno sembreranno propositi irrealistici, ma sono esperienza vissuta. Dovrebbero tenerne conto i politici, specie quelli di destra, invece di rincorrere le “sirene del consenso” a ogni fatto drammatico di cronaca nera che susciti nell’opinione pubblica la ricorrente esortazione retorica a “buttare via la chiave” delle celle. In carcere senza perdere la speranza di Stefano Liburdi Avvenire, 21 agosto 2022 Male e bene, amore e inquietudine, speranza e paura, morte e vita. Attesa. Il carcere come non è mai stato raccontato prima, nel libro “Sofia aveva lunghi capelli” (Castelvecchi editore) di Giuseppe Perrone, recluso da trent’anni per una condanna all’ergastolo. Tutto parte da un lutto che coglie Matteo, in carcere con un “Fine pena mai” sulle spalle. Nonostante l’ottimo comportamento e i chiari segnali di abbandono della cultura criminale mostrati, a Matteo viene negato il permesso di tornare a casa per un ultimo saluto al padre. Un evento che lo segna in modo indelebile. Da qui si snodano riflessioni e dubbi su quella che dovrebbe essere l’utilità della pena, da scontare in un luogo dove spesso si dimentica che chi è costretto dietro le sbarre è una persona e non un semplice numero. Una pena che dovrebbe inseguire la rieducazione e il reinserimento del detenuto, come dettato dalla nostra Costituzione, ma che invece spesso somiglia a una vendetta da parte dello Stato. Basta pensare all’ergastolo ostativo, capace solo di togliere dignità e speranza al condannato. Perrone, quattro lauree prese in carcere, autore di saggi, opere teatrali e poesie, pur dipingendo quadri drammatici, non cade nel vittimismo ma riesce a fornire al lettore una visione globale, cruda e concreta, della vita da detenuto. Giornate fatte di giorni, ore, minuti, perché “tutto conta quando stai male”, di contraddizioni e di cose a cui a volte è difficile dare un senso. Amore e studio allora diventano scogli nell’oceano, unica salvezza dove aggrapparsi in attesa che passi la tempesta. Un libro che somiglia a un dipinto e proprio come un’opera d’arte, dove ogni osservatore vede cose differenti dall’altro, trasmette emozioni di diversa natura. “Io ci sarò sempre, qualunque cosa accadrà”: Sofia ha giurato amore a Matteo. Eterno. L’unica cosa che dovrebbe durare per sempre. L’arte carceraria vista da Ai Weiwei quotidiano.net, 21 agosto 2022 Nel prossimo autunno l’artista dissidente cinese Ai Weiwei (nella foto), 64 anni, curerà a Londra una mostra di opere create da detenuti in carcere. La mostra intitolata Freedom (Libertà) è organizzata dall’associazione Koestler Arts, che promuove e vende opere di persone in prigione, e si terrà al Southbank Centre, nello spazio espositivo della Royal Festival Hall, dal 27 ottobre al 18 dicembre. L’esposizione è destinata a celebrare il 60° anniversario dei Koestler Awards, un’iniziativa che premia i risultati artistici dei detenuti del sistema penale britannico. Freedom rifletterà la diversità delle esperienze di incarcerazione delle persone, con opere create da detenuti in carceri, in strutture di salute mentale, centri di detenzione per immigrati e istituti per minori. “La visione della mostra è ispirata dalla visita di Ai Weiwei all’edificio Koestler Arts nella zona ovest di Londra, che attualmente ospita oltre 6.500 opere iscritte ai premi di quest’anno”, hanno dichiarato gli organizzatori della mostra in un comunicato. Ai Weiwei, l’artista cinese più famoso all’estero, fu arrestato nel 2011 a Pechino per le sue critiche al regime e trascorse 81 giorni in prigione con l’accusa di frode fiscale. “Questa mostra - ha detto - si concentra sul ruolo che l’atto di pensare e creare svolge nella vita sottoposta a costrizioni. Notevoli opere d’arte e di letteratura nella storia sono state create quando l’artista era limitato, oppresso e messo alla prova, invece di essere completamente libero”. Cosa vuol dire “politicamente corretto”? Il passato non va demolito, ma coltivato di Dacia Maraini Corriere della Sera, 21 agosto 2022 Sono state abbattute le statue di Cristoforo Colombo e Jefferson. Sono finiti sotto accusa Omero, Dante e Shakespeare. Ma la battaglia per i diritti non può portare a demolire la storia. Cosa vuol dire essere politicamente corretti? In questi giorni si sente spesso questa parola per indicare un nuovo sguardo critico che vorrebbe essere etico, nei riguardi del passato. Si accusa il grande navigatore Colombo di avere favorito il colonialismo e si buttano giù le sue statue. Si accusa Jefferson di avere combattuto gli indiani d’America e si lorda la sua immagine con getti di vernice rossa, e così via. Da noi forse le proposte della cancel culture sembrano meno sentite che in una America ancora fortemente legata al suo passato puritano. Dalle statue poi si passa al linguaggio e anche quello viene preso di mira. Si propone di eliminare le differenze fra il femminile e il maschile mettendo un asterisco al posto della vocale. Senza tenere conto che le parole non sono isolate come stelle in cielo ma sono legate fra di loro e esprimono un pensiero, una scelta, una abitudine secolare che non possono essere cambiate con una semplice operazione meccanica. L’idea di riflettere sulla misoginia e sul razzismo insito nel linguaggio è un esercizio validissimo. Tutta la grammatica è fortemente discriminante: se si scrive “l’uomo” si comprende anche la donna, e sta per essere umano; se si scrive “la donna” si intende un genere solo. Il primo comporta una idea di universalità, mentre la seconda è parziale e primitiva. Ragionare pubblicamente su queste disparità ci aiuta a capire i cambiamenti del presente, le nuove sensibilità nei riguardi dell’identità sessuale. Molti infatti ritengono che l’identità sessuale sia un destino biologico, eterno e immutabile. E non tengono conto delle mutazioni culturali che ogni condizione umana si porta dietro. Non esistono identità fisse e indelebili. La natura certamente sta alla base del nostro essere vivi, ma in millenni di passione evoluzionista abbiamo creato un essere umano consapevole e sedicente superiore, tanto da considerare tutti gli altri esseri viventi come suoi sottoposti. Ebbene, a prescindere dalla volgare presunzione, questo significa che abbiamo dominato, controllato, trasformato la natura creando dominii culturali che hanno reso piu duttile, piu suscettibile di cambiamenti i sapiens. Ma nello stesso tempo lo abbiamo caricato di enormi responsabilità. E soprattutto lo abbiamo sempre più allontanato dalla natura, per farne una creatura capace di adattarsi e di mutare. Prendersela con personaggi e idee del passato perché non corrispondono alle sensibilità odierne vuol dire negare la grande capacità metamorfica della storia. Vuol dire sconfessare le conquiste fatte, vuol dire rifiutare l’evoluzione, smantellare i passaggi preziosi del tempo, le sensibilità storiche che variano, le alterazioni dovute alle scoperte scientifiche, alle innovazioni mediche, al prolungamento della vita, ai cambiamenti sociali ed economici. Vuol dire entrare in quel pericoloso luogo della mente in cui, come asseriva Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. La storia non è una freccia che si lancia verso il futuro, ma ha movimenti sinusoidali, va avanti e indietro , anche se alcune conquiste come il passaggio dalla Vendetta alla Giustizia sono diventate basi etiche riconosciute. Basta pensare al Novecento, che pure era un secolo nato nel segno delle nuove scoperte e delle grandi rivoluzioni progressiste, poi finito nel razzismo e nell’odio che ha portato due guerre micidiali. La volontà di cambiare le cose non vuol dire automaticamente negare le contraddizioni del passato. Basta un poco di consapevolezza storica per capire che in un ambiente di totalitarismo religioso, per esempio, ogni pensiero scientifico come quello di Galilei, il quale sosteneva che era la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa, non poteva che risultare eretico. Basta osservare quanto le società cambino, le sensibilità popolari siano permeate dalle ideologie e dai credo del momento, per uscire da questo atteggiamento moralistico e integralista. Una giusta voglia di adeguare il linguaggio e le azioni umane alle nostre certezze attuali ci porta a gettare in mare grandi filosofi e grandi artisti con un gesto di rabbia infantile. C’è chi ha perfino messo sotto accusa Shakespeare e Dante e Omero. Ma la domanda dovrebbe essere: sono ancora capaci di comunicarci delle emozioni anche se sappiamo che hanno risentito delle idiosincrasie, dei vizi, dei difetti e delle contradizioni del loro tempo? Cosa da cui, ricordiamolo, non siamo esenti nemmeno noi. Fra qualche decennio i nostri nipoti ci guarderanno con aria di sufficienza e troveranno che molte delle nostre convinzioni erano arcaiche e fuori luogo. Questa è la meravigliosa vitalità del nostro viaggiare dentro le contradizioni della storia. È il pluralismo l’eredità dell’Occidente di Mauro Magatti Corriere della Sera, 21 agosto 2022 Questione religiosa e conflitti: dietro al razzismo, il terrorismo, la guerra, c’è l’odio verso il diverso, che riconduce al vecchio ma sempre efficace schema amico/nemico. Come mai la questione religiosa è così centrale nelle dinamiche della società contemporanea? Qualche giorno fa, a trent’anni di distanza dalla fatwa che lo aveva colpito, Salman Rushdie è stato accoltellato. A dire che la questione del terrorismo islamico è tutt’altro che risolta. Né è possibile dimenticare le parole pronunciate da Kirill, patriarca della Chiesa ortodossa, nel febbraio del 2022: l’attacco all’Ucraina è giustificabile nei termini di una “guerra santa” contro i miscredenti occidentali. Mentre i populismi, che divampano nelle democrazie occidentali, trovano nei gruppi fondamentalisti cristiani, che si oppongono alla “società individualista e senza Dio”, uno dei principali bacini di consenso. Il ruolo delle religioni nelle vicende storiche si ibrida sempre con le questioni del tempo. E così, anche oggi, sono evidenti le strumentalizzazioni politiche delle grandi tradizioni religiose. Ma ciò dovrebbe farci riflettere ancora di più: come mai oggi i conflitti politici (nazionali e internazionali) fanno così spesso ricorso ai temi religiosi, in apparenza cosi inattuali? Slavoj Zizek suggerisce che un tale fenomeno abbia a che fare con il vuoto lasciato dalla fine della lotta di classe. Oggi l’enzima più potente per mobilitare le masse e interpretare il risentimento che le attraversa è proprio il mix tra politica e religione. Dietro al razzismo, il terrorismo, la guerra, c’è l’odio verso il diverso, che riconduce al vecchio ma sempre efficace schema amico/nemico. Torniamo allora alla domanda iniziale: perché in un mondo avanzato la religione diventa così importante? In un frammento del 1921, Walter Benjamin, grande filosofo tedesco, aveva fatto un passo in più rispetto a Max Weber, affermando che il capitalismo moderno non costituisce semplicemente il veicolo attraverso cui la religione cristiana subisce una radicale secolarizzazione. Nel suo affermarsi, il capitalismo (inteso come formazione economica, culturale e politica che caratterizza l’intera modernità) ha la tendenza - scrive Benjamin - a trasformarsi in una vera e propria religione. Ciò in quanto esso prospetta una chiave per la salvezza personale (il benessere) e collettiva (la crescita), promettendo il raggiungimento di mete sempre superiori dal punto di vista dell’evoluzione civile. Una religione, sostiene ancora Benjamin, di “puro culto”, senza dogmi e dall’immediato interesse pratico, e perciò capace di modellare ogni aspetto della vita quotidiana e di strutturare quel senso di colpa essenziale per muovere nel profondo l’agire personale (che Benjamin riferiva al debito, ma che oggi possiamo individuare nel senso di inadeguatezza). In questo secolo le tendenze già intraviste da Benjamin si sono rafforzate. Da un lato, mediante il processo di globalizzazione: le diverse culture (e religioni) del mondo sono state investite da un ciclone che mette in discussione gli assetti tradizionali. Dall’altro, con il progressivo sganciamento delle società avanzate dalle radici ebraico-cristiane: assistiamo al formarsi di un nuovo sistema valoriale che aspira a sussistere indipendentemente da ogni premessa religiosa. Cosa che si vede, per esempio, a proposito del tema della famiglia eterosessuale che, mentre nella visione tradizionale costituiva la prima cellula della società, nel pensiero contemporaneo è una opzione tra le altre, nell’ipotesi che la vita sociale possa benissimo sussistere anche senza la famiglia. Le osservazioni di Benjamin ci aiutano a capire più in profondità quello che sta avvenendo. Di sicuro la polarizzazione che si è venuta creare - tanto a livello nazionale che internazionale - attorno ai temi antropologici (con il loro evidente sfondo religioso) ha un’enorme valenza distruttiva. Da una parte, nei gruppi più radicali del pensiero “woke” sembra far capolino l’idea giacobina che si debba far piazza pulita di tutte le incrostazioni che bloccano e ritardano l’affermazione del nuovo ordine delle cose. Tipico è il caso della cancel culture. Col rischio paradossale che in nome della non discriminazione si finisca per discriminare chi la pensa diversamente (a cominciare dai fedeli di una qualche Chiesa). Dall’altra parte, nei gruppi religiosi più tradizionalisti si coltiva l’idea che ci troviamo davanti a una battaglia finale tra bene e male. Per combattere l’avanzata delle forze “demoniache” ogni mezzo - anche violento - è lecito. È lo spazio per l’irrazionale che si amplia enormemente. Sminare il terreno è operazione difficile. La responsabilità dell’Occidente - che nella sua storia ha combattuto tutte le forme di dominio religioso - è prima di tutto quella di sostenere - dentro e fuori i propri confini - il pluralismo, vero antidoto a tutte le derive fondamentaliste. Di qualunque matrice siano. Non solo sul piano culturale - con l’investimento nell’educazione, il confronto delle idee, il gusto della critica seria e rispettosa - ma anche su quello istituzionale e sociale. Il pluralismo non è mai semplicemente la somma di tante opzioni individuali, ma l’effetto di una complessa architettura sociale e istituzionale. Sono la ricchezza del tessuto associativo, la libera iniziativa imprenditoriale, il pluralismo religioso, il dialogo interreligioso, la pluralità dei livelli di governo e di governance, la passione per il negoziato e il ruolo delle istituzioni internazionali, il contrasto a ogni tendenza monopolistica nella sfera pubblica a costituire l’eredità più vera dell’Occidente. Un’eredità che aspetta di essere rimessa in gioco in questo delicatissimo frangente storico. Il razzismo della sorveglianza di massa di Luigi Manconi La Repubblica, 21 agosto 2022 “Il filmato mostra la folla di manifestanti catturati in una combinazione di riprese classiche e ad infrarossi registrate dalle termocamere di cui sono dotati gli aerei. Sebbene i singoli volti non siano chiaramente visibili nei video, è facile immaginare come, in futuro, si potrebbero utilizzare delle telecamere dotate di una maggiore risoluzione e di tecnologie per il riconoscimento facciale per identificare i manifestanti”. Queste parole sono tratte da un articolo di Vice International del 2016, un anno dopo le proteste di Baltimora, a seguito della scomparsa di Freddie Gray, venticinquenne afroamericano, morto mentre era sotto custodia della Polizia. Siamo nel 2020 quando George Floyd è da poco stato ucciso da un agente di Minneapolis e la tecnologia - “il riconoscimento facciale per identificare i manifestanti” - è, come immaginava bene Vice, dotata di una maggiore precisione. La Corte Suprema dello Stato di New York, poche settimane fa, dopo il ricorso presentato da Amnesty International e da Surveillance Technology Oversight Project, ha ordinato al dipartimento di polizia di New York di rendere pubblici i dati sulle tecniche di sorveglianza usate nei confronti dei manifestanti del movimento Black Lives Matter. Matt Mahmoudi, ricercatore di Amnesty su intelligenza artificiale e diritti umani, in una nota evidenzia che “gli abitanti di New York che chiedono giustizia hanno il diritto di conoscere tutti i dettagli sull’uso della tecnologia di sorveglianza facciale da parte della polizia di stato nei confronti dei manifestanti. Questa sentenza riconosce che il dipartimento di polizia di New York ha violato la legge trattenendo informazioni riguardanti modalità di sorveglianza di natura discriminatoria”. Per Mahmoudi “ora occorre un provvedimento rigoroso relativo alla sorveglianza di massa”. Nella ricerca “Ban the scan”, pubblicata nel febbraio di quest’anno da Amnesty, viene rivelato come gli abitanti che vivono nei quartieri di New York dove avvengono più perquisizioni, sono anche quelli più esposti alla sorveglianza. I risultati della ricerca, afferma Amnesty, si basano su dati ottenuti da migliaia di volontari del progetto Decode Surveillance NYC, che hanno mappato oltre 25.500 telecamere a circuito chiuso installate a New York. Amnesty, infatti, insieme ad altri organismi, ha comparato questi dati con le statistiche sulle perquisizioni e con informazioni demografiche. “La sorveglianza di massa” avvenuta dopo i fatti di Minneapolis, ci dice Amnesty, avveniva anche molto tempo prima. Infatti, dal 2016 al 2019, la polizia di New York ha usato quella metodologia in almeno 22.000 occasioni. I dati sulle perquisizioni disponibili dal 2002 indicano che le comunità nere e latine sono state l’obiettivo principale della sorveglianza. C’è poco da aggiungere. La sorveglianza digitale ha raggiunto un nuovo livello. E oltre ai regimi, la usano anche le democrazie di Alessandro Longo L’Espresso, 21 agosto 2022 Dati rubati, fonti bruciate, screditamento e violente campagne social per intimidire le voci scomode. Con gli spyware gli Stati autoritari colpiscono ovunque. Ma a usarli sono anche le democrazie e tutti rischiamo di essere “perseguitati digitali”. C’è il giornalista yemenita a cui il regime ha “hackerato” la pagina Facebook, dove parlava dei crimini del governo. Se l’è trovata sommersa di messaggi pro-governativi, a suo nome, come se li avesse scritti lui. O l’attivista cinese, per i diritti umani, che, all’arrivo in una conferenza all’estero, ha scoperto con orrore che tutti i partecipanti avevano foto dove lei appariva nuda. Opera di Pechino, si presume, che aveva costruito falsi fotografici con il suo volto e il corpo nudo di altre donne. Collaboratori del governo le avevano messe su diversi forum online, certo per screditarne il lavoro. Fino al caso del giornalista spagnolo che ha scoperto di essere intercettato dal governo del Marocco - su cui aveva fatto diverse inchieste - tramite uno speciale software-spia installato sullo smartphone a sua insaputa. Internet e i nuovi strumenti digitali hanno dato agli Stati autoritari un nuovo potere. Quello di colpire attivisti, dissidenti, giornalisti ovunque si trovino. Anche da noi. Il giornalista yemenita Khatab Alrawhani e l’attivista cinese Liu (nome di fantasia per proteggerne l’identità) - i due casi citati - vivevano da anni in Canada, proprio per sfuggire al regime. Le loro storie sono in un rapporto pubblicato quest’anno da The citizen lab, un gruppo di ricerca dell’università di Toronto. I ricercatori hanno notato che il fenomeno della “repressione digitale transnazionale”, come la chiamano, è in crescita. Sono d’accordo i ricercatori londinesi di Forensic architecture, che ha stimato 326 attacchi di questo tipo tra il 2019 e il 2021: il triplo rispetto al triennio precedente. L’inizio di un’epidemia. Se n’è accorta anche Apple, che a luglio ha svelato funzioni speciali di protezione sugli iPhone contro il rischio di spionaggio di Stato, a danno appunto di attivisti o giornalisti. Con pochi clic, l’utente che sospetta di essere spiato potrà isolare del tutto l’iPhone contro questo tipo di minaccia. Apple sta pure stanziando 10 milioni di dollari per sovvenzionare la ricerca nel settore. Google, invece, a giugno ha fatto un annuncio che ci tocca da vicino: in un rapporto internazionale accusa la società italiana Rcs Lab di fare strumenti di hacking usati per spiare cellulari Android e iPhone in Italia, Kazakistan, Siria. Le vittime sono ignote, ma si sospetta ci siano anche attivisti curdi in Siria. Rcs Lab ha ribattuto assicurando che i suoi software sono usati solo nel rispetto delle leggi e contro reati gravi. Il problema, in generale, ha cominciato a emergere nel 2016 con il caso Pegasus. Uno spyware (software spia), dell’israeliana Nso, in grado di infilarsi negli smartphone per rubare dati, foto, conversazioni, password. Diverse inchieste, anche negli anni successivi, di testate giornalistiche come anche di Citizen lab e Amnesty international, hanno rivelato che molti Paesi usavano Pegasus per sorvegliare soggetti considerati pericolosi o comunque meritevoli di attenzione. In patria e altrove. L’hanno fatto i governi dell’Arabia Saudita, del Ruanda, degli Emirati Arabi, di India e Messico tra gli altri. Spiati così 50mila smartphone, di giornalisti (180), politici (tra cui Romano Prodi), oltre che di attivisti e autorità religiose. Uno di questi è Ignacio Cembrero, il giornalista spagnolo che si è inimicato il Marocco per le sue inchieste. A luglio ha avuto persino la beffa di essere denunciato per diffamazione da quello stesso governo, per aver riferito dell’intercettazione subita. Il caso più noto è forse però quello del noto giornalista saudita Jamal Khashoggi. Anche dopo essere andato in esilio volontario negli Usa, Khashoggi rimaneva la principale voce critica del regime, finché non è stato assassinato nell’ambasciata saudita della Turchia nel 2018; per ordine del principe ereditario Mohammed bin Salman, secondo il sospetto di molti, tra cui l’intelligence americana in un rapporto del 2019. Il principe nega, fatto sta che ci sono evidenze dell’uso di Pegasus sul cellulare di Khashoggi e di sua moglie, forse per coordinare le attività di intelligence ai suoi danni. Il punto però, emerso dagli ultimi fatti e nei rapporti, è che il fenomeno si è allargato. Non riguarda più solo vittime eccellenti dai nomi noti; non si esercita più solo con strumenti sofisticati che arrivano a costare milioni di dollari ai regimi, per superare anche le barriere presenti su smartphone di utenti esperti e super-attenti. Ora, e sempre più, il problema si allargato a una vasta platea di dissidenti, attivisti e giornalisti comuni. E si è strutturato in azioni di vario tipo. Ad esempio con la molestia online organizzata e automatizzata sui social (anche con bot, software che si fingono utenti), come capitato ad Ali, attivista saudita emigrato nel 2017. O l’hackeraggio di account di posta o social con tecniche più semplici, come accaduto al già citato giornalista yemenita, alla giornalista siriana Aliana e all’attivista siriano Amir, che gestiva vari siti pro-democrazia in Siria. Sono altre storie riferite da The citizen lab (Ali e Aliana sono pseudonimi). Lo status di “perseguitati digitali” sta diventando comune. E ha caratteristiche particolari: non lascia scampo. Tutte le vittime riportano, a The citizen lab, un senso di frustrazione, impotenza, paura, che porta all’auto-censura. Proprio quello che i potenti persecutori volevano ottenere. Come non essere terrorizzati, se la lunga mano del potere può raggiungerti ovunque, colpire invisibile te e i familiari all’altro capo del modo. “Gli ultimi fatti dimostrano una tendenza preoccupante: in nessun Paese si è al riparo dal regime”, spiega Carola Frediani, autrice del libro “Guerre di Rete” (Laterza, 2017), che parla di questi problemi. “In questi anni si è visto il fenomeno di giornalisti, residenti in Paesi democratici come Francia, Regno Unito, Stati Uniti, colpiti via Internet da regimi di Paesi su cui fanno inchieste”, continua Frediani. Il risultato è che non possono sentirsi tutelati da nessuna parte. E chi non vuole farsi intimorire è comunque ostacolato nel proprio lavoro, perché gli attacchi mirano anche a scoprire le fonti riservate usate nei giornalisti, all’interno dei loro cellulari. Persone che spesso risiedono proprio in quei Paesi dittatoriali e che, per effetto o solo per paura di ritorsioni, smettono di collaborare alle inchieste. Lo spionaggio cyber distrugge le fonti e quindi il lavoro dei giornalisti. Allo stesso modo sgretola l’anonimato di possibili collaboratori di attivisti anti-regime. “Si è scoperto che ora Internet consente all’autoritarismo di colpire ovunque il libero pensiero, anche in esilio. Una persecuzione che diventa per la prima volta senza confini”, dice Oreste Pollicino, ordinario di Diritto Costituzionale all’università Bocconi, co-fondatore di DigitalMediaLaws. “All’inizio, pensavamo che Internet, motore di globalizzazione, potesse mettere in crisi gli Stati nazione, in particolare quelli autoritari, con una ventata di apertura. Siamo poi passati, già una decina di anni fa, alla fase della disillusione. Abbiamo scoperto che Internet e tecnologie digitali consentono ai regimi un migliore e più fine controllo, sorveglianza, sui propri cittadini. Ora scopriamo di stare entrando in una terza fase: addirittura la Rete può consentire agli Stati nazione autoritari di estendere il proprio potere censorio oltre confine”, aggiunge Pollicino. “Qualche governo occidentale comincia a combattere il fenomeno, ma con poca convinzione, come emerso da una recente Commissione d’inchiesta del Parlamento europeo”, dice Frediani. E con pochi risultati: gli Usa hanno elevato sanzioni contro Nso, mettendola in crisi, ma altre società di spyware hanno preso il suo posto; tra le più note Intellexa, con sedi in Europa e Medio-Oriente. “Il punto è che anche i governi occidentali si servono degli stessi software per indagini, come riflette il Parlamento europeo”, dice Frediani. Non sempre legali, come le intercettazioni che faceva il governo della Spagna tramite Pegasus su politici, attivisti e giornalisti catalani (come rivelato dal New Yorker). Un’inchiesta di Mit technology review quest’anno ha scoperto che le forze dell’ordine del Minnesota hanno condotto un vasto programma di sorveglianza digitale sugli attivisti in protesta dopo l’omicidio dell’afro-americano George Floyd da parte di un poliziotto nel 2020. Hanno tracciato i loro cellulari, scandagliato profili social media. Schedato i loro volti con sistemi automatici di riconoscimento facciale (basati su algoritmi di intelligenza artificiale), durante le manifestazioni. Nemmeno l’Occidente è immune alle lusinghe della sorveglianza digitale. Per il libero pensiero nel mondo, non c’è notizia peggiore. Se lo Ius Scholae diventa una questione di “migranti” di Simone Alliva L’Espresso, 21 agosto 2022 Nel documento Azione - Italia Viva il tema del diritto di cittadinanza viene derubricato nell’immigrazione e non nei diritti. “L’ennesima prova della mancata volontà di informarsi su com’è la società italiana oggi”. “Chi studia in italiano e in Italia è italiano”. Non ci sono dubbi nelle parole pronunciate dal leader di Azione, Carlo Calenda, oggi al Senato durante la presentazione del programma del terzo polo, che lo vede candidato premier di un’alleanza con Italia Viva di Matteo Renzi. Qualche confusione però emerge a sfogliare il programma presentato insieme alle ministre Elena Bonetti, Mara Carfagna, Maria Stella Gelmini, e ai deputati di Iv Maria Elena Boschi e Luigi Marattin. Sessantotto pagine che vanno dalla crescita del mezzogiorno all’Europa. Il colpo d’occhio arriva dagli attivisti di seconda generazione che a un primo impatto sfogliano il programma senza ritrovarsi: “Ci ho messo un po’. Poi ho capito”, dice Mattia che ha 19 anni, nato e cresciuto a Roma ma con la Nigeria sul volto. “Hanno inserito la questione dello Ius Scholae nel capitolo Immigrazione”. E in effetti a pagina sessanta, capitolo “Immigrazione”, si legge: “Ius Scholae (acquisizione della cittadinanza) per chi abbia frequentato per almeno cinque anni un percorso di formazione in Italia. Inoltre, proponiamo di concedere la cittadinanza a tutti gli studenti stranieri che hanno svolto e completato gli studi universitari in Italia”. La questione, come è noto, non ha niente a che vedere con l’immigrazione, tuttavia la legge per dare la cittadinanza ai ragazzi figli di immigrati, nati o cresciuti in Italia, viene considerata dal terzo polo un capitolo del programma migranti. Una scelta: “Discriminante”, commenta a L’Espresso Naomi Kelechi Di Meo, co-fondatrice di Art3 Collective, un collettivo che mira a cambiare la narrazione sui ragazzi di seconda generazione online attraverso divulgazione sui social e anche offline con le iniziative in università e scuole. “Questo non è uno status su Facebook bensì un programma politico nel quale possiamo notare la mancata volontà di informarsi su com’è la società italiana oggi e da chi è composta”, sottolinea Di Meo ricordando i dati relativi all’anno scolastico 2019/2020, secondo cui frequentano le scuole italiane più di 877mila alunni con cittadinanza non italiana, quasi 20mila in più rispetto all’anno scolastico precedente, pari al 10,3 percento del totale. Il posizionamento della questione racconta in filigrana un’altra storia: “Quella di una politica che da decenni non ha voglia di interrogarsi su chi sono veramente i ragazzi di seconda generazione, ma che al contempo non si fa problemi ad usarli come percentuali per campagne politiche sia da un lato che dall’altro. Mettere lo Ius Schoale in “Immigrazione” invece di “Diritti” è l’ennesima prova lampante di come lo stereotipo dello straniero sia ancora parte integrate della politica italiana che si rifiuta ti legittimare e riconoscere il cambiamento sociale che si verifica da ormai molti anni. Un ragazzo nato da genitori stranieri in Italia è italiano. Rifiutarsi di vedere questa cosa evidenzia l’intenzione da parte della classe dirigente di non voler riconoscere il fattore egualitario che mette un ragazzo di seconda generazione alla pari dei suoi coetanei. Questa retorica dell’italianità che si trasmette solo attraverso il sangue è radicata in un razzismo che oltre essere ideologico e sociale è anche giuridico e politico”. Oggi si è cittadini italiani solo per discendenza (ius sanguinis) mentre l’ipotesi di modifica della cittadinanza prevedendo lo ius soli (sono italiani i bimbi nati in Italia) è naufragata. Questo parlamento ha discusso a lungo della possibilità di approvare lo ius scholae cioè la versione light della riforma della cittadinanza che prevede che un bambino straniero ha diritto a diventare cittadino italiano solo dopo avere frequentato 5 anni di scuola e se è entrato nel nostro Paese prima di avere compiuto 12 anni. Ma la proposta non è mai arrivata in discussione alla Camera dei Deputati. Messico. Il massacro dei 43 studenti ad Ayotzinapa fu un “crimine di Stato” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 21 agosto 2022 Le conclusioni della Comisión de la Verdad voluta dal presidente López Obrador: nella strage del 2014 furono coinvolte autorità pubbliche “a tutti i livelli”. Un “crimine di Stato”. Così, in tre parole, la Commissione per la Verità e l’Accesso alla Giustizia, voluta tre anni e mezzo fa dal presidente Andrés Manuel López Obrador, definisce la scomparsa dei 43 studenti della scuola normale Isidro Burgos di Ayotzinapa avvenuta il 26 settembre del 2014 a Iguala. Una conclusione drastica e finalmente chiara nel pozzo di menzogne e depistaggi che hanno scandito questo giallo infinito. Decisi a impossessarsi, come ogni anno, di cinque bus con cui andare alla manifestazione che commemorava la strage di Tlatelolco del 2 ottobre del 1968, gli studenti di questo piccolo centro dello Stato di Guerrero vennero inseguiti, bloccati, feriti da un dispiegamento eccezionale di forze dell’ordine e quindi fatti sparire in circostanze misteriose. Le indagini ufficiali stabilirono che i ragazzi erano stati consegnati dalla polizia locale al Cartello dei Guerreros Unidos e da questi sommariamente uccisi con un colpo di pistola alla nuca e infine bruciati in un grande falò allestito nella discarica comunale tra i boschi di Iguala. Una versione di comodo che puntava a far tacere l’enorme impatto, anche internazionale, provocato dalla vicenda. Per sostenerla la Procura generale, con l’appoggio dell’allora presidente Enrique Peña Nieto, fornì il video con la confessione di tre balordi dei Guerreros che ammettevano di aver fatto fuori e poi bruciato i 43 studenti con i resti ridotti in cenere versati nelle acque del fiume che scorre vicino alla discarica. I familiari non hanno mai creduto a questa tesi che nel giro di pochi mesi si è rivelata una vera bufala. Subissato dalle critiche e dal coinvolgimento attivo di interi apparati militari dello Stato, il governo ha acconsentito alla formazione di una Commissione internazionale di esperti che ha lavorato per due anni raggiungendo conclusioni opposte: la notte tra il 25 e il 26 settembre del 2014 ci fu una vera caccia all’uomo con la partecipazione di diverse polizie, fanti della Marina, soldati dell’Esercito, uomini e apparati dell’intelligence. I 43 studenti bloccati e fatti scendere dai bus intercettati furono fatti sparire e di loro non si è saputo più nulla. Una volta eletto, Amlo - come è conosciuto l’attuale presidente - si impegnò a riaprire le indagini e ai familiari promise di trovare la verità sul destino dei loro figli e nipoti. Mise in piedi una Commissione che adesso è arrivata a stabilire che si trattò di un “crimine di Stato”. “La scomparsa dei 43 studenti”, ha spiegato il sottosegretario per i Diritti Umani, Alejandro Encinas, “ha costituito un crimine di Stato a cui hanno partecipato membri del gruppo criminale Guerreros Unidos e agenti di varie istituzioni dello Stato messicano. Sono state coinvolte autorità a tutti i livelli”, ha aggiunto, riferendosi alla polizia di Iguala e della vicina Cocula, complici del Cartello di narcos del posto. Encinas ha avuto parole dure nei confronti di chi ha indagato. “Le autorità federali e statali di altissimo livello sono state negligenti, hanno alterato fatti e circostanze” per stabilire una conclusione “estranea alla verità”. La Commissione non è tuttavia riuscita a capire dove siano finiti gli studenti. I vari tentativi di fissare la loro presenza nella discarica sono stati smontati e considerati depistaggi. Le indagini svolte dalla Commissione hanno dimostrato che i ragazzi sono stati divisi in gruppi appena bloccati con gli autobus ed è stato escluso che fossero insieme nella discarica. I resti di tre vittime, dei quali solo due riscontrati con il Dna, ritrovati sul bordo del fiume del posto, possono confermare che sono stati uccisi e bruciati come sostenuto. Ma solo questi mentre di tutti gli altri ancora oggi si fatica a capire dove sono finiti. Davvero scarse le possibilità che siano ancora vivi. “Le azioni, le omissioni e la partecipazione di autorità federali e statali”, accusa ancora Encinas, “hanno consentito la scomparsa e l’esecuzione degli studenti”. Una verità amara che resta una mezza verità. Manca il movente. Potrebbe spiegare perché tutte le polizie, l’Esercito, la Marina, l’intelligence del Messico si mobilitarono quella notte per bloccare un gruppo di studenti deciso ad andare a una manifestazione che si teneva ogni anno, con le modalità di sempre, impossessandosi degli autobus pubblici per risparmiare sul biglietto. Un dispiegamento inusuale, con gli inseguimenti sull’autostrada, gli uomini piazzati sui cavalcavia che si misero a sparare all’impazzata sui mezzi, la folle corsa a piedi, i ragazzi fatti scendere, trasferiti su camion, alcuni consegnati a una gang di narcotrafficanti. E poi la farsa del grande falò che bruciò fino al giorno dopo, le fiamme che nessuno aveva visto, i resti fatti trovare sul posto, la conferenza stampa che annunciava la conclusione delle indagini, la tesi preconfezionata con tanto di confessione videoregistrata dei presunti autori della mattanza a cui non credeva nessuno. I depistaggi, le omissioni, la diffusa omertà. Tutto questo perché? La Commissione internazionale di esperti già due anni fa suggerì un’ipotesi. È il movente. Ci sono molti elementi di prova che la sostengono, assieme a voci concordanti: a bordo di uno dei bus presi dagli studenti c’era un carico di 50 chili di eroina destinati al mercato di Chicago. La compagnia di trasporto serviva quella tratta due volte la settimana. Il carico apparteneva al Cartello di Sinaloa e probabilmente Guerreros Unidos era incaricato di farlo arrivare a destinazione. El Chapo non era disposto a perderlo. Qualcuno avrebbe pagato per quello sgarro. Ci hanno rimesso i 43 studenti di Ayotzinapa. Non sapevano nulla della droga nascosta a bordo. A loro servivano solo gli autobus. Dovevano essere fermati a tutti i costi. Arabia Saudita. L’Onu a Riad: “Liberate subito la studentessa saudita” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 agosto 2022 Le Nazioni Unite hanno chiesto il rilascio immediato e incondizionato di una studentessa saudita condannata a 34 anni di carcere per tweet critici nei confronti delle autorità, spiegando di essere “sconvolte” da questa sentenza. “Siamo sconvolti dalla condanna della studentessa di dottorato saudita Salma al-Shehab (…) in relazione a una serie di tweet e retweet su questioni politiche e di diritti umani in Arabia Saudita”, ha affermato una portavoce dell’ufficio dei diritti umani, Liz Throssell. Una corte d’appello saudita ha condannato Salma al-Shehab a 34 anni di carcere, insieme al divieto di lasciare il suo Paese per un periodo analogo dopo il suo rilascio dalla detenzione, secondo una sentenza del 9 agosto. Il tribunale saudita l’ha giudicata colpevole di “aver fornito assistenza”, tramite i suoi tweet, a oppositori politici che cercano di “disturbare l’ordine pubblico”, secondo il documento del tribunale. “Esortiamo le autorità saudite a revocare la sua condanna e a rilasciarla immediatamente e incondizionatamente”, ha affermato Liz Throssell. Preoccupata per questa “condanna straordinariamente lunga”, la portavoce teme inoltre gli effetti “agghiaccianti” che potrebbe avere sulle “critiche al governo e sulla società civile in generale”. La condanna, ha osservato Throssell, “è un altro esempio di come le autorità saudite utilizzino le leggi antiterrorismo e anti-criminalità informatica del Paese per prendere di mira i difensori dei diritti umani e le persone che esprimono opinioni dissenzienti, intimidirli ed esercitare rappresaglie contro di loro”. Nicaragua. Irruzione nella notte, Ortega fa arrestare il vescovo di Matagalpa di Gianni Beretta Il Manifesto, 21 agosto 2022 È rovente il conflitto tra il regime e la Chiesa cattolica che protegge il dissenso. Era rinchiuso da due settimane nella sede vescovile della cittadina rurale di Matagalpa insieme ad altri sette fra preti e seminaristi, con gli agenti di polizia che impedivano di portar loro persino generi di prima necessità. Fino a che la scorsa notte, in uno scenografico operativo delle forze speciali orteguiste, monsignor Rolando Alvarez è stato prelevato a forza e portato nella casa di famiglia a Managua e sottoposto agli arresti domiciliari. Mentre i suoi collaboratori sono stati tradotti direttamente nel carcere del Nuevo Chipote della capitale “per indagini”. “Abbiamo atteso con pazienza, prudenza e senso di responsabilità un segnale positivo dal vescovado; ma le attività provocatorie sono continuate” recita un farneticante comunicato del capo della polizia, consuocero del presidente Daniel Ortega il quale aveva equiparato tempo addietro i presuli nicaraguensi a dei “terroristi”. Come delirante era stato il discorso della sua vice nonché consorte Rosario Murillo (regista dell’intera operazione) che aveva insultato qualche giorno fa il vescovo Alvarez accusandolo di “incitamento all’odio” e “crimini di lesa umanità che mettono a rischio la sicurezza delle famiglie nicaraguensi”. Tutto era cominciato il 4 agosto scorso quando gli agenti avevano impedito al prelato di celebrare messa. Monsignor Alvarez era allora uscito dalla curia benedicendo in ginocchio gli agenti, fino a implorarli per “una pace fraterna” con l’ostensorio fra le mani. La coppia presidenziale, dopo aver espulso nel marzo scorso il nunzio apostolico Waldemar Sommertag, cacciato dal Nicaragua 18 suore di Madre Teresa di Calcutta e incarcerato tre sacerdoti, pretendono ora che monsignor Alvarez lasci il paese (come già hanno fatto un paio di altri sacerdoti). Ma il vescovo ha fatto capire che da cittadino nicaraguense preferisce eventualmente essere imprigionato. Azzerati i partiti dell’opposizione e silenziato la stampa, oltre che ogni espressione della società civile, il regime orteguista ha preso di mira da ultima la chiesa cattolica, che durante la rivolta popolare del 2018 (repressa nel sangue con 350 morti) aveva offerto protezione ai giovani ribelli nei propri templi, oltre ad aver svolto (invano) un ruolo di mediatrice fra le parti. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, attraverso il proprio portavoce, ha manifestato la propria preoccupazione per “la grave ostruzione dello spazio democratico in Nicaragua per le recenti azioni contro le organizzazioni della società civile e la libertà religiosa”. Sono giunte prese di posizione di condanna da numerose conferenze episcopali latinoamericane. Ma anche voci critiche da vari fronti verso papa Francesco che non ha ancora proferito parola. Cui ha replicato il messicano Rodrigo Guerra, segretario del Pontificio Consiglio per l’America Latina: “Il silenzio del papa non significa che non sia informatissimo su quanto accade in Nicaragua; lui e la Santa Sede lavorano con discrezione”. Chissà che Bergoglio non dica qualcosa oggi all’Angelus domenicale.