Diritti umani calpestati: due passi nell’inferno delle nostre carceri di Vittorio Feltri Libero, 1 agosto 2022 Crediamo che i detenuti perdano ogni genere di diritti, ma quelli umani vengono riconosciuti pure alle persone private della libertà personale a causa della esecuzione penale. Tuttavia, i nostri istituti di pena versano in condizioni tanto degradanti che talvolta persino i diritti inviolabili della persona non possono essere garantiti, bensì vengono quotidianamente vilipesi. Ne soffre la democrazia intera, ne soffre la società, all’interno della quale le carceri sono inserite, ne soffre la giustizia, che diviene meno credibile. E soprattutto ne soffrono coloro che sono rinchiusi in strutture sovraffollate, quindi in celle dove ci si ritrova in troppi a dividere uno spazio di pochi metri quadrati tra individui per di più di diverse nazionalità e con problematiche anche psichiatriche acute che ne imporrebbero una altra collocazione, con temperature che questa estate hanno toccato picchi mortali, senza ventilatori e qualche volta addirittura senza acqua. È scientificamente dimostrato che il caldo rende più aggressivi e non è un caso che violenze, risse, aggressioni tra detenuti siano in aumento nelle ultime settimane. Sono rimasto colpito da quanto accaduto nel carcere di Bancali, Sassari, qualche notte addietro. Un carcerato, servendosi di uno sgabello, ha fracassato il cranio del compagno di cella mentre questi dormiva, riducendolo in fin di vita. E poi incendi, devastazioni, liti brutali. La situazione è fuori controllo e viene patita anche dagli agenti di polizia penitenziaria (il cui organico è carente), i quali ogni dì vivono e respirano l’infernale ambiente carcerario riportandone non di rado danni fisici e psichici, basti considerare il preoccupante numero di suicidi tra questi poliziotti. In Lombardia, a fronte di una capienza regolamentare di 6.150 persone, i reclusi sono, al 30 giugno di quest’anno, 7.962. In Puglia, a fronte di una capienza di 2.896, i ristretti sono 3.817. Nel Lazio, a fronte di una capienza di 5.231, dimorano dietro le sbarre 5.667 soggetti. “A noi, che siamo fuori, cosa ce ne importa?”, qualcuno obietta. Invece no. Il sistema penitenziario riguarda chiunque di noi, perché a chiunque di noi può accadere di venire imprigionato. Se per lo Stato italiano l’imputato non è colpevole fino al terzo grado di giudizio, le nostre prigioni sono gremite di innocenti. Attualmente su 54.841 detenuti quelli in attesa di primo giudizio sono 8.329, i condannati non definitivi 7.221. Si tratta di oltre 15 mila esseri umani che potrebbero essere riconosciuti innocenti dalla Giustizia, se non tutti almeno una consistente percentuale. Ed avranno vissuto, senza che ve ne fossero i presupposti, ossia senza colpa alcuna, l’esperienza terribile della detenzione in condizioni inumane e lesive della dignità della persona, esperienza che li avrà segnati avita. Spesso in modo irreparabile. Va da sé che la permanenza in istituti di questo tipo, anziché indurre il detenuto a intraprendere la via della legalità, a causa della assenza di attività lavorative e ricreative, della impossibilità di svolgere dei percorsi di rieducazione o corsi di formazione, finirà tragicamente con l’avvalorare scelte criminali considerate come unica opzione possibile o con il condurre persino il soggetto sano sulla strada della devianza. Bimbi fuori dal carcere, ergastolo ostativo: le leggi sui diritti che non vedremo di Federica Olivo huffingtonpost.it, 1 agosto 2022 Ergastolo ostativo, bimbi fuori dal carcere. E non solo. La fine della legislatura porta via con sé la possibilità di approvare leggi che avrebbero assicurato dei diritti. Leggi che in alcuni casi, come quelli appena citati, hanno ricevuto il sì della Camera ma si sono arenate in Senato. E, quindi, il percorso dovrà ricominciare da zero. Ammesso che, in un Parlamento che avrà verosimilmente geometrie molto diverse dall’attuale, qualcuno abbia la volontà di riproporle. Ma anche leggi che non avevano ancora ricevuto il primo sì, ma che qualche possibilità, più o meno vaga, di arrivare in porto l’avrebbero avuta se la legislatura fosse finita a scadenza naturale. La lista è lunga e la preoccupazione di chi ha creduto in un progetto o nell’altro è grande. Perché c’è la consapevolezza che la futura maggioranza, se i sondaggi non sbagliano, avrà altre priorità. Prima della lista è la legge sul fine vita. Sollecitata, a più riprese, dalla Corte costituzionale dopo il caso di dj Fabo - che aveva portato a un processo nei confronti di Marco Cappato e poi a una sentenza di incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del codice penale, quello che disciplina l’aiuto al suicidio - aveva visto la luce solo alla Camera. Dopo mesi di estenuante mediazione, e senza i voti del centrodestra che comunque ne aveva influenzato il testo, a marzo era arrivato il via libera a Montecitorio. Il disegno di legge disciplinava l’accesso al suicidio assistito, a determinate condizioni. Il soggetto che lo richiedeva infatti, doveva essere pienamente in grado di prendere decisioni, affetto da una patologia irreversibile e con prognosi infausta che causa indicibili sofferenze fisiche o psichiche, sottoposto a trattamenti di sostegno vitale e già coinvolto in un percorso di cure palliative, che poteva aver rifiutato. Il provvedimento era frutto di una mediazione e non piaceva a tutti. Era stato criticato perché escludeva ad esempio i malati di tumore, che spesso non hanno bisogno di trattamenti di sostegno vitale. Però, pur tra critiche, difetti, veti e dubbi, se non altro il testo era arrivato. Passato al Senato, la strada si era mostrata subito in salita, con la Lega che aveva sostanzialmente imposto come relatore Simone Pillon, ipercattolico e storico oppositore di norme di questo genere. Nonostante il percorso fosse impervio, una speranza restava. La fine del governo Draghi ha spazzato via tutto. Nicola Provenza, deputato M5s e uno dei due relatori del provvedimento alla Camera, non riesce a trattenere il dispiacere. “Quando è caduto il governo - racconta ad HuffPost - il mio primo pensiero è andato alla legge sul fine vita”. Con il provvedimento che avevano messo a punto, continua, “si sarebbe potuto fare un passo in avanti importante. Avevamo lavorato per redigere il testo più equilibrato, a condizioni date”. La legge aveva attraversato molti ostacoli ma, tiene a sottolineare il parlamentare, “avrebbe tutelato i più deboli consentendo loro di accedere a un diritto, ma anche ponendo un argine a eventuali pratiche non legali”. Ormai, è il caso di dirlo, è andata così. E la mancanza di un provvedimento era, e resterà, molto sentita dalla società civile. Che si era mossa in massa, tra l’altro, per firmare il referendum sull’eutanasia, che non è stato considerato ammissibile dalla Corte costituzionale. La legislatura sta tramontando, la legge sul suicidio assistito non si può considerare tra gli affari correnti e Provenza è rassegnato, ma conserva un barlume di speranza: “Lo dico sempre - racconta - esiste una dignità della vita, ma anche una dignità della morte. Spero che chi sarà ancora dentro le istituzioni, ma anche chi ne resterà fuori, provi a tenere viva questa battaglia”. Sarebbe, conclude, “anche un modo per far recuperare al Parlamento il suo ruolo. E la sua credibilità”. Un’altra legge sollecitata, per due volte, dalla Corte costituzionale, è quella sull’ergastolo ostativo. Si tratta di una questione meno popolare del fine vita: c’è una legge, in Italia, secondo cui un condannato per mafia e per altri gravi reati alla pena perpetua, se non collabora con a giustizia, non potrà uscire dal carcere attraverso la liberazione condizionale. Bene, questa legge era arrivata davanti alla Consulta e il giudice delle leggi aveva detto che era in odor di incostituzionalità, ma che spettava al Parlamento legiferare, entro un anno. Perché il tema è delicato e una dichiarazione di incostituzionalità secca avrebbe potuto creare problemi. La Camera si è messa in moto quasi subito in realtà, ma il provvedimento si è fermato al Senato. E così, quando il termine di un anno è scaduto, la primavera scorsa, la Consulta si è vista costretta a prorogare il termine di un anno, per dare la possibilità agli inquilini di Palazzo Madama di finire il loro lavoro. Lo scioglimento delle camere ha fatto sfumare la possibilità di rispettare questa nuova scadenza. E ora? Secondo Andrea Pugiotto, professore di diritto costituzionale all’Università di Ferrara, la Corte a questo punto dovrebbe dichiarare incostituzionale la norma. Senza concedere altro tempo. In questo articolo sul Riformista ha spiegato perché gli altri scenari sarebbero poco praticabili. O, comunque, non propriamente corretti. Parlava di carceri anche la proposta di legge di Paolo Siani, parlamentare del Pd. Ma i destinatari della norma erano i bambini piccoli e le loro mamme detenute. In Italia, per legge, è consentito alle donne che hanno figli piccoli, al massimo di sei anni, e che devono scontare un periodo in carcere, di portare i bimbi con loro. Potrebbero ottenere una misura alternativa alla detenzione, ma spesso sono persone senza domicilio, e quindi il giudice dice “no”. Nel 2011, per evitare che i piccoli crescessero dietro le sbarre, erano state istituite delle case famiglia dove, a determinate condizioni, avrebbero potuto essere mandate le donne con la prole. Piccolo problema: queste strutture avrebbero dovuto sorgere a costo zero. E, quindi, ne sono nate pochissime. Con la proposta del parlamentare del Pd - che era stata approvata a fine maggio a Montecitorio, con la contrarietà solo di Fratelli d’Italia - si sarebbe fatto un salto di qualità. Perché sarebbero stati destinati fondi alle case famiglia protette che, quindi, avrebbero dovuto necessariamente vedere la luce. Il disegno inoltre prevedeva che il giudice avrebbe dovuto destinare la mamma detenuta con figlio al seguito nella struttura protetta, e non in carcere, salvo casi estremi. Sarebbe stato un modo per portare via i bambini dai penitenziari. Per farli crescere lontani dalle sbarre, esattamente come i loro compagni di scuola. Ma il tempo per l’approvazione non c’è stato: “Per me è un vero rammarico che non si sia arrivati al via libera definitivo - dice ad HuffPost Paolo Siani - alla Camera, con l’esclusione di FdI, il sì era arrivato quasi all’unanimità. Non so quanta voglia ci sia di calendarizzarla di nuovo nella prossima legislatura. Certamente la strada sarà molto più complicata, spero si proverà a percorrerla. E ad accelerare”. Siani ci parla proprio nel giorno in cui il report di metà anno di Antigone ha evidenziato un aumento dei bimbi in carcere: a inizio giugno erano 20, alla fine dello stesso mese erano 25. “Si tratta di una situazione invisibile, trasparente, a cui nessuno fa caso, meno che mai la politica”, spiega il parlamentare. E il suo pensiero va a un fatto di pochi giorni fa, passato quasi sotto silenzio anche quando è stato denunciato, perché intanto infuriava la crisi di governo. A Milano, una donna detenuta al termine di una gravidanza non facile si è sentita male nel penitenziario e ha perso il suo bambino. “Non è un Paese normale quello che consente che una donna incinta venga portata a San Vittore”, osserva Siani con amarezza. La speranza è che casi come questo non si ripetano più. Lo strumento per evitarli del tutto, però, manca. E chissà per quanto tempo mancherà. Oltre alle leggi che un pezzo di strada l’avevano fatto, ci sono quelle che non avevano ottenuto neanche il primo via libera. E che, osteggiate dal centrodestra che molto probabilmente vincerà le elezioni, è facile che saranno messe in soffitta. Tra queste c’è la legge sulla cittadinanza dei bambini stranieri che hanno fatto almeno 5 anni di scuola in Italia, il cosiddetto ius scholae. Quando il provvedimento era arrivato in Aula alla Camera, la Lega era andata su tutte le furie. E si può dire che i primi veri sussulti della crisi di governo sono partiti in quei giorni. Il Carroccio protestava contro quella che definisce “cittadinanza facile”, ma anche contro il provvedimento che avrebbe depenalizzato la coltivazione di una limitata quantità di cannabis per uso personale. Anche questo provvedimento è destinato ad essere cestinato. Lo stesso si può dire della proposta fatta dalla senatrice dem Monica Cirinnà sul diritto all’affettività in carcere o di quelle, depositate sempre in Senato, sul cognome della madre. In quest’ultimo caso, la legge sarebbe indispensabile, visto che la Corte costituzionale ha cancellato l’automatismo che portava all’attribuzione del solo cognome del padre ai figli. Resta da capire come si approccerà a questo tema, e a tutti gli altri citati, il prossimo governo. Che, se i sondaggi non sbagliano, sarà a trazione conservatrice. Perché i transessuali in carcere sono più colpevoli degli altri di Luigi Mastrodonato Il Domani, 1 agosto 2022 “In Italia se sei una persona detenuta transessuale il carcere duro è una conseguenza del tuo essere trans, non del reato che hai commesso. Il reato commesso è l’ultima cosa che conta”. Julia, donna trans 47enne, conosce bene le carceri italiane. Qui ha trascorso diversi anni della sua vita e ha dovuto superare momenti difficili, tra discriminazioni, transfobia e limitazione dei suoi già risicati diritti. Quella che devono scontare le persone detenute trans nelle carceri italiane è una doppia pena, dettata dai crimini commessi ma anche dalla loro identità. La confusione istituzionale, la scarsa formazione del personale e i pregiudizi diffusi si traducono in un contesto ghettizzante e criminalizzante. Una repressione di Stato dell’identità di genere che rende la carcerazione una lotta per sopravvivere e che si traduce in un dato tragico: secondo un rapporto del 2017 di Associazione Antigone ogni anno un detenuto trans su quattro si suicida o commette autolesionismo. L’istituto binario - L’ultimo rapporto di Antigone censiva 63 persone trans detenute in Italia. Si tratta di donne, per la quasi totalità non italiane e perlopiù provenienti dai circuiti dello sfruttamento sessuale e della prostituzione. “Il carcere è pensato come un istituto binario, per maschi e femmine”, sottolinea Carmen Bertolazzi, presidente di Associazione Ora d’Aria. Le persone trans si trovano imprigionate in un ambiente che non riconosce la loro identità e questo ha conseguenze sul loro trattamento. “Sull’identità transessuale non sono preparate la società, la pubblica amministrazione, la scuola. Figuriamoci come può essere preparato il mondo carcerario”, chiosa Bertolazzi. Questa arretratezza è evidente nelle condizioni carcerarie delle persone detenute trans, nel migliore dei casi all’insegna dell’isolamento e dell’apatia quotidiana, nel peggiore della condivisione degli spazi con chi ha commesso crimini molto pesanti. Una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del 2001 sottolinea che, davanti a “specifiche condizioni personali dei detenuti (ad es. transessuali)”, questi debbano essere posti in sezioni protette per evitare che possano subire violenze e discriminazioni. Il risultato è che le persone trans si ritrovano in cella con pedofili, stupratori e tutte quelle categorie di condannati che compongono l’ultimo girone dell’inferno carcerario. Una coabitazione tra persone discriminate sessualmente e figure pericolose dal punto di vista del comportamento sessuale deviante che accresce la segregazione e il disagio personale. Nuove disposizioni legislative hanno previsto che i detenuti che versano in una condizione di potenziale pericolo “in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale” vengano destinati a sezioni protette “omogenee”. Alcune carceri si sono così dotate di aree esclusive per persone detenute trans, come a Rebibbia, a Como, a Belluno e in qualche altro istituto. Una forma di protezione più idonea rispetto a quella delle aree precauzionali, ma che comunque si porta dietro diversi problemi. Julia è sempre stata nei reparti per trans durante la sua detenzione. A parte il carcere fiorentino di Sollicciano, queste aree sono collocate nelle sezioni maschili e per evitare un contatto tra le due realtà si tende a isolare le persone trans e a escluderle dalla gran parte delle attività trattamentali. “Mentre gli uomini avevano tante attività da svolgere durante la giornata, dallo sport alla cultura fino a prendere il sole in costume in cortile, a noi non era concesso nulla. Ci lasciavano chiuse nel nostro reparto”, ricorda. Meno ore d’aria, meno passatempi, meno libertà di movimento, meno scolarizzazione, meno tutto in un contesto che discrimina in ragione dell’identità sessuale e di genere. Questo passa anche dai trucchi e dai vestiti, visto che per le persone detenute trans esistono codici di abbigliamento che per gli altri non ci sono. “Potevamo mettere solo pantaloni, niente gonne”, continua Julia che spiega che per avere i vestiti femminili l’unico modo è organizzarsi con i contatti fuori dal carcere. “Il reparto trans è una sorta di 41bis a prescindere dal reato per cui sei stato condannato, che sia grave o minore”. Salute, diritto negato - Non è un caso che molte persone preferiscano nascondere la propria identità per evitare l’isolamento. Una scelta di invisibilità che offre più diritti e libertà ma si porta dietro pesanti conseguenze psicologiche date da una prolungata negazione di se stessi. “Ho già visto persone gay o trans isolate senza fare nulla dalla mattina alla sera e senza poter uscire dalla cella. Da una parte non posso parlare con il personale del carcere per non perdere il mio lavoro, dall’altra parte non posso essere me stesso”, racconta un detenuto al contact center nazionale contro l’omofobia e la transfobia Gay Help Line. Nel 2010 si era provato a realizzare un istituto per sole persone trans a Empoli, così da risolvere quanto meno il problema dell’isolamento e delle discriminazioni trattamentali. Il progetto venne però affossato dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano. Tra le principali criticità in carcere per le persone detenute trans c’è l’aspetto sanitario. Mancano endocrinologi, spesso il supporto psicologico non è preparato sul tema dell’identità di genere, i centri a cui rivolgersi per la transizione sono pochi e comportano lunghi e degradanti viaggi ammanettati oltre che liste d’attesa infinite. “C’è sempre la sensazione di chiedere qualcosa di troppo. Il problema nelle carceri per le persone trans non è tanto sul principio antidiscriminatorio, che è normativizzato, ma sulle prassi adottate per tutelare concretamente i diritti”, sottolinea Alessandra Rossi, coordinatrice di Gay Help Line. Nel 2018 la riforma dell’ordinamento penitenziario ha fissato il diritto, fino a quel momento scarsamente riconosciuto, alla prosecuzione del percorso di affermazione di genere per le persone detenute trans. Due anni dopo l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha inserito la cura ormonale nella lista dei medicinali erogabili a carico del Servizio sanitario nazionale, quindi gratuita. Un modo per uniformare le disposizioni regionali che però ancora non ha avuto piena esecuzione. “Di fatto in carcere è ancora molto difficile accedere gratuitamente alla terapia ormonale”, spiega Rossi. A peggiorare la situazione c’è anche l’atteggiamento dei secondini. “Certe guardie ci mancavano di rispetto, erano omofobe. Una in particolare ci provocava di continuo, ci metteva le mani addosso, ci chiamava froci e diceva che non servivamo a niente”, ricorda Julia. “Era una vessazione continua. Le nostre denunce alla direzione venivano ignorate”. Segnalazioni simili sono arrivate anche al centralino Gay Help Line, come quella di una detenuta trans 24enne: “I problemi più grandi ce li faceva il personale, con le prese in giro, col fatto che ci chiamavano al maschile”. Si cerca di affrontare il problema con iniziative di formazione e sensibilizzazione come quelle che la psicologa Margherita Graglia e associazioni come il Movimento Identità Trans (Mit), tengono nelle carceri. “È molto importante offrire al personale carcerario percorsi di alfabetizzazione sull’identità trans, così da decostruire stereotipi e pregiudizi”, spiega Graglia. Si parla di identità di genere, percorsi di transizione, terapie ormonali, abbigliamento, normative. “Le cose possono cambiare dall’alto con norme e disposizioni ma serve anche un movimento dal basso che può avvenire solo tramite la formazione, che dà la possibilità di cambiare atteggiamento”, sottolinea Graglia. Dagli addetti alla sicurezza a quelli dell’area giuridico-pedagogica, passando per il personale sanitario, dei servizi, trattamentale e privato-sociale: tutti sono tenuti a partecipare a queste iniziative. Una luce in fondo al tunnel che fa immaginare per il prossimo futuro un nuovo approccio culturale al tema della transessualità in carcere, nella consapevolezza però che c’è ancora molto lavoro da fare. “Si chiuda il capitolo dei decreti attuativi”, spinta anche dall’Ue di Tiziana Roselli Il Dubbio, 1 agosto 2022 Anche il report 2022 della Commissione europea sullo Stato di diritto chiede di continuare a percorrere la strada intrapresa, attraverso l’adozione dei decreti attuativi della riforma del processo civile e del processo penale, entro il 26 novembre per il civile e il 19 ottobre per il penale. La Relazione della Commissione europea sullo Stato di diritto, recentemente pubblicata in italiano, si è espressa favorevolmente in merito alle leggi che “intendono affrontare le gravi sfide legate all’efficienza del sistema giudiziario, compresi gli arretrati e la durata dei procedimenti”. Tutte riforme che comportano deleghe e annessi decreti attuativi. Quest’anno il documento (che ha visto la luce il 13 luglio scorso) prevede, per la prima volta, una serie di raccomandazioni ad hoc per ciascun Stato membro. Come negli anni precedenti, il documento esamina gli sviluppi in quattro settori nevralgici per lo Stato di diritto ovvero: sistema giudiziario, quadro anticorruzione, pluralismo e libertà dei media. Dalla lettura della relazione emerge come molti Stati membri abbiano già intrapreso la strada delle riforme, dando una risposta alle indicazioni riportate nelle edizioni precedenti. Contestualmente, invece, ci sono altri Stati membri che continuano a destare preoccupazioni. Per quanto riguarda l’Italia emerge chiaramente l’apprezzamento ottenuto dal gabinetto guidato da Ursula von der Leyen in merito alle riforme del Pnrr che si pongono l’obiettivo di “migliorare la qualità e l’efficienza del sistema giudiziario”, conformandosi così alle aspettative risultanti dal rapporto sullo Stato di diritto dell’anno precedente. Il fiore all’occhiello delle riforme è rappresentato dalla digitalizzazione del sistema giudiziario nei tribunali civili, che consentirà di affrontare “le gravi sfide legate all’efficienza del sistema giudiziario, tra cui gli arretrati e la lunghezza dei procedimenti”. Qualche problema resta, invece, sul fronte dei tribunali penali e nelle procure. Il Report sulla Rule of Law è uno strumento utilizzato da diversi anni dall’Ue al fine di agevolare il dialogo tra le istituzioni europee, gli Stati membri e la società civile allo scopo di rafforzare il rispetto dei principi dello stato di diritto. Ma sappiamo bene che, nel caso dell’Italia, il vero motivo che giustifica l’interesse europeo verso il tema di una riforma della giustizia è tutt’altro. Un Paese che non garantisce la certezza del diritto non può fare da garante al valore del capitale, e ciò costituisce un ostacolo di non poco conto all’integrazione dell’Italia nel circuito economico capitalistico europeo. Dunque Ursula von der Leyen guarda con ottimismo alle “ampie riforme” della giustizia civile e penale “attese da tempo” adottate nell’ambito degli impegni del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Sono tutte riforme che esigono l’adozione urgente dei decreti attuativi. Infatti, il report chiede all’Italia di continuare il percorso intrapreso, attraverso l’adozione dei decreti legislativi di attuazione della riforma del processo civile e del processo penale, ponendo l’accento soprattutto sulla rilevanza che assumono il monitoraggio sulle riforme del processo penale e l’attuazione delle deleghe contenute nella legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. Sul punto i funzionari di Bruxelles avevano mostrato in passato grande attenzione alle segnalazioni da parte del Consiglio nazionale forense circa i pericoli per l’autonomia del Foro. Proprio sul tema della riforma dell’ordinamento giudiziario, la Commissione si fa portavoce delle preoccupazioni espresse dal Csm e dall’Anm circa il nuovo sistema di valutazione di professionalità che potrebbe condizionare l’operato del giudice. La Commissione ha riconosciuto il valore delle principali misure previste dalla legge di riforma approvata a giugno, incluso il necessario rispetto da parte del capo dell’ufficio dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dall’organo di autogoverno, e ha sottolineato come la normativa di attuazione “consentirà di elaborare disposizioni più dettagliate sui modi di garantire l’indipendenza della magistratura”. Per quanto riguarda, invece, la riforma penale, la richiesta è di vigilare affinché la improcedibilità nei giudizi di appello e Cassazione non si esaurisca nella fine (non naturale) dei processi per colpa della inefficienza di alcuni uffici giudiziari. Su quest’aspetto la Commissione europea ha riconosciuto che il ministero si è attivato per rendere operativi gli opportuni meccanismi di monitoraggio: “Le nuove disposizioni in materia di giustizia penale mirano a migliorare l’efficienza e necessitano di un attento monitoraggio per garantire il mantenimento dell’efficacia del sistema giudiziario”. Per Alika non pietà, ma doveri di Marcello Maria Pesarini Ristretti Orizzonti, 1 agosto 2022 Sento il dovere di intervenire sull’omicidio di Alika a Civitanova Marche come ex attivista nell’immigrazione e tutt’ora attivo nelle carceri e nella giustizia nelle Marche. La nostra regione ha visto un regresso dell’investimento pubblico sia nel campo della sanità che dei servizi sociali, del lavoro e dell’accoglienza a partire almeno da 10-15 anni. La corsa alla privatizzazione della sanità e all’idolatria delle eccellenze, all’accatastamento in strutture contenitore di vari tipi di disagio non riconducibili a monostrutture, invece di puntare sul decentramento e sull’inserimento nel territorio diffuso(la gestione del disagio affidata alla comunità esisteva anche decenni se non secoli or sono, poi è stata resa difficile dall’industrializzazione e dall’inurbamento), il mancato investimento nel passaggio delle pratiche di soggiorno dalla polizia all’amministrazione locale, lo svuotamento di una delle migliori leggi sull’immigrazione, frutto del lavoro degli attivisti e pubblicata nel 1998, sono fra le basi di quanto sta avvenendo sempre più frequentemente nella nostra regione. Le uccisioni di Emmanuel nel 2015 a Fermo, gli spari di Traini a sei migranti nel 2018 per vendicare l’uccisione di Manuela Mastropietro, l’uccisione di Alika non sono stati compiuti da soggetti folli la cui colpa è perciò riducibile, ma da normali cittadini del nostro territorio. Nel tracciare le colpe delle amministrazioni di centrosinistra nello smantellamento di quanto era stato costruito nelle Marche, vorrei uscire dalle retoriche del “marchigiano bravo costruttore nel piccolo” e denunciare che i buoni comportamenti, se abbandonati, non producono per inerzia buoni risultati, ma ingenerano involuzioni che impoveriscono le collettività, le menti, i cuori, i bilanci, i servizi. Ciò che purtroppo è successo a Civitanova non è gravissimo solo nell’indifferenza di chi ha ripreso senza intervenire, come avviene anche nelle gang giovanili, ma nel tentativo di coprire, giustificare, arroccarsi su una generica necessità di sicurezza. Né peraltro è da sottovalutare il pericolo del governo di centrodestra in carica da due anni, che sguazza in questa incultura perché è la sua, e attacca i diritti delle donne, dei disabili, degli immigrati, di chi non fa parte delle famiglie eterosessuali che danno figli alla patria. Le Marche hanno un alto numero di morti sul lavoro, un incremento della delocalizzazione. Un ultimo appunto, riguardante forse sia vittima che carnefice: cercare lavoro è già un duro compito, lo sanno giovani e meno giovani; fare l’elemosina è durissimo ed umiliante. Lo Stato se ne vuole occupare? Oppure ridurre il suo compito a messaggi rasserenanti di giovani che si ammassano ai concerti dei loro idoli? La sorella di Youns: “Civitanova come Voghera: ho visto la stessa malattia dell’Italia, il razzismo” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 1 agosto 2022 Il fratello era stato ucciso con un colpo di pistola dall’assessore leghista che lo pedinava: “Mi ha fatto male pensare alla gente che filma e non interviene. Non hanno visto una persona ma un immigrato debole e malato preso di mira perché considerato di nessun valore. A sua moglie dico di non mollare nel chiedere giustizia”. “Razzismo è pensare che uno straniero non valga nulla, che la sua vita non interessi a nessuno. E invece siamo persone come tutte le altre, ognuno di noi ha una famiglia, dei legami, amiamo e siamo amati come tutti. Se vendono fazzoletti ai bordi della strada, se chiedono l’elemosina, se hanno problemi mentali come li aveva mio fratello Youns, allora nel migliore dei casi vengono ignorati. Non sono considerati esseri umani. Mio fratello ha lasciato due figli, dei fratelli, i genitori. Ma purtroppo agli occhi degli italiani restano soltanto stranieri”. Bahija El Boussettaoui ha letto dalla Francia, dove si è trasferita dopo ventiquattro anni di vita in Italia, di quanto accaduto a Civitanova Marche. “Mi fa male il cuore”, dice dopo aver visto le immagini dell’aggressione all’ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu. La sua mente torna in un attimo a Voghera, alla notte del 20 luglio 2021, quando un colpo di pistola sparato dall’allora assessore leghista alla Sicurezza Massimo Adriatici mise fine alla vita di suo fratello. Bahija, cosa vede in quelle immagini? “Ho visto la stessa malattia dell’Italia, il razzismo. Ho visto lo stesso razzismo che c’è stato nella vicenda di mio fratello. Mi ha provocato tanta rabbia vedere l’aggressore sopra quell’uomo indifeso, che non si ferma di fronte ai lamenti finché non lo ha ammazzato. Mi chiedo cos’abbiano le persone al posto del cuore. Mi ha fatto male pensare alla gente che filma e non interviene”. Perché secondo lei? “A Civitanova non c’erano armi, non c’era un coltello, tutto succede in pochi minuti. Qualcuno poteva salvare quell’uomo invece di guardare. Invece uccidere un immigrato in Italia è diventato uno spettacolo: la gente si ferma, guarda e va via. Non siamo considerate persone, siamo peggio degli animali, perché vedere morire così un cane o un gatto provoca pena, per uno straniero resta solo l’indifferenza”. Lei vive da molti anni in Francia. Si sente più accettata? “In Francia è più facile vivere da immigrata, non vedo tanto razzismo. La legge è uguale per tutti. In Italia no. Io ho la cittadinanza italiana, ho studiato e mi sono diplomata da voi, ma ogni volta che cercavo lavoro mi veniva negato perché ero marocchina. In Francia, se fai domanda e c’è un posto di lavoro, hai le stesse opportunità di un cittadino francese”. Dopo i fatti di Voghera ha sentito la vicinanza degli italiani? “Ho avuto tanta solidarietà, ma poca da persone italiane. Molta di più da stranieri di Voghera e di altre città. La morte di mio fratello ha stravolto la mia vita e mi ha fatto vedere tante cose in modo diverso. Dopo quella sera, sono rientrata subito dalla Francia e per i primi giorni sono rimasta incredula. Non era questa l’Italia che conoscevo io, ho ritrovato una foresta dove il più forte mangia il più debole. Ero scioccata per quello che stava succedendo alla mia famiglia, e lo sono ancora oggi”. Per qualcuno è stata solo una lite, il razzismo non c’entra... “Invece c’entra. Mio fratello stava male, zoppicava, perché devi pedinarlo, provocarlo e poi sparare? A Civitanova Marche è successa la stessa cosa: un immigrato debole e malato preso di mira perché considerato di nessun valore”. Dopo l’omicidio di Civitanova Marche, c’è stata una manifestazione cui hanno partecipato pochissimi italiani. “Anche al primo presidio dopo la morte di Youns, a Voghera, erano pochi. A quelli successivi c’era tanta paura, l’amministrazione leghista ha chiuso i bar e ci ha imprigionati nella piazza tra le transenne. Avevamo bisogno di acqua e non sapevamo dove comprarla. Anche i fiori che portavamo sul luogo della sparatoria venivano portati via, come se la morte di mio fratello dovesse essere cancellata”. Come lei, anche la moglie di Alika pretende giustizia... “Le dico di non mollare. Sarà davvero dura, noi stiamo ancora lottando. Vorrei avere un suo contatto e poterla incontrare, al mio rientro dalla Francia. Vorrei aiutarla, potremmo magari organizzare una manifestazione insieme. Stiamo combattendo per gli stessi valori, per gli stessi diritti. Non c’è persona che possa capirla meglio di me, e non c’è nessuno che possa capire me meglio di lei”. Anche la sua famiglia sta aspettando che emerga tutta la verità nei fatti che hanno portato alla morte di Youns... “Stiamo aspettando che vengano chiuse le indagini. Sono fiduciosa per il grande lavoro fatto dai miei avvocati, Debora Piazza e Marco Romagnoli, e perché c’è un nuovo capo alla procura di Pavia. All’inizio ci sono state tante lacune nell’indagine, ora spero che tutti i punti oscuri dell’inchiesta vengano chiariti. Sono sicura che avremo giustizia”. Caso Vassallo. Il debito della giustizia con il “sindaco pescatore” di Angelo De Mattia Il Messaggero, 1 agosto 2022 La svolta che sta registrando il caso del brutale assassinio del Sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, si presta ad alcune riflessioni. La prima, la più ovvia: ci sono voluti 12 anni per imboccare una pista che non sappiamo, anche in omaggio al garantismo, se darà risultati definitivi, ma che appare frutto di un lavoro serio, costante, tenace e rigoroso da parte della magistratura salernitana inquirente. Non è, di certo, questa vicenda assimilabile a un comune “cold case”, toccando essa rami istituzionali e rischi per la sicurezza e l’economia del territorio. Ciò che si ricava dalle notizie diffuse sono innanzitutto i sospetti del Sindaco il quale temeva che Acciaroli facente parte del Comune di Pollica - un centro del Parco nazionale del Cilento rinomato, di particolare attrazione turistica, per la bellezza e il fascino del luogo e del paesaggio nonché per la limpidezza del mare - potesse diventare un punto importante per il traffico di droga da destinare, poi, da parte della criminalità, all’intero Cilento e alla Calabria, con il vantaggio di essere lontani dalle grandi arterie di comunicazione. L’operazione sulla quale, da ultimo, Vassallo, per tutti il “sindaco pescatore”, nutriva sospetti e che aveva deciso di denunciare a un ufficiale dei Carabinieri di Agropoli insieme con il capo della Procura di Vallo della Lucania, avrebbe inferto un colpo gravissimo alla sicurezza del territorio - mantenutosi fino ad allora quasi del tutto al di fuori dei traffici promossi dalla grande criminalità - alla vita degli abitanti, all’economia dell’area fondata, appunto, sul turismo e sullo sviluppo dell’agricoltura e degli allevamenti: l’area dove si è affermata e consolidata la dieta mediterranea e che è stata frequentemente luogo di vacanze di intellettuali di prestigio e di artisti, primo dei quali moltissimi anni fa tra le due guerre, Ernest Hemingway. Vassallo aveva promosso nel Comune una profonda innovazione, nelle infrastrutture, nei collegamenti, nella tutela ambientale, nel rapporto intenso e partecipato con i cittadini. La piazza diventava, insomma, un’agorà. Aveva rappresentato un modo nuovo di gestire la cosa pubblica con un rigore e una trasparenza, insieme con una puntuale “accountability”, che non si prestava in alcun modo a forme, anche velate, di compromessi inaccettabili. La criminalità, con i suoi eventuali legami con Forze dell’ordine deviate, aveva molto da temere dall’agire del Sindaco. Di qui il brutale assassinio la sera del giorno prima del programmato incontro ad Agropoli, di cui si è detto sopra. L’altra riflessione riguarda i tempi della giustizia, anche se con ciò non si intende svalutare affatto l’encomiabile lavoro svolto dalla Procura di Salerno. D’altro canto, la difesa della vita corretta e pacifica di una comunità non deve presupporre solo eroi e atti di eroismo. Naturalmente, anche gli abitanti, soprattutto nel caso in cui sono sollecitati a partecipare attivamente alle vicende pubbliche locali, devono dare il loro contribuire a cominciare dalle forme previste. Ciò richiede, soprattutto in comunità nelle quali il controllo sociale è pieno e tutti si conoscono - questa è la terza considerazione - credibilità, fiducia e affidabilità da parte di tutti coloro che esercitano funzioni pubbliche e, a maggior ragione, di chi è preposto alla tutela dell’ordine e della sicurezza democratici. Pur nel rigoroso rispetto della costituzionale presunzione di innocenza, è anche lecito chiedersi se e quali misure l’Arma abbia adottato o stia per adottare nei confronti dei militari e dei graduati ora indagati. C’è bisogno di un’immagine netta in chi è preposto a compiti della specie. In occasione di altre vicende verificatesi non molto tempo fa l’Arma ha dato prova di giusto rigore e prontezza decisionale, in diversi casi costituendosi pure in giudizio come parte civile. La sicurezza del territorio è fondamentale per la vita civile, ed è di particolare importanza anche per l’economia, l’impresa, gli investimenti. Poi vi è da aspettarsi, a questo punto, che sia affrontato rapidamente l’iter giudiziario, recuperando, pur essendo possibile farlo solo in parte, il tempo finora impiegato senza risultati. Ovviamente, sempreché le indagini trovino, o abbiano già, le necessarie conferme. La fine triste di Gabriella, “troppo vecchia” per essere madre di Giusi Fasano Corriere della Sera, 1 agosto 2022 Gabriella Carsano, così si chiamava, aveva 68 anni e se n’è andata dopo 12 anni senza un sorriso, dopo aver provato tutto - ma proprio tutto - per far capire al sistema giustizia che lei sarebbe stata una mamma amorevole. Viola ha 12 anni. La legge dice che quando ne avrà 25 potrà conoscere l’identità dei suoi genitori biologici e noi speriamo con tutto il cuore che lo voglia fare, quando sarà il momento. Perché almeno saprà del bene smisurato che le ha sempre voluto sua madre, uccisa pochi giorni fa da un mesotelioma. Saprà di quella donna che prima del tumore si è ammalata di infelicità acuta, per lei male incurabile senza la bambina che aveva messo al mondo. Gabriella Carsano, così si chiamava, aveva 68 anni e se n’è andata dopo 12 anni senza un sorriso, dopo aver provato tutto - ma proprio tutto - per far capire al sistema giustizia che lei sarebbe stata una madre amorevole, perfetta, e che suo marito, Luigi Deambrosis, oggi ottantenne, sarebbe stato un bravissimo papà. “Non siamo troppo vecchi” avrà ripetuto Gabriella un milione di volte dopo che il tribunale dei minori di Torino, nel 2011, nel decidere l’adottabilità della piccola aveva scritto: la coppia non si è mai posta “domande sul fatto che la bambina si ritroverà orfana in giovane età e, prima ancora, sarà costretta a curare i genitori anziani che potrebbero presentare patologie più o meno invalidanti proprio nel momento in cui, giovane adulta, avrà bisogno del sostegno dei suoi genitori”. Nonostante quelle frasi i giudici smentirono di aver deciso l’adottabilità per motivi anagrafici ma da quella sentenza in poi Luigi e Gabriella diventarono per tutti i genitori-nonni, quelli troppo vecchi per prendersi cura della loro bambina. Viola era nata a maggio del 2010, era appena arrivata nella sua casa dell’Alessandrino quando un vicino denunciò: “Il padre l’ha lasciata sola in macchina a piangere per tre quarti d’ora”. Non era vero: assoluzione definitiva, dopo anni, dal reato di abbandono di minori. Ma intanto lei era stata affidata a una casa-famiglia e, anche dopo quell’assoluzione, si preferì non spezzare l’equilibrio che la piccola aveva trovato altrove. Niente da fare, non sarebbe mai più tornata a casa. I figli sono di chi li cresce, è vero. Ma certo questa storia è amara, tristissima. Non ci sono genitori cattivi che hanno trascurato, maltrattato abbandonato. C’è stato un eccesso di desiderio, d’amore, e poi di disperazione. Cara Viola, o qualunque sia il tuo vero nome, speriamo davvero che tu voglia sapere di tua madre, quando avrai 25 anni. Roma. A Rebibbia femminile, fine vita con un cappio al collo agenparl.eu, 1 agosto 2022 “È l’estate dei suicidi in carcere: una detenuta di Rebibbia (sezione femminile) Roma si è suicidata in cella, attraverso un cappio rudimentale. È la terza detenuta suicida dall’inizio dell’anno che registra già il record di 40 suicidi, uno ogni 5 giorni, 16 volte in più rispetto a quanto accade fuori”. A riferirlo è il segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo sottolineando che “ancora una volta la sezione femminile di Rebibbia, dove il sovraffollamento in cella al 30 giugno scorso toccava il 133%, si conferma uno degli istituti con maggiori problematiche. Basti ricordare che al 31 marzo scorso risultava un gruppo di 4 bambini all’interno della sezione nido di questa Casa Circondariale. E per effetto delle imminenti elezioni politiche la proposta di legge di civiltà per tenere i bambini fuori dal carcere passerà al nuovo Parlamento. L’estate si conferma dunque stagione problematica da gestire nelle carceri, mentre l’unica Regione che ha attivato, sia pure solo di recente, un piano di prevenzione suicidi è la Regione Lombardia, un piano che contiene aspetti decisamente importanti come un programma individualizzato di presa in carico congiunta nel quale saranno indicati ulteriori interventi integrati degli operatori sanitari, di sostegno e di sorveglianza, secondo le necessità determinate dalle problematiche rilevate. Significativa, inoltre, la costituzione di uno staff multidisciplinare composto da rappresentanti del personale penitenziario e sanitario. Come sostengono gli esperti, la pandemia se in generale ha accentuato situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove - aggiunge Di Giacomo - il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid. Come sindacato è da tempo che abbiamo proposto l’istituzione di Sportelli di sostegno psicologico, tanto più contando su almeno 3 mila laureati in psicologia che nel nostro Paese non lavorano con continuità. Come per il personale penitenziario che continua a dare prova di impegno civico è sicuramente utile attivare corsi di formazione ed aggiornamento per essere maggiormente preparati ad affrontare casi di autolesionismo e suicidio, oltre naturalmente a provvedere rapidamente all’atteso potenziamento degli organici”. “Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici. L’incapacità - continua Di Giacomo - è ancora più irresponsabile in questa nuova fase di diffusione della pandemia. Sminuire o nascondere la verità - aggiunge - può solo portare ad un’ulteriore sottovalutazione e a complicare le problematiche esistenti per la salute della popolazione carceraria e di chi lavora”. Sassari. Delitto di Bancali, la morte di Piana si poteva evitare: il Ministero invia gli ispettori di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 1 agosto 2022 Nei prossimi giorni a Bancali dovrebbero arrivare gli ispettori del ministero della Giustizia. Un provvedimento inevitabile in considerazione dei troppi aspetti da chiarire relativi all’ingresso in carcere di Giuseppe Pisano, il ragazzo di 26 anni di Sorgono (residente ad Austis) con problemi di carattere psichiatrico che nella notte di martedì ha colpito con violenza con uno sgabello il compagno di cella. Graziano Piana (nella fotina in alto), 51 anni, sassarese, è morto il pomeriggio del giorno seguente in ospedale dove era stato ricoverato in gravissime condizioni e sottoposto a un intervento chirurgico. L’obiettivo è quello di fare chiarezza sul percorso fatto dal ragazzo (anche dopo le dichiarazioni della mamma Arianna Pisano rilasciate ieri alla Nuova) che era già stato dichiarato pericoloso proprio a causa della sua precaria salute mentale. La donna - che ha affidato l’incarico all’avvocata Rosaria Manconi - ha annunciato un esposto che verrà depositato nelle prossime ore. Ha confermato di avere chiesto ripetutamente aiuto in più direzioni e di non avere trovato il necessario ascolto: “Mio figlio non doveva andare in carcere - ha affermato Arianna Pisano - ma doveva essere ricoverato in una struttura sanitaria e stabilizzato. Aveva bisogno di cure urgenti e la tragedia si poteva evitare”. Ora l’attenzione si sposta sulla documentazione sanitaria di Giuseppe Pisano, con i riferimenti che - a quanto pare - erano riportati nell’ordinanza di misura cautelare che nella notte di martedì scorso l’ha portato nel carcere di Bancali. E la domanda è semplice: se - come sembra - nell’ordinanza si fa riferimento alla relazione dello psichiatra che aveva visitato Giuseppe Pisano (cosa sottolineata anche dalla mamma del ragazzo) e quindi si indica la necessità di una particolare attenzione, perché il 26enne è finito in cella con un altro detenuto che non era neppure consapevole del pericolo appena arrivato? È solo uno degli interrogativi che continuano a circolare e al quale cercheranno di dare risposte gli ispettori del Ministero. In questi casi il percorso a ritroso consente di risalire a chi ha dato le disposizioni e perché, di accertare se sono state valutate in maniera adeguata le criticità e anche la pericolosità della persona appena arrivata in carcere. E per quali motivi è stata decisa una collocazione che potrebbe anche non essere stata idonea e, anzi, pericolosa per l’incolumità stessa del nuovo arrivato e del detenuto che già si trovava in cella. Va avanti intanto l’inchiesta della procura della Repubblica di Sassari affidata al sostituto Angelo Beccu. Nei giorni scorsi è stata eseguita l’autopsia sul corpo di Graziano Piana e oggi, alle 11.30, dovrebbe svolgersi l’interrogatorio di garanzia di Giuseppe Pisano davanti al gip Giuseppe Grotteria. I carabinieri del Ris di Cagliari hanno effettuato i rilievi nella cella (sigillata dopo l’omicidio) e sono stati acquisiti i video registrati dalle telecamere del sistema di sorveglianza. Si tratta di elementi importanti che serviranno a ricostruire le diverse fasi di una scena terribile. Dopo l’interrogatorio di garanzia la difesa di Giuseppe Pisano deciderà quali iniziative intraprendere in relazione anche alla necessità di cure psichiatriche che una struttura carceraria non può garantire, tanto meno Bancali. Milano. A Opera orto e frutteto “solidali” per aiutare le famiglie in difficoltà Il Giorno, 1 agosto 2022 Un orto e un frutteto solidali, dove si coltivano prodotti freschi per le famiglie in difficoltà. E ancora: la raccolta, nelle panetterie del territorio, del pane che resta invenduto e che viene a sua volta distribuito a chi ne ha bisogno. Sono i progetti benefici, attraverso i quali il comitato Sud Milanese della Croce Rossa, con sede a Opera, fa sentire la sua vicinanza alla popolazione locale. È un terreno di 10 mila metri quadrati nella suggestiva cornice dell’abbazia di Mirasole quello che ospita l’orto e il frutteto solidali, un’iniziativa nata dalla collaborazione tra la Croce Rossa italiana, il Progetto Mirasole e il carcere di Opera. Braccio operativo del progetto, supportato anche da Cia-Agricoltori italiani Lombardia con la donazione di ortaggi e alberi da frutta, è un detenuto in regime di semi-libertà, col pollice verde: è lui ad occuparsi della gestione dell’appezzamento, dove ogni settimana vengono raccolti dai 20 ai 30 chili di frutta e verdura. Kiwi, uva, pomodori, zucchine, peperoni e cetrioli sono solo alcuni degli alimenti coltivati con passione, seguendo il ciclo delle stagioni. Ogni giovedì i prodotti freschi vengono ritirati dai volontari che collaborano all’iniziativa e distribuiti, la sera stessa, a una ventina di famiglie segnalate come bisognose dal Comune di Opera. Le stesse che ricevono anche le eccedenze alimentari delle panetterie. I progetti benefici s’inseriscono nel più ampio ventaglio di servizi offerti dalla sezione Sud-milanese della Croce Rossa, che conta 250 volontari e sei dipendenti. “Dall’attività di emergenza-urgenza in convenzione con Areu alle unità di strada che aiutano le persone vulnerabili e senza fissa dimora, i servizi non si fermano nemmeno nei mesi estivi - osserva il presidente Danilo Esposito -. Prosegue anche l’aiuto alle famiglie ucraine ospitate a Opera e Locate”. Ragusa. Volontariato in carcere: “Bisogna fare presto!” di Maria Concetta Vaccaro insiemeragusa.it, 1 agosto 2022 Giunge all’improvviso una chiamata da parte del Cappellano del Carcere di Ragusa don Carmelo Mollica: “Il Vescovo vuole incontrare i detenuti!”. Sembra quasi un annuncio strano: un annuncio dirompente che scuote e all’improvviso alza la polvere che si era depositata dietro l’uscio di ogni porta e ogni cancello della Casa Circondariale di Ragusa! Nessun luogo è più chiuso di un carcere: porte, cancelli, mandate di chiavi, controlli e dal febbraio 2020, come in tutto il nostro pianeta, la pandemia ha ulteriormente chiuso e proibito la nostra presenza e l’azione di un piccolo gruppo di volontari che facevano catechesi con i ragazzi detenuti ospiti della Casa Circondariale di Ragusa. Tutto sembrava avvolto in uno strano silenzio avvolgente che impediva ogni contatto e ogni piccola possibile partecipazione. È necessario cominciare ed istituire un Ufficio diocesano per la Pastorale carceraria al fine di “Far sentire ai detenuti e alle loro famiglie la presenza della Chiesa”: questo è l’invito declinato con la massima urgenza dall’appena eletto a nostro Vescovo Mons. Giuseppe La Placa: “Bisogna fare presto!”. Si ricomincia con grande emozione e con una marcia in più! Il 15 settembre 2021 ci incontriamo tutti gli Operatori della struttura e i Volontari presso la Cappella della Casa Circondariale di Ragusa con il nostro Pastore: “Il carcere non diventi mai un obitorio della speranza ma piuttosto una grande sala parto nella quale, vite segnate dalla sofferenza e dall’esperienza del male, possono rinascere a vita nuova”. Il piccolo gruppo di Volontari comincia a prendere forma e a costituirsi. Il 6 gennaio è ufficialmente nominato: a dirigerlo sarà don Carmelo Mollica che da dodici anni è il cappellano della casa circondariale di Ragusa. Sarà affiancato da una equipe composta da Filippo Dicara, Maria Criscione, Salvatore Cabibbo, Carmela Criscione, Concetta Gulino, Maria Concetta Vaccaro e suor Graziella Viscosi. Al 15 settembre sono seguiti altre visite ed incontri del nostro Vescovo con gli ospiti della Casa Circondariale. Ogni incontro è una grande festa! Ogni incontro una attesa gioiosa! Ogni incontro un incrocio di sguardi profondi attenti e accoglienti. Ogni incontro straordinario con il nostro Vescovo con i Detenuti diventa sempre più ordinariamente fraterno! Bisogna accendere i motori per operare una efficace azione dell’Ufficio di Pastorale Carceraria della nostra Diocesi. Bisogna fare presto ed essere presenza-accanto dall’interno: così semplicemente! Un sorriso o una stretta di mano o un semplice “ciao” possono aprire nel cuore la speranza. Bisogna fare presto ed essere presenza-accanto dall’esterno: così semplicemente! Impegnarsi e lavorare per salvare i legami familiari dei detenuti affinché una mamma, una moglie, un figlio o una figlia possano ancora stringere la mano al proprio figlio, marito, papà! Bisogna fare presto! Mettete in agenda la lotta alla povertà di Tito Boeri e Roberto Perotti La Repubblica, 1 agosto 2022 Nei programmi elettorali dovrebbero essere avanzate proposte concrete sulla revisione del reddito di cittadinanza e del salario minimo. Chiunque si troverà a governare l’Italia dopo le elezioni del 25 settembre dovrà cercare di lenire le ferite della pandemia e affrontare le nuove emergenze sociali imposte dal ritorno dell’inflazione. I dati dell’indagine Banca d’Italia sui redditi delle famiglie nel 2020, assieme alle ricerche svolte dall’Istat su mandato della Commissione Lavoro della Camera, offrono un quadro abbastanza nitido di quello che è successo in questi anni. Tre fatti ci sembrano di particolare rilievo. Primo, e non sorprendentemente, oggi ci sono circa un milione di persone in più sotto la soglia della povertà assoluta rispetto a prima della pandemia. Secondo, gli indici numerici di diseguaglianza non sono aumentati. Tuttavia, la natura della diseguaglianza è cambiata rispetto a prima della pandemia e rispetto a recessioni precedenti. Questa volta sono state soprattutto le donne, le persone impiegate nei servizi di alloggio e di ristorazione e nelle attività artistiche, di intrattenimento e divertimento, e i lavoratori autonomi a pagare lo scotto. A loro si aggiungono, come in passate recessioni, i lavoratori con contratti temporanei, soprattutto al di sotto dei 35 anni, che statisticamente hanno perso il lavoro 10 volte di più dei lavoratori più anziani. Terzo, gli ammortizzatori sociali emergenziali introdotti durante la pandemia sono stati efficaci nel contenere le diseguaglianze e nell’impedire un ulteriore calo dei redditi di chi era già povero. Ma data la loro natura episodica hanno solo temporaneamente tappato le falle del nostro sistema di protezione sociale. Le misure temporanee inoltre non possono rassicurare le famiglie beneficiarie circa il futuro dei propri redditi. Alla luce di questi dati di fatto, lasciano perplessi alcune delle proposte avanzate in questo inizio di campagna elettorale: l’abolizione del reddito di cittadinanza (Renzi); la sua sostituzione con un reddito di solidarietà riservato unicamente ai cittadini italiani che hanno reddito zero (Meloni); l’innalzamento a 1000 euro delle pensioni minime (Berlusconi). Il RdC come attuato in Italia va ovviamente cambiato, soprattutto nella sua relazione fallimentare con le politiche attive del lavoro, ma un reddito di ultima istanza esiste in tutti i paesi europei tranne la Grecia. E ci sarà un motivo. Riservare l’assistenza sociale solo a chi ha reddito zero vuol dire scoraggiare la ricerca di qualsiasi impiego, perché guadagnare anche un solo euro comporterebbe l’esclusione dal beneficio. A nostra conoscenza nessun paese al mondo ha un programma contro la povertà così crudo. Al contrario, bisogna permettere di cumulare in parte reddito di ultima istanza e salari al di sotto di una certa soglia per spingere i beneficiari a cercare lavoro, come avviene in tutti i paesi avanzati. Inoltre il reddito di ultima istanza deve coprire anche chi è arrivato da meno di dieci anni nel nostro paese perché è in gran parte tra queste famiglie che si annida la povertà. Servirà anche ad evitare buchi neri di povertà che assorbirebbero tutto e tutti rendendo esplosive le nostre periferie. Infine l’aumento delle pensioni minime a 1.000 euro costa più di 30 miliardi e andrebbe a favore dell’unica categoria in cui l’incidenza della povertà non è aumentata in questi anni. Per affrontare le nuove emergenze bisognerebbe invece pensare a come offrire protezione sociale anche al lavoro autonomo, nel quale si annidano molti lavori di fatto alle dipendenze, e ai lavoratori temporanei soprattutto nei servizi maggiormente colpiti dalla pandemia, tra i quali le donne sono in prevalenza. Sarà poi necessario occuparsi degli effetti distributivi di una inflazione prossima alle due cifre. Colpisce soprattutto chi ha redditi bassi e fissi. Un salario minimo indicizzato all’inflazione, come le pensioni minime, sarebbe uno strumento importante. Ma l’unica proposta oggi in discussione in Italia prevede di fissare minimi salariali (mensili!) estendendo a tutti i lavoratori di una data categoria il minimo salariale fissato dalla contrattazione nazionale per quella categoria. In Italia ci sono 985 contratti nazionali. Ammesso e non concesso che si possa, con una legge sulla rappresentanza, stabilire quali sono quelli veramente rappresentativi, sarebbero almeno 50 i salari minimi diversi, applicati magari a diversi lavoratori nella stessa impresa. Anche in questo caso non siamo al corrente di un salario minimo così concepito in nessun paese avanzato. Un salario minimo è un salario minimo: unico, applicabile a tutti, anche ai lavoratori che oggi sfuggono alle maglie della contrattazione collettiva; un diritto di cui ogni lavoratore sia consapevole e di cui possa esigere il rispetto al datore di lavoro. Quando mai questo sarà possibile con 50 minimi diversi e dai confini spesso molto incerti? Il salario minimo è uno strumento di civiltà, è incomprensibile che finora il dibattito su questo argomento sia stato completamente asservito alle posizioni dei grandi sindacati e della Confindustria, e ignori completamente l’esperienza e il dibattito di tutti gli altri paesi. Marco Minniti: “L’Italia è dominata dalla paura, chi governa non la deve alimentare” di Francesco Grignetti La Stampa, 1 agosto 2022 L’ex ministro dell’Interno: “Non ci servono apprendisti stregoni, ma politiche di integrazione”. È stato ministro dell’Interno in una stagione di grandi sbarchi e perciò, per avere tentato di frenarli ad ogni costo, a sinistra lo considerano un belzebù. Oggi è presidente di una fondazione di Leonardo, la Med-Or, che studia il Mediterraneo sotto tutti i profili: energetico, sociale, politico, economico. Marco Minniti è allora l’uomo giusto per parlare del delitto di Civitanova, della violenza omicida di un italiano con disturbi mentali, della gente che filma e non interviene, insomma di chi siamo e di chi stiamo diventando. “La risposta in fondo è semplice: siamo un Paese dominato dalla paura e dall’indifferenza. E chi governa, deve combattere questi due sentimenti, non cavalcarli”. Minniti, il tema è complesso. Partiamo dai fatti... “Di questa vicenda forse non si è capito che sarà uno spartiacque della nostra storia. Voglio citare un libro di Javier Cercas, “Anatomia di un istante”, dedicato ai minuti cruciali del tentato golpe in Spagna del colonnello Tejero. Proviamo a fare anche noi l’anatomia dei quattro minuti di Civitanova. Ci sono diverse cose che colpiscono. La prima è che l’assassino non ha colpito per una reazione d’impulso, ingiustificabile in ogni caso, ma almeno spiegabile con l’attimo di follia. Questo Ferlazzo ci ha pensato, ha accompagnato la fidanzata fino al negozio, poi è tornato indietro, ha inseguito il povero Alika, gli è saltato addosso, e lo ha soffocato per quattro interminabili minuti, per poi tornare allegramente da lei. Secondo, la vittima: era ben conosciuto, parlava la nostra lingua, aveva assorbito i nostri modi, per di più portava una stampella, era claudicante, simbolo di una fragilità ulteriore. Infine la gente: nel salotto di una città turistica, nessuno è intervenuto quando si poteva e doveva. Guardavano. Hanno filmato, e si sono giustificati ex post che almeno così si è prodotta una prova. Sono tutti elementi agghiaccianti”. E che cosa suggeriscono? “Che si sta perdendo, o forse si è già perso, il senso di comunità. È una crisi di civiltà. Chiamiamo le cose con il loro nome: viviamo nel sentimento della paura e della indifferenza, aggravato dal massimo di individualismo”. Massimo Giannini, su questo giornale, scrive che puntualmente è l’uomo bianco ad uccidere l’uomo nero, e che su questa strada stiamo arrivando al crepuscolo della civiltà... “Condivido in toto. Ma torniamo alla paura, ingigantita dalla massiccia inter-relazione in atto tra popoli, etnie, culture, religioni. Tutto questo porta fatalmente a incontrarci con il diverso da noi. Ma l’Italia e l’Europa devono sapere che da una parte c’è un continente in regressione demografica, dall’altra c’è invece un continente in boom demografico. È un dato strutturale: i due continenti sono costretti ad avere scambi di popoli. E poi c’è stata la pandemia che per la prima volta ci ha portati a considerare tutti gli altri, ma davvero tutti, come un pericolo. Il combinato disposto è causa di una particolare fragilità della nostra società. E la paura rischia di diventare una dominante”. La politica che deve fare? “Di sicuro, non cavalcare e alimentare le paure per calcolo elettorale. Guai agli apprendisti stregoni. Una democrazia deve combattere le paure facendo sentire meno soli i cittadini. Servono politiche per l’integrazione a tutto tondo, che sono un pezzo delle politiche di sicurezza. Lo Stato deve essere vicino ai più deboli. Vede, non è accettabile che la vittima fosse costretto a chiedere l’elemosina in strada dopo ben 10 anni che viveva in Italia. Ma anche l’aggressore, da quel che leggo, non era neanche lui integrato nella società, aveva problemi psichiatrici, ed era un altro lasciato da solo. Il che non giustifica nulla, ovviamente, ma è un elemento”. Intanto la Lega ha ripreso a battere sugli immigrati... “Ripeto: una democrazia non può permettersi di evocare le paure. E lo dico alla sinistra come alla destra. I demoni che vengono liberati per calcolo elettorale dagli apprendisti stregoni, quando e se poi si va al governo, non rientreranno facilmente nella scatola. Il sentimento della paura può seriamente corrodere una società e una democrazia. Quindi attenzione alle parole e alle promesse, anche perché è un attimo che poi la gente te ne chiederà conto”. Lei era ministro quando Luca Traini sparò in giro per Macerata a tutti gli immigrati che incontrava... “Fu un episodio di terrorismo a sfondo razziale. Civitanova è un caso molto diverso. Però c’è forse un elemento in comune: due soggetti fragili dal punto di vista psicologico, prime vittime degli apprendisti stregoni, cariche di rabbia, si sentono vittime di tutte le ingiustizie, e alla fine si ergono a giustizieri. Uno per la morte della povera Pamela, l’altro per la presunta offesa alla fidanzata. Ma ancor più della loro violenza, spaventa l’indifferenza e il menefreghismo di tutti gli altri. Civitanova non è un campanello d’allarme, è una sirena che suona a tutta potenza. Bisogna lavorare nel senso opposto alle paure, rafforzando le comunità, spingendo alla reciproca conoscenza, andando oltre le poche parole di un tweet”. Il sottosegretario leghista Nicola Molteni segnala però un dato di fatto: gli sbarchi stanno aumentando... “Guardi, i partiti affrontano una campagna elettorale di portata storica, la prima con una guerra in corso in Europa. Per questo occorrerebbe raffreddare le menti, non surriscaldarle. Servono parole di verità: lo squilibrio demografico è aggravato enormemente dall’onda d’urto della guerra. Io ho sperato fortemente nell’accordo di Ankara sul grano. Però sono trascorsi nove giorni e non si vede ancora una sola nave. Penso che Putin non voglia apparire come colui che affama gli Stati africani, ma allo stesso tempo non ha rinunciato a investire le democrazie europee da un’ondata senza precedenti di migranti. Rischiamo un effetto domino di destabilizzazioni dalla Tunisia alla Libia, Egitto, al Sahel”. I partiti tornano a fare campagna elettorale sull’immigrazione. Ma hanno poche idee e confuse di Vitalba Azzolini Il Domani, 1 agosto 2022 In una campagna elettorale connotata da forti personalismi e da programmi politici ancora molto vaghi, il tema dell’immigrazione torna alla ribalta. Ma i partiti paiono avere le idee poco chiare. Non basta dire, come aveva fatto qualche settimana fa Mario Draghi, “non si può essere aperti senza limiti. A un certo punto il Paese che accoglie non ce la fa più”. Servono strategie concrete. “Zero clandestini” - Il leader della Lega Matteo Salvini ha lanciato lo slogan “zero clandestini”, che si suppone condiviso anche dai suoi alleati. Vuole ottenere il risultato con la chiusura dei porti, politica che aveva adottato quando era ministro dell’Interno nel governo Conte I, e che continua a rivendicare. Evidentemente, il fatto che tale politica violi convenzioni internazionali, rappresentando un illecito, per Salvini non è un problema, nonostante i processi nei suoi riguardi. L’obiettivo “zero clandestini” richiede pure che si operino espulsioni per chi varca i confini illegalmente. Al riguardo, va ricordato che per chi proviene da determinati paesi non ci sono modi regolari per fare ingresso in Italia, salvo essere ricompresi nelle esigue quote previste dal cosiddetto decreto flussi o nei numeri ancora più esigui dei corridoi umanitari. Chi non riesce ad arrivare attraverso questi canali dovrebbe essere rimpatriato nel paese di provenienza. Nel 2018 Salvini aveva promesso che avrebbe fatto “centomila espulsioni all’anno”, riducendo poi la sua ambizione a 100 persone al giorno (dunque circa 36.500 all’anno). Ma secondo i dati del Viminale, tra il 1° agosto 2018 e il 31 luglio 2019, sono state rimpatriate 6.862 persone. A fronte di ciò, il Partito democratico non trova di meglio che rinfacciargli via Twitter gli scarsi risultati ottenuti. I rimpatri - La Corte dei conti italiana, in una relazione del maggio scorso (n. 10/2022), ha fornito una serie di dati sui rimpatri, che ne attestano la limitatezza rispetto agli arrivi. Dal 2018 al 2020 i rimpatri “forzati” hanno riguardato 16mila stranieri, a fronte di 69.000 arrivi nello stesso triennio, con una spesa pari a circa 27,4 milioni di euro. Il fatto è che tali rimpatri non sono realizzabili in mancanza di accordi di riammissione con gli Stati di origine dei migranti. A questo riguardo, la Corte dei conti europea (relazione speciale n. 24/2019) ha rilevato tra le criticità concernenti l’Italia, oltre alla difficile cooperazione con i paesi terzi di origine dei migranti, l’eccessiva durata delle procedure di asilo, la difficoltà nel localizzare i migranti rimpatriabili e monitorare le partenze volontarie; l’insufficiente capienza dei centri di trattenimento pre-allontanamento. Anche i risultati degli accordi di riammissione tra Ue e paesi non-Ue sono modesti. Nell’ottobre 2019 il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, vantò il fatto che, grazie al decreto “Paesi sicuri” - paesi ove fondatamente si può presumere sia garantita la tutela dei diritti umani - in 4 mesi sarebbero state portate a termine le istruttorie per le richieste di asilo di chi proveniva da quei paesi e i rimpatri dei non aventi diritto. Di Maio omise di considerare che, senza accordi di riammissione con tali paesi, i rimpatri non sarebbero comunque aumentati. Nell’ultima relazione annuale, presentata nel giugno scorso, il Garante dei detenuti ha sollevato anche la questione della legittimità della permanenza dei migranti nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), “quando sia già a priori chiaro che il rimpatrio verso quel determinato paese non sarà possibile”. Esternalizzazione delle frontiere - La strategia che pare mettere d’accordo le parti politiche è quella della esternalizzazione delle frontiere - azioni volte al controllo dei confini, per impedire che i migranti possano attraversarli - perseguita a livello sia europeo sia nazionale. I fondi dell’Unione europea rivenienti dal fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa sono stati utilizzati per lo più per arginare le migrazioni verso l’Europa. Come si legge su Openpolis, si tratta di una soluzione che l’Europa “ha ripetutamente messo in atto negli ultimi anni”, ma che non agisce “sulle cause reali della migrazione né garantisce un approccio sostenibile e rispettoso dei diritti umani. Inoltre, avviene a scapito di maggiori investimenti in servizi essenziali come sanità e istruzione nei paesi beneficiari delle politiche di cooperazione, che invece sarebbero realmente capaci di ridurre i flussi, migliorando le condizioni di vita delle persone nei loro paesi”. Peraltro, questi fondi - che vanno ad arricchire i regimi dei paesi d’origine dei migranti, anziché le popolazioni - non hanno fermato i migranti. Anche l’Italia ha seguito la strada dell’esternalizzazione delle frontiere, “a partire dal memorandum di intesa Italia-Libia siglato nel 2017 dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti e poi rinnovato nel 2020, con la finalità esplicita di tenere i migranti al di fuori dei confini italiani. Questo nonostante il paese nordafricano abbia registrato numerosi casi di abuso, detenzione arbitraria, tortura, sfruttamento e estorsioni ai danni dei migranti che vi transitavano”. Invece, non si stanno sviluppando appositi corridoi umanitari. Burocrazia - Due strumenti messi in campo negli ultimi anni per affrontare il tema dell’immigrazione, il “decreto flussi” e la “sanatoria”, procedono a rilento a causa della burocrazia. Il decreto flussi, finalizzato all’ingresso di lavoratori stranieri - l’ultimo (Dpcm 21 dicembre 2021) ha raddoppiato le quote previste per il 2022 (69.700, di cui oltre 40 mila stagionali) rispetto a quelle degli anni precedenti - richiede un iter di diversi mesi prima che le persone possano iniziare in concreto a lavorare. La sanatoria prevista dal decreto “Rilancio” (d.l. n. 34/2020) - come rilevato dal monitoraggio da parte della campagna Ero Straniero - ha consentito di regolarizzare, dopo quasi due anni, appena il 50 per cento delle 207 mila domande presentate dai datori di lavoro. Eppure si trattava di un provvedimento emanato in via d’urgenza, per fare fronte alla carenza di manodopera in due settori essenziali, agricoltura e lavoro domestico. Ma di questa burocrazia, regolatoria e operativa, i partiti politici non paiono interessarsi. Come avevamo scritto su queste pagine, servirebbero interventi tesi ad affrontare l’immigrazione - fenomeno che sarà sempre più rilevante nei prossimi anni - in termini strutturali, e non emergenziali. Dal permesso di soggiorno temporaneo, da rilasciare a lavoratori stranieri per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani, al sistema dello sponsor, per l’inserimento nel mercato del lavoro di immigrati con garanzia di risorse finanziarie e di un alloggio. Il nostro sistema previdenziale regge fin quando i contributi pagati dai lavoratori in un certo anno riescono a finanziare la spesa per le pensioni nel medesimo anno. Il crollo della natalità rende necessario reperire altre risorse: l’entrata di immigrati regolari permetterebbe di aumentare il numero dei contribuenti. Ma anche di questo nella campagna elettorale non si parla. Migranti. Se la convivenza nasce con il lavoro di Luigi Manconi La Stampa, 1 agosto 2022 Nemmeno la vena più acida della satira politica più scellerata attribuirebbe al possibile avvento di un governo di destra la causa scatenante delle violenze che, negli ultimi giorni, si sono consumate ai danni di stranieri residenti in Italia. Lo sguardo, evidentemente, va indirizzato altrove. Al fatto cioè, che in Italia, mentre giornali e schermi televisivi riproducono le immagini di sbarchi più frequenti e massicci (ma assai inferiori a quelli del 2015) e dell’hotspot di Lampedusa ridotto in condizioni tragiche e pieno come un uovo, nel sistema mediatico e nel linguaggio domestico non circola alcun discorso pubblico sull’immigrazione. O meglio: vi circola in prevalenza un senso comune colpevolizzante e stigmatizzante, che riduce lo straniero a figura criminale, a soggetto deviante, a fattore di disordine sociale. È accaduto così anche in occasione dell’assassinio di Civitanova Marche: “l’indifferenza” segnalata da molti si spiega, tra l’altro, col fatto che, per una quota rilevante di opinione pubblica, il cittadino nigeriano ucciso era parte costitutiva del degrado della vita urbana (accattonaggio, marginalità, extra-legalità): dunque, Alika Ogorchukwu, più e prima che vittima, era elemento e causa di quello stesso degrado. Ovvero correo della propria stessa morte. Molte le cause di questa falsa rappresentazione. Tra queste, come si è detto, la mancata elaborazione di un’idea e di un racconto (proprio non mi riesce di ricorrere allo stucchevole termine di “narrazione”) sull’immigrazione che siano razionali: e che diano conto di ciò che effettivamente è: una componente essenziale della nostra organizzazione sociale e dell’economia nazionale. In altre parole, oltre 5 milioni di stranieri regolarmente residenti e un contributo alla ricchezza nazionale corrispondente a 9-10 punti di Pil. Tutto ciò risulta cancellato dalle notizie di cronaca nera o - nel migliore dei casi - da un sentimento di compassione davanti alle tragedie: i migranti morti nel Mediterraneo (più di 800 nel corso del solo 2022) e il giovane marocchino accoltellato a Recanati. Tra le ragioni di questo deficit di conoscenza c’è anche la responsabilità di quella che viene detta cultura democratica e di sinistra. Questa ha vissuto la questione con imbarazzo, se non con un vero e proprio disagio, muovendosi sempre sulla difensiva. Ha patito, di conseguenza, l’offensiva xenofoba delle destre, limitandosi in genere a deprecare il razzismo e a evocare la solidarietà. Da quando, già nei primi anni Novanta del secolo scorso, l’immigrazione è diventato fenomeno di massa, quella cultura democratica e di sinistra non è stata capace di fare un discorso, come si dice, “in positivo”. Certo le difficoltà erano e sono enormi, ma palesemente è mancata la volontà politica. E ciò in un paese dove pure interi settori produttivi (dalla ristorazione all’agro-alimentare) dipendono in misura rilevantissima dal lavoro straniero; in una società dove la crisi profonda del welfare state è stata, almeno parzialmente, “soccorsa” e contenuta grazie a centinaia di migliaia di babysitter, colf, badanti, assistenti sanitari provenienti dall’estero; in un sistema scolastico pubblico dove i minori stranieri sono oltre 800mila e contribuiscono alla formazione di un’identità collettiva, certo composita e contradditoria, ma viva e vitale. Questa l’Italia contemporanea, dove molti giovani stranieri occupano - e finalmente - posti importanti nella ricerca, nell’arte, nell’economia e nella finanza, nell’imprenditoria. Ecco, questo è quanto manca nel discorso pubblico sull’immigrazione. Il rischio è che manchi persino in questa campagna elettorale, da subito macchiata dal sangue di Alika Ogorchukwu e del ventenne nordafricano. La cultura democratica e di sinistra e i partiti che vi si ispirano possono, ancora una volta, giocare di rimessa, sperando di evitare il peggio: gridare al pericolo dell’intolleranza e augurarsi che la xenofobia (la paura dello straniero, cioè) non si traduca in risorsa elettorale per l’avversario. Oppure possono rovesciare completamente lo schema: parlare di riforma della legge sulla cittadinanza (in campagna elettorale? Sì, in campagna elettorale) partendo da quei dati di realtà prima detti. Dal fatto che, per esempio, è da due decenni che l’Ufficio studi di Confindustria parla della necessità, per l’economia italiana, di 150-180mila lavoratori stranieri ogni anno. E, ancora, del fatto che l’edilizia italiana ha riacquistato una certa vivacità anche grazie al contributo di ottimi muratori, idraulici e piastrellisti rumeni. In altre parole, l’unica possibilità che i settori più vulnerabili della società italiana non vivano la presenza degli stranieri come una minaccia non è quella di cancellare questi ultimi. È, al contrario, una strategia culturale e politica che individui i punti di contatto tra italiani deboli e stranieri deboli: e su questo costruisca un programma comune che metta al centro i bisogni materiali condivisi (salariali, abitativi, sanitari). Insomma, ai nazionalismi e ai sovranismi non si risponde con la retorica della fratellanza: l’unica replica possibile è quella che parla di un’Italia com’è, fatta di vecchi e nuovi italiani che possano convivere pacificamente insieme. Migranti. Ahmed, quel posto omaggio sul gommone dei trafficanti di Caterina Bonvicini La Stampa, 1 agosto 2022 Li chiamiamo naufraghi, sopravvissuti, minori o non minori, migranti o clandestini, ma la terminologia - corretta o scorretta che sia - non coglie la realtà. Il ponte di coperta è giovane. Hanno quasi tutti vent’anni, sono coetanei dei ragazzi italiani a cui le mamme preparano ancora la pasta mentre studiano per un esame all’università o affrontano il primo lavoro. Gli altri sono adolescenti, con facce da bambini ma troppa vita alle spalle, adolescenti che viaggiano per anni e anni da soli. Mamme ansiose ce ne sono anche qui, per carità, a volte partono intere famiglie. Ma si tratta di siriani o di libici. La signora di Tripoli, che ha la mia età, ieri controllava che il figlio maggiore, ventenne, avesse mangiato. Anche fra le persone del Corno d’Africa si vedono famiglie, ma si tratta di genitori ventenni con bambini piccoli. Tutta un’altra situazione. A parte questi pochi nuclei (che portano un braccialetto viola), il ponte di coperta è il regno dei soli. Gente che la famiglia se l’è costruita con gli amici, durante il viaggio. Uno di questi è Ahmed, somalo. Sulla Geo Barents è sempre seduto vicino al suo migliore amico, l’unico rimasto del gruppo. Gli altri due, Abdullahi e Hamza, sono morti in Libia, per le torture. Sono morti di fianco a lui, in cella, li ha tenuti per mano fino all’ultimo. Ahmed vive a Kismayo, nel Basso Giuba. Quando arriva il clan dei Hawiye, stermina il suo, quello degli Ashraf. A suo padre tagliano un braccio e pochi mesi dopo muore. Dopo averlo seppellito, scappa in un campo profughi in Etiopia insieme alla madre, ai fratelli e alle sorelle. Poi nel 2020 decide di partire, non vuole passare la sua vita in un campo profughi. Attraversa il Sudan per raggiungere la Libia. La traversata del Sahara è durissima. Partono in 50, ma non arrivano tutti: 11 di loro muoiono di sete durante il viaggio nel deserto e vengono scaricati nella sabbia. “I trafficanti ci davano una bottiglia da mezzo litro di acqua al giorno, che sapeva di benzina. Tenevano l’acqua nelle taniche che prima avevano usato per riempire il motore. Molti, per non restare intossicati, bevevano la loro urina”. Nel gennaio del 2021, insieme ai suoi amici, raggiunge il confine fra Sudan e Libia. Lì si presentano delle milizie libiche armate e rapiscono tutti. Chiudono i prigionieri in un hangar e puntano i kalashnikov: “Se non ci pagate 500 dollari a testa, vi ammazziamo”. A dimostrazione che stanno facendo sul serio, sparano a tre persone a caso, uccidendole all’istante. Nessuno di loro però ha 500 dollari, allora i libici sequestrano i cellulari e cominciano a filmare le torture, per mandare i video alle famiglie su Whatsapp. Ahmed mi fa vedere le cicatrici sulle gambe: plastica bruciata sgocciolata sulla pelle. Lo frustano con il tubo dell’acqua o lo picchiano a sangue con tubi di metallo. Oppure gli versano addosso l’acqua gelata di notte, quando fa freddo. In cella si prende la tubercolosi. Intanto i suoi amici muoiono uno dopo l’altro, a forza di torture. I suoi familiari riescono a fare una raccolta fondi su Facebook per spedire 800 dollari e liberarlo. Ma quando i soldi arrivano, i miliziani se li intascano senza farlo uscire di prigione. E ricominciano le torture. “Ormai non riuscivo più a stare in piedi. Quando dovevo andare in bagno, mi accompagnavano in tre”. L’incubo finisce quando arriva la polizia di Tripoli e arresta i miliziani. Ma lui finisce in prigione di nuovo. Una sera un gruppo di ghanesi, sudanesi e camerunensi spacca le porte delle celle e tutti scappano. Ahmed si ritrova per strada, finalmente libero, e zoppicando raggiunge l’ospedale dell’Onu, dove rimane per 9 mesi, per curare la tubercolosi. Quando guarisce, decide di attraversare il Mediterraneo, in Libia non vuole rimanere un minuto di più. Non ha soldi per pagare i trafficanti, ma a Zawya viene aiutato dalla comunità somala. E con lui ho scoperto una cosa che non sapevo: i trafficanti a volte fanno delle offerte speciali, vendono la traversata a pacchetti. Se un intero gruppo paga, ottiene un posto in omaggio. Ahmed è l’omaggio. In questi giorni, sto scoprendo molte cose sui trafficanti. Per esempio che le tariffe sono diverse a seconda delle nazionalità. Ai bengalesi fanno pagare fino a 5.000 dollari, ai pachistani intorno ai 3.000, ai siriani 2.000 e a quelli del Corno d’Africa fra i 500 e i 700. Ma torniamo al gommone giallo, su cui poi avrei trovato Ahmed (un gommone di pessima qualità, con i tubolari rattoppati). I trafficanti lo gonfiano davanti agli occhi dei passeggeri e poi chiedono a tutti loro di sollevarlo e di metterlo in acqua. C’è l’omaggio ma anche la truffa: 8 persone che hanno pagato restano a terra perché non c’è più posto. E soprattutto non c’è abbastanza benzina. E così Ahmed, insieme a tutti gli altri, si trova alla deriva. E qui le nostre storie si incrociano. In mezzo al nulla, o al troppo. L’incoerenza dei nuovi pacifisti di Furio Colombo La Repubblica, 1 agosto 2022 Distinguono secondo scelte politiche e tattiche. Dicono che alcuni, più indegni, possono benissimo essere bombardati da un’autorità superiore, in base a un certo ordine che comprende anche la pace, ma sanno dove è ragionevole e dove è irragionevole fermarsi. Sarebbe bello, e nobile e consolante, poter dire che, quando scoppiano guerre, ci si può battere con l’azione ostinata di un “partito della pace”. Ma non è vero. Il “partito della pace” c’è, ma ha la sua strategia, i suoi scopi, le sue scelte, e decide come schierarsi. Non necessariamente per la pace. Tutto ciò mi è apparso chiaro quando ho visto alcune persone, note per la loro passata avversione alla guerra (quando la guerra era americana), schierarsi adesso che la guerra è russa non nel mezzo di un grave, pericoloso, insensato conflitto segnato anche da uno squilibrio di potere, dove solo una delle parti in campo è una grande potenza con disponibilità piena di ogni tipo di strumento distruttivo, ma dal lato del protagonista più forte. L’idea della pace è stata enunciata come segue. La pace è un dovere del più debole che, avendo una naturale inclinazione a cedere, la deve assecondare sgomberando il campo dall’inevitabile e naturale tendenza a prevalere (e a suo modo a contribuire alla pace) della parte più forte. Forse molti ricorderanno la fermezza con cui si è condannata l’idea di inviare armi ai più deboli, cercando la pace in una forma di ritrovato equilibrio (se X può fermare Y deve per forza seguire un’interruzione di strage, che vuol dire occasione di pace). Gli argomenti, espressi con molto vigore da presunti appassionati pacifisti, erano i seguenti. Innanzittutto dare le armi, sia pure a qualcuno che vorrebbe difendersi, vuol dire aumentare la guerra e impedire la pace. Poi dare le armi a qualcuno più debole vuol dire moltiplicare le sue possibilità di morire. La battuta corrente era “volete che i più deboli muoiano fino all’ultimo resistente?”. Infine la maggiore potenza dell’avversario non può diventare una ragione per allargare la guerra, semmai per finirla. È un dato di fatto che bisogna considerare con realismo. Il problema non è arrendersi, ma evitare altre vittime e rendersi conto delle cose così come sono. Potreste malignamente osservare che tutti i sostenitori dell’avversione al dare armi per fare più guerra a coloro che non avevano armi erano (e sono, nel caso che sta occupando le cronache adesso) più sensibili alle esigenze e ai problemi russi. Ma è anche vero che la persuasione che più armi impediscono la pace, qualunque sia la parte che le invoca, sia un’inevitabile verità ha segnato l’opinione pubblica al punto che, in poche settimane, sono diventati solo il 10 per cento gli italiani che darebbero armi come soccorso agli ucraini invasi da una delle tre grandi potenze del mondo. Tutto ciò cambia la connotazione della parola pace, così come la Russia ha cambiato la connotazione di ciò che intendiamo per guerra. Qui è importante una digressione. Nel corso del dibattito sul mandare armi di soccorso a un popolo assediato, il governo italiano, per una direttiva dell’Unione Europea, ha deciso un aumento di spesa militare italiana del 2 per cento. I due fatti (spese militari italiane richieste dall’Europa, invio di armi di soccorso agli assediati stretti senza preavviso nella morsa di un’invasione) non hanno alcun rapporto, né politico né militare. Ma per i nuovi pacifisti è stata l’occasione di una grande protesta contro l’idea di armare i disarmati. C’è stata anche l’occasione di usare parole del Papa, ma la pace del Papa non concepisce la benevolenza per chi le armi le ha e le usa. È la pace di prima, quando tutte le armi erano condannate e tutte le guerre erano una grave colpa. Ecco, lo abbiamo detto. C’è una pace di prima che vuole tutto lo spazio necessario alla salvezza delle persone e non fa sconto a chi si presenta all’improvviso già armato. L’unica risposta è la condanna. E c’è il nuovo pacifismo che invece distingue secondo scelte politiche e tattiche. Dice che alcuni, più indegni, possono benissimo essere bombardati da un’autorità superiore, in base a un certo ordine che comprende anche la pace, ma sa dove è ragionevole e dove è irragionevole fermarsi. Come ha dimostrato il furente litigio sull’invio di armi di soccorso al paese invaso (con lo strano slogan “chi si difende muore molto di più, e noi saremo i responsabili”), i nuovi pacifisti non hanno mai mollato. La pace si fa da una parte sola, quella dei perdenti. E più si arrendono o cedono o fuggono o si ritirano, e più la pace sarà grande e, si suppone, ben curata dal vincitore. L’inferno quotidiano dei prigionieri di guerra in Ucraina di Lorenzo Santucci huffingtonpost.it, 1 agosto 2022 Col perdurare del conflitto, entrambi gli eserciti, russi e ucraini, si accaniscono sui catturati. Noury (Amnesty): “Più si va avanti, più c’è voglia di rappresaglia purtroppo”. A invocare un’indagine indipendente per valutare le responsabilità di quanto accaduto nella prigione di Olenivka era stata ieri l’Ucraina, mentre oggi è Mosca ad aprire le porte del carcere affinché Croce Rossa e Onu possano svolgere il loro lavoro. “L’interesse della Federazione russa” è quello di “condurre un’indagine obiettiva”, scrivono dalla Difesa, al fine che si possa dare un nome e un cognome al responsabile che ha causato la morte di 53 prigionieri e ne ha feriti almeno 75. Numeri più bassi di quelli riportati da Kiev, che continua a dirsi innocente di fronte alle accuse russe, incolpando Mosca di aver distrutto la prigione per nascondere quello che avveniva al suo interno. Maltrattamenti e soprusi, in barba a qualsiasi convenzione internazionale. Era questo il modo in cui sarebbero stati trattati i detenuti che, secondo il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, dovrebbe portare alla condanna internazionale di Mosca e dei suoi crimini di guerra. Questi non sono certo una novità in questo conflitto, ma via via che lo scontro sul terreno diventa più aspro, anche le ritorsioni si induriscono. “Che nei conflitti ci siano sempre rappresaglie contro le forze armate contro cui si combatte è un fatto storico. Più si va avanti, più il conflitto si irrigidisce, più c’è voglia di rappresaglia”, afferma ad Huffpost Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Nonostante gli ultimi tempi ci abbiano abituato a ben altri atteggiamenti, “tutte le parti hanno un obbligo e se Mosca vuole aprire le porte della prigione fa solo il suo dovere, quale quello del rispetto delle convenzioni”, continua. Un aspetto che è stato ignorato più volte, anche da parte ucraina, come sottolinea il portavoce dell’organizzazione. “Se si volessero rispettare le convenzioni di Ginevra, i detenuti sono prigionieri di guerra e non devono essere soggetti a maltrattamenti o a un processo. Forme di tortura, minacce di condanne a morte e la continua esposizione mediatica dei prigionieri, utile per le rispettive propagande, sono chiare violazioni della terza convenzione”, spiega. Proprio in questi giorni abbiamo assistito a episodi simili. Il più crudo è quello che ritrae un soldato (presumibilmente) ceceno, appartenente al reparto Akhmat, intento nel castrare con un taglierino un detenuto ucraino, imbavagliato e con le mani legate, poi ucciso con un colpo di arma da fuoco alla testa. Attorno a lui, altri soldati sghignazzanti insultano il condannato a morte. Il video è stato pubblicato su canali Telegram filorussi e non lascia altro spazio se non alla crudeltà. A permettere di distinguere la nazionalità sono gli indumenti: cappello a frange nere, fascetta al polso e distintivo con la Z per l’omicida, stemma a strisce gialloblu per il prigioniero. Il video non solo è autentico, come conferma il sito investigativo Bellingcat, ma il protagonista si sarebbe visto in almeno un’altra clip diffusa da Russia Today, nell’impianto Azot a Severodonetsk. “Tutto il mondo ha bisogno di capire: la Russia è un paese di cannibali che amano la tortura e l’omicidio”, ha scritto su Twitter il consigliere del governo ucraino, Mykhailo Podolyak, che ha avvertito come “la nebbia della guerra non aiuterà ad evitare la punizione dei carnefici. Identifichiamo tutti. Prenderemo tutti”. Scene simili si sono verificate, ovviamente, anche dall’altra parte. Riccardo Noury fa l’esempio del video in cui viene ripreso un soldato ucraino mentre spara a sangue freddo sulle gambe dei prigionieri russi, anche loro con le mani legate dietro la schiena e alcuni in ginocchio, gambizzandoli sotto gli occhi degli altri commilitoni. “Più si catturano prigionieri di guerra, più ci si vuole vendicare di ciò che è successo”, spiega il portavoce. In questi casi comprendere come siano andati i fatti è facile mentre per altri, come nel caso della prigione di Olenivka, a pochi chilometri da Donetsk, è un’operazione molto più complessa. Entrambe le parti si rimbalzano le colpe, entrambe convinte dalle loro ragioni. Ma non si può decretare un responsabile con leggerezza. “È un lavoro faticoso”, quello di arrivare alla verità. “Non si possono mettere a confronto le narrazioni di guerra e capire quale sia quella di miglior buon senso. Non basta. Né i russi né gli ucraini possono affibbiare responsabilità. L’unico modo è un’indagine indipendente. Ci vorrà del tempo e bisognerà vedere se emergono alcuni elementi”. Come il tipo di arma che ha distrutto la struttura (che i russi sostengono essere missili Himars, che l’Occidente sta donando agli ucraini) e chi le ha in dotazione, sempre che non siano state rubate, e quindi capire “chi può averle azionate. Chiunque sia stato è un crimine di guerra. Ogni conflitto, anche a distanza di anni, porta con sé degli episodi divergenti”, afferma Noury ricordando l’esempio del mercato centrale di Sarajevo, Markale, dove il 5 febbraio del 1994 persero la vita sessantotto persone. Ad oggi, senza elementi, è impossibile affermare se gli ucraini abbiano lanciato i missili sui propri soldati imprigionati per poi dare la colpa al Cremlino, oppure se sia stato quest’ultimo ad aver architettato il tutto. Non sarebbe la prima volta, visto che strutture civili sono diventate obiettivi militari dei russi. A non migliorare la posizione di Mosca è, tra l’altro, un tweet dell’ambasciata russa a Londra. Si sa che nella prigione c’erano soldati del battaglione d’Azov catturati dopo la loro resa e la conseguente conquista di Mariupol da parte dell’esercito russo. Gli stessi che, come si legge nel messaggio rilasciato - e mai cancellato - dall’ambasciata, “meritano di venire giustiziati, ma non da un plotone di esecuzione, devono essere impiccati, meritano una morte umiliante”. A rispondere è stato il comandante ad interim del Battaglione, Nikita Nadtochy, che rivolgendosi a Vladimir Putin gli ha ricordato come “non si parla di corda in casa dell’impiccato”, promettendogli di “venire giustiziato, insieme a tutti gli sciacalli e le ambasciate, condannato da un tribunale internazionale”. Difficile che ciò accada, almeno in tempi relativamente brevi. Ad ogni modo, dei crimini di guerra “ne rispondono in primo luogo i responsabili sul campo delle operazioni”, continua Noury. “La catena delle responsabilità”, tuttavia, “può arrivare fino a tutti coloro che, pur sapendo o non potendo non sapere, non ne hanno impedito la commissione se non addirittura ordinati o, in seguito, nascosti e condonati”. Il portavoce di Amnesty si riferisce allo Zar, ma anche al ministero della Difesa. Ora che Mosca ha deciso di aprire le sue porte in cerca della verità, spetterà alle autorità addette trovare le colpe dei tanti crimini di guerra commessi durante questo conflitto, di fronte cui non sembra palesarsi una fine. Anzi, i combattimenti nel sud-est dell’Ucraina possono diventare ancora più violenti, con il rischio di portarsi dietro crimini simili a quelli elencati. Proprio per evitarli, il presidente Zelensky ha avviato l’evacuazione obbligatoria della regione di Donetsk. “In questa fase della guerra, il terrore è l’arma principale della Russia”, ha dichiarato nel suo consueto messaggio quotidiano, in cui ha implorato la sua gente di andarsene. “Più persone lasceranno la regione ora, meno persone verranno uccise dall’esercito russo. Per favore, evacuate”. Ucraina. Via libera ad esperti Onu nel carcere bombardato nel Donbass di Fausta Speranza vaticannews.va, 1 agosto 2022 Con l’accordo della Russia, esperti delle Nazioni Unite e della Croce Rossa si preparano a visitare il carcere di Olenivka, in Donbass, che è stato preso di mira nella notte del 29 luglio da un attacco missilistico in cui sono morti oltre 50 prigionieri di guerra ucraini. Ad annunciarlo è stato il ministero della Difesa russo, spiegando che in questo modo Mosca vuole facilitare una “indagine obiettiva” sull’attacco di cui le parti in conflitto si accusano a vicenda. Secondo Kiev, l’attacco è stato voluto per occultare torture sui prigionieri. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ribadito l’appello ad evacuare la regione del Donetsk nell’Est del Paese, le cui città sono colpite da bombardamenti continui, per fuggire dal “terrore russo”. “Il governo ha deciso l’obbligo dell’evacuazione della regione del Donetsk - ha detto in un video rivolto ai connazionali - Per favore evacuate! In questa fase della guerra, il terrore è l’arma principale della Russia”. La decisione era stata annunciata dalla vice primo ministro Irina Vereshchuk, motivandola con la distruzione delle reti di gas e l’assenza di riscaldamento prevista per la prossima stagione invernale. Il governatore della Crimea, Mikhail Razvozhaiev, citato dalla Tass, ha scritto che il drone che ha ferito cinque persone questa mattina in un attacco alla sede del comando della Flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli, ha iniziato a sparare una volta entrato nel cortile dell’edificio. Tutti i feriti, ha aggiunto, hanno ricevuto assistenza medica. Il governatore ha scritto che i servizi d’intelligence russi (Fsb) sono al lavoro per chiarire le circostanze dell’attacco che Mosca attribuisce agli ucraini. Razvozhaiev ha invitato la popolazione di Sebastopoli a restare calma e ha decretato la cancellazione degli eventi che erano previsti oggi per la Giornata della Flotta russa. Inoltre, nel sud dell’Ucraina, secondo il quotidiano The Kyiv Independent, il comando operativo “Sud” ha dichiarato di aver ucciso 33 soldati russi e distrutto due obici russi Msta-B, un lanciarazzi multiplo Grad, 2 depositi di munizioni e 3 veicoli corazzati e militari. Il sindaco di Kharkiv Ihor Terekhov ha riferito di bombardamenti nella notte nel distretto Nemyshlianskyi. Secondo le informazioni preliminari, l’attacco avrebbe danneggiato alcuni edifici. Intanto il Libano trattiene una nave con un carico di grano ucraino. Lo riporta sempre The Kyiv Independent. L’ambasciata ucraina in Libano fa sapere di aver ricevuto un’ordinanza che consente il sequestro della nave per 72 ore. Nei giorni scorsi, l’ambasciata aveva informato i funzionari che una nave siriana carica di grano rubato dai territori ucraini occupati era attraccata al porto di Tripoli. Libia, la schiavitù del gas di Francesca Mannocchi La Stampa, 1 agosto 2022 A Tripoli riprendono gli scontri e Haftar punta ad allargare il controllo sulle fonti energetiche, ma così l’Europa rischia di legittimare un criminale di guerra e rafforzare la presenza russa. Il comandante libico Khalifa Haftar è responsabile di crimini di guerra: esecuzioni extragiudiziali e torture. Questo l’esito della sentenza emessa venerdì da un tribunale statunitense contro l’uomo forte dell’Est della Libia. Un giudice federale, nel verdetto in contumacia, ha accolto le richieste di decine di famiglie libiche che tre anni fa hanno accusato Haftar di aver torturato e ucciso i loro parenti e hanno intentato una causa contro di lui ai sensi del Torture Victim Protecion Act del 1991, una legge che consente a cittadini non statunitensi di chiedere un risarcimento a persone che - agendo in veste ufficiale in qualsiasi nazione straniera - hanno commesso torture e abusi. Gheddafiano prima e antigheddafiano poi, Haftar è stato una risorsa della Cia, ha ottenuto la cittadinanza americana ed è tornato in Libia dopo la rivoluzione del 2011 per prestare servizio nel governo riconosciuto a livello internazionale che ha tenuto il potere fino al 2014 quando è iniziata la guerra civile, quando lui stesso lanciò l’operazione Dignità e il paese venne diviso in due sfere di influenza. Dopo un accordo di cessate il fuoco della fine del 2020 è stato istituito un nuovo governo di unità nazionale che avrebbe dovuto condurre il Paese a elezioni nel dicembre 2021. La corte statunitense aveva congelato il fascicolo prima delle elezioni per non influenzare il voto, ma le elezioni non si sono tenute e il caso è stato riaperto, nonostante Haftar abbia tentato di invocare l’immunità come presunto capo di stato. Ma ha fallito. Le accuse a suo carico si riferiscono al 2019. È l’inizio di aprile del 2019 quando Khalifa Haftar ordina alle sue truppe di muovere verso Tripoli, iniziando una campagna militare che durerà 14 mesi per controllare la capitale libica. I combattimenti si trasformano velocemente in una guerra per procura: da una parte Haftar con l’Esercito Nazionale Libico che fa riferimento a lui supportato da Russia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, mercenari ciadiani, sudanesi e naturalmente mercenari russi del gruppo Wagner. Dall’altro il governo di Fayez al-Sarraj riconosciuto dalla comunità internazionale e supportato da Turchia e Qatar. È proprio grazie all’alleato turco - che fornisce uomini, droni da combattimento e mezzi - che Sarraj riesce a proteggere e tenere il controllo su Tripoli. Nel mezzo mesi di guerra civile e abusi, decine di fosse comuni scoperte nella città di Tarhouna controllata da milizie fedeli a Haftar e in cui, a distanza di tre anni, continuano a emergere cadaveri e testimonianze di torture e esecuzioni. La sentenza arriva nell’ennesimo momento molto delicato della vita politica libica e rischia di avere conseguenze sulle ambizioni di Haftar che da anni lotta per imporre il suo potere in Libia e rischia di avere ripercussioni sul supporto internazionale di cui ha goduto finora. Difficile, infatti, giustificare l’appoggio politico a un criminale di guerra. A complicare le cose il valzer di alleanze degli ultimi mesi, le rivolte di piazza, gli scontri tra milizie e il Paese di nuovo sull’orlo della guerra civile. Il balletto delle alleanze - Dopo la firma del cessate il fuoco nel 2020 la Libia ha vissuto un periodo di relativa stabilità. Nel marzo 2021 un accordo supervisionato dalle Nazioni Unite ha portato al potere l’imprenditore misuratino Abdul Hamid Dbeibah, con il preciso scopo di traghettare il Paese alle elezioni del dicembre 2021, elezioni a cui per mandato aveva accettato di non candidarsi. Le elezioni - come ampiamente previsto - non si sono tenute e sono state rimandate a tempo indeterminato. Impossibile trovare accordi sulle liste, le procedure, i regolamenti. L’annullamento delle elezioni ha aperto una disputa sulla legittimità del governo di Dbeibah. Il suo tempo è formalmente scaduto ma Dbeibah, nonostante gli impegni presi a Ginevra, né si è dimesso né ha intenzione di mollare il potere. A marzo 2022, tre mesi dopo le mancate elezioni, la Camera dei Rappresentanti nella città orientale di Tobruk - sostenuta da Haftar - ha votato per un governo parallelo presieduto da Fathi Bashaga, ex ministro dell’Interno di Tripoli che gode del supporto di numerosi gruppi armati a Tripoli e ex acerrimo nemico di Haftar. Ma in Libia si sa, le alleanze sono fluide, e pur di cacciare Dbeibah ha vinto la regola aurea delle guerre: il nemico del mio nemico è mio amico. Così, dopo un giro di visite di Bashaga e dei suoi a Bengasi, il Parlamento dell’Est lo ha riconosciuto nuovo primo ministro, insediando un governo parallelo che ha intimato a Dbeibah di dimettersi. Dbeibah non solo non lo ha fatto, ma quando a maggio Bashaga ha provato a entrare a Tripoli, ha mobilitato le milizie a lui fedeli, dimostrando che quando la tensione sale in Libia, il vero potere torna a essere sempre quello delle armi. Bashaga ha trasferito la sede del suo governo a Sirte, la simbolica città che diede a Gheddafi i natali e la morte e i suoi sostenitori, alleati con l’ex nemico Haftar hanno usato l’altra arma sempre presente nei momenti di crisi: i pozzi petroliferi. Le milizie fedeli a entrambi hanno parzialmente chiuso gli impianti per fare pressione su Dbeibah e farlo dimettere. Si scrive guerra, si legge gas - Non è la prima volta che le milizie mostrano la forza per determinare le scelte politiche. Non è la prima volta, soprattutto, che lo fa Haftar. Basta guardare alla storia recente. È la fine del 2019, l’Europa e le Nazioni Unite compiono uno dei tanti tentativi di negoziazione, una delle tante conferenze, occasione di sfilate di primi ministri ma destinate a non cambiare nulla sul territorio libico. Nel 2019 tocca a Berlino. Il giorno prima della conferenza in Germania le milizie legate a Haftar bloccano i pozzi nella parte orientale del Paese, i polmoni dell’economia libica. Si fermano Brega, Ras Lanouf, al-Sedra e al-Hariga. Il blocco causa un calo della produzione del Paese da 1,3 milioni di barili al giorno a 500.000 barili al giorno e un deficit di 55 milioni di dollari al giorno. Il motivo era semplice: allora Haftar controllava la quasi totalità dei pozzi ma non poteva vendere il petrolio, dunque non poteva monetizzare questo controllo, e Tripoli controllava le istituzioni - il NOC, National Oil Corporation, il solo ente che può esportare gas e petrolio e che drena le entrate attraverso la Banca Centrale. Il comma 22 della Libia. Per avere pieni poteri (leggasi proventi delle risorse energetiche) Haftar voleva e vuole conquistare Tripoli, solo così può capitalizzare il controllo di gas e petrolio. E ogni volta che prova a ottenere il potere e fallisce, le milizie a lui legate bloccano i pozzi e dunque le entrate di un paese in cui la rendita degli idrocarburi costituisce il 90% delle entrate statali. L’accordo Dbeibah-Haftar - Il gas e il petrolio sono sempre sul tavolo e vengono sempre usati come ago della bilancia, strumento di pressione, fungono da collante per vecchie e nuove alleanze. È così anche per l’ennesimo valzer di alleanze. Molti dei principali terminal petroliferi del Paese erano stati chiusi da aprile, quando la coalizione del generale Khalifa Haftar aveva bloccato la produzione di petrolio nella campagna per sostituire Dbeibah con Bashaga. Oggi la situazione è capovolta. La fine del blocco e la ripresa delle esportazioni di petrolio, sponsorizzate da alcuni attori internazionali, è arrivata dopo un nuovo accordo tra Dbeibah e Haftar. Il 12 luglio, inaspettatamente, Dbeibah ha rimosso il presidente della National Oil Corporation (NOC), Mustafa Sanalla, sostituendolo con Farhat Bengdara, un banchiere dell’era gheddafiana che vanta stretti legami con Haftar, e altrettanto stretti legami con Abu Dhabi. Secondo i media libici la decisione è stata preceduta da una serie di incontri tra i figli di Haftar e parenti stretti di Dbeibah. Oggetto dell’accordo sarebbe la rinuncia di Haftar ad appoggiare Bashaga in cambio della nomina di Farhat Bengdara e la promessa di alcuni ministeri chiave nel governo nazionale guidato da Dbeibah. Dbeibah resterebbe così al potere e Haftar potrebbe controllare e influenzare la più importante istituzione del paese e monetizzare il controllo sui pozzi e sulle raffinerie. Il nuovo capo del NOC, Bengdara, appena insediato ha annunciato la revoca delle restrizioni di forza maggiore in tutti i giacimenti petroliferi e i terminali di esportazione del Paese, ponendo di fatto fine a un blocco di tre mesi che era costato al governo libico più di 3 miliardi di dollari di mancate entrate. Di certo la riapertura dei pozzi è una notizia positiva per la popolazione libica che dipende interamente dalle entrate petrolifere. Il punto è capire quali conseguenze porterà questo accordo. Le violente proteste di queste settimane nelle principali città libiche nonché gli scontri tra le milizie di Tripoli e Misurata che hanno provocato 16 morti, ricordano che la situazione nel Paese sia di nuovo tesa a livelli d’allarme e che lo sia in un momento di estrema fragilità delle Nazioni Unite, che hanno dimostrato di fallire ogni tentativo negoziale e della presenza sempre più forte di attori come Turchia, Russia e Emirati su tutti, mentre l’Europa sconta una mancanza di visione e di analisi ormai da anni. La presenza di Mosca, gli errori europei - La Russia è storicamente alleata di Haftar. E ai russi che si deve la presenza della brigata Wagner in Cirenaica, gruppo che continua ad avere il controllo della base aerea di Jufra nel Sud della Libia. La presenza del gruppo armato Wagner è chiaro segnale che il Cremlino non voglia abbandonare la sua influenza sul Nordafrica. Tutto questo avviene mentre l’Europa sconta anni di timidezza e di cecità. L’Europa, infatti, in questi anni ha perso terreno in Libia perché ha progressivamente ristretto l’angolo di osservazione sul Paese nordafricano al tema delle politiche migratorie. Intanto lo scenario si modificava irreversibilmente, con attori nuovi e con attori presenti da tempo sul terreno libico e da tempo sottovalutati. Lo scenario che si apre di fronte oggi sembra delineare due scenari entrambi preoccupanti. Il primo è che Bashaga e le milizie a lui fedeli (ormai traditi da Haftar) decidano di combattere per entrare a Tripoli innescando di fatto una guerra civile di cui gli scontri armati di queste settimane sembrano essere stati preludio. Il secondo è che l’accordo tra Haftar e Dbeibah regga e che si consolidi un governo allargato con ministri dell’Est e dell’Ovest, magari con l’appoggio della Comunità internazionale che in assenza del gas russo ha bisogno delle risorse energetiche libiche. Il punto è, come sempre in Libia: a quale prezzo? Il prezzo è accettare il controllo di Haftar sulle entrate di gas e petrolio, accettare la presenza russa anche in Tripolitania e dunque anche nella parte del Paese in cui storicamente agiscono le milizie legate al traffico di uomini. Significa, da ultimo, legittimare come interlocutore politico un comandante che tre giorni fa è stato è stato ritenuto responsabile di crimini di guerra da un tribunale statunitense. La domanda che pesa come un macigno oggi è: l’Europa è pronta a pagare questo prezzo per una fittizia stabilità libica e la garanzia di avere il suo gas? Iran. Ondata di esecuzioni: almeno 251 nei primi sei mesi dell’anno di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2022 Duecento cinquantuno condanne a morte eseguite nei primi sei mesi dell’anno, una media di una al giorno: la macchina della morte dello Stato iraniano sta tornando ai livelli della metà dello scorso decennio. Di questo passo, in questi giorni il totale delle esecuzioni del 2021, 314, sarà stato ampiamente superato. Mentre scrivo questo post, infatti, è già arrivato a 300. La legislazione iraniana prevede la pena di morte per numerosi reati, tra cui omicidio, traffico di droga, stupro e rapina a mano armata. Atti protetti dal diritto internazionale dei diritti umani come le relazioni omosessuali tra persone adulte e consenzienti, le relazioni extraconiugali e i discorsi ritenuti “offensivi nei confronti del profeta dell’Islam”, così come reati descritti in modo del tutto vago come quello di “inimicizia contro Dio” e “diffusione della corruzione sulla terra”, possono a loro volta essere puniti con la pena capitale. Le condanne vengono emesse al termine di processi sistematicamente irregolari, in cui vengono utilizzate come prove “confessioni” estorte con la tortura. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sull’Iran ha parlato di “problemi intrinsechi nelle leggi, ciò che significa che nella maggior parte dei casi, se non in tutti i casi, di esecuzione siamo di fronte a una privazione arbitraria della vita”. Secondo i dati raccolti dal Centro Abdorrahman Boroumand per i diritti umani e Amnesty International, la maggior parte delle 251 esecuzioni del primo semestre del 2022, 146, ha riguardato il reato di omicidio. Altri 86 prigionieri sono stati messi a morte per reati di droga per i quali, secondo il diritto internazionale, non dovrebbe essere inflitta la pena capitale. Invece, la strategia iraniana di contrasto al narcotraffico si basa pressoché esclusivamente sulla pena di morte. Nel novembre 2017, dopo forti pressioni internazionali e il taglio, da parte di vari stati europei, dei fondi destinati alle operazioni antinarcotici, le autorità iraniane avevano intrapreso riforme per cancellare la pena di morte per alcuni reati di droga. Tra il 2018 e il 2020, di conseguenza, le esecuzioni erano diminuite. Nel 2021, tuttavia, sono tornate a salire: almeno 132 (il 42 per cento del totale), un numero cinque volte superiore alle 23 esecuzioni registrate nel 2020. Nei primi sei mesi del 2022 le autorità iraniane hanno compiuto con scadenza regolare esecuzioni di massa nelle prigioni del paese. Il 15 giugno nel carcere di Raja’i Shahr, situato nella provincia di Alborz, sono stati messi a morte almeno 12 prigionieri. Il 6 giugno come minimo altri 12 prigionieri erano stati messi a morte nella prigione di Zahedan, situata nella provincia del Sistan e Balucistan. Il 14 maggio erano stati messi a morte altri nove prigionieri in quattro carceri: ancora Zahedan, Vakilabad (provincia del Khorasan-e Razavi), Adelabad (provincia di Fars) e Dastgerd (provincia di Esfahan). Dall’inizio del 2022 la direzione del carcere di Raja’i Shahr, che ha uno dei bracci della morte più ampi dell’Iran, ha messo a morte in media cinque prigionieri alla settimana, a volte il doppio. Solo qui, alla fine dell’anno, le esecuzioni potrebbero aver superato quota 200. Il procuratore associato al carcere di Raja’i Shah ha recentemente annunciato di aver scritto alle famiglie di 530 vittimedi omicidio, chiedendo loro di scegliere, entro la fine del marzo 2023, se perdonare l’assassino o chiederne l’esecuzione. Più volte, infine, il capo del potere giudiziario Gholamhossein Mohseni (un ex ministro dell’Intelligence) e ulteriori alti funzionari della magistratura hanno parlato della necessità di ridurre il sovraffollamento delle prigioni e ciò ha seminato il terrore tra i detenuti. In passato, ondate di esecuzioni erano state precedute da dichiarazioni del genere. Almeno 65 delle persone messe a morte dall’inizio del 2022, ovvero il 26 per cento, appartenevano alla minoranza emarginata dei beluci, che non rappresenta più del cinque per cento della popolazione dell’Iran. Oltre la metà di quelle esecuzioni, 38, hanno riguardato reati di droga. Nel 2022 sono anche riprese le esecuzioni in pubblico: almeno una, ma altri due prigionieri nelle province di Esfahan e del Lorestan sono stati condannati a essere messi a morte pubblicamente. Nel 2020 c’era stata un’esecuzione in pubblico, nel 2019 e nel 2018 erano state 13. *Portavoce di Amnesty International Italia Egitto. Il ricercatore Santawy ottiene la grazia ed esce dal carcere di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 1 agosto 2022 Ahmed Samir Santawy, lo studente egiziano della Central European University di Vienna ha ottenuto la grazia e dopo oltre un anno dietro le sbarre, ha lasciato il carcere. Il giovane stava scontando una condanna a tre anni di reclusione per diffusione di false notizie in Egitto e all’estero, destabilizzazione della sicurezza dello Stato e diffusione del panico, in merito al suo lavoro di ricercatore nell’ateneo austriaco, dove frequentava un master e approfondiva il tema dei diritti delle donne in Egitto. Oltre a lui, il decreto presidenziale di grazia riguarda altre sei persone tra cui il giornalista Hisham Fouad, a sua volta incarcerato per diffusione di false notizie, e l’attore Tarek Al-Nahry, accusato per gli scontri tra polizia e manifestanti durante una protesta davanti al palazzo del governo nel 2012. Tra questi, il caso di Ahmed Samir Santawy, 30 anni, arrestato nel febbraio del 2021, è quello che ha attirato maggior attenzione a livello internazionale, con ripetuti appelli da parte dell’Università europea di Vienna e dei suoi colleghi affinché venisse rilasciato, convinti che un’incriminazione sulla base del contenuto di una ricerca universitaria leda la libertà accademica e di espressione. Inoltre Amnesty International ha denunciato che dopo l’arresto Santawy “è stato picchiato e interrogato” dai funzionari egiziani per cinque giorni con accuse legate ad attività terroristiche. A dicembre scorso un giudice aveva annullato il primo processo che si era concluso con una condanna a quattro anni, ma il 4 luglio scorso il nuovo processo ha solo ridotto la pena a tre anni.Alla testata Mada Masr, il fratello di Santawy Abdel Rahman ha detto che la famiglia ancora non sa quando il decreto di grazia verrà attuato mentre l’avvocato Ahmed Ragheb attende una copia firmata dell’atto. In Italia, la storia di Santawy ha ricordato quella di Patrick Zaki, il ricercatore dell’Alma Mater Studiorum di Bologna arrestato per la stessa ragione nel febbraio del 2020 e ancora in attesa di giudizio. “Finalmente Ahmed Samir Santawy è libero” ha scritto Patrick su Twitter per accompagnare la foto che lo ritrae con il ricercatore egiziano. “La grazia ad Ahmed Samir Santawy, che ci riempie di gioia, va considerata comunque non un’improvvisa conversione del governo egiziano ai diritti umani ma come un gesto di facciata, una cocnessione che ogni tanto il governo egiziano deve fare per accontentare la comunità internazionale. E’ un segnale che si vuole dare su persone su cui c’è stata una certa pressione internazionale. Ma quando si tratta di Patrick Zaki o Alaa Abdel Fattah, allora non avviene, perché si tratta di nomi troppo scomodi” ha commentato alla Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Questi detenuti secondo le associazioni per i diritti umani sono prigionieri di coscienza e secondo l’Arabic Network for Human Rights Information dal 2013 - anno in cui si è insediato con un colpo di stato il presidente Abdelfattah Al-Sisi - ce ne sarebbero almeno 65mila sui 120mila totali rinchiusi nelle carceri egiziane, di cui 26mila in detenzione cautelare in attesa del processo. Stando ad altre associazioni però, la cifra potrebbe sfiorare le centomila unità. Stime difficili da fare, in quanto come denunciano gli stessi organismi, le autorità non rendono pubblici i dati circa la popolazione carceraria nel paese.