Comunicato sulla drammatica situazione nelle carceri di Coordinamento Carcere Due Palazzi Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2022 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: - liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione - liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. Coordinamento Carcere Due Palazzi - Granello di Senape/Ristretti Orizzonti - Giotto Cooperativa Sociale - WorkCrossing Cooperativa Sociale - Associazione Amici della Giotto - AltraCittà Cooperativa Sociale - Coristi per caso - Solidalia Cooperativa Sociale - Volontà di Sapere Cooperativa Sociale - Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale - Pallalpiede - TeatroCarcere - Scuola Edile - Antigone Padova - Commissione Carcere Camera Penale di Padova - Insegnanti scuole in carcere Hanno dato la propria adesione: - Associazione Closer Venezia - Cooperativa sociale “Rio Terà’ dei Pensieri” Venezia - Cooperativa sociale “Il Cerchio” Venezia - Il Granello di senape O.d.V Venezia - Associazione Loscarcere - Marcello Pesarini e Giovanni Russo Spena - Enrichetta Vilella, operatrice carceraria Quei suicidi in carcere che dovremmo chiamare omicidi di Stato di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 20 agosto 2022 Dall’inizio dell’anno già 53 vittime di un sistema che imprigiona in strutture fatiscenti migliaia di persone sofferenti, vittime di disagi sociali ed economici, resi dipendenti da farmaci, sostanze, gioco. A oggi sono 53 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Il conteggio di questa strage lo tiene da anni Ristretti Orizzonti con il suo dossier “Morire di carcere”. Numeri impietosi quelli registrati da Ritretti (1.276 da inizio 2000), ma per me anche se fossero la metà, anche se fosse solo uno, per me è, e dunque tutti, sono omicidi di stato. Di uno Stato assente, bugiardo e lontano dal territorio che governa, uno stato che è solo feroce concentrazione di potere. Omicidi quotidiani frutto di un sistema carcere che imprigiona in strutture fatiscenti, non diversi dai peggiori canili del peggior paese del mondo, migliaia di persone sofferenti, vittime di disagi sociali ed economici e resi dipendenti da farmaci, sostanze, gratta e vinci compresi. In definitiva persone vittime del profitto di pochi a danno di molti. Personalmente non mi servono e non mi convincono le dichiarazioni di circostanza di questi giorni perché sono l’ennesima ipocrisia di chi non vuole - e forse non può - comprendere l’assurdità del sistema carcere.ù Di chi, come ad esempio il sindaco Nardella in visita quattro giorni fa al carcere di Sollicciano, si accorge solo ora che nelle carceri ci sono “corpi mangiati dalle cimici, dai topi, dalle blatte”. Caro sindaco, sono anni, in alcuni casi decenni, che le associazioni, la rivista Voci di dentro, i garanti, Rita Bernardini e altri denunciano questo stato di cose. Sono anni che qualcuno, all’improvviso, si accorge di questo. Eppure nulla cambia. Mentre migliaia di corpi mangiati dalle cimici, dai topi, dalle blatte, restano a morire in strutture che trasformano i medici in burocrati asserviti al sistema sicurezza, gli educatori in funzionari avviliti e stanchi che hanno introiettato il linguaggio della penitenziaria, i magistrati di sorveglianza in uomini e donne (pochissimi) ingabbiati da leggi e leggine fatte di volta in volta per ottenere voti e consensi elettorali. Mentre migliaia di corpi mangiati dalle cimici, dai topi, dalle blatte non hanno che poche soluzioni: adattarsi al canile, diventare “psichiatrici” e/o mettersi un cappio al collo. Suicidi? No. Per me sono omicidi per mano di chi prima ha trasformato migliaia di persone in devianti, poi in criminali da incarcerare, quindi in psichiatrici anche loro da incarcerare … e ora tutti in “suicidi”. Il primo dell’anno…il sesto del mese…il 53° dall’inizio dell’anno. Uno o più. Tutti per me in carcere sono omicidi. *Direttore di Voci di dentro (rivista), presidente di Voci di dentro OdV Una multa al posto del carcere: la nuova legge aiuterà i più poveri di Valentina Stella Il Dubbio, 20 agosto 2022 Al mutamento del sistema delle sanzioni pecuniarie ha lavorato la Commissione presieduta dal professor Gian Luigi Gatta. I costi ora saranno proporzionali al reddito, come accade in tutti gli altri paesi europei. “Un caso giudiziario segnalato dalla stampa nel marzo del 2015 rende evidente l’iniquità degli esiti ai quali può portare la disciplina vigente e le ragioni che hanno ispirato la legge delega nel prevederne la riforma: un pensionato che aveva sottratto dai banchi di un supermercato una salsiccia di valore inferiore a due euro è stato condannato a 45 giorni di reclusione, sostituiti con una multa di 11.250 euro (250 euro per 45 giorni)”: si tratta di un esempio paradossale utilizzato all’interno della Relazione introduttiva ai decreti attuativi della riforma del processo penale per motivare la modifica della legge 24 novembre 1981, n. 689, in materia di pena pecuniaria sostitutiva al carcere. Al mutamento del sistema sanzionatorio penale ha lavorato la Commissione presieduta dal professor Gian Luigi Gatta. La cornice entro la quale ci muoviamo prevede che vengano introdotte quali pene sostitutive la semilibertà e la detenzione domiciliare, sostitutive della pena detentiva inflitta in misura non superiore a quattro anni; il lavoro di pubblica utilità, sostitutivo della pena detentiva inflitta in misura non superiore a tre anni; la pena pecuniaria, sostitutiva della pena detentiva inflitta in misura non superiore a un anno. Il limite massimo di pena sostituibile viene pertanto raddoppiato (da due a quattro anni). Inoltre, in particolare, quando la pena detentiva è irrogata entro il limite di un anno, tutte e quattro le pene sostitutive possono essere applicate. Notevoli sono le potenzialità deflattive della pena pecuniaria sostitutiva, spiega la Relazione, “sia sul piano processuale, sia sul piano penitenziario: il 31 dicembre 2021 i detenuti per pena inflitta non superiore a un anno erano 1.173, pari al 3% dei detenuti in espiazione di pena. Si tratta, con tutta evidenza, di persone che, in un sistema votato alla lotta alla pena detentiva breve, anche attraverso le pene sostitutive, non dovrebbero trovarsi in carcere”. Ma vediamo nel dettaglio. L’articolo 56 quater reciterà: “Per determinare l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva il giudice individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 2.500 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l’articolo 133-ter del codice penale”. Quello che cambia è il valore giornaliero della pena pecuniaria sostitutiva. Se prima, esso non poteva essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 cp (250 euro) e non poteva superare di dieci volte tale ammontare, poi ridotto a 75 euro da una sentenza della Corte Costituzionale del 2022, adesso quel valore sarà la “quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare”. Come ha affermato la Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 22/2022 e, ancor prima, nella sentenza n. 15/2020, una quota giornaliera di conversione così elevata, come quella di 250 euro, “ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria”. Il valore minimo giornaliero viene individuato in 5 euro, assai inferiore a quello, di 75 euro, che la Corte costituzionale, nella citata recente sentenza, ha potuto ricavare dal sistema facendo riferimento alla disciplina della sostituzione della pena detentiva in sede di decreto penale di condanna. Si tratta di una scelta del tutto innovativa per l’ordinamento italiano e in linea con le discipline vigenti in altri Paesi europei allorché si tratta di commisurare la pena pecuniaria secondo il criterio dei tassi giornalieri. Il valore giornaliero minimo è di un euro in Germania, di due euro in Spagna, di quattro euro in Austria, di 5 euro in Portogallo. Esso, addirittura, è indeterminato in Francia, dove la legge stabilisce solo il valore giornaliero massimo. Mentre l’ammontare massimo della pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva inflitta nella misura massima sostituibile (un anno) è pari a euro 912.500. “Una così larga forbice per la determinazione del valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato - da 5 a 2.500 euro - può a prima vista apparire eccessiva”, si ammette nella Relazione, “è però funzionale a soddisfare l’esigenza della commisurazione alle effettive condizioni economiche e patrimoniali dell’imputato, che normalmente riflettono un divario altrettanto ampio nella società: la medesima condanna a pena detentiva, sostituita con la pena pecuniaria, può infatti essere pronunciata nei confronti di una persona disoccupata e ai limiti dell’indigenza, ovvero di un milionario”. Infatti se “la pena detentiva inflitta ai due condannati non determina disparità di trattamento, incidendo un bene - la libertà personale - dei quali entrambi dispongono nella stessa misura - altrettanto non può dirsi della pena pecuniaria, che incide sul patrimonio, cioè su un bene che non ha la medesima consistenza”. Si tratta, d’altra parte, “di un intervento imposto dal rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e proporzione della pena e auspicato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 22 del 2022”. Per tornare all’esempio con cui abbiamo aperto “l’aver previsto un così basso valore minimo giornaliero della pena pecuniaria sostitutiva consente di evitare per il futuro condanne inique e sproporzionate alla gravità del fatto, come nel citato caso in materia di furto: la pena di 45 giorni di reclusione può essere sostituita con 225 euro (5 euro per 45 giorni), quando l’autore sia ai limiti dell’indigenza, come spesso avviene in caso di furto per bisogno, anziché con 11.250 euro”. Quelle vite sottratte ingiustamente alla libertà che non basta risarcire con un assegno di Riccardo Radi* Il Dubbio, 20 agosto 2022 La riparazione economica non compensa la perdita del lavoro, degli amici, della credibilità, della fiducia. È bene chiarire preliminarmente che quanto si afferma è certificato dai dati della relazione che prende in considerazione soltanto i procedimenti penali conclusi (con sentenza sia definitiva che non definitiva) nello stesso anno di emissione della misura (i cosiddetti procedimenti “cautelati”). Il campione complessivo è costituito da 32.805 casi. Interessa rilevare, per i fini propri di questa riflessione, che il 5,4% dei procedimenti in questione si è concluso con assoluzione non definitiva, l’1,5% con assoluzione definitiva e il 2% con sentenze di proscioglimento a vario titolo. La percentuale complessiva di questi ammonta all’ 8,9% (era il 9,1% nel 2020, il 10% nel 2019 e il 10,2% nel 2018). C’è poi un secondo insieme ed è quello costituito dai procedimenti conclusi con condanna (definitiva e non definitiva) a pena sospesa. Nel 2021 il loro totale è stato del 14,4% (era il 14,5% nel 2020, il 14,8% nel 2019 e il 14,1% nel 2018). Si può dunque affermare che, relativamente all’anno 2021, nell’ 8,9% dei casi la sentenza ha escluso la fondatezza dell’accusa o ha comunque riconosciuto la presenza di una causa estintiva) e nel 14,4% dei casi le caratteristiche del fatto- reato e della personalità dell’autore hanno consentito una prognosi favorevole tale da escludere la commissione futura di nuovi reati. È chiaro che questa seconda tipologia di esiti ha bisogno talvolta della pienezza del giudizio perché ne emergano i presupposti ma il buon senso suggerisce che il più delle volte il quadro è completo già al momento della domanda di misura cautelare. Il che è come dire che in un numero rilevante di procedimenti conclusi con condanna a pena sospesa ben si sarebbe potuto fare a meno di qualsiasi misura, tanto più tenendo conto del disposto dell’art. 275, comma 2- bis, cod. proc. pen., a norma del quale “non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”. Non è quindi azzardato affermare che, complessivamente ed alla luce dei fatti, in 2 casi su 10 il potere cautelare è stato esercitato in contesti che avrebbero suggerito ben maggiore prudenza valutativa di quella dimostrata. Questi numeri sono vite sconvolte dove la maggior parte di queste persone viene arrestata in piena notte, condotta in carcere senza troppe spiegazioni, proiettata in prima pagina o sui titoli dei giornali, per poi vedersi dichiarare “ingiusta” la privazione della libertà. La riparazione per ingiusta detenzione non basta, non può bastare. Prima che la vicenda processuale sia conclusa, dopo diversi anni, la vittima spesso ha perso il lavoro, gli amici, qualche volta perfino la famiglia, sempre la credibilità e la fiducia altrui. Quale somma potrebbe mai risarcire un’esperienza capace di incidere così pesantemente nella mente e nel corpo, fino a causare conseguenze difficilmente eliminabili ? Chi è stato in carcere da innocente racconta di essere stato soggetto a crisi di panico, notti insonni e difficoltà relazionali anche a distanza di anni. Una riflessione appare necessaria: di fronte a tali situazioni che colpiscono le famiglie, l’attività lavorativa, la credibilità di soggetti che entrano nel sistema carcerario o la cui libertà personale viene ingiustamente limitata, può essere ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato (cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi) ? Se lo Stato riconosce che c’è stata un’ingiustizia, è corretto che affronti e valuti che cosa non ha funzionato: se qualcuno ha sbagliato, se l’errore è stato inevitabile, se c’è stata negligenza o superficialità, se chi ha sbagliato deve essere chiamato a una valutazione disciplinare. I magistrati oggi non rispondono degli errori commessi. Troppo spesso, infatti, accade che le ragioni che hanno determinato errori, anche gravi, non siano rilevate, come occorrerebbe, sul piano disciplinare o restino prive di conseguenze in sede di decisione sugli avanzamenti di carriera. Il tema sotteso a questa riflessione è la necessità di abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione a favore di un più diretto e penetrante controllo sull’operato del magistrato, che - non va dimenticato - in questa materia applica misure che incidono sui più importanti diritti costituzionali delle persone. Nelle scorse settimane era stato presentato alla Camera un progetto di legge che pare destinato a riproporsi nella prossima legislatura e che prevede di introdurre sulla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, tra gli illeciti disciplinari il fatto di aver concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione ai sensi degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. Il tutto per sfatare l’aforisma di Borges: “Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli”. *Avvocato Il decreto attuativo della riforma Cartabia (ignorato dai partiti) ha vizi di costituzionalità di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 20 agosto 2022 Il giudice che spinge l’imputato a soluzioni riparative viola la presunzione d’innocenza. E si eccede la delega. Da pochi giorni è disponibile il testo del decreto legislativo destinato a dare attuazione alla legge delega per la riforma del processo penale. Complice la pausa di agosto, il primo dato di rilievo è il silenzio con cui è stata accolta la proposta governativa. Silenzio che investe, anzitutto, una non trascurabile questione di metodo legislativo: il Governo dimissionario, incaricato del disbrigo dei soli affari correnti, era costituzionalmente legittimato all’approvazione dei decreti attuativi della legge delega? Quale Parlamento renderà i pareri e quale Governo sarà chiamato all’approvazione definitiva? Sarebbe un serio vulnus costituzionale se l’iter della riforma venisse concluso dalle Camere sciolte e da un Governo dimissionario, mentre nella prospettiva più realistica che tutto venga rinviato a dopo le elezioni politiche non si spiega perché i programmi elettorali, appena presentati, non ne facciano alcuna menzione, in una singolare rimozione collettiva. In chiave psicoanalitica la spiegazione del silenzio potrebbe essere l’allontanamento di quei contenuti politicamente disturbanti. Chi propugna, ad esempio, ricette law and order non può certo giustificare dinanzi al suo elettorato il senso di una modifica del sistema sanzionatorio che va in netta controtendenza. Beninteso, meglio il silenzio rispetto a un tardivo rigurgito populista proveniente proprio da quelle forze politiche che, all’unanimità, hanno approvato lo schema di decreto legislativo. Vanno però segnalati i toni surreali di una campagna elettorale che, sul tema cruciale della giustizia penale, oscilla fra la rimozione e la formazione reattiva. A dispetto del doloso silenzio della politica, la netta connotazione ideologica della riforma si coglie nel superamento del modello ispirato al cognitivismo garantista del codice del 1989 in favore di un sistema di decisionismo processuale avente carattere anti- cognitivo e potestativo, in cui l’efficienza repressiva è il portato di un sostanzialismo etico. Non è una riforma “tecnica”, ma profondamente intrisa di valori politici e di una nuova, contestabile, visione del processo penale che meriterebbe di essere spiegata al corpo elettorale. Scomparso il tradizionale approccio assiologico, la tensione verso il raggiungimento di un obiettivo di riduzione dei tempi eleva l’efficienza a fine ultimo del processo, a prescindere dagli strumenti impiegati. Efficienza declinata sul paradigma repressivo e non certo cognitivo, come dimostra la considerazione ricorrente fra i compilatori secondo cui il numero troppo elevato di assoluzioni sarebbe il sintomo di una grave inefficienza del processo. Questo modo di pensare svela la finalità recondita che si vuole raggiungere, ossia quella di ridurre le garanzie processuali considerate un inutile ostacolo che separa l’imputazione dalla condanna. Nella prospettiva del nuovo processo penale la colpevolezza è un dato già accertato nel corso delle indagini, mentre il giudizio serve solo per dare soddisfazione alla pretesa vendicativa della vittima e per instradare l’imputato verso una giusta punizione, direttamente condizionata dalle sue scelte processuali che, più saranno remissive, più gli garantiranno un trattamento di favore. Paradigmatico, al riguardo, è il nuovo art. 129- bis c. p. p. secondo cui “in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato… al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa”. Ciò significa che, comparendo in giudizio per difendersi nel merito, l’imputato potrà essere costretto dal “suo” giudice ad intraprendere un programma di giustizia ripartiva. Palese è la lesione della presunzione d’innocenza e del diritto di difesa, ma ancor più preoccupante è il pre- giudizio insito nella scelta del giudice. La giustizia ripartiva è un “gioco di ruolo” che può svolgersi solo dopo l’accertamento della responsabilità secondo le regole del giusto processo, non certo ai blocchi di partenza, quando i ruoli non sono definiti, per ordine di un giudice che così esprime “debitamente” il suo convincimento senza divenire incompatibile al successivo giudizio. Nel corso delle indagini sarà il pubblico ministero a ordinare all’imputato di comparire dinanzi al mediatore, così recuperando surrettiziamente l’idea, invero mai abbondonata dai conditores, della archiviazione meritata. Chi, invece, si sottrarrà al “percorso di recupero”, pagherà la scelta difensiva con un corrispettivo inasprimento della pena in caso di condanna. Uno scenario distopico in cui non conta più l’accertamento del fatto e della responsabilità, ma la composizione del conflitto da parte di un “saggio mediatore, psicanalista o parroco più che giurista”, come ricorda Bruno Cavallone. L’attuazione della riforma si colloca in larga parte al di fuori del perimetro della Costituzione, anche per eccesso di delega, come nella disciplina del processo a distanza che prescinde dal consenso delle parti, o nei limiti di accesso al giudizio d’appello imposti da un vaglio di ammissibilità sempre più stringente. Non meno preoccupante è la scelta del processo telematico attuata senza dare spazio all’autodifesa personale pur prevista dalla Carta fondamentale, o il ritorno al carcere per chi non è in grado di pagare le pene pecuniarie. Ogni disposizione dello schema di decreto legislativo nasconde sorprese, non sempre gradite a chi crede ancora nei valori della Costituzione. Vi sono buone ragioni per tornare a discutere della riforma Cartabia in questa campagna elettorale o, quantomeno, nella prospettiva di pareri parlamentari che segnalino al Governo i non pochi profili di illegittimità costituzionale. *Ordinario di Diritto processuale penale all’Università Bicocca Processo inquisitorio e manette facili: criminale è questa politica giustizialista di Giovanni Varriale Il Riformista, 20 agosto 2022 Pochi giorni fa il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame preliminare, un decreto legislativo di attuazione della Legge delega di riforma del processo penale che ha l’arduo obiettivo di ridurre i tempi dei processi penali e tentare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. Infatti, come emerso chiaramente dai dati del 2021 e dell’inizio del 2022, il numero di detenuti in carcere ancora in attesa di giudizio è sempre in aumento. Tale dato è assolutamente in contrasto non solo con i principi costituzionali ma anche con le stesse disposizioni del codice di procedura penale che stabilisce come la custodia cautelare in carcere vada applicata quale extrema ratio. Ebbene, risulta singolare, analizzando attentamente i dati forniti, non solo come spesso e volentieri tali misure vengano applicate per reati di minore allarme sociale ma anche come vengano applicate a soggetti in attesa di giudizio e quindi, in ossequio al principio di non colpevolezza, potenzialmente innocenti. Tale modus agendi è evidentemente frutto di una politica criminale sempre più giustizialista ma assolutamente contro producente per lo Stato che vede, per altro, sempre in aumento i risarcimenti per ingiusta detenzione. È evidente come tale politica criminale sia figlia di un retaggio cultural - popolare secondo cui un indagato è sicuramente colpevole prima ancora che sia fissata la prima udienza dibattimentale. Siamo tornati, quindi, secondo quanto riportato dai mass media, ad un processo penale di tipo inquisitorio. Ebbene è chiaro come ciò sia in completa antitesi con il modello accusatorio del processo penale che si fonda sul principio di non colpevolezza e sul rispetto dei diritti umani sanciti non solo dalla carta costituzionale ma anche dal Legislatore sovranazionale. In quest’ottica ed in applicazione di tale malsana politica, si innesca quale naturale conseguenza, il sovraffollamento delle carceri che si trovano ad ospitare un numero eccessivo di detenuti rispetto alla capienza massima prevista, per altro, in strutture fatiscenti, gelate d’inverno e roventi d’estate. Ebbene, i detenuti sono costretti a condividere anche in nove celle adibite ad un massimo di cinque o sei persone; gli educatori sono pochi rispetto al numero di detenuti; gli spazi comuni non sono sufficienti, o addirittura inesistenti; in alcuni casi le docce possono essere utilizzate solo due volte a settimana. Appare chiaro come in un contesto del genere non solo il detenuto in custodia cautelare dichiarato innocente e scarcerato perderà fiducia nelle istituzioni, ma quello dichiarato colpevole non riuscirà ad intraprendere un percorso rieducativo così come richiesto dalla nostra carta costituzionale. In tale contesto applicare la misura cautelare in carcere per un soggetto in attesa di giudizio per un reato di non particolare allarme sociale, nei casi in cui le esigenze cautelare potrebbero essere soddisfatti con, ad esempio, la misura degli arresti domiciliari, non solo viola le norme costituzionali e del codice di procedura penale, ma è sintomo di non conoscenza del contesto carcerario che può in questi casi soltanto peggiorare le cose. Sarebbe quindi auspicabile una riforma integrale dell’ordinamento penitenziario, una riforma strutturale delle case circondariali ed un utilizzo più moderato della misura cautelare in carcere. Certamente il percorso intrapreso con la riforma Cartabia è promettente, ma è necessario ed assolutamente urgente che si intervenga sia sul tema dell’eccesivo utilizzo delle misure carcerarie sia, soprattutto, sulle condizioni di vita dei detenuti. Infatti, già la sola privazione della libertà rappresenta di per sé una grandissima limitazione ma se tale restrizione diventa inumana, se il detenuto viene privato dei propri affetti e della propria privacy, così come spesso accade nelle carceri italiane, significa privare i detenuti della speranza per un futuro migliore e quindi neutralizzare definitivamente lo scopo rieducativo della pena che verrebbe ad essere nuovamente una mera punizione. Caiazza: “Su carriere separate e inappellabilità fa rumore il silenzio del Pd” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 agosto 2022 Il leader dei penalisti replica al presidente dell’Anm Santalucia sulle proposte rilanciate da Berlusconi in tema di giustizia. Prove di dialogo a distanza tra l’Unione Camere Penale e il presidente dell’Anm Santalucia sul tema dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Ne parliamo quindi con il presidente dei penalisti, Gian Domenico Caiazza, che si dice soddisfatto dai riscontri dei partiti sui temi da lui sollevati per la riforma della giustizia. Unico assente è il Partito Democratico: “Non ci si può nascondere dietro il silenzio”. Il Presidente dell’Anm Santalucia ha detto che tecnicamente se ne può discutere. Il tema quindi non è un tabù come la separazione delle carriere... È sempre positiva una risposta che apra ad un confronto. Non capisco però perché lo stesso confronto non si possa aprire sulla separazione delle carriere. Santalucia ha però aggiunto: “Non dimentichiamo che il pm ha già subìto delle limitazioni per le impugnazioni”... È sbagliata la logica del concetto di “limitazioni”. Il tema è molto semplice: l’impugnazione del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione non può convivere con il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio. Io faccio sempre l’esempio del delitto di Garlasco e della condanna di Alberto Stasi dopo due assoluzioni. Ho posto all’attenzione del Presidente Santalucia questo caso. Ha detto che “sul ragionevole dubbio la giurisprudenza e il legislatore hanno ragionato ampiamente” e che “se il legislatore vuole mettere mano alla riforma penso sia un tema da trattare con particolare cura tecnica e magari selezionare quali tipo di assoluzioni non poter impugnare”... Vorrei valorizzare questa disponibilità di Santalucia e dell’Anm. Se ragioniamo in questi termini, e cioè di capire se è possibile immaginare un distinguo o porre delle condizioni di (in)ammissibilità per le impugnazioni del pubblico ministero, se ne può discutere. Anche se noi siamo restiamo convinti che la soluzione in armonia con il rito accusatorio sia quella di non prevedere alcuna impugnazione. Il dottor Santalucia ritiene però che non bisogna mai dimenticare il punto di vista delle vittime e l’esigenza collettiva di giungere ad una verità... ù Il ragionamento è viziato da un’idea totalmente distante dallo spirito del processo accusatorio: la ricerca della verità con la ‘V’ maiuscola, quella vera, che non coincide con la verità processuale. Non si riesce ad accettare che l’unica verità sulla quale ci dobbiamo misurare è quella che il processo è riuscito a costruire. Se noi ragioniamo aspirando ad una verità che va oltre il processo, svuotiamo di senso il processo. Quest’ultimo è la ricostruzione postuma di un fatto. Essa deve essere favorita in ogni modo prima nella fase delle indagini poi nella fase dell’istruttoria dibattimentale. Dopo di che si accetta la ricostruzione del fatto processuale, altrimenti non si finisce più di processare se l’obiettivo è quello di giungere ad una pretesa verità storica. E però le impugnazioni del pm sono sotto il 2%... Noi non poniamo il tema sulla questione delle percentuali. Si tratta di un problema di principio. Le impugnazioni del pm avvengono non a caso nei procedimenti di grande impatto mediatico e di grave allarme sociale. Il pubblico ministero si sente in dovere di inseguire la conferma della propria tesi accusatoria, anche dopo una sentenza di assoluzione. La personalizzazione dell’accusa, come ci ha detto il professor Spangher... Esatto. Ripeto: tutti abbiamo a cuore che il processo penale ricostruisca il fatto nel modo più plausibilmente vicino alla verità storica. Ma se all’esito di una istruttoria i giudici ritengono che il materiale non sia sufficiente per una condanna, bisogna accettare il verdetto perché qualunque verdetto diverso non eliminerà il dubbio. Non a caso il codice prevede una assoluzione anche in presenza di prova insufficiente o contraddittoria. Purtroppo non si accetta che nel dubbio si assolve e più in generale esiste la pericolosa idea che l’assoluzione sia una conclusione fallimentare del processo penale. Se vieni assolto allora vuol dire che si è sprecato tempo e denaro, deludendo le aspettative delle vittime. Questo è il nodo culturale alla base del tema di cui stiamo discutendo. È quello che sosteneva il professor Giostra in un convegno: “fate caso che si dice “giustizia è fatta” solo quando arriva una condanna?”... Esattamente. E questo è l’aspetto veramente grave della questione, ossia il ritardo culturale di questo Paese sulle dinamiche del sistema accusatorio. Spostiamoci sul piano politico. Sempre il presidente Santalucia ha detto: parliamone ma non con i toni di Silvio Berlusconi. Secondo lei i toni della politica potrebbero far abortire in partenza ogni ragionamento tecnico sul tema? La politica fa la sua parte con il suo linguaggio, necessariamente semplificato rispetto alla complessità tecnica delle questioni. Non credo sia questo il problema. Sono d’accordo con Santalucia che quando si arriva a dover concretizzare quelle idee occorre che a farlo siano i tecnici del diritto insieme alla politica. Prima di Silvio Berlusconi, l’idea dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, insieme ad altri temi di riforma della giustizia, era stata rilanciata da voi con una lettera ai partiti. Che riscontri avete avuto? Stiamo ricevendo riscontri importantissimi. Forza Italia, attraverso le parole di Silvio Berlusconi, ha già appunto detto sì a due importanti nostri temi: inappellabilità e separazione delle carriere. Poi alla conferenza stampa di ieri (due giorni fa, ndr) organizzata dal Terzo Polo, Azione e Italia Viva con Calenda e l’onorevole Boschi hanno sostanzialmente fatto propri tutti i punti da noi indicati, ivi compreso il ritorno sulla riforma della prescrizione. Anche Fratelli D’Italia, tramite l’onorevole Delmastro Delle Vedove, hanno confermato di essere favorevoli alla separazione delle carriere, al divieto di distaccare i magistrati fuori ruolo al Ministero della giustizia, e persino a ridiscutere dell’abuso della custodia cautelare. Il grande assente pare essere il Partito Democratico? Da loro non ho sentito dire nulla, a partire dal tema oggetto di questa intervista. Ci aspettiamo che tutti i partiti prendano posizione. Auspichiamo che lo facciano in maniera positiva verso le questioni da noi sollevate. Tuttavia anche se fosse in senso contrario, sarebbe comunque importante per conoscere le loro argomentazioni. Però nascondersi dietro il silenzio su questi temi in campagna elettorale non è consentito. Separazione delle carriere, Cav e Iv d’accordo: fatwa giallorossa in arrivo… di Errico Novi Il Dubbio, 20 agosto 2022 Dopo l’inappellabilità delle assoluzioni, Berlusconi promette il “divorzio” fra giudici e pm. Boschi condivide entrambe le ipotesi. Ma proprio la convergenza sulla giustizia fra Silvio e Matteo rischia di resuscitare l’asse dem-5S. Berlusconi ha il suo metodo collaudato. Adesso l’ha ribattezzata “videopillola quotidiana”, ma già nel ‘94 i suoi manifesti 6 x 3 proponevano gli impegni con l’elettorato a intervalli scanditi e regolari. Tre giorni fa ha annunciato che con il centrodestra al governo le sentenze di assoluzione diventerebbero inappellabili. Nel videomessaggio di oggi si occupa di separazione delle carriere. “Parliamo ancora di giustizia: un processo è davvero giusto se chi giudica è davvero equidistante fra chi accusa e chi si difende”, ricorda. “Se il giudice e il pubblico ministero hanno l’ufficio uno accanto all’altro, se sono addirittura colleghi e amici, allora il giudice non può certo essere neutrale”. E per questo, annuncia Berlusconi, “quando saremo al governo introdurremo la separazione delle carriere”. Altra spiegazione a uso degli elettori: “Come avviene in altri Paesi, si devono confrontare l’avvocato dell’accusa e l’avvocato della difesa, con pari diritti e con gli stessi strumenti. E nessuno dei due dev’essere un amico, un collega di chi giudica”. Non è la prima volta che Forza Italia ne parla. Ma è chiaro come in un clima che vede il centrodestra favorito nelle urne del 25 ottobre, la proposta assuma un peso diverso. Colpisce casomai l’evanescenza delle repliche: l’ex premier sembra non scuotere per nulla il dibattito sulla giustizia. C’erano state poche reazioni già sul divieto di appellare i proscioglimenti. Tranne quella dell’Anm, un po’ stizzita ma pure aperta a discutere, quanto meno, della materia. Dagli avversari invece, in particolare dal Pd, silenzio. Ma intanto ieri alla presentazione delle liste di Azione e Italia viva, Maria Elena Boschi ha detto di essere a favore dell’inappellabilità e che “la separazione delle carriere e una riforma più coraggiosa del Csm restano per noi temi centrali”. Ha aggiunto ulteriori ipotesi sulla giustizia che già circolano da qualche giorno nell’area di centrodestra: per esempio il ritorno alla “prescrizione sostanziale”, idea dell’alleato Enrico Costa. Soluzione che oltretutto, come riferito dal Dubbio mercoledì scorso, è gradita pure a Fratelli d’Italia. Nel pieno del trambusto per le liste da compilare e per gli uscenti da sacrificare, ci sta che le proposte di Berlusconi e le sponde renziane non suscitino particolari vibrazioni, per non dire che cadono nell’indifferenza. Ma intanto, in prospettiva, nel caso di una vittoria, che sembra probabile, della coalizione di centrodestra, il leader di Forza Italia pare chiaramente intenzionato a farsi alfiere di un’accelerazione garantista sui diritti, sul processo penale innanzitutto. Senza dimenticare gli appelli a rivedere la riforma tributaria con una pace fiscale, condivisi, questi, anche da Lega e Meloni. È probabile che su una falsariga del genere, il Cav trovi Matteo Renzi e Italia viva come compagni di strada. Il che potrebbe far scattare un alert, e favorire un improvviso ricongiungimento, per Pd e Movimento 5 Stelle. Affiancati, con ogni probabilità, dai giornali più ostili al Cavaliere e a Renzi. Tornerebbero gli anatemi per la giustizia “strattonata” da due leader sui quali pesa ancora qualche procedimento penale, dal Ruby ter a Open. E come detto su queste pagine nei giorni scorsi, rischiamo di ricadere nello schema del ventennio berlusconiano: non si troverebbe più un clima di civile discussione sulla giustizia, perché una parte, l’area progressista, diffida e accusa l’altra, cioè FI, e in questo caso pure Renzi, di voler promuovere riforme a proprio personale uso e consumo. La riedizione in sedicesimi della guerriglia permanente sulle leggi ad personam sarebbe un danno notevole, visto che le proposte del Cav e dei renziani, a cominciare proprio dall’inappellabilità e dalle carriere dei giudici, sono sensate. Se c’è il rischio che il dibattito degeneri, che si ricada nei pregiudizi anti berlusconiani (e anti renziani), nel conflitto che ha impedito interventi sulla giustizia per almeno un quarto di secolo, c’è però anche un altro risvolto. A partire dalla giustizia, l’asse fra FI, Azione e Italia viva può strutturarsi in modo più profondo. Il che renderebbe Berlusconi emancipato dal peso di Fratelli d’Italia e Lega, peraltro non sempre d’accordo con lui in materia di giustizia e soprattutto di carcere. Dall’altra parte, la prevedibile retorica contro i due leader “unfit” a riformare la giustizia, il Cav e Renzi appunto, potrebbe riavvicinare il Pd al M5S, e favorire indirettamente l’allargarsi del perimetro centrista. Perché è chiaro che non tutti fra i dem sarebbero disponibili a resuscitare scenari, sulla giustizia penale, da fine anni Novanta. Sono ipotesi. Ma di sicuro Berlusconi fa benissimo a giocare d’anticipo anche rispetto alla oscillante Lega e a Fratelli d’Italia. Potrebbe rendere meno ingessata una legislatura che sembra annunciarsi nel segno della straripante Giorgia Meloni. E soprattutto il Cav, se saprà giocare le proprie carte, potrebbe mettere insieme qualche colpo garantista assolutamente benefico per lo Stato di diritto. Solo ex: la crisi della vocazione politica dei magistrati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 agosto 2022 Nessuna richiesta di aspettativa elettorale è arrivata al Csm dalle toghe in servizio. Dopo la riforma Cartabia ora candidarsi è difficile e tornare indietro impossibile. Anche solo tentando la fortuna nelle urne si rischia. Alla prima prova, la riforma sembra aver funzionato troppo bene. O forse l’allarme per le “porte girevoli” tra magistratura e politica era eccessivo. Fatto sta che alle prossime elezioni nessun magistrato o magistrata in servizio tenterà la corsa verso il parlamento. È una prima volta, andiamo a memoria, almeno negli ultimi trent’anni. Lontanissimi i tempi, metà anni Novanta, quando al Consiglio superiore della magistratura arrivavano una trentina di richieste di aspettativa per motivi elettorali. Ieri al Csm, che si è riunito in plenaria anche perché si attendevano richieste del genere, non è arrivata nessuna domanda. In teoria se tra oggi e domani, nelle ultimissime ore per l’accettazione delle candidature, qualche toga in servizio decidesse di fare il passo, il Consiglio potrebbe riunirsi di urgenza. Ma ormai i giochi sono fatti. In questo parlamento erano solo due le toghe in attività che avevano ottenuto l’aspettativa per mandato elettorale, entrambe hanno lasciato il partito che le ha elette. Giusi Bartolozzi ha detto addio a Forza Italia e resterà fuori dalle prossime camere. Cosimo Ferri, eletto con il Pd, poi protagonista dello scandalo Palamara in quanto uno dei partecipanti al famoso incontro dell’hotel Champagne nel quale si voleva indirizzare la nomina del procuratore di Roma, ha seguito Renzi in Italia Viva. È in cerca di conferma, ma è difficile che riesca a conquistare una collocazione con buone possibilità di elezione. In tal caso gli converrebbe rinunciare. La ragione per cui si sono azzerate le vocazioni politiche di magistrate e magistrati in servizio, infatti, è che è entrata in vigore la riforma Cartabia che ha alzato un muro tra il parlamento e gli uffici giudiziari. Che non vale, naturalmente, per chi già è in parlamento e ne esce adesso. Ma che penalizza anche chi decide di candidarsi senza però riuscire a essere eletto. È adesso previsto, infatti, che anche la toga non eletta debba cambiare regione per tornare in servizio. Inoltre per tre anni resta esclusa dagli incarichi direttivi e semi direttivi nonché dalle funzioni chiave di giudice monocratico o pm. Più pesante, ovviamente, il destino di un magistrato eletto, una volta terminato il mandato. La nuova legge prevede che debba andare direttamente fuori ruolo e, ove non possibile, sia destinato al limbo di non ben chiarite “attività non direttamente giurisdizionali, né giudicanti né requirenti”. In ogni caso nel prossimo parlamento non mancheranno i magistrati. In corsa - si è avuta ieri la conferma - con la Lega ci sarà anche una magistrata, la ex giudice del tribunale per i minorenni Simonetta Matone che ha fallito la scalata al Campidoglio per la destra in tandem con Michetti. Come lei sono tutti magistrati in pensione, o comunque ex magistrati (è il caso di De Magistris). Il Movimento 5 Stelle ne candida due, l’ex procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho e l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. Non a caso sono entrambi andati in pensione all’inizio di quest’anno. Così come è in pensione, in questo caso da molti anni, l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, stimato a destra. Fossero stati in servizio avrebbero dovuto candidarsi fuori regione. Infine, ha dichiarato di volerci tentare proprio Luca Palamara, sotto processo a Perugia. Ha già tentato inutilmente la via del parlamento con le suppletive e sta raccogliendo le firme per una sua lista. Ma anche lui è un ex magistrato, nel suo caso per sanzione del Csm. Le toghe in servizio pensano a un altro appuntamento elettorale, persino precedente alle politiche. Quello per il Csm il 19 settembre. Nordio alla Giustizia. Il piano di Meloni per “frenare” i pm di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2022 Pronta la riforma. Tra articoli, interviste e discorsi ufficiali, Nordio è considerato dal centrodestra come l’alfiere del garantismo. Chi lo conosce bene racconta che, per aver accettato la candidatura in Parlamento, deve aver ricevuto un’offerta che non poteva proprio rinunciare. D’altronde, solo cinque anni fa, dopo essere andato in pensione da pubblico ministero, non era bastato il corteggiamento quotidiano di Niccolò Ghedini e del suo grande amico Pietro Longo (entrambi avvocati di Silvio Berlusconi) per convincerlo a candidarsi con Forza Italia. Stavolta, invece, Carlo Nordio non poteva dire “no” a Giorgia Meloni. Da mesi la leader di Fratelli d’Italia si faceva consigliare sui temi della giustizia dall’ex pm veneziano fino a candidarlo, ottenendo 64 voti, alla presidenza della Repubblica. Ora però la sfida è più grande: per convincerlo ad accettare la candidatura nel collegio della Camera di Treviso, Meloni gli ha proposto di fare il prossimo ministro della Giustizia. E l’ex magistrato non poteva che accettare. Giovedì si è presentato in via della Scrofa per accettare la candidatura e ieri lo ha annunciato con un editoriale sul Gazzettino, giornale per cui ha collaborato a lungo: “Dopo aver scritto, per oltre 25 anni, sulle criticità della nostra giustizia e sulla necessità di rimedi urgenti in senso garantista e liberale, la rinuncia a intervenire attivamente quando te ne viene offerta la possibilità sarebbe una mancanza di coraggio, o quantomeno un atteggiamento di incoerenza e di pigrizia”. Si vede già al ministero della Giustizia come successore di Marta Cartabia. Le sue idee sono note da tempo. Tra articoli, interviste e discorsi ufficiali, Nordio è considerato dal centrodestra come l’alfiere del garantismo che possa fare la “grande riforma della giustizia” di cui parlano spesso Meloni, Salvini e Berlusconi. Il suo sogno, che ripete quasi ossessivamente, è una grande riforma costituzionale che separi le carriere tra pubblico ministero e giudice e modifichi l’articolo 112 della Costituzione. Obiettivo: eliminare l’obbligo dell’azione penale per i pm. Se non si arrivasse a una grande riforma della Carta, comunque Nordio vuole limitare il potere dei pubblici ministeri: “Solo in Italia hanno un potere così immenso senza responsabilità”, dice. Le riforme da fare, Nordio, le ha già in testa e le ha elencate nel suo ultimo libro “Giustizia ultimo atto”, uscito a febbraio: un manifesto politico. Per velocizzare il processo penale l’obiettivo è superare le riforme Bonafede e Cartabia tornando alla prescrizione vecchio stile, ma anche allargare le maglie dei patteggiamenti. Nordio è favorevole alla proposta di Berlusconi di riproporre la legge Pecorella: niente appello nei casi di assoluzione dell’imputato. Su norme più specifiche, Nordio vorrebbe limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere, abolire la legge Severino e il reato di abuso d’ufficio e mettere limite alle intercettazioni come strumento di prova. Sul Csm, per evitare il fenomeno delle correnti, sostiene serva il sorteggio. Intanto i partiti di centrodestra stanno per ultimare le liste. Nella coalizione non c’è ancora accordo sulle “quote rosa”. Salvini ha definito le candidature negli uninominali (68): tutti i “big” correranno alla Camera, lui sceglie il listino proporzionale. In FdI c’è posto per tutti: dovrebbero entrare anche il manager Andrea Abodi e l’organizzatore del Family Day Massimo Gandolfini. Vertice a villa Certosa per Forza Italia: come esterni ci sono Valentina Vezzali e Claudio Lotito. Ma molti big come Renata Polverini e Maurizio Gasparri rischiano di rimanere fuori. Roberto Scarpinato spiega la sua candidatura: “Siamo alla restaurazione della politica dei clan” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2022 In corsa a Palermo. Non solo lotta alla mafia: il magistrato voluto dai Cinque Stelle spiega il suo impegno contro gli interessi di pochi e in difesa della Costituzione: “I 5 Stelle non omologati, ergo bullizzati”. Dottor Scarpinato, perché ha scelto di impegnarsi in politica? Per due motivi. Il primo è che nel gennaio scorso ho cessato di essere un magistrato a seguito del mio pensionamento e ho quindi riacquistato un diritto prima incompatibile con il mio ruolo. Il secondo è la consapevolezza che se tu non ti occupi della politica, la politica si occupa comunque di te. Che intende? Gli antichi Greci, inventori della democrazia, ritenevano un dovere primario di ogni cittadino occuparsi della politica, cioè della vita della Polis, perché avevano capito che non esistono vie di salvezza individuali. Se la Polis si ammala a causa della degenerazione oligarchica e autoritaria del potere, si ammalano anche le vite dei singoli. Lei ritiene che oggi si stia rischiando una degenerazione del potere? Siamo in una fase regressiva dello stato democratico che alcuni politologi definiscono come il ritorno della clanizzazione della politica. Il moderno stato costituzionale nasce dal superamento dei clan, cioè dei gruppi di potere locali che prima si contendevano a proprio esclusivo vantaggio le risorse dei territori. Oggi, venuti meno i grandi progetti collettivi, la contesa politica reale rischia di regredire a competizione tra clan sociali, gruppi di interesse, ristrette oligarchie interessate solo a spartirsi le risorse collettive. Quali sono i motivi di questa regressione della politica? Una pluralità concorrente di cause, alcune endogene legate cioè alla storia nazionale, altre esogene dovute a fattori di carattere internazionale. Quanto alle cause nazionali, basti ricordare che lo Stato italiano è sorto con molto ritardo rispetto ad altri stati europei, e, anche per questo motivo, ha sempre sofferto una fragilità strutturale. Ancora più fragile è la nostra democrazia, sempre a rischio di involuzione autoritaria. La nascita della prima Repubblica è stata tenuta a battesimo da una strage politico mafiosa, quella di Portella della Ginestra che ha segnato l’incipit della strategia della tensione, e si è conclusa nel sangue con le stragi politico mafiose del ‘92 e ‘93 che hanno rischiato di mettere in ginocchio lo Stato. Tra la prima strage e le ultime si è susseguita una sequenza pressoché ininterrotta di stragi con finalità politiche che non ha uguali in nessun Paese europeo, nonché una lunga serie di omicidi politici talora dissimulati sotto altre causali di copertura e come suicidi o incidenti. Quali riflessi hanno avuto questi fatti nell’evoluzione politica italiana? Questi e altri eventi dimostrano che nel nostro paese la lotta politica si è svolta su un duplice livello. Al livello palese e legalitario delle competizioni elettorali, della dialettica parlamentare e istituzionale, delle manifestazioni di piazza, si è intrecciato il livello occulto di una lotta politica condotta dietro le quinte dalle componenti più retrive delle classi dirigenti da sempre tenacemente ostili alla Costituzione e che non hanno esitato a mettere in campo la violenza stragista, nonché l’alleanza con le mafie ed altri specialisti della violenza, per condizionare a proprio vantaggio il gioco politico e per sabotare l’evoluzione democratica del paese. È in questo contesto che si colloca la sistemica attività di depistaggio delle indagini sulle stragi? Quasi tutte le indagini sulle stragi sono state caratterizzate da depistaggi posti in essere da apparati statali, con varie coperture politiche, finalizzati a coprire gli esecutori e impedire di individuare i mandanti e complici eccellenti. Il fatto che i depistaggi siano stati ripetuti anche per le indagini del ‘92 e ‘93 e abbiano continuato a susseguirsi sino a epoca recente, dimostra come questa modalità occulta di lotta politica non sia archiviabile come storia del passato e come il presente sia figlio del passato. In che modo tutto questo influenza il dibattito sul fronte delle riforme della giustizia? Alla luce di tale peculiarità della storia nazionale segnata da una criminalità di settori significativi delle classi dirigenti che nel tempo si è manifestata nello stragismo, nei patti occulti con le mafie e nella corruzione sistemica, è evidente perché in Italia la questione giustizia sia inestricabilmente intrecciata alla questione dello Stato e della democrazia, e non sia riducibile - come in altri paesi europei di democrazia avanzata - a mera questione di tecnicalità e di risorse. E si spiega anche perché in Italia la questione giustizia dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso sia sempre rimasta al centro del dibattito politico: caso unico al mondo. I miei colleghi stranieri non riescono a comprendere come e perché in Italia si arrivi a rischiare una crisi di governo per temi come la riforma della prescrizione che altrove interessano solo specialisti di settore e sono relegati ad argomenti secondari. Ho dovuto fare loro un breve riassunto della storia politica nazionale per spiegare quale era la vera posta politica in gioco dietro l’apparente tecnicismo della questione. Perché la questione giustizia è diventata centrale a partire dalla seconda metà degli anni Settanta? Dalla fondazione dello Stato Unitario sino agli anni Settanta non vi sono stati contrasti tra la politica e la magistratura. Tale armonia protrattasi per più di un secolo, era dovuta nel periodo della monarchia liberale e del fascismo a un ordinamento che sottoponeva il pubblico ministero alla direzione della politica, e al fatto che nei primi venti anni successivi alla nascita della Repubblica, la nuova Costituzione che garantiva l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, era rimasta in larga misura lettera morta. I vertici degli uffici giudiziari si erano formati culturalmente nel periodo precostituzionale e, tranne poche eccezioni, mantenevano un atteggiamento di sostanziale sottomissione alle direttive politiche. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, a causa della complessiva maturazione democratica del Paese e del ricambio generazionale nella magistratura, la nuova Costituzione diventa diritto vivente. Cessa la lunga stagione dell’impunità dei potenti, iniziano i primi processi che coinvolgono personaggi ai vertici della piramide sociale e ha inizio la narrazione di Palazzo di una guerra della magistratura contro la politica. La storia della ostilità del Palazzo nei confronti di magistrati come Giovanni Falcone, oggetto di campagne di delegittimazione, emarginato e ridotto all’impotenza dopo che aveva osato alzare il livello delle indagini oltre il livello della mafia militare, è emblematica e riassuntiva di mille altre storie similari. Quale è la situazione attuale? È in corso un inquietante processo di restaurazione del passato di cui si colgono tanti segnali. Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato, un passato di convivenza tra Stato e mafia, un passato di occulte transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, un passato di rimozioni e di amnistia permanente tramite amnesia collettiva, sta tornando ad essere la cifra del presente e del futuro. Quali sono i segnali che ha colto? Ritornano in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione con la mafia e per altri gravi reati. Si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei Servizi Segreti, come il generale Gianadelio Maletti, condannato per avere depistato le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Si normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente condivisibile la scelta di non collaborare con lo Stato dei mafiosi stragisti irriducibili e depositari di segreti scottanti che chiamano in causa i complici eccellenti delle stragi del ‘92 e ‘93, autorizzando così con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro fuoriuscita dal carcere solo alla condizione che sia provato che hanno deposto definitivamente le armi. Si approvano leggi che riportando indietro l’orologio della storia ai tempi del primo Novecento, ripristinano il trionfo della gerarchia nella magistratura e introducono surrettiziamente forme di controllo e di condizionamento della politica sull’attività giudiziaria. Lei perché ha scelto i 5 stelle? In passato aveva mai avuto proposte da altri partiti? Non avevo mai ricevuto proposte da alcun altro partito. E a dire il vero non sono io che ho scelto i 5 Stelle, ma loro che hanno scelto me, proponendomi una candidatura. Per me si è trattato di una scelta difficile e sofferta. Perché? Dopo trent’anni di stress e di rinuncia a una vita normale dovuti al mio impegno in prima linea sul fronte dell’antimafia che mi ha procurato tanti nemici e odi, avevo programmato una progressiva fuoriuscita di scena e di dare priorità ai miei affetti familiari. E invece? Una parte di me aveva bisogno di pace e tranquillità, ma alla fine ha prevalso l’altra parte, quella che ha fatto propria la lezione degli antichi greci alla quale ho accennato all’inizio di questa intervista: se la Polis si ammala, se la democrazia avvizzisce, se la prepotenza si autolegittima rivestendosi della forza della legge, se l’ingiustizia sociale diventa normalità quotidiana e se non hai l’anima del prepotente o del servo, non vi sono vie di uscita e di salvezza individuali. Cosa le ha detto Conte per convincerla ad accettare? Mi ha assicurato che la questione mafia, cancellata in questa campagna elettorale dall’agenda degli altri partiti, sarebbe rimasta invece centrale in quella dei 5 Stelle, come del resto dimostra sia il fatto che la scuola di formazione politica del Movimento è stata inaugurata a Palermo con un seminario sul tema dei rapporti tra mafia e politica proprio mentre altri celebravano il ritorno in campo di Dell’Utri e Cuffaro o restavano silenti, sia l’impegno profuso dai 5 stelle in Parlamento per mettere a punto una riforma dell’ergastolo ostativo che scongiurasse il rischio di una fuoriuscita dal carcere di pericolosi boss mafiosi. Inoltre l’attacco concentrico e incessante di quasi tutto l’establishment di potere nei confronti dei 5 stelle per le riforme promosse allo scopo di ridurre le sacche di impunità dei colletti bianchi, come la riforma della prescrizione e la legge Spazzacorrotti - un attacco che ha spesso travalicato i limiti della fisiologica critica politica, trascendendo in forme di bullismo mediatico - è dal mio punto di vista, un segnale significativo che non sono integrati e omologati nel sistema e che quindi hanno una capacità di proposta e di mobilitazione politica che può muoversi nella giusta direzione come forza di resistenza contro le manovre dirette a ripristinare una giustizia classista forte con i deboli e debole con i forti. E cosa ha chiesto lei a Conte prima di accettare la candidatura? Ho detto che mi consideravo come un candidato indipendente e che, quindi, mi riservavo il diritto di esprimere sempre le mie idee e di manifestare il mio eventuale dissenso da scelte che non dovessi condividere. L’indipendenza ha segnato tutta la mia pregressa carriera di magistrato e mi è rimasta cucita nell’anima. Una indipendenza che è garanzia che la funzione pubblica - magistrato ieri, forse parlamentare domani - viene esercitata nell’esclusivo interesse e al servizio dei cittadini, facendo barriera insormontabile a interessi e pressioni di gruppi di interesse. Votare i candidati sorteggiati è un primo passo per togliere potere alle correnti di Massimiliano Sacchi Il Domani, 20 agosto 2022 La sfida dei candidati sorteggiati è ardua, perché è chiaro a tutti che l’attuale sistema elettorale, anche dopo le modifiche apportate dalla riforma Cartabia, metta i candidati designati dalle correnti in una posizione di forza. Sono Massimiliano Sacchi, Consigliere presso la Corte di Appello di Napoli, settore civile. Mi presento, alle elezioni per il rinnovo del CSM, come candidato per la categoria dei giudici di merito, per il Collegio 3. Un gruppo di colleghi, fautori del metodo del sorteggio temperato, riunito nel Comitato Altra Proposta, a febbraio 2022, ha sorteggiato, dinanzi ad un Notaio di Roma, alcuni potenziali candidati. Io rientro tra coloro che sono stati sorteggiati e che ha deciso di manifestare la propria disponibilità. La credibilità del Csm, fortemente compromessa dalla vicenda Palamara, deve essere recuperata, superando quella degenerazione correntizia che negli ultimi 15 anni ha condizionato l’azione dell’organo di autogoverno, asservendola ad interessi di parte. Per questo motivo, l’iniziativa, messa in campo, da Altra Proposta rappresenta un punto di partenza di un percorso di rinnovamento culturale, che potrebbe portare la magistratura fuori delle sabbie mobili nelle quali è precipitata. L’elemento di discontinuità rispetto al passato deve essere costituito dalla percezione che ciascun magistrato ha dell’operato del Csm. Questo non deve più essere visto come luogo ove si esercita, spesso secondo logiche difficilmente comprensibili, un potere, ma come presidio effettivo dell’autonomia ed indipendenza dei magistrati. Le correnti - La sfida dei candidati sorteggiati è ardua, perché è chiaro a tutti che l’attuale sistema elettorale, anche dopo le modifiche apportate dalla riforma Cartabia, metta i candidati designati dalle correnti in una posizione di forza. È sufficiente dire che, mentre questi ultimi, durante la campagna elettorale, si avvalgono del supporto di gruppi associativi radicati nei vari territori, i sorteggiati possono far leva solo sulla forza delle loro idee e sull’esigenza di rinnovamento, che, si spera, possa indurre molti magistrati, specie i più giovani, a voltare definitivamente pagina. E’, altresì, evidente che l’esito della competizione elettorale potrebbe avere ricadute significative per il futuro. Un buon risultato dei candidati individuati tramite sorteggio consentirebbe alla magistratura di sollecitare le modifiche legislative necessarie per realizzare finalmente un sistema, di individuazione dei candidati, fondato esclusivamente sul metodo del sorteggio temperato, che, a mio parere, rappresenta l’unica via per cercare di ridurre il potere delle correnti. In una prospettiva de iure condendo, l’introduzione per legge di un criterio di rotazione degli incarichi direttivi e semidirettivi potrebbe costituire un valido strumento per eliminare la forte spinta carrieristica, che attualmente anima molti magistrati, e che è all’origine dello stesso sistema Palamara. È noto, infatti, che la degenerazione correntizia si è verificata quando, attraverso l’eliminazione del criterio dell’anzianità, attuata con la riforma Mastella del 2006, la scelta dei direttivi e semidirettivi è stata operata in base a parametri (merito, attitudini) che possono facilmente essere piegati al perseguimento di interessi di parte. L’elevato numero di annullamenti, da parte del Giudice amministrativo, delle nomine operate dal CSM dimostra come questa discrezionalità non sempre sia stata esercitata nel migliore dei modi. A quali criteri vorrei ispirare l’esercizio delle funzioni di consigliere qualora fossi eletto. I criteri per l’esercizio delle funzioni - Mi limiterei a fare quello che ogni giorno faccio nell’esercizio dell’attività giurisdizionale. Applicare la legge, interpretandola in conformità al diritto euro unitario ed alla Costituzione, senza essere condizionato da legami di appartenenza correntizia o da debiti di riconoscenza. L’elezione di candidati effettivamente indipendenti, quali sono quelli scelti per il tramite del sorteggio, consentirebbe di liberare l’operato del CSM da condizionamenti esterni. Ovviamente, si tratterebbe solo di un primo passo, posto che, come ho detto, l’attuale sistema elettorale non permette di realizzare quel rinnovamento effettivo e profondo di cui l’istituzione consiliare ha bisogno. La riforma Cartabia - L’attuazione della riforma Cartabia impegnerà in misura significativa l’attività dell’organo consiliare. Trattandosi in gran parte di una legge delega, che si limita ad indicare i principi, la sua effettiva applicazione richiede la necessaria adozione, da parte del Governo, dei decreti delegati. Rispetto agli aspetti più critici della riforma (si pensi al cd. fascicolo del magistrato, contenente i dati salienti ai fini delle valutazioni di professionalità), sarà necessario che il CSM applichi la norma e gli eventuali decreti attuativi in modo da salvaguardare l’esercizio autonomo ed indipendente delle funzioni. Ad esempio, l’interpretazione della legge Cartabia, laddove attribuisce rilievo, ai fini della valutazione del parametro della capacità del magistrato, alle gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento, non potrà prescindere dalla considerazione per cui, spesso, rientra nella fisiologia del sistema che una medesima fattispecie venga ad essere valutata diversamente nei vari gradi o fasi del processo. Si deve, quindi, evitare che la riforma Cartabia, incutendo timore tra i colleghi, induca ad un esercizio per così dire difensivo delle funzioni giurisdizionali, del quale, in definitiva, gli utenti del servizio subirebbero le conseguenze più gravi. Per quanto riguarda la scelta dei direttivi e semidirettivi, sarà necessario che il Consiglio, bandita definitivamente ogni forma di condizionamento sia esterno che interno, valorizzi l’esercizio dell’attività giurisdizionale, attribuendo rilievo marginale a titoli diversi (quali, soprattutto, le esperienze fuori ruolo, appannaggio di pochi e quasi impossibili da ottenere per la maggior parte dei magistrati). È, poi, necessario che l’individuazione, da parte del CSM, dei dirigenti degli uffici giudiziari, specie di quelli ubicati in contesti caratterizzati da una forte presenza della criminalità organizzata, avvenga in tempi rapidi, evitando che le scoperture si protraggano, come purtroppo non di rado accade, per mesi, se non per anni. Quale giudizio dà della riforma Cartabia? Sicuramente un giudizio negativo. Si pensi che la cd. separazione delle funzioni giudicanti e requirenti, che io personalmente non condivido, è stata, nei fatti, già realizzata tramite questa legge. In base ad essa, infatti, il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa potrà avvenire non più di una volta nell’arco dell’intera carriera e non oltre i dieci anni dall’assunzione delle funzioni. Allo stato, peraltro, nonostante questa norma renda, in concreto, poco agevole il passaggio da una funzione all’altra, la figura del Pubblico Ministero resta pur sempre all’interno del ruolo della magistratura. Una separazione delle carriere, che viene periodicamente richiesta da parte delle forze politiche e che ha costituito oggetto anche di una recente consultazione referendaria, potrebbe, a mio avviso, comportare il rischio di ridurre fortemente l’indipendenza del Pubblico Ministero e di assoggettarlo al controllo del potere legislativo/esecutivo. In proposito, la riforma Cartabia già introduce un vulnus significativo al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, dal momento che prevede che i Capi degli Uffici di Procura, nel predisporre il progetto organizzativo dell’Ufficio, debbano indicare, tra l’altro, secondo i criteri generali individuati dal Parlamento con legge, i criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato. Si realizza, in tal modo, una selezione delle notizie di reato da trattare con priorità rispetto ad altre, che pone non pochi dubbi di compatibilità con l’art. art. 112 Cost., a norma del quale l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio. La riforma Cartabia, inoltre, introduce il cd. fascicolo del magistrato, destinato a raccogliere le informazioni salienti ai fini della valutazione di professionalità. È importante che nell’applicare in concreto la legge, il CSM bandisca interpretazioni basate su meri dati statistici e quantitativi, essendo indispensabile far emergere e valorizzare le peculiarità delle funzioni esercitate ed il contesto lavorativo. Da questo punto di vista, appare imprescindibile l’individuazione, da parte del Consiglio, del cd. carico unico nazionale, vale a dire di un parametro numerico, calibrato sul tipo di funzione svolta (civile, penale, monocratica, collegiale, specializzata), che rappresenti lo standard produttivo esigibile da ciascun magistrato. In tal modo si potranno evitare situazioni di disparità che allo stato si registrano tra un ufficio ed un altro, essendo il carico di lavoro al momento determinato da ciascun dirigente nel programma annuale di gestione. Il ministero della Giustizia - Quali prospettive nei rapporti con il Ministro della Giustizia: massima collaborazione per rendere possibile il perseguimento del comune interesse, che è quello di coniugare la rapidità con la qualità della decisione. Il Ministero dovrà per parte sua fornire le risorse, in termini di uomini e di mezzi, necessarie per permettere il funzionamento della macchina giudiziaria. In alcuni uffici le carenze di organico, nel personale di magistratura ed in quello amministrativo, sono tali da rendere davvero arduo offrire un servizio adeguato. Attenti alla “giustizia predittiva”. L’oracolo è nodo non risposta di Vincenzo Ambriola* Avvenire, 20 agosto 2022 Le tecnologie digitali propiziano sviluppi anche ben poco convincenti Uno degli ultimi atti del governo Draghi è stato l’emanazione dello schema di decreto legislativo in attuazione della legge di riforma del codice penale (134/2021). Nella relazione illustrativa del decreto (disponibile sul sito del Ministero di Giustizia) si trovano numerosi elementi relativi all’uso delle tecnologie digitali per attuare questa importante riforma. Prendendo spunto da questi elementi è auspicabile (ri)aprire il dibattito sulla cosiddetta giustizia predittiva. In estrema sintesi e in termini molto generali, si può immaginare la giustizia predittiva come un ‘oracolo’ capace di emettere una sentenza virtuale, prevedendo la sentenza reale che sarà emessa da un giudice, al termine di un procedimento giudiziario di qualsiasi natura (penale, civile, tributaria, amministrativa). Un requisito essenziale stabilisce che l’oracolo possa accedere a tutte le informazioni disponibili al giudice stesso (atti del procedimento, giurisprudenza, massimari, sentenze emesse in precedenza). Prima di addentrarci nell’analisi di questo oracolo è bene premettere che si tratterà di un classico ‘esperimento mentale’, volto a capirne le implicazioni etiche e sociali. Come si affronta il problema della realizzazione dell’oracolo? Quali solo le finalità, la sostanza e le forme di controllo? Le finalità possono essere prese in esame da due prospettive diverse, che corrispondono grosso modo ai potenziali utenti dell’oracolo: magistratura e avvocatura. La magistratura è la componente maggiormente coinvolta, in quanto l’oracolo potrebbe affiancare, imitare e (a lungo termine) sostituire il giudice. Si può facilmente affermare che la reazione immediata, spontanea e naturale a questo scenario sarebbe fortemente negativa, supportata da rigorose considerazioni costituzionali. L’avvocatura potrebbe considerare l’uso dell’oracolo come strumentale alle sue attività giudiziarie. Avendo a disposizione il responso dell’oracolo, la difesa potrebbe elaborare una strategia diversa da quella seguita fino ad allora. Non è irragionevole pensare, inoltre, a scenari in cui la difesa può consultare ripetutamente l’oracolo, variando la documentazione da presentare nel dibattimento. Passiamo alla sostanza. Sempre in termini molto generali, l’oracolo potrebbe essere realizzato secondo tre modalità diverse: umana, artificiale, sovrannaturale. Escludendo la prima (sarebbe la mera replica di un giudice) e la terza (non avrebbe le indispensabili caratteristiche scientifiche e razionali) resta solo la seconda, che tira in ballo le tecnologie digitali. Ancora una volta l’informatica si troverebbe coinvolta nella realizzazione di un’entità che avrebbe uno sconvolgente impatto etico e sociale. Un esauriente approfondimento di questo tema è presentato nel recente saggio di Giovanni Maria e Caterina Flick (“L’algoritmo d’oro e la torre di Babele”, edito da Baldini e Castoldi). In concreto, come si può realizzare un oracolo digitale? Per prima cosa si rileva che l’oracolo non potrebbe essere ragionevolmente un’entità monolitica, ma un sistema complesso formato da un oracolo maggiore e una federazione di oracoli minori. Il primo sarebbe incaricato di scrivere la sentenza virtuale e tutti gli altri incaricati di raccogliere informazioni e metterle a disposizione, in maniera strutturata e ragionata, all’oracolo maggiore. Ricordiamoci, infatti, che l’oracolo deve emettere non solo il dispositivo della sentenza (ovvero la pena o, in generale, la decisione) ma anche, e soprattutto, le relative motivazioni. Il tutto in un linguaggio tecnico e giuridicamente ineccepibile. Passando a un ambito più concreto, si possono identificare le principali tecnologie digitali necessarie a realizzare una ‘federazione di oracoli’: banche dati marcate semanticamente, ontologie e motori di inferenza simbolica, reti neurali di diversa natura e complessità. Si tratta di tecnologie fortemente pertinenti all’Intelligenza artificiale, sia per le funzionalità di riconoscimento di schemi ricorrenti (apprendimento automatico) che per quelle di ragionamento deduttivo e abduttivo. L’ultimo aspetto da considerare è relativo al controllo: chi avrà la responsabilità di verificare la correttezza formale e sostanziale delle sentenze emesse dall’oracolo? La domanda non ha una sola risposta. Si potrebbe pensare a un meccanismo che mima ciò che accade con le sentenze reali: il ricorso a un livello più alto di giudizio, eventualmente ricorrendo a un altro oracolo. Ma così facendo ci si addentra in un mondo sconosciuto, senza più punti sicuri di riferimento. Al termine di questa analisi viene immediato chiedersi se siamo pronti a realizzare una giustizia predittiva. La risposta è negativa per molte ragioni: la quantità e la complessità delle informazioni utilizzate da un giudice per emettere una sentenza è di grandissime proporzioni. La potenza di calcolo necessaria all’oracolo per elaborare queste informazioni non è ancora tecnicamente disponibile anche tenendo conto delle promesse del calcolo quantistico. Le questioni etiche e sociali poste dalla giustizia predittiva hanno implicazioni profonde e fortemente radicate nel tempo. Tuttavia, il solo fatto che allo stato attuale le tecnologie digitali e alcuni presupposti giuridici stanno evolvendosi rapidamente (a solo titolo di esempio, la costituzione dell’Ufficio per il Processo) si rende necessario e non procrastinabile un dibattito sereno e approfondito. Nel film ‘Minority Report’, tratto da un racconto di Philip K. Dick e diretto da Steven Spielberg, la giustizia da predittiva diventa ‘preventiva’, sfruttando doti sovrannaturali di persone speciali. Un passaggio, totalmente fantascientifico, che non dovrà mai comparire nell’agenda politica della nostra società. *Direttore del Dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa Lombardia. Suicidi in carcere, la Regione coinvolge i medici specializzandi nella prevenzione malpensa24.it, 20 agosto 2022 Regione Lombardia ha aggiornato il piano per la prevenzione del rischio suicidi nelle carceri: il nuovo documento è stato elaborato da un gruppo di lavoro costituito da rappresentanti delle aree sanitaria e penitenziaria. L’obiettivo è fornire linee di indirizzo comuni affinché ogni istituto penitenziario intraprenda azioni più efficaci per la presa in carico dei detenuti con problemi di disagio psichico. Pene rese più dure dalle restrizioni per il Covid - L’aggiornamento del piano si è reso necessario anche a seguito dell’emergenza Covid in ambito penitenziario a causa delle restrizioni adottate per i contatti dei detenuti con l’esterno, elementi che hanno reso più dure le condizioni di pena. Un quadro difficile che, tra le sue conseguenze, ha provocato anche un aumento del tasso di suicidi in carcere, come rilevato dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Una rete di attenzione per rilevare segnali di disagio - “Un argomento da affrontare con molta attenzione - ha evidenziato oggi, venerdì 19 agosto, la vicepresidente e assessore al Welfare di Regione Lombardia - e, proprio per questo, è necessario discuterne. Un percorso potrebbe consistere nel coinvolgimento degli attori del sistema penitenziario e sanitario, detenuti compresi, attivando una rete di attenzione per rilevare eventuali segnali di disagio e sofferenza emotiva correlabili ad un rischio di suicidi. E come altri ambiti hanno dimostrato, la prevenzione diventa fondamentale”. La difficoltà di reperire personale sanitario - “Anche le carceri, così come gli altri ambiti sanitari - ha aggiunto la vicepresidente - risentono della difficoltà di reperire personale sanitario. Per questo il percorso intende prevedere il coinvolgimento di medici specializzandi, così come avviene nei Pronto Soccorso”. Il piano regionale del rischio suicidi dovrà essere trasmesso alle varie articolazioni territoriali, sanitarie e penitenziarie per definire in modo congiunto, in ogni carcere, un “piano locale di prevenzione”. Calabria. Mancuso: “Presto si insedierà il Garante regionale dei diritti per i detenuti” reggiotoday.it, 20 agosto 2022 Il presidente del Consiglio regionale: “Chiederò di approntare una relazione sulle condizioni del pianeta carceri calabrese”. “Il Consiglio - annuncia il presidente del Consiglio regionale Filippo Mancuso -, subito dopo il voto del 25 settembre, insedierà il ‘Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale’, a cui chiederà di approntare una relazione sulle condizioni del pianeta carceri calabrese. Una base di dati, questioni e vicende, problemi vecchi e nuovi che ci consentirà di avere il quadro aggiornato delle condizioni dei detenuti nei dodici istituti calabresi e dei problemi della Polizia Penitenziaria, con l’obiettivo di contribuire alla loro soluzione e a rendere meno evanescente il principio costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato ed al suo successivo reinserimento nella società”. Aggiunge il presidente del Consiglio regionale: “Dalla prima relazione sulle carceri calabrese, dedicata alla governatrice Jole Santelli prematuramente scomparsa e rassegnata nel 2020 dall’allora Garante avv. Siviglia, si evince che le carceri calabresi, nonostante le molte disfunzioni, sono riuscite a reggere all’urto dell’emergenza Coronavirus. La relazione ha evidenziato come i due terzi dei detenuti in Calabria non siano mafiosi: molto spesso si tratta di giovani, di donne, stranieri, tossicodipendenti, autori di reati contro il patrimonio oppure con problemi psichici. Il sistema si mantiene al limite della capienza e ha necessità di interventi strutturali e anche di rafforzamento del corpo di Polizia Penitenziaria, come lo stesso capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) aveva annunciato”. Conclude Mancuso: “Sulle annose criticità, riferite all’assistenza sanitaria ed al sovraffollamento che genera effetti negativi sul fronte trattamentale, ma anche in riferimento alla nota e più volte segnalata carenza di personale di Polizia Penitenziaria, giuridico-pedagogico, sanitario e infermieristico, Governo e Parlamento debbono incominciare a dare segnali risolutivi”. Modena. Rivolta al Sant’Anna, la Commissione ministeriale non esclude violenze da parte degli agenti di Giulia Parmiggiani Tagliati modenatoday.it, 20 agosto 2022 Le cause scatenanti delle rivolte, il costo della ricostruzione, le indagini ancora in corso: ecco quanto emerso dalla relazione della Commissione ispettiva del Dap sulle rivolte nelle carceri italiane. Nel luglio scorso è stata costituita dal DAP - il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, una Commissione ispettiva che avrebbe dovuto far luce sull’escalation di violenza verificatasi nei primi mesi del 2020 in diverse carceri italiane, tra cui la Casa Circondariale Sant’Anna di Modena. Secondo il provvedimento istitutivo della Commissione, la stessa aveva il compito di indagare non solo sulle motivazioni all’origine delle rivolte, ma anche “sui comportamenti adottati dagli operatori per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime poste in essere”. La capacità della Commissione di esperire quest’ultimo compito con doverosa imparzialità era stata messa in dubbio da più fronti alla luce della composizione “interna”, che - seppur di indubbia professionalità - rimaneva priva di personalità super partes. Ad attenuare le perplessità sorte “in casa” sul fatto che chi fosse stato responsabile del trasferimento dei detenuti dopo la rivolta potesse indagare sulla rivolta stessa, ci ha pensato la suddivisione adottata in sede di lavori: del Carcere di Modena infatti, si sono occupati la Dott.ssa Francesca Romana Valenzi (dirigente Ufficio detenuti e trattamento del ministero di Giustizia) e il Dott. Paolo Teducci (sostituto del comandante del Carcere di Lecce Riccardo Secci) con la collaborazione del Dott. Luigi Ardini (comandante del carcere romano di Rebibbia) e la supervisione del Presidente della Commissione Sergio Lari, ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta. Le presunte violenze dopo la rivolta - Relativamente al comportamento tenuto dagli agenti di Polizia Penitenziaria nel corso (o meglio, al termine) delle rivolte dell’8 marzo 2020 - su cui, ricordiamo, è in corso una complessa inchiesta da parte della Procura di Modena, che vede iscritti nel registro degli indagati per reati di lesioni aggravate e tortura, almeno quattro agenti della polizia penitenziaria - i commissari, senza sbilanciarsi, affermano qualcosa di molto importante: che nessuna ipotesi può essere esclusa. Si legge infatti che “sono residuati dubbi di non poco momento per quanto riguarda l’ipotesi che da parte della Polizia Penitenziaria possano esservi state violenze in particolare ai danni di un gruppo di detenuti nella fase prodromica al trasferimento in altri istituti”. Ipotesi che, se confermata, collimerebbe con le dichiarazioni rilasciate da un agente al giornalista de Il Domani Nello Trocchia, secondo cui “una volta portati fuori alcuni carcerati, resi precedentemente inoffensivi, sono stati picchiati da alcuni colleghi”, proprio prima che fossero trasferiti in altri istituti. Mancando però testimonianze certe, ed in assenza di una risposta dalla Procura di Modena a fronte della richiesta di filmati prodotti da Polizia di Stato e Polizia Penitenziaria, la Commissione si dice “non in grado di esprimere un’autonoma valutazione su quanto accaduto”. Nella relazione della Commissione, è ribadito più volte che per esprimersi sulle presunte brutalità non si possa prescindere da una verifica giudiziale, eppure altrettante volte è fatto richiamo all’impossibilità di escludere l’eventualità violenta: “il giudizio ampiamente positivo sul comportamento tenuto dal personale penitenziario merita, tuttavia, di essere sospeso in attesa che il quadro probatorio si chiarisca con riferimento alla rivolta verificatasi presso la Casa Circondariale di Modena”. Le ragioni delle sommosse - Ma le ipotesi relative alle violenze che alcuni detenuti avrebbero subito prima di essere trasferiti in altre carceri, non sarebbero l’unico elemento di novità emerso dalla relazione. È doveroso ricordare, che il trasferimento dei detenuti presso altri istituti penitenziari era stato reso necessario dalla totale devastazione della Casa Circondariale Sant’Anna in seguito all’insurrezione: danni che, secondo quanto calcolato dai commissari, ammonterebbero ad 1.693.954,23 euro. Oltre un milione e mezzo di euro per riparare il disastro attribuito (com’era stato ipotizzato in prima battuta) all’esplosione di un malcontento generalizzato e radicato, riconducibile al sovraffollamento (stimato del 52%), alle ulteriori restrizioni imposte dall’avanzare della pandemia ed al timore di contrarre il virus. Si legge infatti che “è da escludersi che vi sia stata regia esterna, in specie da parte della criminalità organizzata, che abbia in qualche modo guidato i rivoltosi”; congettura iniziale pian piano dimenticata che voleva dare una spiegazione alla velocità con cui i rivoltosi si erano organizzati tra diverse sezioni dello stesso carcere ed addirittura carceri diversi. È bene ricordare infatti che il lavoro della Commissione non ha riguardato solo i fatti del Sant’Anna - sebbene chi scrive vi si stia concentrando - bensì, ha preso in esame 22 istituti penitenziari, in ognuno dei quali, a cavallo dell’episodio modenese, si sono verificati episodi rivoltosi di non poco conto. Modena. Veleni nel carcere della morte. Le agenti: “Vertici sessisti” di Nello Trocchia Il Domani, 20 agosto 2022 Due poliziotte hanno denunciato il comandante: “Avance e battute pesanti anche durante gli scontri”. Pellegrino nega ogni addebito. Nonostante l’incompatibilità le donne non sono state trasferite per mesi. Dopo l’8 marzo 2020, dopo i nove morti per overdose mentre i detenuti erano sotto la tutela dello stato, dopo la distruzione del carcere, l’abbandono, la trattativa con i reclusi, il ministero non ha assunto provvedimenti. Il comandante della polizia penitenziaria del carcere Sant’Anna è rimasto al suo posto. Mauro Pellegrino, per molti agenti, ha affrontato con professionalità quella situazione e nessuno avrebbe potuto fare meglio di fronte alla rivolta violenta scatenatasi in carcere. Le relazioni di Mauro Pellegrino sostanziano il lavoro della procura. I magistrati hanno aperto tre fascicoli, chiesto e ottenuto l’archiviazione per i nove morti, mentre indagano, da oltre due anni, sul saccheggio e sulle torture in due fascicoli separati. Ma proprio dall’8 marzo nel carcere di Modena i veleni si sommano alla conta dei danni. Veleni che riempiono pile di carte che Domani ha letto. F.C. e A.M. sono due donne, agenti della polizia penitenziaria, in forza a quel carcere. Quel giorno non erano in servizio, ma per senso di responsabilità rientrarono per fornire supporto alle colleghe e ai colleghi. Nei loro fascicoli personali non c’è traccia di sanzioni o rimproveri, ma le due agenti non lavorano più al carcere di Modena. Sono state trasferite dopo lettere e sollecitazioni anche al ministero. Perché sono andate via? Perché hanno presentato una denuncia contro il comandante Mauro Pellegrino perché le avrebbe insolentito con battute spinte e doppi sensi. Chiariamo subito che Pellegrino respinge tutte le accuse, “c’è un accertamento in corso in procura”, dice e che queste accuse devono essere interamente dimostrate. Ma le ha denunciate per calunnia? “No, mi riservo di farlo”, dice Pellegrino. Il comandante è rimasto al suo posto e le agenti per evitare di incontrarlo hanno chiesto all’amministrazione, ripetutamente, di essere trasferite. La denuncia è del gennaio 2021, viene informato anche il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma il trasferimento viene notificato nel marzo 2022, un mese prima avevano inviato una nota alla ministra Cartabia. Nel maggio 2021 sarebbero dovuto tornare a lavorare proprio a Modena pur persistendo “motivi di incompatibilità”, si legge in una lettera inviata, in quei giorni, alla direzione del carcere. L’unica cosa che accade è lo sfratto esecutivo di una delle denuncianti dall’alloggio di servizio. Trattasi di atto dovuto per l’amministrazione, A.M. lo ritiene per tempistica e modalità una reazione scomposta alla denuncia presentata contro il comandante. Un mese dopo, nel giugno 2021, inviano una lettera alla ministra della Giustizia Marta Cartabia per informarla della situazione. Sono i giorni dello scandalo Santa Maria Capua Vetere e della pubblicazione dei video dei pestaggi da parte di questo giornale. A luglio arriva il distacco dalla sede di Modena di una delle due agenti. Le agenti, scosse e segnate anche psicologicamente dai fatti dell’8 marzo, lamentano una situazione insostenibile, una mancata protezione, auspicavano provvedimenti più celeri. La separazione tra denunciato e denuncianti, in questi casi, dovrebbe essere immediata, indipendentemente dall’esito della denuncia. Non è stato così. Una vicenda che ha portato all’apertura di un fascicolo, le agenti risultano parti offese in un procedimento per abuso d’ufficio pendente sempre presso la procura di Modena. Potrebbe finire in un nulla di fatto e le accuse rivelarsi totalmente infondate, ma quello che è certo è che questa storia racconta i veleni nel carcere, lo stesso della rivolta e del saccheggio, e l’inerzia dell’amministrazione che non interviene né dopo la distruzione dell’istituto e neanche quando è venuto a conoscenza di questo nuovo capitolo del disastro Modena. “Al momento non abbiamo ricevuto alcuna contestazione formale, il comandante Pellegrino è a conoscenza dell’apertura di un procedimento da parte della procura, ma nulla possiamo dire visto che non conosciamo quali sono le accuse e così non possiamo procedere neanche all’eventuale denuncia per calunnia”, dice l’avvocato Paolo Petrella del foro di Modena che difende il comandante. Lo sfratto e il prestito - Un capitolo che si riempie di ulteriori episodi occorsi ai denuncianti come lo sfratto esecutivo dall’alloggio di servizio, che prescinde dalla volontà del comandante, ma anche le dichiarazioni mendaci in una pratica di finanziamento richiesto dal compagno di A.M. Anche in questo caso è stato aperto un fascicolo in procura dopo la denuncia presentata da A.C. Cosa succede? L’agente chiede un prestito dopo lo sfratto della compagna, una delle agenti che hanno presentato la denuncia contro il comandante. Negli allegati provenienti dalla direzione del carcere, uffici non di competenza di Pellegrino, c’è un documento relativo ai procedimenti del richiedente dove compare un procedimento penale a suo carico in fase dibattimentale. Una dichiarazione mendace perché A.C. non aveva e non ha alcun procedimento a carico, ma è parte offesa in un processo. Una dichiarazione che viene corretta successivamente e, a distanza di mesi, l’agente riceve il prestito. C’è anche un rapporto disciplinare, nelle settimane delle presunte avances rifiutate, emesso da Mauro Pellegrino a carico dell’agente denunciante, il 13 ottobre 2020, e archiviato dalla direttrice Maria Martone pochi giorni dopo. “Quel rapporto non è collegato ai fatti, è precedente alla loro denuncia”, dice Pellegrino. Il racconto delle agenti - Ma cosa avrebbero subito le agenti? Racconti contenuti in una denuncia presentata alla procura della repubblica di Modena, alle psichiatre che hanno seguito le due donne e riferita anche alla commissione ministeriale arrivata a maggio 2021 in carcere. “In questo disastro, almeno una cosa bella l’ho vista! Il suo fondoschiena nel ‘pantalone bianco che indossa è la cosa più bella della giornata’”, avrebbe detto Pellegrino che aveva raggiunto in portineria una delle agenti denuncianti intente a smistare le telefonate. Frase che sarebbe stata pronunciata l’8 marzo, proprio quel giorno mentre il carcere prendeva fuoco, quando la polizia penitenziaria ha abbandonato l’istituto in fiamme e poi il comandante ha affidato ai detenuti il salvataggio di colleghi, infermieri e personale intrappolato. Ricordiamo che quel giorno ha dovuto affrontare una situazione senza precedenti. La denuncia delle agenti è molto più circostanziata e dettagliata, riferisce di fatti successivi, nuove richieste, avances nei confronti anche dell’altra agente, F.D., agente che ha sempre avuto una stima incondizionata nei confronti di quel comandante. Ma presto cambia tutto con le presunte battute a doppio senso e le richieste esplicite di natura sessuale. La denuncia si compone di allegati e ulteriori elementi, ma Pellegrino nega tutto e al momento la denuncia non ha avuto sviluppi. Ma il ministero è al corrente di questa storia, perché Pellegrino è rimasto al suo posto? “I vertici del Dap (già dalla precedente gestione di Bernardo Petrialia) chiesero di svolgere accertamenti a seguito della denuncia; non fu riscontrato nulla. Poi tutto è stato girato alla Procura”, fanno sapere dal ministero della Giustizia. I veleni nel carcere di Sant’Anna si aggiungono al sovraffollamento, alla carenza di personale, al saccheggio, ai morti e completano il disastro di un istituto di pena abbandonato, così come reclusi e agenti, al proprio destino. Monza. In carcere servono dentisti: l’appello per la ricerca di professionisti monzatoday.it, 20 agosto 2022 “Sei mesi di attesa per la prima visita: non è accettabile” dichiara il consigliere comunale Paolo Piffer. “Nel carcere di Monza servono dentisti. Troppi sei mesi di attesa per una visita”. L’appello arriva dal consigliere comunale Paolo Piffer (Civicamente) che alcuni giorni fa è andato in visita nella casa circondariale di Sanquirico raccogliendo le testimonianze (e le esigenze) di detenuti e lavoratori. Tra le tante problematiche emerse all’interno di quello che è uno dei carceri più affollati d’Italia c’è anche quello delle cure dentarie. “In carcere c’è una sala attrezzata - spiega Piffer -. Ma i due professionisti che ad oggi collaborano con il carcere non sono sufficienti”. Sono tanti i detenuti che hanno bisogno di cure odontoiatriche. Spesso persone con problemi di dipendenza dove gli abusi hanno creato dei seri problemi a denti e bocca. “Ma per la prima visita dal dentista bisogna aspettare almeno sei mesi”, aggiunge. Da qui l’appello del consigliere comunale ai professionisti di Monza e della Brianza che desiderano mettersi a disposizione. “Chi è interessato può rivolgersi direttamente alla casa circondariale di Sanquirico, oppure inviare un’email a ppiffer@comune.monza.it. Il carcere è parte integrante della città e la politica locale non può far finta di nulla scaricando ogni responsabilità sulle istituzioni. Anche il comune deve fare la sua parte” conclude. Durante la sua visita in carcere Piffer, accompagnato per l’occasione dall’avvocato Simona Giannetti (penalista radicale e consigliere generale del Partito radicale), ha esposto la proposta di realizzare (anche all’interno della casa circondariale di Monza) la stanza dell’amore e di permettere ai detenuti di telefonare - ogni volta che ne hanno bisogno - ai familiari e amici individuati nella stretta cerchia di persone selezionate. Livorno. Le Sughere verso il raddoppio, i detenuti saranno 500 di Franco Marianelli Il Tirreno, 20 agosto 2022 Viaggio in carcere, dal grattacielo di 9 piani destinato alle guardie (e disabitato) al padiglione centrale super blindato che ospita 130 reclusi ritenuti pericolosi. Il confine tra la libertà e il venir meno di essa sta tutto nel deng metallico della porta automatica azionata dall’agente nella guardiola: stiamo entrando dalla zona civile delle Sughere in quella realmente carceraria accompagnati nei “gironi” della struttura da un Virgilio con le mostrine da comandante delle guardie: Marco Garghella, da sei anni a Livorno. Ci raggiunge Marcella Gori, responsabile dell’attività trattamentale dei detenuti. Paradossalmente ci accoglie subito un immagine di libertà:nel campo di calcio (“appena rifatto” specifica Gori) una decina di detenuti stanno facendo footing e dando calci a un pallone. Sport e studio - Nelle 24 ore di un “ospite” delle Sughere la detenzione in cella è ridotta al minimo: “Al mattino non c’è una vera e propria sveglia, se non per coloro che sono adibiti ai servizi (pulizie, etc…), che si alzano intorno alle 7. Poi la colazione in cella e quindi le varie attività, - spiega Gori - non ultime quelle di studio. A metà giugno abbiamo fatto gli esami di terza media, poi le maturità e abbiamo 23 iscritti a corsi universitari. E poi corsi di musica, di teatro, abbiamo costruito violini, etc... Abbiamo infine la squadra di calcio e di rugby, si chiama Le Pecore Nere”. La riabilitazione - “Attività ricreative a parte - prosegue Gori - poi pensiamo alle cose che tendono a ricostruire una nuova personalità come il corso “Liberi dentro”, grazie agli operatori dell’Associazione “Lui Uomini Maltrattati” che a dispetto del nome è rivolto a chi è dentro per violenze sulle donne”. I detenuti partecipano di buon grado? “Quelli che vogliono cambiare vita sì, gli altri no”, è la lineare risposta della dirigente. Le Sughere si allargano - Il carcere livornese ha una cinta muraria di circa un chilometro e ancor prima di entrare si notano le due grandi gru lato monte. “Stanno costruendo i due nuovi reparti - spiega Garghella - che dovranno esser probabilmente destinati ai detenuti comuni, non sappiamo ancora se fra questi ci sarà anche il reparto femminile”. Con l’inaugurazione di due nuovi reparti il carcere potrà ospitare ulteriori 250 detenuti. Di fatto sarà un raddoppio del numero attuale. Il grattacielo vuoto - Chi dall’esterno percorrendo la Variante guardi da sempre verso il carcere sappia che dal “grattacielo” di nove piani che emerge dalla struttura mai vedrà calarsi detenuti con la corda in quanto la struttura sarebbe destinata agli appartamenti delle guardie. Sarebbe (e non è), perché il palazzo è in via di rifacimento. Solo il piano terra è adibito a mensa. 130 soggetti pericolosi - Nel centro della struttura carceraria c’è il blindatissimo reparto a cinque piani dove sono ospitati i detenuti ad alto rischio. “Sono circa 130 - spiega Garghella - quasi tutti italiani”. I detenuti comuni invece sono circa 120 di cui la metà italiani. “Le nazionalità degli stranieri sono nordafricane, rumene, albanesi con una preoccupante recente presenza di georgiani”, aggiunge il comandante della penitenziaria livornese. Due detenuti in 12 metri - E le celle? È una domanda a cui può rispondere bene Carlo Mazzerbo, direttore delle Sughere fino a poche settimane fa prima del pensionamento, con un’esperienza quarantennale in gran parte passata tra Sughere e Gorgona: “Noi rispettiamo le direttive europee: dodici metri quadrati per due persone, quindici per tre”. C’è un certo orgoglio nelle sue parole, perché è raro, anche in carceri vicini, che succeda... I casi psichiatrici tra i comuni - Dentro le celle oltre ai posti letto, mini servizi igienici e armadietti. Ci ospita nella propria cella un ragazzo con evidenti problemi psichiatrici in attesa nella mattina stessa di una valutazione del giudice per i domiciliari o la permanenza in carcere. Prima di entrare Garghella ci parla del problema relativo ai detenuti psichiatrici: “Non dovrebbero stare qui ma in luoghi dove possano essere curati. Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari questi casi li dobbiamo gestire noi con tutte le difficoltà che ne derivano”. Il ragazzo si presenta: “Mi chiamo Eugenio” - La cella è singola come quelle riservate ai detenuti in transito per vari motivi. “Eugenio è un accumulatore seriale”, scherza un agente riferendosi alla quantità di cose che ci sono dentro il locale. “Eugenio, posso chiederti perché sei qui?”. “Famiglia” risponde sintetico senza aggiungere altro. Poi sapremo che faceva riferimento ad episodi di violenza verso i familiari. Vis a vis, ma anche in video - Rivoluzionaria è stata nelle carceri italiane e quindi anche alle Sughere l’ingresso della videoconferenza. Molte sono in corso proprio durante il nostro viaggio. “Si usano - spiega Gori - sia per i processi ai quali i detenuti possono assistere da remoto, sia per i colloqui con gli avvocati, sia per quelli coi familiari”. Ma non sostituiscono i colloqui vis a vis. “Tuttavia spesso i familiari abitano a centinaia di chilometri e quindi attraverso lo strumento telematico li facilitamo”. Ogni settimana, spiegano i dirigenti delle Sughere, sono permessi due, anche tre colloqui, sia tramite schermo, sia di persona e da un po’ di tempo sono allargati oltre alla ristretta cerchia dei familiari. “Con il permesso per del direttore però”. Nel cortile c’è un gazebo all’ombra: serve per i ricevimenti. Ci sono anche i giochi per i bambini al seguito dei parenti in visita. Le agenti donne - Basta mezz’ora per notare la presenza di molte agenti donne. E viene da chiedere se questo non rappresenti un potenziale problema nei rapporti con i detenuti. “Nel servizio diretto con i detenuti vi sono solo uomini oppure donne con un grado elevato”, risponde il comandante Garghella. Come dicevamo, sul tavolo c’è l’ipotesi della riapertura dell’ala femminile. Lo conferma Marco Solimano, garante dei detenuti: “Mi sto impegnando soprattutto nel far sì che, con la costruzione dei due nuovi reparti, sia ripristinato il settore femminile”. “La città inizi a prepararsi” - Non è l’unico obiettivo del garante. “È necessario che con questi lavori si superi pure la fatiscenza di alcune zone dell’ala in cui è ospitata la media intensità e soprattutto che, con il raddoppio dei detenuti che si trasferiranno a Livorno, la nostra città si prepari all’evento visto che tutto ciò potrà contribuire a far crescere un notevole indotto esterno”. Preoccupazioni analoghe messe nero su bianco anche a suo tempo da Giovanni De Peppo, ex garante che sottolineava la necessità di avere locali per la socializzazione non fatiscenti, la manutenzione agli alloggi delle guardie e, non ultimo, una fermata dell’autobus alle Sughere. Gli occhi di Chafik - Durante il nostro viaggio incrociamo un ragazzo che fa le pulizie. Si chiama Chafik, è marocchino ma parla pratese. Sta scontando una pena per rapina. “Faccio l’università, studio Economia aziendale - racconta -. Ho voglia di rifarmi una vita quando uscirò da qui”. Probabilmente è una frase che diranno in molti qua dentro, ma lui ha la luce negli occhi quando parla del futuro senza questa tuta color arancione che ricorda tanto quelle di molte serie Tv. E sembra davvero uno di quelli che il deng lo risentiranno uscendo per l’ultima volta. Ravenna. “Domani faccio la brava, Madri nelle carceri italiane”, mostra di Giampiero Corelli ravennawebtv.it, 20 agosto 2022 Dal 2 al 18 settembre gli spazi Palazzo Rasponi dalle Teste ospitano “Domani faccio la brava. Madri nelle carceri italiane”, una mostra del fotoreporter ravennate Giampiero Corelli. Il percorso espositivo raccoglie 45 immagini che fanno parte di un lavoro di fotoreportage realizzato da Corelli in numerose carceri italiane dal 2008 a oggi. Un progetto focalizzato sulle sezioni e carceri femminili per cogliere la vita delle donne detenute, ma anche delle addette di polizia penitenziaria e delle dirigenti. Le donne colte dallo sguardo del fotografo sono spesso anche madri, che hanno voluto essere protagoniste degli scatti per dare una testimonianza forte della loro vita da recluse. La mostra è organizzata anche in collaborazione con la Sartoria Sociale e Sostenibile Palingen, presente all’interno del carcere femminile di Pozzuoli, con l’obiettivo di dare una seconda possibilità a donne in difficoltà e recuperare tessuti altrimenti destinati allo scarto. La diversità in politica rappresenta un arricchimento di Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà Corriere della Sera, 20 agosto 2022 Le forze politiche devono farsi carico del rapporto con la società civile e della responsabilità anche nella formazione e selezione della loro classe dirigente. Pubblichiamo un intervento dell’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà, nato per unire oltre 200 tra deputati e senatori di tutti gli schieramenti politici. È firmato dal Presidente Maurizio Lupi e dai parlamentari Fabio Rampelli, Ettore Rosato, Valentina Aprea, Maria Teresa Bellucci, Caterina Biti, Maria Elena Boschi, Annagrazia Calabria, Alessandro Cattaneo, Alessandro Colucci, Graziano Delrio, Paola Frassinetti, Maria Chiara Gadda, Paolo Lattanzio, Stefano Lepri, Luigi Marattin, Fabio Melilli, Marco Osnato, Antonio Palmieri, Massimiliano Romeo, Gabriele Toccafondi Dopo 17 mesi si è conclusa l’esperienza del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, e questo ha sancito la conseguente fine della legislatura. C’è dibattito sulla natura dell’esecutivo Draghi, è difficile definirlo semplicemente un governo “tecnico”, per via del ruolo “politico” che vi hanno ricoperto la maggior parte dei partiti. L’esperienza del governo Draghi e le discussioni intorno alla sua natura pongono quindi una domanda a chi, come noi, fa politica: la diversità divide o arricchisce? Quando la diversità è semplicemente eterogeneità senza forza e consistenza non è un valore, lo dimostra il fatto che la maggior parte dei governi della Seconda Repubblica sono caduti non perché ha prevalso l’opposizione, ma perché si sono sfaldate le coalizioni che li sostenevano. Una delle cause di questa fragilità sistemica è la rarefazione dei rapporti tra partiti e realtà sociali collettive, che erano la linfa vitale dei partiti stessi. L’allontanamento dei corpi intermedi dagli ideali che li avevano generati ha, inoltre, indebolito la capacità di rappresentare le istanze dei cittadini. La bassissima partecipazione popolare alle ultime amministrative è un sintomo di questa fragilità. I partiti, pena un ulteriore decadimento, devono recuperare una forza ideale e una presenza sul territorio capace di promuovere lo sviluppo dell’Italia e attuare le sempre più necessarie riforme strutturali. D’altro canto, anche le articolazioni sociali sono chiamate a riavvicinarsi ai partiti per arricchire la rappresentanza degli interessi e conferirle autorevolezza nei contenuti e stabilità nel tempo. Ma non basta. Perché la diversità in politica torni a essere un valore occorre recuperare il sempre più oscurato, negli ultimi anni, potere legislativo, che si concretizza nel ruolo del Parlamento. Qui è possibile la collaborazione e il confronto tra forze idealmente e culturalmente diverse, ingrediente fondamentale della democrazia costituzionale. Lo ricordava il presidente della Consulta Giuliano Amato proprio a un seminario dell’Intergruppo per la sussidiarietà, parlando di quello spirito che “determinava condizioni in cui era possibile trovare intese anche tra partiti che allora si opponevano in termini di sistema. E dove avveniva questo incontro? In Parlamento”. È in Parlamento che forze diverse e persino opposte hanno dato vita a leggi dal contenuto convergente, soprattutto attraverso l’oscuro ma prezioso lavoro delle commissioni e la ricerca di compromessi virtuosi per il bene comune. Così si esercita il potere legislativo, e si completa il lavoro del potere esecutivo. La vita sociale ed economica degli Italiani è stata resa più ricca dal prezioso lavoro di deputati e senatori (di maggioranza o di opposizione) che, avendo un rapporto reale con il territorio e con i corpi sociali, hanno difeso e promosso istanze e interessi reali e legittimi, dando vita - grazie a un confronto franco e talvolta persino duro - a leggi di alto profilo. Nei quasi vent’anni dalla fondazione dell’Intergruppo (nacque nel 2003), anche grazie al supporto della segreteria scientifica della Fondazione per la Sussidiarietà e di PwC Italia, ci siamo occupati spesso di “politiche”: dalla scuola all’impresa, dal lavoro alla solidarietà, dal regionalismo alla riforma costituzionale. Soprattutto però, si è riflettuto in termini teorici e operato concretamente per promuovere una democrazia in cui la collaborazione fra partiti diversi contribuisse a realizzare il senso dell’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Alla fine di questa legislatura lanciamo un appello perché in Italia si torni a “fare politica”, ripensando il nesso dei partiti con la società civile e il ruolo del Parlamento. Riteniamo che le forze politiche debbano farsi carico della loro grave responsabilità, anche nella formazione e selezione della loro classe dirigente. E che i corpi intermedi possano tornare a guardare ai partiti come il luogo della vita della democrazia. Se si riuscirà a ricostruire un ponte, allora l’articolo 49 potrà trovare piena attuazione, a beneficio di tutti. Che cosa sia un partito, che cosa lo qualifichi come soggetto democratico, non solo esternamente nei confronti delle istituzioni ma anche internamente nel rispetto della libertà dei cittadini che a esso si associano, non abbiamo mai voluto definirlo fino in fondo. Forse è ora di ricominciare a parlarne. Non che basti una legge, non “sogniamo sistemi talmente perfetti da rendere inutile all’uomo di essere buono” - come dice il mai abbastanza citato T. S. Eliot - ma riteniamo che sia venuto il tempo in cui questa riflessione e il conseguente cambiamento debbano trovare uno spazio adeguato. Chico Forti: “Da vent’anni in un carcere americano, sopravvivo perché credo alla giustizia” di Francesco Semprini La Stampa, 20 agosto 2022 Condannato per omicidio in via definitiva nel 2000, la pratica per l’estradizione in Italia è ferma da 18 mesi: “Sono innocente, confido nelle promesse di Di Maio e Cartabia”. L’avvocato: “La sua forza si sta assottigliando”. “Nonostante le piogge gelate e i portoni sbattuti in faccia, io confido nei ministri Luigi di Maio e Marta Cartabia, nel loro impegno, nelle loro promesse. Perché un uomo o una donna senza parola non possono camminare a testa alta”. Percorrendo le tortuose vie della burocrazia penitenziaria riusciamo a metterci in contatto con Chico Forti tramite i suoi legali. Forti è attualmente impegnato in un programma per detenuti meritevoli di addestramento di “cani difficili” destinati a impieghi socialmente utili o all’adozione. “Spesso riscopro me stesso in Chutney, il mio golden retriever. Nel suo viaggio sulle montagne russe, con alti e bassi, piroette incluse - racconta. Chutney è passato da candidato all’eutanasia, al cane più amato, re indiscusso di questa intera colonia penale. A breve Chutney mi lascerà, avendo terminato uno degli ultimi stage d’addestramento. Ironicamente la sua nuova libertà sarà confinata in un miniappartamento, probabilmente senza giardino, dove inizierà, o meglio, proseguirà, la sua carriera d’assistenza sociale”. Per Chico Forti un distacco difficile che rende ancora più amara l’infinita attesa del ritorno in Italia. Nel febbraio 1998 inizia l’incubo senza fine di Enrico Forti, conosciuto come Chico, quando viene accusato dell’omicidio di Dale Pike a Miami. Nel giugno del 2000 il produttore televisivo e velista viene condannato all’ergastolo in via definitiva senza nessun possibile beneficio perché, secondo l’accusa, Forti sarebbe stato complice di un complotto pianificato per eliminare la vittima. Lui si è sempre dichiarato innocente e numerosi indizi a suo carico si sono rivelati nel corso degli anni infondati. Per cinque volte la famiglia e gli amici hanno cercato di far riaprire il caso nello Stato della Florida, senza successo. Da un paio di anni sono in corso iniziative per ottenere almeno il trasferimento in un carcere italiano. Il 23 dicembre 2020 il governatore della Florida Ron De Santis, grazie all’interessamento del ministro degli Esteri Luigi D Maio e a quello della Farnesina, aveva firmato l’atto per il trasferimento di Chico Forti in Italia secondo la convenzione di Strasburgo del 1983. La pratica, per diversi impedimenti burocratici non si è ancora finalizzata e dopo un anno e otto mesi Chico Forti rimane in carcere negli Usa. Lo scorso 8 febbraio Forti ha compiuto 63 anni, più di un terzo li ha trascorsi in diversi penitenziari degli Stati Uniti. “L’espressione “solo come un cane” è agli antipodi della realtà, essendo il cane il più socievole degli animali - dice Forti -. Un animale può sopravvivere solitario, ma non lo fa per scelta. Io e Chutney non siamo soli”. Alla madre di tutte le domande “come sei riuscito a resistere a testa alta per oltre due decadi in un inferno?”, mostra disarmante perentorietà: “La mia risposta è sempre la stessa, sopravvivo ritrovando me stesso, mantenendo i miei principi, la mia integrità, confidando nella giustizia suprema e nei milioni di italiani che mi sono vicini. Oltre alla solidarietà di una Nazione, ho ricevuto il dono delle visite, cito tra le più recenti la famiglia Bocelli, Andrea, Veronica, Matteo e Virginia, e ancora Marco Mazzoli (veterano dello “Zoo di 105”) assieme alla moglie Stefania che con i loro j’accuse a squarciagola, hanno creato con Jo Squillo la vera “pen-isola dei famosi”. Uomini e donne che spogliati della fama da Vip, senza richieste di trattamento reverenziale, stoicamente hanno sopportato ore d’attesa, fastidiose perquisizioni, e razioni militari, per riuscire ad abbracciarmi. Ambasciatori di un popolo che non mi ha mai abbandonato, politici inclusi”. Per il tenore Chico ha scritto una “poesia/canzone”: “Noi che non siamo soli”. “Noi che non siamo soli, crediamo in un mondo migliore, anche rinchiusi in una grotta, con l’entrata celata, vediamo il tramonto che non c’è. L’alba sostituisce la notte gelata”, recita la prima strofa. “Contiene liriche che mettono a nudo le mie condizioni, le mie emozioni - dice -. Andrea, con le sue cinque visite in cinque mesi, mi ha ricordato quanto io solo non lo sia mai stato”. “Chico è una forza della natura, vive e sopravvive perché ha una grande fiducia nel governo e nella giustizia, ma ultimamente inizia ad accusare”, spiega Marco Mazzoli che Forti lo ha visto l’ultima volta ai primi di agosto e lo sente di frequente al telefono. “Chico vede che la situazione si è arenata, se lui molla il colpo, se si lascia andare è finita. Vive in una struttura detentiva di transito, condivide una camerata con 40 persone e due cani, si è legato molto ai Bocelli che si sono dimostrati persone straordinarie. Ma temo che questa sua forza si stia pian piano assottigliando, sino a diventare una patina sottile. Temo che questa vicenda abbia una connotazione politica, nei cui meccanismi Chico è rimasto incastrato”. A dare una lettura in questo senso è Andrea Ruggieri deputato di Forza Italia che da tempo segue con passione e impegno il caso Forti. “Parliamo di un italiano condannato tra mille dubbi e che ha scontato 23 anni di carcere, non due giorni. Il governo italiano deve premere, vista l’amicizia con gli Usa, su quello americano, ed essere chiaro”. Esistono delle zone d’ombra: “La vicenda non mi sembra semplice come è stata presentata”, prosegue il forzista. Nel corso del question time dello scorso 1° giugno in cui Ruggieri ha chiesto chiarimenti a Di Maio, il titolare della Farnesina ha spiegato che “il dipartimento di Giustizia Usa ha sottolineato la serietà e la genuinità delle garanzie fornite dall’Italia (compresa la ministra Cartabia) al governatore De Santis che è chiamato a confermare l’autorizzazione del 23 dicembre 2020 e sciogliere definitivamente la riserva sul trasferimento di Chico Forti in Italia. Autorizzazione formulata dallo Stato della Florida su base incondizionata secondo quanto richiesto dal dipartimento di giustizia Usa, ora è fondamentale che i due livelli di autorità, statale e federale, possano convergere su una posizione comune nel rispetto della convenzione di Strasburgo”. Come mai allora questa vicenda giudiziaria e umana dibattuta e straziante, che sta consumando quotidianamente un cittadino italiano, la sua famiglia e la sua comunità, uno stillicidio contaminato da ombre e dubbi, sembra sempre sul punto di aver un esito positivo che non si concretizza mai? “Da oltre 22 anni io sono il “futuro Chutney” nel monolocale - conclude Chico Forti -. Sino ad oggi sono riuscito a far fronte alle privazioni, prima fra tutte la mia libertà, grazie all’energia che voi italiani siete riusciti a infondermi con centinaia di visite e con migliaia di manifestazioni di solidarietà”. Sino ad oggi.