Comunicato sulla drammatica situazione nelle carceri di Coordinamento Carcere Due Palazzi Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2022 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: - liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione - liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. Coordinamento Carcere Due Palazzi - Granello di Senape/Ristretti Orizzonti - Giotto Cooperativa Sociale - WorkCrossing Cooperativa Sociale - Associazione Amici della Giotto - AltraCittà Cooperativa Sociale - Coristi per caso - Solidalia Cooperativa Sociale - Volontà di Sapere Cooperativa Sociale - Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale - Pallalpiede - TeatroCarcere - Scuola Edile - Antigone Padova - Commissione Carcere Camera Penale di Padova - Insegnanti scuole in carcere Hanno dato la propria adesione: - Associazione Closer Venezia - Cooperativa sociale “Rio Terà’ dei Pensieri” Venezia - Cooperativa sociale “Il Cerchio” Venezia - Il Granello di senape O.d.V Venezia - Associazione Loscarcere - Marcello Pesarini e Giovanni Russo Spena - Enrichetta Vilella, operatrice carceraria Onorevoli, andatelo a vedere quel canile... di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 agosto 2022 Il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nelle lettere scritte prima di togliersi la vita diceva: “siamo cani in un canile”. Non parlava solo di sé e della propria sciagurata situazione processuale. Voleva dire, e a qualcuno lo aveva anche spiegato nel dettaglio, che la separatezza del luogo dalla società comportava anche il disinteresse delle istituzioni nei loro confronti. Ecco, oggi, in piena campagna elettorale il disinteresse è massimo. Quanti sono gli onorevoli e i senatori che usano il loro diritto di visitare le carceri per andare a vedere cosa succede “in quel canile”? Praticamente nessuno. E intanto nel “canile” si muore. Nel 2022 ci sono stati 53 suicidi. Cioè 53 omicidi di stato. Dopo l’appello e l’inizio del digiuno di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che tra l’altro si rivolge ai partiti perché inseriscano nel proprio programma di governo sia riforme sull’esecuzione penale e sull’ergastolo ostativo, ma anche amnistia e indulto, ci piace immaginare che ci sarà una gara a chi arriverà primo, tra sinistra, centrodestra e terzo polo. Primo a gridare che la situazione della giustizia e del carcere con i suoi suicidi è uno scandalo, e che risolvere questo scandalo è il primo punto di un programma di governo su cui il 25 settembre si chiederanno i voti ai cittadini. Così come vorremmo veder passare davanti ai nostri occhi la lunga fila di deputati e senatori che in questi giorni affollano gli ingressi delle carceri dove 53, dicasi cinquantatré (se non sono aumentati mentre scriviamo) esseri umani, cioè persone, donne e uomini, hanno detto semplicemente “basta”. Si sono uccisi. Gesto di ribellione nei confronti dello Stato che, dopo aver preso in consegna i loro corpi, non ha saputo averne cura, anzi ha pensato bene di sopprimerli. Così il problema non esiste. I rappresentanti delle istituzioni sono autorizzati dall’ordinamento penitenziario nato dalla riforma carceraria del 1975 a visitare gli istituti di pena senza particolari autorizzazioni, per verificare le condizioni di vita e di salute sia dei prigionieri che degli agenti di polizia penitenziaria. Sono autorizzati, ma in genere non lo fanno. L’argomento non interessa, semplicemente. Anche coloro che si occupano di giustizia e che si appassionano al processo penale, ritengono il momento della condanna definitiva il punto terminale dell’amministrazione della giustizia. Tutto quel che succede dopo, e che è la conseguenza che separa la buona dalla cattiva giustizia, non li riguarda più. Il parlamentare in genere si risveglia di soprassalto solo quando capita che finisca in galera un suo amico o compagno di partito. Ecco allora che ci si ricorda di quell’articolo 57 dell’ordinamento, e si scopre che esiste la custodia cautelare come privazione della libertà personale prima del processo, e il sovraffollamento e l’invivibilità dell’istituzione totale. Ma pochissimi sono i deputati e i senatori che sanno, che hanno visto e toccato con mano che cosa è quel luogo che tiene prigionieri i corpi e distrugge le persone. Quando - e sono ormai passati quasi vent’anni il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nelle lettere scritte prima di togliersi la vita diceva “siamo cani in un canile”, non parlava solo di sé e della propria sciagurata situazione processuale. Voleva dire, e a qualcuno lo aveva anche spiegato nel dettaglio, che la separatezza del luogo dalla società comportava anche il disinteresse delle istituzioni nei loro confronti. Non è un caso che, nei giorni in cui San Vittore era pieno di politici arrestati nelle inchieste di Tangentopoli, rinchiusi tutti nel medesimo raggio, lui, pur potendolo fare, aveva rifiutato di andare nel luogo “privilegiato”, meta delle visite di tanti parlamentari. Lui aveva voluto toccare con mano la realtà vera, vi si era immerso, aveva vissuto insieme a lui la sorte di quel ragazzo del Ghana che, in un processo celebrato senza interprete, aveva beccato dieci anni di condanna in dieci minuti. I problemi di quel 1993 erano gli stessi di oggi. Il sovraffollamento che, come dice Rita Bernardini, vuol dire illegalità, e l’abbandono, il disinteresse. Eppure, a partire dagli operatori penitenziari, dal medico allo psicologo fino all’educatore, e poi i direttori e i giudici di sorveglianza, fino ad arrivare al neo-direttore del Dap Carlo Renoldi e alla ministra Marta Cartabia, quante persone per bene e di buon cuore ci sono a occuparsi della vita e della morte dei detenuti? Tante. Tante persone per bene e di buon cuore. Pure, non se ne esce. Quel che diceva Cagliari vent’anni fa è ancora lì, cani in un canile. E in 53, dall’inizio dell’anno, hanno detto basta. Il più giovane, 25anni, incensurato, ha usato il sacchetto di plastica, proprio come quell’antico presidente dell’Eni, poi si è rannicchiato sotto le coperte e ha chiuso gli occhi. Dove sono i leader politici, di destra sinistra e centro, mentre si sta consumando questa strage? Dove sono i direttori dei grandi giornali e i famosi editorialisti? Ce ne fosse almeno uno pronto a dire che si vergogna perché ha lasciato sola Rita Bernardini con il suo digiuno. Che è pieno di rossore perché, pur sapendo che “una telefonata allunga la vita” non ha strillato perché un po’ di umanità non entri dalla porta principale delle carceri, perché un po’ di giustizia non entri nei tribunali, perché un grosso faro vada a illuminare questo mondo dove non si curano i malati psichici, non si aiutano i tossicodipendenti, non si contano gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi, oltre a quelli realizzati. E cavolo, deputati e senatori, uscite un attimo dai vari cerchi magici dove state sbavando per la candidatura e girate gli occhi a guardare il mondo. È mondo anche quello, sapete? E un giorno potrebbe togliervi il consenso, persino il voto. Misure cautelari in cella, quel mezzo estremo usato con strana nonchalance di Riccardo Radi* Il Dubbio, 19 agosto 2022 Partiamo dai numeri: dal 1992 ad oggi, circa 30.133 persone hanno ottenuto il risarcimento per ingiusta detenzione, moltissime non l’hanno ottenuta (solo il 23% delle istanze viene accolta) e molte altre non l’hanno neanche richiesta. Questi sono numeri che fanno riflettere, così come deve far riflettere la somma che lo Stato italiano ha speso dal 1992 ad oggi per queste riparazioni: oltre 894 milioni di euro. L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione trova il suo fondamento costituzionale nei princìpi di inviolabilità della libertà personale (articolo 13 della Costituzione) e di non colpevolezza fino alla condanna definitiva (articolo 27 della Costituzione), oltre che nella previsione dell’articolo 24, che - al quarto comma - attribuisce al legislatore il compito di determinare “le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. Inoltre, l’articolo 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, afferma che ogni persona vittima di un arresto o di una detenzione eseguiti in violazione della stessa Convenzione ha diritto a un indennizzo. In armonia con questi princìpi, il codice di procedura penale, nel disciplinare le misure cautelari, agli articoli 314 e 315 prevede uno specifico procedimento per “compensare”, in chiave solidaristica (articolo 2 della Costituzione), gli effetti pregiudizievoli che la vittima dell’indebita restrizione della libertà personale patisce, ovvero la riparazione per l’ingiusta detenzione subita a titolo di custodia cautelare. All’origine di questo fenomeno gravemente e colpevolmente sottovalutato c’è soprattutto una custodia cautelare applicata anche per lunghi periodi, spesso con eccessiva leggerezza e con scarso senso di responsabilità, salvo poi risolversi il processo in un’assoluzione o in un proscioglimento. Come dimostrano le statistiche diramate dallo stesso ministero della Giustizia che ogni anno invia al Parlamento una relazione. Nell’ultima, relativa all’anno 2021, si evince che la situazione dell’uso del potere cautelare si tramuta, spesso, in abuso da parte della magistratura. Il primo dato che balza agli occhi è che solo il 70% degli uffici giudiziari interpellati (sezioni Gip- Gup e sezioni dibattimentali dei Tribunali) hanno inviato i dati necessari per la relazione, pur trattandosi non di una graziosa concessione ma di un adempimento dovuto. Desta ulteriore sconcerto che la percentuale delle risposte sia pressoché in costante calo nell’ultimo quadriennio (84% nel 2018, 86% nel 2019, 76% nel 2020 e 70% nel 2021). Appare grave, e sinonimo nel migliore dei casi di una disorganizzazione preoccupante, che 3 uffici giudiziari su 10 non possano o non vogliano comunicare al ministero dati così importanti. Scorrendo i numeri si evince che nel 2021 sono state emesse 81.102 misure cautelari personali. Erano state 82.199 nel 2020, 94.197 nel 2019 e 95.798 nel 2018. C’è un calo evidente, ma due fattori importanti inducono a considerarlo meno significativo di quanto sembrerebbe suggerire il puro dato numerico. Il primo, rilevato anche nella relazione, è l’incidenza della pandemia che, facendo diminuire drasticamente la circolazione degli individui, ha ridotto le occasioni di reato. Il secondo è che nel biennio 2018/ 2019 i dati sulle misure cautelari sono stati forniti da una percentuale di uffici giudiziari ben più alta di quella del biennio successivo, sicché è dato presumere che, se le due percentuali fossero state uguali o simili, la diminuzione delle misure sarebbe stata meno marcata di quanto risulta. È quindi sensato affermare che la flessione del ricorso al potere cautelare appare dovuta più a fattori contingenti (pandemia e incompletezza dei dati disponibili) che a maggiore cautela di pm e giudici. La tipologia delle misure applicate lascia intendere che il carcere e gli arresti domiciliari sono le più gettonate. Gli arresti domiciliari (con o senza “braccialetto”) e la custodia in carcere o in luogo di cura rappresentano il 56,2% delle misure totali, e la custodia in carcere (29,7%) è di gran lunga la misura più applicata, seguita a distanza dagli arresti domiciliari nelle due forme (25,7%), dall’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (15,8%) e dal divieto di avvicinamento (10,4%). Il ricorso alle due misure più afflittive pesava per il 57,6% nel 2020, per il 58,6% nel 2019 e per il 58,9% nel 2018. C’è quindi una modesta diminuzione, ma un fatto continua ad essere innegabile: il carcere e gli arresti domiciliari, cui si dovrebbe fare ricorso solo quando ogni altra misura è inadeguata, continuano a essere il destino più probabile per chi è oggetto delle iniziative cautelari. Il dato più significativo è che nel 20% dei casi la misura cautelare non doveva e non poteva essere applicata. *Avvocato La punizione è inutile, l’unico risarcimento possibile è quello di ottenere utilità dal colpevole di Iuri Maria Prado Il Riformista, 19 agosto 2022 Quando il delitto è compiuto, quando la violenza si è consumata ponendo fine all’incolumità della vittima, l’atteggiamento della società e del legislatore dovrebbe essere solo utilitario e rivolgersi a due esclusivi rimedi. Se c’è il pericolo effettivo che il responsabile del delitto vi si abbandoni nuovamente, impedirlo; altrimenti, cavare qualcosa di buono da chi ha fatto quel male. Nel primo caso, l’effetto utilitario risiede nella protezione della società dal rischio che il responsabile di quel delitto, siccome attualmente ed effettivamente pericoloso, possa nuocere ulteriormente: ed è un rimedio che riguarda una quota del tutto trascurabile della popolazione carcerata. Nel secondo caso, l’utilità sociale dell’alternativa alla pena riguarda pressoché la totalità di quella popolazione, gente che è imprigionata senza che ne guadagnino nulla né la sicurezza, né l’economia, né il tenore civile della comunità libera. Ciò che purtroppo non si comprende è che la società deve farsi carico del delitto. È costretta a farsi carico del delitto. Non può fare altro, se non mentendo a sé stessa, che sopportarne il peso, perché l’alternativa è fingere di liberarsene aggravando la condizione di chi l’ha commesso. Farsi carico del delitto significa riconoscere che esso può essere compiuto, per quanto si debba operare per prevenirlo. E significa farsi carico del fatto che, quando esso si compie, non esiste genuino e non illusorio mezzo di risarcimento altro che quello di ottenere utilità da chi l’ha commesso. L’utilità di una persona messa in condizione di lavorare, di studiare, di aiutare gli altri, di arricchire di denaro, di conoscenza, di esperienza e - se glielo si concede - di bontà, la società che in tal modo lo condanna a questo esperimento più difficile, più duro, ma per tutti più proficuo, che è vivere liberamente. Farsi carico del delitto è avere la forza di rifiutare che quelli che l’hanno commesso siano inutilmente puniti. Appunto perché non serve a nulla, semplicemente. La condizione delle donne in un carcere pensato per soli uomini di Maurizio Gazzoni dolcevitaonline.it, 19 agosto 2022 Le donne rappresentano solo il 4,2% dei detenuti in totale, un motivo in più per dimenticarsi completamente di loro. Il Sistema di espiazione della pena nel nostro paese è sicuramente “maschio-centrico”, nei termini, nei modi, nell’impostazione e nella direzione. La condizione delle 2.402 donne (il dato potrebbe non essere preciso al millimetro, ma cambia poco) recluse nei Penitenziari italiani sono probabilmente peggiori degli inferni in cui vivono i reclusi maschi. La loro detenzione in Italia è affidata a reparti ad hoc, 52 in tutto, all’interno di carceri maschili a parte le eccezioni di Pozzuoli, Roma, Trani e Venezia a esclusiva detenzione femminile. La maggior parte delle donne detenute sono prima di tutto povere e hanno percorsi tortuosi sui quali nessuno si sogna di intervenire prima dell’irreparabile. L’informazione mainstream ci mostra le “zingare borseggiatrici” della metropolitana come se fossero delle furbacchione che si godono la vita a sbafo impedendoci, come per tutto il resto, di fermarci un attimo a pensare che razza di vita deve essere quella dove al mattino vai a rubare, magari con tuo figlio in braccio o peggio ancora lasciato chissà a chi. Quando “finalmente” vengono prese, la vulgata comune vuole che “il giorno dopo son già libere” e le vittime sono i poliziotti che rischiano la vita per pochi spiccioli inutilmente perché tanto “in galera in Italia non ci va nessuno”. Anche le guardie sono vittime dello stesso sistema e fanno una vita grama, quasi quanto quella dei ladri cui danno la caccia. I secondi, però, una volta che si riesce a metterli dietro le sbarre - dove “dovrebbero stare a pane e acqua” condizione che nell’immaginario collettivo rappresenta il metodo rieducativo più efficace - vengono legittimamente sepolti nei dimenticatoi delle nostre coscienze. Non so se ho reso l’idea. E i figli di queste disgraziate? E loro stesse, legate a doppio filo a una realtà dove spesso la sola volontà non basta a farle sfuggire dal proprio “destino sociale”? È palese che tra le priorità dell’attuale “momento storico”, la condizione delle carceri, o meglio, delle patrie galere, non sia in cima ai pensieri di nessuno, tranne per chi vi dimora o vi si reca per visitare un parente detenuto. A nessuno importa né delle donne né degli uomini lì dentro, ma per le prime, come per ogni minoranza, non v’è proprio spazio e nessuna voce che dia loro una possibilità di riscatto. La sola possibilità che le donne hanno di non finire nel tritacarne del destino è quella di avere una famiglia alle spalle, ma probabilmente, se l’avessero avuta, in galera non ci sarebbero mai nemmeno finite. Emergenza carceri: Di Giacomo inizia sciopero fame e fa appello a Mattarella di Mariagiovanna Capone Il Mattino, 19 agosto 2022 Il segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, ha cominciato lo sciopero della fame e ha rivolto un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “I 53 suicidi, un’aggressione al giorno di personale penitenziario, le decine di mini-rivolte scoppiate nelle ultime settimane - spiega Di Giacomo - dovrebbero scuotere la coscienza di tutti, ma ancora una volta le istituzioni e la politica hanno la testa altrove, per la politica alle elezioni del 25 settembre. Non possiamo più attendere il voto, un nuovo Parlamento e un nuovo Governo mentre detenuti più fragili si tolgono la vita, prosegue con ferocia la caccia all’agente e i capo clan comandano dalle celle”. “Per queste ragioni - continua - ho scritto al Presidente Mattarella. Uno Stato che oltre a non garantire la legalità nelle carceri non riesce a garantire la sicurezza dei detenuti e dei suoi dipendenti testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici sino a far passare inosservata la strage di questa estate con detenuti di età sempre più giovane. Da servitori dello Stato l’impegno del personale penitenziario è rivolto a far rispettare la legalità e al contrasto a mafia e criminalità che, a nostro parere, deve svolgersi a partire dalle carceri. In questo non siamo soli. Numerosi magistrati antimafia hanno messo in guardia su quanto sta accadendo, specie negli ultimi mesi, nei penitenziari del Paese rinnovando le richieste al Ministro di Grazia e Giustizia, all’Amministrazione Penitenziaria e all’intero Governo di dare risposte efficaci ed efficienti ai troppi problemi del sistema penitenziario incancreniti negli anni”. “Non possiamo perdere altri mesi. Per questo - afferma ancora il sindacalista - abbiamo deciso iniziative di protesta in tutte le regioni, in tutte le carceri, ed ho iniziato, insieme ad altri dirigenti e agenti, lo sciopero della fame. Ci sono azioni, misure, provvedimenti che si possono e si devono attuare subito perché più passa tempo e più l’illegalità si diffonde con il rischio di ripetere quanto accaduto con le rivolte nella primavera del 2020. Abbiamo già ripetutamente chiesto le dimissioni della Ministra Cartabia per manifesta incapacità e siamo ormai di fronte ad una corsa contro il tempo se vogliamo evitare che questa estate di strage nell’assoluto silenzio generale, salvo qualche caso di commozione come per le più giovani recenti vittime, che però dura il tempo di leggere qualche articolo di giornale, passi alla storia del sistema penitenziario del Paese per la più grave striscia di sangue con un suicidio ogni 3-4 giorni, 17 volte in più rispetto a quanto accade fuori”. Santalucia (Anm): “Assoluzioni inappellabili? Parliamone ma non coi toni del Cav” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 agosto 2022 Silvio Berlusconi ha rilanciato l’antica proposta dell’inappellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione. Ne parliamo con il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che ci dice: “Il tema è tecnicamente discutibile ma aspettiamo di leggere una proposta dettagliata. Non dimentichiamo che il pm ha già subìto delle limitazioni per le impugnazioni”. Come mai ha sentito l’esigenza di contrapporsi immediatamente alla dichiarazione di Silvio Berlusconi? Non si è trattata di una nota dell’Anm. I giornalisti delle agenzie mi hanno interpellato e io ho espresso il mio parere. Però Luciano Violante in un’intervista ha detto: “L’Anm credo che dovrebbe prendere l’abitudine di tacere”... Noi esistiamo per parlare. L’Anm ha il compito statutario di intervenire, certo con sobrietà, nei dibattiti di interesse pubblico sui temi della giustizia. Questo arricchisce la discussione e consente alla politica di decidere meglio. Tacere vorrebbe quasi dire contravvenire al senso del nostro esistere. Noi non attacchiamo nessuno né stoppiamo possibili riforme: queste espressioni sono tipiche enfatizzazioni giornalistiche. Abbandoniamo il piano politico e passiamo al piano giuridico. Lei ha ricordato nella sua dichiarazione che già la Corte costituzionale ha bocciato la legge Pecorella. E però nella relazione redatta dalla Commissione presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi c’è scritto: ‘La proposta si configura come compatibile con il quadro costituzionale’. Quindi è superata la sentenza del 2007? Per superare una sentenza della Corte costituzionale occorre un nuovo pronunciamento della stessa Consulta. Certo, la posizione del presidente Lattanzi è di tutto rispetto. Credo anche io che il tema sia tecnicamente discutibile. Però non possiamo dimenticare che quella sentenza ha ribadito degli aspetti, e che lo stesso principio di parità delle parti fa parte del nostro ordinamento. Dopo di che ci si siede attorno ad un tavolo, come ha fatto la Commissione Lattanzi, e si ragiona. In che termini se ne può discutere? Lei cosa proporrebbe? Già il pm ha avuto delle limitazioni significative con la legge Orlando, non compensate con altrettante limitazioni per l’imputato. Poi abbiamo già eliminato l’appello incidentale del pm. Al pm è preclusa la possibilità di appellare per doglianze sulla pena. E inoltre, dopo una doppia conforme di assoluzione non ha un’ampia possibilità di ricorso per Cassazione. Eliminare totalmente le impugnazioni per la parte pubblica sarebbe eccessivo. Quindi mi muoverei con cautela se si vuole imboccare questa strada di riforma. Ovviamente bisogna vedere come verrebbe articolata nel dettaglio la proposta, che non risolverebbe il problema maggiore del sistema giustizia che è un altro. Quale? Ho letto l’ordinanza della Presidenza del Tribunale di Roma che sospende per sei mesi le assegnazioni al collegio dei processi provenienti da udienza preliminare. Il problema vero è quello dell’enorme quantità dei processi, su cui le impugnazioni del pm non incidono, attestandosi ad una percentuale inferiore al 2%. Mi permetto di dire che oltre i sacrosanti diritti dell’imputato, che è il soggetto principale del procedimento, esiste anche il diritto all’accertamento della verità. Il processo non può essere valutato da un solo punto di vista. Su questo ha detto il presidente dell’Unione Camere penali Caiazza: ‘ Se dovessimo sposare il punto di vista delle parti civili dovremmo sempre accettare tutti i ricorsi del pm’... Non dico che bisogna scompensare il processo e dare seguito ad ogni tipo di istanza della parte civile. Io guardo più alle vittime che alle parti civili. E poi c’è una esigenza superiore della collettività di sapere su certi fatti gravi, come le stragi o fatti che scuotono la tenuta del sistema democratico, quale sia la verità. Chiedo a chi fa la proposta: questi processi dovrebbero chiudersi con un primo grado? È possibile pensare, dal punto di vista di chi ha subìto sulla propria pelle il reato, che una sentenza magari mal scritta o mal fatta debba porre fine alla vicenda? Però rimane sempre la possibilità di ricorrere in Cassazione. Anche perché se uno viene assolto in primo grado e condannato in secondo sarebbe vittima di un grave pregiudizio. Capisco l’obiezione. Però ci sono dei casi in cui le sentenze possono essere scritte in maniera tale da non rendere manifestamente illogico il percorso argomentativo. Prendiamo il caso di Alberto Stasi: assolto in primo e secondo grado. Poi la Cassazione rinvia per un altro appello e verrà definitivamente condannato. ‘ Come può essere una sentenza espressa al di là di ogni ragionevole dubbio?’, si chiede sempre Caiazza. Sul ragionevole dubbio la giurisprudenza e il legislatore hanno ragionato ampiamente. Sappiamo che dopo una sentenza di assoluzione, in appello la condanna deve intervenire a determinate condizioni. Mi rendo conto che il problema esiste, e che le Sezioni Unite dalla sentenza Andreotti del 2003 se l’erano erano posto. Se il legislatore vuole mettere mano alla riforma penso sia un tema da trattare con particolare cura tecnica e magari selezionare quali tipo di assoluzioni non poter impugnare. Il professor Spangher ci ha detto: nella sentenza della Consulta del 2007 c’è un errore dell’estensore Flick che scrisse di ‘ soccombenza del pm’. Sono d’accordo con il professor Spangher, però è lo stesso errore che fa lui stesso quando sostiene che bisognerebbe condannare il pm alle spese processuali qualora avesse avviato un procedimento inutile. Questo tipo di proposta che aveva lanciato nella Commissione Canzio risponde proprio a quel principio di soccombenza. Non voglio metterla in contrapposizione col professor Spangher ma ci aiuta sempre a far emergere problemi di diritto: secondo lui è una patologia che il pm possa fare appello dopo una assoluzione con rito abbreviato raggiunta sulle sole sue carte. Questa volta non sono d’accordo. Non capisco perché il pm dovrebbe rinunciare all’appello, senza un ampliamento istruttorio in danno. Non colgo l’eccentricità sollevata dal professor Spangher. Però siete d’accordo che la questione vada affrontata dal punto di vista giuridico e non politico. Sì, mi sembra riduttivo porre la questione nei termini in cui è stata proposta ieri da Berlusconi. Io sono intervenuto, sollecitato dai suoi colleghi, anche perché mi è sembrata sbagliata la rappresentazione per cui ‘ troppi innocenti sono ingiustamente processati’. Qui nessuno si alza la mattina e sceglie di processare un innocente: ci sono notizie di reato, ci sono imputazioni che hanno la loro fondatezza e che meritano di essere coltivate. Poi il processo, nel contraddittorio delle parti, ci dirà se l’imputazione era infondata. La presunzione di innocenza vale per tutti ma questo non significa che i processi non si debbano fare e che ogni processo che si conclude con un’assoluzione non andava fatto. La politica sospenda gli slogan e pensi ai futuri “laici” del Csm per rifondare la giustizia di Alberto Cisterna Il Dubbio, 19 agosto 2022 I partiti hanno l’opportunità di individuare 10 nomi d’eccellenza per comporre i ranghi del Consiglio superiore e operare quel rinnovamento che chiede una società sfiancata dalle inefficienze. La fine della lunga agonia di questa legislatura lascerà in vita un’ultima propaggine; l’ultima appendice di una stagione così controversa e convulsa. Par chiaro, infatti, che questo Csm, nominato per 1/3 dal Parlamento sciolto, ha davanti a sé ancora parecchi mesi di attività. A settembre i magistrati eleggeranno i propri rappresentanti al consesso di palazzo dei Marescialli, ma le convulsioni e le frammentazioni della politica che si stagliano all’orizzonte rischiano di tardare - e non di poco - la nomina della componente politica del Csm. Sino a quando i dieci eletti parlamentari non saranno individuati, l’organo di governo delle toghe proseguirà la propria corsa per l’evidente necessità di dare continuità all’esercizio indefettibile delle sue funzioni costituzionali. In una nazione che avesse davvero a cuore le sorti della giustizia italiana, con un ceto politico che non fosse interamente (o quasi) assorbito da una feroce lotta per la sopravvivenza - tra partiti in via d’estinzione e lo scoccare della ghigliottina per il taglio dei parlamentari - questo sarebbe un buon tempo per prendere decisioni assennate. La politica dovrebbe, con saggezza e lungimiranza, fare scouting tra le migliori file dell’accademia, dell’avvocatura e della stessa politica per cercare di convincere dieci persone autorevoli ad accettare la nomina a componenti del Csm e dedicarsi a quell’opera di rifondazione della magistratura che tutti - dal Quirinale all’Anm - ritengono indifferibile. Non si dimentichi che tra quei dieci nomi deve essere eletto il vice-presidente dell’organo di autogoverno e che a costui, anche la riforma Cartabia, assegna funzioni rilevanti per il funzionamento dell’organo. Già non guasterebbe mettersi d’accordo sul nome di una donna che possa espugnare - dopo le Camere e la Corte costituzionale - l’ultimo dei palazzi del plesso repubblicano che resiste al nuovo corso della società. La magistratura italiana è composta da una maggioranza di donne e femminile è la più alta percentuale di nuove toghe. Non si tratta solo di riequilibrare la rappresentanza di genere, ma di dare spazio anche a modalità nuove di approccio a un’istituzione che soffre di una costante vocazione all’iper-regolamentazione. Vizio che, per essere eliminato, solitamente richiede un cuore nuovo e mente sgombra da pregiudizi; come dire “donna è meglio” quando si tratta di cambiare. Poi c’è il tema, al momento ampiamente sottovalutato, della riforma Cartabia. La nuova legge, per trovare vera e concreta attuazione, esige un Csm estremamente proclive ad assecondare l’ispirazione politica e istituzionale che ne costituisce l’impalcatura di fondo. La scelta del vice-presidente e degli altri 9 componenti laici avrà un peso non marginale nella stessa possibilità di inaugurare un nuovo corso nella magistratura italiana. Saranno necessari uomini e donne che abbiano un’esperienza concreta del funzionamento della giustizia e dei suoi problemi e, soprattutto, che abbiano una consapevolezza acuta del modello di giurisdizione che si intende assegnare al paese. Lo si è ripetuto più volte: da qualche decennio ormai non importa tanto quali siano le regole del processo civile e penale, quel che conta è l’organizzazione giudiziaria. Il modo con cui si valutano i giudici, si scelgono i vertici degli uffici, di irrogano le sanzioni disciplinari, si coprono le dozzine di caselle negli incarichi a latere della direzione degli uffici e dello stesso Csm, Tutto ciò ha un’importanza strategica per il funzionamento della giustizia. Quanto accaduto, proprio con la legge Cartabia, per presidiare il rispetto effettivo delle norme sulla presunzione d’innocenza è fondamentale. Nel 2021 la direttiva comunitaria è stata recepita in Italia attraverso una serie di garanzie; oggi se ne pretende l’osservanza con appositi illeciti disciplinari che hanno così strangolato le relazioni tra toghe e stampa. Non passa giorno senza che qualcuno se ne lamenti e non passa giorno senza assistere al prosciugamento, alla progressiva bonifica della palude mefitica delle connessioni tra alcuni pm e alcuni giornalisti. Il legislatore ha intuito che solo brandendo la minaccia disciplinare o quella carrieristica può condurre a ragione anche i magistrati più riottosi e ha intrapreso una strada di cui pochi, ancora, percepiscono la destinazione. Se una valutazione negativa o la compromissione di una progressione in carriera è più cogente e performante di una nullità processuale; se nascondere le prove è adesso un illecito disciplinare, ma ancora non prevede l’annullamento automatico del processo (come accade nei veri processi accusatori) traspare a tutta evidenza quale sia il “modello” di magistratura che la politica intende contrastare o almeno modificare. Ecco che il prossimo Csm - lo si è già detto in un’altra occasione a proposito della qualità dei prossimi eletti tra le toghe - sarà lo snodo fondamentale di questo disegno volto al riposizionamento della giurisdizione attraverso lo strumento obliquo, ma efficace dell’organizzazione e della gestione delle carriere. La politica ha capito che, in un sistema di governo dei processi reso difficoltoso dalla drammatica scarsità delle risorse e da prassi sempre più lasche e anomiche, l’unica soluzione è - per così dire - porsi a monte del problema incidendo non sul funzionamento dei processi, ma sulle toghe che li gestiscono. E’ come se in un campionato automobilistico si affidassero le sorti di una scuderia a un cambio dei piloti, vista la difficoltà di migliorare la macchina. Non è una gran bella soluzione e neppure troppo lungimirante. Certo nell’immediato garantisce qualche risultato, ma a lungo andare genera prassi conformanti e astute che aggirano i problemi sostanziali. Primo tra tutto quello della sempre più scadente qualità dei provvedimenti emessi dai giudici italiani, letteralmente stritolati dalla mancanza di risorse, dai carichi di arretrato e dalle nuove imposizioni della legge Cartabia che ne minacciano le carriere. “Torniamo allo Statuto” titolava l’articolo pubblicato il 1 gennaio 1897, sulla rivista Nuova Antologia, dal deputato della Destra storica Sidney Sonnino in cui invocava il ritorno alle regole fondamentali del regno per arginare la crisi delle istituzioni. Ecco, occorre mettere mano in modo deciso alle regole fondamentali della giustizia italiana, prime tra tutte quelle costituzionali, riconoscendo che la giurisdizione non costituisce l’esercizio di una sorta di sacerdozio laico che genera una casta di chierici, ma è lo strumento indispensabile attraverso cui i cittadini vedono tutelati beni fondamentali e diritti inalienabili. La politica ha l’opportunità - se non opta per la scelta di qualche sopravvissuto alla tormenta che si è abbattuta su di essa cui dare uno strapuntino - di individuare 10 nomi d’eccellenza per comporre i ranghi del Csm e tracciare la strada di quel rinnovamento che abbia lo sguardo fisso non sull’ombelico delle toghe, ma sulla domanda di giustizia che viene da una società dolorante e sfiancata dalle inefficienze. Il centrosinistra non ricandida l’ex presidente del Senato Piero Grasso di Liana Milella La Repubblica, 19 agosto 2022 Lo sfogo dell’ex magistrato: “Continuerò a battermi per la legalità”. Dopo due legislature, sarà fuori dal Parlamento. Il suo rapporto con Giovanni Falcone a 30 anni dall’attentato di Capaci. In questa estate rovente Piero Grasso non si è fermato. Ha girato l’Italia con il suo ultimo libro sotto il braccio. “Il mio amico Giovanni” è il titolo, e svetta in copertina l’accendino d’argento Dunhill che lui gli affidò poco prima di morire. “Piero, tienilo tu. Ho deciso di smettere. Se dovessi ricominciare, me lo dovrai restituire” gli disse. Per un caso, Grasso non era sull’aereo, né sulla macchina saltata per aria a Capaci. Di certo, da quel 23 maggio, ha testimoniato ogni giorno, e non solo negli anniversari, la sua fedeltà all’amico che in vita non poteva certo contare sui tanti “amici” spuntati solo “dopo” come funghi. Conviene partire da qui per raccontare la “non” candidatura di Piero Grasso. Senatore dal 2013 scelto da Bersani, presidente del Senato per cinque anni, rieletto con Leu nel 2018. Ma adesso, nel Pd di Enrico Letta, non c’è più posto per lui. Anche se Grasso ha creduto nel “campo largo”, ma non è di quelli che sanno sgomitare per un posto in lista. Non è nel suo stile di gran signore siciliano. Nella sua voce si avverte l’amarezza. Ma lui la nasconde bene. Al telefono risponde, ma di elezioni e candidature non vorrebbe parlare. Si riesce a fatica a strappargli una battuta. “Io continuerò, come ho sempre fatto, a fare la mai parte per la giustizia, per la legalità, per la ricerca della verità. Ho fatto questo per tutta la mia vita, con la toga addosso, e poi da senatore. Andrò avanti su questa strada”. Certo è davvero singolare che resti a casa un magistrato come lui, a cui si rivolgevano tutti i senatori quando c’era da parlare di giustizia. Compresi quelli del Pd, ovviamente. Poco incline ai compromessi, questo è certo, e deve averne visti tanti, anche se si trattiene dal raccontarli. Rivelazioni e pettegolezzi non fanno per lui. La sua idea della politica e della giustizia pecca forse di ingenuità, in un mondo di lupi. Eccolo dire che “si può fare politica, quella con la P maiuscola e non quella clientelare, formando i giovani al senso delo Stato, nella speranza che le nuove generazioni possano finalmente cambiare questo nostro Paese”. Sì, questo è certo, Grasso continuerà a raccontare, come sta facendo, a chi nel 1992 non era ancora nato, di quando Falcone gli consegnò, a lui giudice a latere, i faldoni del maxi processo nel suo bunker a Palermo. Era il 1986 e l’avventura del primo grande processo contro Cosa nostra cominciava in quel momento. Racconterà di quando Falcone lo chiamò in via Arenula per lavorare con lui alle nuove leggi contro la mafia. Ricorderà i loro pranzi di lavoro. E quel sabato di maggio in cui tutto è finito. La corsa in ospedale. E Falcone ormai già freddo sulla barella. Per chi parla e scrive di Falcone senza averlo conosciuto, senza aver vissuto le sue tristezze per i tanti nemici, anche magistrati, che aveva, Grasso rappresenta una memoria storica unica. E adesso, mentre il centrodestra si appresta ad aggredire i giudici e la giustizia, sarebbe utile avere in Parlamento quella memoria storica. Che certo potrebbe raccontare, per aver ascoltato Falcone mentre lo ripeteva, perché è di certo giusto distinguere con nettezza la carriera di giudice da quella di pm, ma nell’unicità della giurisdizione. Nessuna separazione delle carriere. Ma tant’è. I magistrati non vanno più di moda nel Pd. Neppure quelli che per il Pd, come Grasso, hanno rinunciato a sette anni di carriera. Perché nel dicembre 2012, quando Bersani gli offre la candidatura, l’allora procuratore nazionale Antimafia ha di fronte a sé altri sette anni, visto che solo nel 2014 l’età pensionabile delle toghe passa da 75 a 70 anni. Ma Grasso rinuncia a quegli anni per l’avventura della politica. Eletto, resta senatore per un giorno, giusto il tempo di presentare una proposta di legge contro la corruzione, il voto di scambio, il falso in bilancio che, ricorda Grasso adesso, “proprio la politica aveva cancellato”. Poi viene eletto presidente del Senato. “Con un ruolo istituzionale e sopra le parti - ricorda Grasso - mi sono sentito a mio agio. È stato un passaggio soft e di certo non brusco”. Il resto è storia politica, Bersani lascia il Pd, lui resta al vertice di palazzo Madama. Di sicuro la destra, a cominciare da Berlusconi, non gli perdona quel 27 novembre 2013 quando l’emiciclo votò per la decadenza del capo di Forza Italia dopo la condanna per frode fiscale nel processo Mediaset. Nel 2018 Leu non fa il botto, ma Grasso entra in Senato e nella commissione Giustizia continua la sua battaglia per la legalità. È un tecnico, e sa dove mettere le mani, e scopre le magagne in ogni emendamento presentato. Quando Enrico Letta lancia il “campo largo” lui ci crede. Un anno fa, nell’anniversario della morte di Paolo Borsellino, è a Palermo per la prima agorà accanto a Letta. E a novembre organizza l’agorà democratica sull’ergastolo ostativo, in vista di una legge che risponda alla decisione della Consulta sull’incostituzionalità di rifiutare la liberazione condizionale a chi ha già scontato 26 anni di carcere, ma non ha collaborato con la giustizia. Il leit motiv del “campo largo” si è spento. Grasso ha continuato a crederci. Come crede nel ruolo di testimonial unico di una grande stagione di magistrati uccisi proprio perché avevano la schiena troppo diritta. Anche Grasso volevano far saltare in aria con il tritolo nascosto in un tombino. L’ha salvato una coincidenza. Peccato che la sua preziosa testimonianza, la sua esperienza, quel suo dire “Falcone avrebbe fatto così…”, non possa tenere a freno l’agguerrito centrodestra anti magistrati. L’ex magistrato Roberto Scarpinato: “Mi candido contro il ritorno dei patti fra Stato e mafia” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 19 agosto 2022 Intervista all’ex procuratore generale di Palermo, da qualche mese in pensione, adesso è candidato da indipendente con il Movimento Cinque Stelle. “Siamo in una fase regressiva dello stato democratico che alcuni esperti definiscono come il fenomeno della clanizzazione della politica”. Dottor Scarpinato, perché ha scelto di entrare in politica? “Perché dal 15 gennaio di quest’anno sono in pensione e ho quindi riacquistato un diritto prima incompatibile con il mio ruolo”. Sa cosa dicono i suoi detrattori? “Questa è la prova che le inchieste svolte dal magistrato Scarpinato erano orientate politicamente”... “Mi pare una accusa puerile tenuto conto che tutte le inchieste che ho svolto sui rapporti tra mafia e politica, mafia ed istituzioni sono antecedenti alla fondazione del Movimento Cinque Stelle. Si tratta della stessa accusa rivolta a Falcone dopo che arrestò i cugini Nino ed Ignazio Salvo, esponenti di punta della potentissima borghesia mafiosa del tempo. Un’accusa ripetuta costantemente contro tutti i magistrati che nel corso della storia della Repubblica hanno svolto indagini e celebrato processi a carico di esponenti di vertice del sistema politico ed economico. I veri magistrati politicizzati sono altri. Quelli che fanno carriera proprio perché si guardano bene dal portare avanti indagini e processi sgraditi al modo del potere”. Nella nuova veste di candidato indipendente quanto conta la sua vita da magistrato antimafia o sente che le sta stretta questa figura? “L’esperienza acquisita in tanti anni di indagini su delitti eccellenti, stragi, riciclaggio, collusioni e patti occulti con il sistema di potere mafioso, mi ha consentito di comprendere come funziona in Italia la macchina del potere dietro il velo delle apparenze, e di scoprire i suoi lati più oscuri che hanno gravemente condizionato l’evoluzione democratica del paese ed hanno contribuito al declino economico della nazione”. Nella campagna elettorale si parla poco e niente di lotta alla mafia. Si sente un pesce fuor d’acqua? “Non mi meraviglio affatto. E’ in corso un inquietante processo di restaurazione del passato di cui si colgono tanti segnali. Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato, un passato di convivenza tra Stato e mafia, un passato di occulte transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, sta tornando ad essere la cifra del presente e del futuro”. Cosa le ha detto il presidente Conte quando le ha chiesto di candidarsi da indipendente per i Cinque Stelle? “Mi ha chiesto se ero disponibile come esponente della società civile ed esperto di mafia e di giustizia a dare il mio contributo su temi della giustizia e del contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione ai quali il Movimento Cinque Stelle nella prossima legislatura intende attribuire una centralità strategica perché ne coglie le profonde connessioni con la questione stessa della democrazia e dello stato”. Condivide tutto il percorso dei Cinque Stelle? “Sono molto di più le cose che non condivido del percorso di tante altre forze politiche che sui temi della giustizia e della mafia si sono mosse a volte apertamente, e a volte surrettiziamente, in direzione esattamente opposta a quella dei Cinque Stelle. L’attacco concentrico ed incessante di quasi tutto l’establishment di potere nei loro confronti per le riforme promosse allo scopo di ridurre le sacche di impunità dei colletti bianchi, come la riforma della prescrizione e la legge c.d. Spazzacorrotti, è dal mio punto di vista, un segnale significativo che non sono integrati e omologati nel sistema e che quindi hanno una capacità di proposta e di mobilitazione politica che può muoversi nella giusta direzione come forza di resistenza contro tutte le manovre dirette a ripristinare una giustizia classista forte con i deboli e debole con i forti”. Quanto pesano oggi le mafie nella politica? Pensa che anche questa campagna elettorale possa essere inquinata? “Siamo in una fase regressiva dello stato democratico che alcuni politologi definiscono come il fenomeno della clanizzazione della politica. Venuti meno i grandi progetti collettivi, la contesa politica reale rischia di tornare ad essere competizione tra clan sociali - legali, illegali, spesso una via di mezzo - interessati solo a spartirsi in un modo o in un altro le risorse collettive. In questo contesto i clan di più antica esperienza e più spregiudicati come le mafie, le massonerie occulte, i comitati di affari trovano modo di compenetrarsi nel sistema, normalizzandosi”. Nel nostro Paese resta forte l’astensionismo. Cosa bisognerebbe fare per riavvicinare la gente alla politica? “Se si vuole fare ritornare alle urne masse popolari disilluse perché rimaste orfane di una rappresentanza politica che ne tuteli i diritti sociali fondamentali, occorre suonare forte la campana della discesa in campo di una colazione di forze politiche disposte a battersi per rilanciare lo Stato sociale e per una lotta senza quartiere alle cause della crescita delle disuguaglianze sociali”. Napoli. Detenuto colpito da infarto a Poggioreale, ora è in coma di Antonio Mangione I familiari: “Gravi ritardi nei soccorsi”. Alberto Coppola è ricoverato all’ospedale Cardarelli in coma dopo essere stato colpito da infarto in carcere a Poggioreale. La famiglia denuncia il ritardo dei soccorsi e chiede chiarezza: “E’ stato colpito da infarto alle 5:50, i soccorsi sono arrivati solo dopo le 8:20”, denunciano i familiari. “Da giorni si lamentava che non si sentiva bene ma non ha ricevuto alcuni tipo di cura. E’ stato prelevato soltanto dopo che ha perso conoscenza e faticava a respirare, giunto in ospedale in stato comatoso. È deplorevole lo stato di abbandono delle persone in quel carcere. Lui non dovrebbe essere detenuto in quel carcere perché è semplicemente in attesa di giudizio per frode, quindi un soggetto non pericoloso”. La famiglia di Coppola, anche attraverso l’avvocato Teresa Terracciano, chiede chiarezza sui soccorsi e informazioni sulle condizioni di salute dell’uomo. Modena. “Così noi detenuti abbiamo salvato medici e poliziotti” di Nello Trocchia Il Domani, 19 agosto 2022 L’8 marzo 2020, a Modena, viene scritta la pagina più buia, per morti e saccheggi, nella recente storia penitenziaria dell’Italia Repubblicana. Domani da giorni racconta gli eventi dello scandalo, e le presunte responsabilità dei detenuti rivoltosi, degli agenti che avrebbero pestato a sangue carcerati indifesi, e dei silenzi della politica. Per capire cosa è successo nel penitenziario e perché la macchina dello stato non ha funzionato nemmeno stavolta (le violenze al carcere di Santa Maria Capua Vetere non sono dunque un’eccezione) bisogna però fare anche un salto all’indietro. Fino al 19 gennaio 2020, neanche due mesi prima della devastazione del carcere, a Modena c’era infatti una direttrice, Federica Dallari, che è stata trasferita dall’istituzione. Il comportamento di Dallari era infatti parso troppo sbilanciato a favore della popolazione detenuta. Il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sposta Dallari da Modena perché l’accusa di assumere con le detenute e i detenuti un approccio troppo diretto, spesso assecondandone le richieste. È questa, almeno, una delle ragioni contenute nel provvedimento assunto dall’amministrazione e risalente all’ottobre 2019. La politica della dirigente nel corso dei mesi avevano aperto un continuo e deleterio scontro con la polizia penitenziaria, tanto che Dallari aveva ricevuto ripetute critiche da parte dei sindacati di categoria. La scelta del dipartimento precede di poche settimane l’arrivo della pandemia da Covid 19 e le decisioni del governo di sospendere i colloqui in carcere con i familiari dei detenuti. Due circostanze che provocheranno di lì a qualche settimana fibrillazione in tutte le celle d’Italia, dando il là a proteste e ribellioni. La nuova direttrice nominata dal Dap, Maria Martone, non lavora in pianta stabile nel carcere, ma deve dividersi tra due istituti: a Modena, si reca solo due volta a settimana. L’istituto così trova nel comandante della polizia, Mauro Pellegrino, il suo riferimento principale. Figura capace e apprezzata nel mondo penitenziario, Pellegrino ha dovuto affrontare una situazione senza precedenti con un carcere in rivolta e i corridoi in fiamme. Le sue scelte, il giorno della rivolta, raccolgono elogi, ma anche alcune critiche. “C’è il vincolo del segreto di ufficio al quale sono tenuto”, chiarisce il poliziotto penitenziario quando gli chiediamo conto di alcune sue decisioni. Durante la giornata più difficile della sua vita professionale, Pellegrino deve sopperire all’assenza della direzione, e gestire una rivolta in condizioni difficilissime, visto il sovraffollamento in cui si trova la prigione. In carcere, quell’8 marzo 2020, c’erano 547 detenuti a fronte di una capienza massima prevista di 361. Contemporaneamente c’è assoluta carenza di agenti, in numero insufficiente ad affrontare la normalità. La ricostruzione degli eventi della giornata si fonda su testimonianze inedite, i ricorsi degli avvocati dei familiari dei detenuti morti e documenti agli atti dei fascicoli aperti dalla procura di Modena. La magistratura ha aperto infatti tre filoni d’indagine. Il primo riguarda i morti, deceduti per overdose di metadone, ed è stato archiviato nonostante l’opposizione delle difese. Il secondo interessa i saccheggi: l’inchiesta è ancora in corso a oltre due anni dai fatti. Il terzo sta approfondendo le presunte violenze degli agenti sui detenuti, e vede iscritti cinque agenti della polizia penitenziaria. Tra i coinvolti c’è il commissario Giobbe Liccardi, indagato per tortura e lesione, uomo di fiducia della catena di comando. In quelle ore Liccardi è uno dei riferimenti operativi del comandante Pellegrino, che quando il carcere viene preso d’assalto dai detenuti ordina ai suoi uomini di abbandonare dell’istituto. “Io stavo nel vecchio padiglione (la rivolta inizia nel nuovo edificio, ndr) e a un certo punto gli agenti andarono via: bastava il supporto di altre unità e la rivolta sarebbe stata subito sedata. Io scappai fuori, ma dal muro di cinta Pellegrino mi disse di rientrare per mettere in salvo le detenute”, dice l’ex recluso Shera Bledar. Bledar è oggi indagato perché avrebbe favorito l’assalto al Mof, il locale della manutenzione ordinaria del fabbricato, dove sono depositati arnesi, martelli, picconi, scalpelli. L’ex detenuto, che si dichiara estraneo alle accuse, è stato espulso in Albania, dove adesso lavora come muratore, dopo aver scontato in carcere una condanna per droga e armi. La scelta di lasciare il carcere sarebbe stata impartita dal comandante “per garantire l’incolumità del personale”, si legge nella relazione che firma il 20 luglio 2020. Gli agenti - si legge - abbandonando i servizi di vigilanza e poi, “per evitare di restare bloccati dall’accerchiamento” arretrano oltre la porta carraia. In pratica perdono il controllo del carcere. Dentro i detenuti incendiano e devastano senza che nessuno possa fermarli, mentre fuori gli agenti bloccano i ripetuti tentativi di evasione, supportati dalle altre forze dell’ordine. Ma nessuno irrompe nell’istituto neanche quando i reclusi assaltano la farmacia con il rischio (puntualmente avvenuto) dell’assunzione indiscriminata di farmaci con conseguente overdose. Una parte del personale civile, però, resta bloccato all’interno dell’ufficio del comandante: si tratta di medici, operatori, ma anche agenti della polizia penitenziaria. A salvarli dalla furia dei rivoltosi - questo il paradosso - non sono i poliziotti penitenziari con il supporto delle altre forze dell’ordine, ma alcuni carcerati. Pellegrino parla in effetti nella sua relazione, di “lunga e gravosa opera di trattativa con alcuni detenuti che apparivano meno di altri intenzionati a proseguire la protesta violenta, perché mossi dal desiderio di arrendersi”. Sono questi ultimi ad entrare nella stanza in cui si erano rifugiati agenti rimasti e civili e a portare all’esterno infermieri, medici, tredici agenti della polizia penitenziaria, tre agenti di vigilanza della sezione femminile e trentasette detenute presenti nel vecchio padiglione. “Lo stato si è affidato a noi. Io non sono alto neanche un metro e settanta, con altri siamo entrati e abbiamo evitato che alle donne torcessero anche solo un capello, portando tutti fuori in sicurezza. Ma questo dovevano farlo gli agenti, mica noi. E ora sono pure indagato!”, dice Bledar. Ma perché alcuni detenuti avrebbero accettato di fare da “pacieri”? Per essere portati loro stessi all’esterno “in condizioni di sicurezza”, scrive Pellegrino. In quelle ore i detenuti accompagnano all’esterno anche i compagni di cella in condizioni di salute compromesse, alcuni moriranno di lì a poco mentre altri erano già morti. Ora, perché si decise l’abbandono dell’istituto quando all’interno c’era ancora personale? Perché non si fa irruzione per evitare o contenere l’assalto alla farmacia? Perché non si utilizzano a supporto le altre forze dell’ordine? E perché vengono utilizzati detenuti per scortare all’uscita il personale intrappolato nell’inferno? “Ci sono indagini in corso e non intendo parlare”, ripete Pellegrino. Il comandante spiega, nelle relazioni depositate, di aver provato a coniugare la salvaguardia dell’incolumità del personale, quella dei detenuti e il soccorso di chi necessitava di cure. La relazione ministeriale, diffusa il giorno dopo la pubblicazione della prima puntata della nostra inchiesta, promuove senza se e senza ma l’operato della penitenziaria, parlando di una condotta “calibrata agli eventi” e addebita all’imprevedibilità della rivolta la mancata applicazione del “piano di difesa”. C’è un ultimo passaggio che riguarda quella giornata: il trasferimento dei detenuti negli altri istituti di pena, alcuni non sarebbero stati in condizioni di salute adatte per sostenere quei viaggi. Proprio poco prima dei trasferimenti sarebbero avvenute le violenze, denunciate da sette detenuti che hanno presentato un esposto. “Anche io sono stato trasferito e li ho visti i detenuti massacrati di botte anche sui furgoni, a me non mi hanno toccato”, dice Bledar. Domani ha raccolto la testimonianza di un agente penitenziario che, pur non avendo partecipato al pestaggio, ha visto i volti sanguinanti dei detenuti all’uscita dallo stanzone. Pellegrino cosa pensa dell’indagine che riguarda i suoi uomini? È mai entrato in quel casermone e cosa ha visto? “In quello stanzone sono entrate decine e decine di persone, io violenze non le ho viste in nessun modo. E ho fiducia in tutti i miei uomini”. Pavia. Assolto per “vizio di mente”, ma resta in carcere per due mesi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 agosto 2022 La vicenda di un giovane di cittadinanza marocchina che non ha trovato posti liberi in una struttura Rems. L’avvocata Federica Liparoti: “Ora ci rivolgeremo alla Cedu”. “Carcerazione illegale ma consentita”. Potremmo usare questa paradossale espressione per raccontare la storia di O.D.B., ventiduenne di origini marocchine, detenuto da più di due mesi nel carcere di Pavia, nonostante l’assoluzione per “vizio totale di mente” e l’assegnazione ad una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). La permanenza in carcere si è protratta per mancanza di posti nelle Rems italiane, dove vengono ospitati gli autori di reati affetti da disturbi psichiatrici e socialmente pericolosi. Pochi giorni fa, però, la svolta. Il Tribunale di sorveglianza di Brescia con un’ordinanza del 9 agosto (presidente Gustavo Nanni, estensore Rossella Gangi) ha posto fine alla situazione di irregolarità venutasi a creare. L’appello dell’avvocata Federica Liparoti del Foro di Milano, che difende il cittadino marocchino, è stato accolto ed è stata disposta l’applicazione della libertà vigilata per due anni da eseguire in una comunità terapeutica a partire da lunedì prossimo. Il giovane nordafricano era finito in carcere per una tentata rapina, “un fatto di reato”, come rilevano i giudici di sorveglianza di Brescia, “non particolarmente allarmante, se si considera la natura e l’entità della violenza adoperata per impossessarsi della cosa altrui (uno strattonamento), così come il passato di devianza del soggetto non appare di spiccata spregiudicatezza o solidità delinquenziale”. Particolarmente significativo un passaggio dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza, secondo il quale “come ribadito dai più recenti orientamenti giurisprudenziali, la misura di sicurezza del ricovero in Rems, deve essere interpretata e applicata in ossequio ai principi di proporzionalità e residualità”. Pertanto, la presenza nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza “deve essere interpretata e applicata in ossequio ai principi di proporzionalità e residualità”, atteggiandosi “a extrema ratio, conservando i caratteri della eccezionalità e transitorietà”. Inoltre, la durata biennale della libertà vigilata è stata considerata proporzionata “alla complessità del quadro psicopatologico della persona”, fatto salvo il principio in base al quale “la pericolosità sociale del soggetto può essere nuovamente valutata dal giudice in ogni tempo, senza dover attendere il decorso del tempo minimo stabilito per ciascuna misura”. La vicenda di O.D.B. è una sufficiente compensazione rispetto ai casi dei detenuti ancora in carcere, ma che dovrebbero invece essere collocati nelle Rems. Il nostro giornale, con i continui approfondimenti di Damiano Aliprandi, ne ha più volte parlato, lanciando altresì l’allarme sul numero limitato dei posti delle Rems, sulle liste d’attesa che si creano e sulle conseguenze clamorose come quella del marocchino in carcere a Pavia. Nel suo atto di appello l’avvocata Federica Liparoti ha lamentato la mancata indicazione dei criteri in base ai quali il giudice dovrebbe valutare la pericolosità sociale dell’imputato. “In realtà - dice al Dubbio - questa valutazione non è stata fatta. Il Tribunale di Brescia si è limitato a prendere per buona la valutazione criminologica dello psichiatra, senza entrare nel merito della scelta della misura. L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza evidenzia una cosa molto interessante: si afferma con chiarezza che il ricovero presso una Rems deve essere considerato come extrema ratio con caratteri di eccezionalità e transitorietà. Viene affermato un principio di diritto importante, che non ha tanti precedenti in Italia”. Fra qualche giorno si aprirà una nuova fase della vita di O.D.B. “La notizia da poco ricevuta - prosegue Liparoti - mi rallegra, dato che riguarda l’individuazione di un posto in una comunità terapeutica, in Lombardia, dove già da lunedì prossimo il mio assistito potrà essere trasferito per l’esecuzione della misura di sicurezza. Per due anni il cittadino marocchino sarà sottoposto a libertà vigilata e finalmente potrà lasciare il carcere di Pavia”. Ma la battaglia giudiziaria dell’avvocata Liparoti non finisce qui. “Ci rivolgeremo - spiega - alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Presenteremo istanza, affinché si tenga conto dei giorni trascorsi in carcere, senza un titolo detentivo, e si riconosca un risarcimento. È importante ricordare che la Cedu ha già condannato l’Italia il 24 gennaio scorso perché un paziente psichiatrico era stato detenuto a Rebibbia, nonostante il magistrato di sorveglianza avesse applicato la misura del ricovero presso una Rems. La gravissima violazione dei diritti individuali deve farci riflettere. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha indicato un percorso molto chiaro con l’indicazione della violazione dell’articolo 3 della Cedu sui trattamenti inumani e degradanti, e dell’articolo 5 sulla libertà e sicurezza personale. Finalmente, nel nostro caso, il Tribunale di sorveglianza di Brescia, in funzione di giudice d’appello, ha ristabilito una situazione di legalità. Nessuno, comunque, potrà risarcire il mio assistito per gli oltre due mesi di carcere trascorsi da innocente in assenza di una misura cautelare”. Catanzaro. Lasciate ogni speranza voi che entrate: qui zero permessi premio ai detenuti di Francesco Iacopino e Dario Gareri* Il Riformista, 19 agosto 2022 Nessuno tocchi Caino ha visitato il carcere insieme alla Camera penale il 18 luglio scorso. All’ultimo piano, al vertice dell’Alta Sicurezza, inizia il nostro giro. Con lucidità di analisi, ci vengono segnalate le aree critiche del carcere. All’apice si pone l’area sanitaria, seguita da quella lavorativa. Ma, ancor prima, in emersione sono posti i (difficili) rapporti con il locale Ufficio di Sorveglianza, particolarmente per i detenuti per reati “ostativi”. Di certo, per tali categorie di ristretti, dalla biografia penale ingombrante, è molto difficile il contemperamento tra le esigenze di difesa sociale e il rispetto dei diritti individuali. Lo comprendono anche i “residenti” al piano. Ma, aggiungono, si fa fatica ad accettare alcuni processi decisionali, poco decifrabili al di fuori di una logica di rigore. Dopo la sentenza ‘Viola’ dei Giudici di Strasburgo e l’intervento della Corte Costituzionale, nulla è cambiato. Su 200 detenuti “ostativi”, nessuno è riuscito a ottenere un permesso premio. Neppure uno che si sia affacciato a quella finestra sulla speranza che non ammette “aprioristiche” chiusure ed è la base giustificativa dei moniti europei. Eppure non mancano, proprio a Catanzaro, esperienze serie e feconde di percorsi trattamentali “meritevoli” di un minimo credito fiduciario. E, in assenza dei protagonisti, ci vengono segnalate almeno due esperienze innegabilmente feconde. È il caso di F.V., cuoco e autore del libro “Dolci cReati”, presentato in carcere alla presenza di tutte le autorità civili e religiose, capace di disegnare un’iniziativa imprenditoriale che si spera, a breve, possa prender corpo. E anche quello di S.F., laureato in sociologia con il massimo dei voti grazie anche alla guida sapiente e illuminata del Prof. Charlie Barnao. Sono esperienze che testimoniano plasticamente come, proprio lì dentro, con costanza e tanta forza di volontà, cambiare è possibile. Che anche la notte più buia è attesa dalle prime luci dell’alba. Esperienze che, nondimeno, non sono ancora riuscite a guadagnare un “affaccio” sul davanzale della vita, anche solo per il tempo di un permesso. Niente “premi”. Eppure, ci pare evidente che proprio l’agognato “permesso” permetterebbe a F.V. e a S.F. di mettere alla prova la loro scelta di archiviare un passato ingombrante, di scrivere un’altra storia sulle pagine ancora intonse del libro della vita. Di dimostrare che il desiderio di riscatto non è una chimera. Che a 50 anni, 30 dei quali vissuti in carcere, dopo essersi riconciliati con se stessi e con le ferite rimarginate della società, si può (si deve) sognare e segnare un percorso diverso, tracciare un solco positivo, diventare seminatori di speranza, coltivare la passione per il bene possibile, per un mondo migliore possibile e così riscattare il male commesso. Che, in fondo, la mission e la vision dei nostri padri costituenti non è un’utopia. Quale grande iniezione di fiducia sarebbe il loro definitivo “successo”, la loro riuscita, per tutti gli altri ancora imprigionati nella rete della rassegnazione. Per quelli che non credono che la ruota del destino possa davvero cambiare direzione. Che esiste anche per loro, ciascuno per nome, la chiamata a giocare la partita di un vero riscatto. Ci vuole tanta visione umanistica e tanto coraggio! Proseguendo il viaggio, raccogliamo storie di trattamenti che appaiono, non solo ai detenuti, contrari al senso di umanità. È il caso di B.M. Nel giugno 2021 ha chiesto un permesso (consentito dall’art. 30 O.P.) per far visita al papà in “imminente” pericolo di vita. Permesso negato. Non è facile misurare lo spazio di applicazione dell’aggettivo. E così, mentre la semantica pone geometricamente un argine all’accoglimento dell’istanza, il papà, in appena due giorni, si congeda dalla vita. Senza quel saluto. L’ultimo. Analoga storia per il detenuto C., e altri come lui, che lamentano di essere stati autorizzati solo all’uso di videochiamate. Di fronte alla più terribile delle prove, il fine vita di un familiare o di un convivente, il formante giurisprudenziale ha istituito la visita all’infermo “da remoto”, così inserendo nel catalogo dei prodotti virtuali anche il sentimento della pietà. O, ancora, la drammatica vicenda di M.C., classe 1980. Per lunghi e interminabili giorni ha accusato dolori e febbre. Raccontano i compagni di piano che avrebbe chiesto, inutilmente, di essere ricoverato in ospedale. Chi doveva assumere decisioni, ci dicono, era convinto che M.C. simulasse il proprio dolore. Dopo 15 giorni ci finirà in ospedale. Ma con una setticemia che, in brevissimo tempo, gli presenterà il conto della vita. Aveva solo 41 anni. Lascia una giovane famiglia aggrappata alle lacrime di una perdita senza senso. È umano tutto ciò? *Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro Benevento. La Camera penale visita il carcere, “la vera criticità è nel settore sanitario” ottopagine.it, 19 agosto 2022 Presenti 376 detenuti, carenza nel personale. Una delegazione della Camera penale di Benevento - il presidente Simona Barbone, il segretario Nico Salomone e la componente della Scuola di formazione, Benedetta Masone- ed il responsabile regionale dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali italiane, Giovanna Perna, hanno visitato anche quest’estate la casa circondariale di contrada Capodimonte. In una nota si legge che “grazie alla disponibilità e alla guida del direttore, Gianfranco Marcello, e del comandante della polizia penitenziaria, Linda De Maio, oltre che del personale di polizia penitenziaria, la delegazione ha fatto ingresso nei reparti femminile, maschile, media sicurezza, alta sicurezza e protetti, oltre che nelle articolazioni sanitarie e in altri locali, quali magazzino, cucine, lavanderia, sartoria, aree adibite all’attività scolastica (scuola dell’obbligo, istituto alberghiero, corso di dattilografia, etc.)”. Rispetto alla capienza attuale di 261 unità, “sono presenti in Istituto 376 detenuti. Il personale di polizia penitenziaria consta di 244 agenti, tra posizioni apicali, dirigenti, ispettori, sovrintendenti e agenti assistenti, e tra questi ultimi v’è una carenza di circa venti unità in organico. Il personale civile dei funzionari giuridico-pedagogici (educatori) consta di sole sei unità ed è una carenza molto seria che non consente la concreta realizzazione del cd. “trattamento intensificato” per i detenuti, che dovrebbe permettere loro di vivere il carcere all’esterno della singola cella, impegnati in attività rieducative e di recupero. L’Istituto garantisce attività scolastica (scuola dell’obbligo, istituto alberghiero ed altri corsi di formazione, partecipazione al progetto Università Federico II di Napoli e ad esami a distanza) e lavorativa; all’interno è presente una sartoria che negli ultimi anni è stata ampliata e dotata di macchinari all’avanguardia”. Più “limitata è l’attività trattamentale di tipo culturale e ricreativo, demandata come sempre alla buona volontà dei volontari che pur organizzano eventi teatrali e cinematografici. I locali palestra interni ai reparti sono desueti e sostanzialmente inutilizzati. Le celle, sebbene l’ormai “fisiologico” affollamento, appaiono in condizioni mediamente accettabili e solo in qualche caso, ai limiti delle misure ritenute “umane”, secondo i criteri individuati dalla CEDU, dalla giurisprudenza di legittimità e dalla legislazione nazionale. I detenuti dei piani superiori lamentano la carenza di acqua calda dovuta in parte all’utilizzo eccessivo di docce legate al periodo ed in parte a problemi tecnici che la Direzione ha opportunamente segnalato e la cui soluzione dipende unicamente dallo stanziamento di fondi che stentano ad arrivare”. L’istituto di recente “ha attivato un servizio e-mail per le comunicazioni con i detenuti ed ha implementato, per i colloqui, l’utilizzo delle videochiamate, pur avendo ripristinato il sistema ordinario delle visite post emergenza pandemica. La vera criticità della Casa Circondariale di Benevento è nel settore sanitario: non v’è continuità assistenziale poiché non è assicurata la presenza in Istituto costante di un medico generale costante, cosicchè le urgenze in alcuni casi sono demandate alla guardia medica esterna. L’articolazione psichiatrica è praticamente priva di uno psichiatra fisso che si occupi con continuità dei detenuti con disagio neuro-psichiatrico. Il DSM garantisce la presenza di uno psichiatra a rotazione all’interno dell’Istituto solo per tre giorni alla settimana e per un turno di sei ore (8,00-14,00), assolutamente insufficiente. L’articolazione sanitaria e psichiatrica inoltre è priva di autonomia strutturale, è situata al fianco del reparto media-sicurezza e con equipe a rotazione. La direzione dell’Istituto ha chiaramente piena consapevolezza della situazione che è stata più volte segnalata all’ASL di Benevento ed anche denunciata alle autorità competenti in relazione ad episodi maggiormente critici” Secondo la Camera penale, “il Carcere di Benevento insomma appare ancora una volta un istituto penitenziario che tra le mille difficoltà della carenza di fondi, personale, strutture e la scarsa attenzione della Politica e delle Istituzioni, si muove lungo una linea di buona gestione e impegno che garantisce ascolto e detenzione sopportabile, con l’urgenza però non più rimandabile di provvedere da parte delle autorità sanitarie competenti a garantire una concreta assistenza psichiatrica, e sanitaria in generale, degna di un Paese civile”. Fermo. “Carcere, pochi spazi e niente educatore” di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 19 agosto 2022 Carcere con spazi vetusti e insufficienti, sovraffollato, senza la figura di un educatore e in attesa di rinforzi del personale. È questa la fotografia fatta dall’avvocato Simone Mancini, responsabile regionale dell’Osservatorio carcere Ucpi, Unione camere penali italiane, con una delegazione della Camera Penale di Fermo composta dagli avvocati Marco Tomassini, Renzo Interlenghi, Michelangelo Giugni, Laura Dumi, Daniele Cardinali e Federico Interlenghi, durante la visita all’istituto penitenziario cittadino. Finalità dell’iniziativa verificare le condizioni inframurarie dei detenuti, unitamente a quelle del personale della casa di reclusione. “Grazie alla collaborazione offerta dalla direzione del carcere - spiega Mancini - è stato possibile accedere a zone abitualmente interdette ed è stato possibile mostrare ai detenuti la vicinanza della Camera penale di Fermo e dell’Osservatorio carcere, confrontandosi sulle criticità della vita penitenziaria. La casa di reclusione di Fermo non presenta a oggi particolari criticità di organico, attualmente composto da 45 unità, di cui 35 svolgono il servizio di turno in continuo contatto con i detenuti, anche se si è in attesa di un aumento del personale”. È stato invece rilevato un aumento della popolazione carceraria, passata dai 50 detenuti dell’anno precedente, ovvero il limite di capienza ordinaria, ai 56 riscontrati in data odierna, di cui tre in regine di semilibertà. Di questi circa il 40% sono stranieri, in maggioranza di religione musulmana. “È doveroso - continua Mancini - sottolineare la nota insufficienza degli spazi all’interno delle celle, nonché la vetustà dell’intera struttura, alle quali bisogna aggiungere la carenza di adeguate strutture e personale qualificato per consentire un corretto svolgimento di quelle minime attività a diretto beneficio anche della convivenza tra i detenuti. Da segnalare la ancora persistente attesa di un educatore che possa seguire con costanza le necessità rappresentate dalla popolazione detenuta. Ad oggi è ancora presente solamente un educatore ‘itinerante’ il quale inevitabilmente non è in grado di fornire un adeguato contributo, nemmeno qualitativamente valido, stante la mancanza di quel costante e periodico contatto che permette la conoscenza approfondita delle problematiche del singolo detenuto”. Ulteriore nota dolente è costituita dall’assenza di iniziative di carattere lavorativo finalizzate al recupero e al reinserimento. “Rispetto alla visita effettuata in data 15 agosto 2021 - sottolinea il presidente della Camera penale di Fermo, Andrea Albanesi - permangono quindi le gravi carenze in ordine alla mancanza di spazi e di educatori e appare necessario segnalare un aumento di sei detenuti”. Infine, resta grave la problematica inerente ai detenuti psichiatrici, soggetti bisognosi di cure specialistiche e oltremodo fragili, privi di quel sostegno specifico che un carcere non è in grado di offrire. L’augurio è quello di un intervento preciso e sistematicoper arrivare al vero obiettivo della pena che è quello di rieducare e risocializzare il detenuto. Rimini. Visita del Prefetto alla Casa Madre del Perdono della Comunità Papa Giovanni XXIII riminitoday.it, 19 agosto 2022 Ad accompagnarlo il vescovo Lambiasi, che gli ha illustrato il percorso rieducativo dei detenuti portato avanti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Il Vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi, ha accompagnato il Prefetto di Rimini, Giuseppe Forlenza, in visita alla Casa Madre del Perdono di Saludecio. La Casa offre ai detenuti (chiamati ‘recuperandi’) un percorso educativo in una dimensione di casa e di famiglia. Attualmente sono tre le Case in provincia di Rimini (Coriano, Montefiore e Saludecio), che ospitano in totale 45 persone, con il metodo CEC (Comunità Educante con i carcerati), progetto portato avanti dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per la rieducazione dei detenuti. “L’uomo non è il suo errore” è la frase di don Oreste Benzi posta come pietra angolare all’intero progetto. L’incontro del Prefetto con educatori, volontari e recuperandi si è svolto in un clima accogliente e familiare. Sono state ascoltate alcune testimonianze. Gustavo e Manuela sono marito e moglie. Per oltre un anno Gustavo ha maltrattato Manuela. Da qui la denuncia e il carcere per l’uomo. In seguito al percorso comunitario effettuato, Gustavo tra qualche giorno farà ritorno in famiglia con i figli e la moglie. Angelo ha quindici anni di carcere alle spalle, un percorso iniziato nel carcere minorile. Ha spiegato bene i drammi familiari vissuti e quanto abbiano inciso nella sua vita. Jurgen è entrato in carcere a 24 anni per avere ucciso la moglie. Il suo è stato un racconto molto toccante delle problematiche vissute ieri e oggi. “Non tutti coloro che hanno problemi familiari entrano in carcere - ha raccontato Giorgio Pieri, Responsabile progetto CEC (Comunità Educante con i Carcerati) della comunità Papa Giovanni XXIII, autore del libro Carcere. L’alternativa è possibile (ed. Sempre) - ma molte persone che sono in carcere hanno vissuto problemi familiari”. Il Prefetto di Rimini ha posto diverse domande ai recuperandi per comprendere il loro vissuto. Nelle case si offre una formazione umana e una formazione valoriale-religiosa. Nel corso dell’incontro è stato illustrato al Prefetto Forlenza anche il valore della spiritualità vissuta all’interno delle comunità e di quanto la dimensione spirituale rivesta una valenza educativa e terapeutica, aspetto messo in luce anche da alcuni fratelli musulmani che vivono l’esperienza del CEC”. Anche il Vescovo Francesco Lambiasi è intervenuto durante l’incontro, al quale han preso parte anche il vice sindaco del Comune di Coriano Domenica ‘Mimma’ Spinelli, l’assessore del Comune di Coriano Paolo Ottogalli (Politiche sociali, sanitarie e rapporti con le comunità, Disabilità e Welfare), Gigliola Fronzoni, assessore alla Cultura del Comune di Saludecio, e al parroco di Morciano Don Sanzio Monaldini. “Esiste anche il triste fenomeno dei suicidi in carcere. - ha fatto notare il Vescovo di Rimini - Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma dice che bisogna arrivare prima. Dall’inizio dell’anno al 6 agosto scorso sono state 47 le persone che si sono tolte la vita in carcere, l’anno scorso nel medesimo periodo erano state 32, con un aumento del +46%: tale drammatica situazione deve farci riflettere”. La prima Casa “Madre del Perdono” in provincia di Rimini è stata aperta nel 2004. Le tre realtà ora operanti accolgono uomini italiani e stranieri, anche musulmani, con età media 40 anni.?Attualmente in Italia sono 8 tali strutture, alle quali se ne aggiungono 2 in Camerun.?In questa Case la recidiva (ovvero la ripetizione di un reato da parte di chi è stato in precedenza condannato), è bassissima (15%) rispetto alla media nazionale (75%). Anche i costi si abbassano considerevolmente: una persona in carcere costa 200 euro al giorno mentre il progetto CEC è a costo zero per la collettività (il costo di una persona nelle Case è di 35 euro al giorno). Su indicazione di don Oreste Benzi, ai recuperandi è proposta anche la condivisone con persone disabili: “Li aiuta a non essere non più ripiegati ma ad uscire da se stessi, aperti verso l’altro” ha detto Giorgio Pieri. In ogni Casa in provincia di Rimini sono presenti due o tre persone con difficoltà psichiche che vengono aiutate dai detenuti. La casa di accoglienza per carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII di Coriano lo scorso 22 luglio aveva accolto la visita della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “Questo è un luogo dove accadono cose importanti: essere qui oggi è un momento per coltivare il rapporto tra realtà positive della società civile e le istituzioni. Essere qui è per me come una boccata d’ossigeno. - aveva commentato la ministra - Soprattutto in ambito penitenziario, le istituzioni funzionano bene soprattutto quando c’è una sinergia con realtà che funzionano bene, come la vostra”. Torino. Recupero ovuli droga, il no degli infermieri di Stefano Lorenzetto Corriere di Torino, 19 agosto 2022 La protesta di Nursing Up. Il problema è emerso dopo la chiusura della sezione “filtro” al Lorusso e Cutugno. Primo intoppo per l’intesa che i vertici di Procura, carcere e assessorato alla Sanità stanno studiando per risolvere il problema del recupero degli ovuli di droga che i pusher ingeriscono per evitare di finire in manette. A salire sulle barricate sono proprio coloro che, stando ad alcune indiscrezioni, sarebbero stati individuati come gli operatori che dovrebbero svolgere l’ingrata mansione: gli infermieri. Il sindacato Nursing Up ha deciso con una lettera di diffidare i vertici di Città della Salute a dare seguito a tale proposta: “Siamo contrari a questa iniziativa, che lede non solo la dignità degli infermieri delle Molinette, ma quella della professione intera”. Primo intoppo per l’intesa che i vertici di Procura, carcere e assessorato alla Sanità stanno studiando per risolvere il problema del recupero degli ovuli di droga che i pusher ingeriscono per evitare di finire in manette. A salire sulle barricate sono proprio coloro che, stando ad alcune indiscrezioni, sarebbero stati individuati come gli operatori che dovrebbero svolgere l’ingrata mansione: gli infermieri. Il sindacato Nursing Up ha deciso con una lettera di diffidare i vertici di Città della Salute a dare seguito a tale proposta: “Siamo contrari a questa iniziativa, che rappresenta di fatto una grave e inaccettabile imposizione che lede in modo palese e irrispettoso non solo la dignità degli infermieri delle Molinette, ma quella della professione intera”. E ancora: “Se questo intento verrà in qualsiasi modo portato avanti, il Nursing Up è pronto a una durissima reazione a tutela di tutti gli infermieri e professionisti della sanità, mettendo in campo ogni strumento a disposizione”. Il problema è emerso nelle scorse settimane, dopo che alcuni pusher sono stati scarcerati perché non è stato possibile recuperare gli ovuli di droga ingeriti qualche istante prima di essere fermati dalle forze dell’ordine: mancando la prova della detenzione dello stupefacente e quindi dello spaccio, i giudici si sono trovati nell’impossibilità di disporre la misura cautelare. Una situazione nata dopo la chiusura della cosiddetta sezione “filtro” del carcere Lorusso e Cutugno - il luogo “disumano” che aveva descritto la ministra Marta Cartabia durante una visita torinese - e la rottura del macchinario per la raccolta degli ovuli. Da qui un tavolo di confronto tra Procura, carcere e assessorato alla Sanità per cercare di raggiungere un’intesa che consentisse alle forze dell’ordine di accompagnare i sospettati in ospedale per recuperare il “corpo di reato” anche quando non vi è un’emergenza sanitaria. “Tale attività, che non ha alcun carattere sanitario ma esclusivamente di pubblica sicurezza, è una competenza giustamente attribuita all’amministrazione penitenziaria - insistono il segretario regionale Claudio Delli Carri e il segretario aziendale Ivan Bufalo -. Siamo pronti a dare battaglia, a mobilitare gli infermieri sul territorio. Ci auguriamo, dunque, che la direzione della Città della Salute non si presti a questa iniziativa. Non consentiremo che i nostri colleghi vengano umiliati”. Milano. Opera, all’orto solidale: “Io, detenuto, coltivo ortaggi per i poveri” di Massimiliano Saggese Il Giorno, 19 agosto 2022 Mario Petito si trova in semilibertà. Con Cri e Abbazia di Mirasole la solidarietà batte lo spreco. La terra come strumento di riscatto, dono e risorsa. Ai piedi dell’abbazia di Mirasole c’è l’orto solidale, 10mila metri quadri di terreno coltivati da Mario Petito (a sinistra nella foto) , 77 anni, detenuto in regime di semilibertà, grazie all’iniziativa di Croce rossa italiana comitato dell’area del Sud Milano in collaborazione con Progetto Mirasole, il carcere di Opera e Cia Agricoltori italiani Lombardia che ha fornito nuove alberature. “Da tre anni, ogni giorno, dedico il mio tempo alla cura dell’orto - spiega il volontario - e grazie al mio lavoro le famiglie in difficoltà possono trovare sulla loro tavola prodotti freschi e di stagione. Per me è una grande soddisfazione fare del bene per altre persone, aiutare il prossimo è la mia missione. Fa parte anche di me, anche se può sembrare un controsenso della vita, ho sempre cercato di aiutare gli altri”. Ogni settimana si raccolgono 30 chili di mele, pere, susine, uva, pomodori, zucche, peperoni, zucchine destinati alle 25 famiglie in difficoltà di Opera, mentre una parte del raccolto è riservato agli ospiti dell’abbazia, rifugiati ucraini e afgani. “L’orto è una passione che mi accompagna da tutta la vita - racconta Mario - e anche quando ho vissuto per diversi anni all’estero ho acquistato un terreno per coltivare i prodotti della terra. Non mi fermo mai, sto già seminando per i mesi più freddi”. L’idea dell’orto nasce 4 anni fa grazie ai volontari della Croce rossa, dopo la felice esperienza dell’iniziativa “Pane solidale”, la raccolta ogni giovedì nelle panetterie di prodotti invenduti, consegnati la sera stessa ai bisognosi. “Tutto questo si integra con il progetto sullo spreco alimentare - spiega Danilo Esposito, presidente della sede locale Cri - con i prodotti che ritiriamo dai supermercati e dai punti vendita. Grazie alla rete creata riusciamo a nutrire le famiglie e con l’avvio a fine 2021 dell’hub alimentare di Cuore Visconteo, finanziato da Fondazione comunità Milano, uno spazio di 600 metri quadri con cella frigorifera, abbiamo fatto da gennaio a luglio 211 ritiri di alimenti per un totale di 44.278 chili e un valore oltre 80mila euro”. Roma. Due mesi di carcere per aver rubato una moneta da un euro di Enrico Tata fanpage.it, 19 agosto 2022 Due mesi di reclusione. Il motivo? Ha rubato una moneta da un euro alla Fontana di Trevi. L’accusa era di furto aggravato. In appello ha evitato il carcere per avvenuta prescrizione, ma ha dovuto pagare la multa. I fatti risalgono addirittura a undici anni fa. I vigili urbani hanno sorpreso l’uomo, che oggi ha 64 anni, mentre ‘pescava’ i soldi dalla fontana. Con un’asta telescopica e una calamita riusciva ad afferrare le monete tra gli sguardi di molti turisti, riporta la Repubblica. Gli agenti della polizia locale si sono avvicinati, gli hanno sequestrato le monetine e la ‘canna da pesca’. Non solo hanno elevato una multa, ma l’hanno anche denunciato. “perché al fine di trarre profitto si impossessava di una moneta presente all’interno della Fontana di Trevi, di proprietà del comune di Roma”, si legge nel capo di accusa. Come detto, doveva rispondere di furto aggravato e per giudice era colpevole. Per questo è stato condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, nonostante le richieste del suo avvocato, che aveva chiesto l’assoluzione del suo assistito: “Si è trattato di un euro rubato da una fontana”. Al processo d’appello l’uomo, come detto, è riuscito ad evitare il carcere. Anzi, tutto il caso è stato prescritto, poiché l’udienza è stata fissata dal tribunale ben undici anni dopo i fatti e il 7 aprile scorso il giudice ha messo fine alla vicenda: “Il caso è chiuso per decorrenza dei termini della prescrizione”. Insomma, il ladro di monetine l’ha fatta franca e ha potuto così evitare il carcere. Le multe per chi raccoglie monetine dalla fontana di Trevi e in generale dalle fontane monumentali di Roma vanno dai 200 ai 500 euro. Disoccupate, precarie, penalizzate: l’emergenza donne riguarda il Paese di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 19 agosto 2022 Escludere dall’esercizio dei diritti metà del genere femminile significa avere una democrazia a metà. Il tempo passa inesorabile. Dobbiamo aprire gli occhi. Siamo indietro, tanto indietro sulle disuguaglianze di genere, molto più della gran parte dei Paesi democratici. Eppure, abbiamo una delle costituzioni più attente ai diritti delle persone, rimasta però inattuata nel suo art. 3. La situazione è molto grave. Siamo di fronte a una vera e propria emergenza democratica. Metà delle donne del nostro Paese sono escluse dal lavoro. Quindi, non hanno autonomia economica. Siamo 14 punti sotto la media europea del tasso di occupazione femminile, 23 sotto la Germania, 15 sotto la Francia, penultimi prima della Grecia. Abbiamo un milione di donne che pur cercando lavoro non riescono a trovarlo e 8 milioni che neanche lo cercano. Quanto a occupazione femminile delle giovani da 25 a 29 anni siamo ultimi. Il divario con l’Europa è in questo caso ancora più alto, arriviamo a più di 17 punti percentuali. E così per le 30-34enni. Con questi numeri non andiamo da nessuna parte. Non c’è presente, non c’è futuro. E dobbiamo renderci conto una volta per tutte che questo è un problema che non riguarda solo le donne, ma tutto il Paese. È un nodo cruciale che, se risolto, permette di risolverne tanti altri. Ma non finisce qui. Siamo il Paese con il minor tasso di occupazione femminile delle 25-34 enni, ma con maggiore livello di precarietà. Un terzo delle dipendenti di queste età è a tempo determinato contro il 20% dell’Europa. Più di noi la Spagna che perlomeno ha un tasso di occupazione più alto di 14 punti. Senza considerare l’alta percentuale tra le lavoratrici di tutte le età di part time involontario, doppio rispetto all’Europa, e di basse paghe. E non parliamo della penalizzazione per le donne della presenza di figli, totalmente assente per gli uomini. Una donna su cinque lascia il lavoro alla nascita del figlio, e il tasso di occupazione delle donne con figli piccoli è molto più basso di quelle senza figli. In Italia solo il 30% delle lavoratrici lavorano nella PA, nella Sanità, assistenza o nel settore dell’istruzione. In Europa il 38%, in Francia il 45% e in Germania il 40%. Siamo sottodimensionati in questi settori. E questo penalizza doppiamente le donne. Ma non basta. Un terzo delle giovani da 30 a 34 anni hanno la laurea contro il 20% degli uomini. Stanno più avanti. Ma sono anche tanto più indietro delle europee, che si collocano al 47%, 14 punti sopra, con la Francia al 54%, venti punti di differenza. E qui il problema non è solo garantire l’accesso delle donne alle materie scientifiche. Magari fosse solo questo! Ma far sì che si iscrivano all’università. Che dire? Sono cifre sconfortanti. E non le ho neanche snocciolate tutte. Numeri da emergenza democratica. Per il Paese, non solo per le donne. Sì, perché una democrazia non può escludere dall’esercizio dei diritti metà del genere femminile. Diventa una democrazia a metà. Come crescerà il benessere e la produttività se la metà del cielo rimarrà esclusa o farà solo piccoli passi in avanti? Come combattiamo la violenza in famiglia se le donne non sono autonome economicamente? Come possono le donne avere i figli che desiderano se il sovraccarico di lavoro familiare non viene redistribuito nella coppia e nella società? E poi parliamo di emergenza demografica. Siamo coscienti veramente di tutto ciò? Metteremo in agenda questa priorità davvero? Investiremo veramente sulle donne? Siamo convinti che le “strategie” sono il nulla, se non si prevedono ingenti investimenti per attuarle? Me lo auguro. Per la nostra democrazia. Per il Paese. Nella Casa dei popoli di San Severo. “Qui gli immigrati non sono solo braccia” di Karima Moual La Repubblica, 19 agosto 2022 A San Severo, nel Foggiano: gli ospiti non trovano solo un tetto, ma imparano la lingua e scoprono come difendersi dagli abusi dei caporali. Gli sguardi sono soprattutto fissi sulle proprie mani, per provare a ultimare un lavoro che sia possibilmente preciso. “I pomodori vanno seguiti e curati”. Pochissime parole escono dalla bocca di uno dei tanti braccianti, in un francese speziato dall’accento senegalese. Schiene abbassate, sguardi timidi, alle volte curiosi ma mai invadenti. Non sfugge che quel silenzio, o quel muro astratto retto da bocche cucite non per volontà ma per impotenza, in realtà copre numerose storie che hanno bisogno solo di giusti interpreti che possano ascoltare. E forse siamo già nel posto giusto. Tra i campi agricoli del Foggiano, esattamente a San Severo, una piccola scintilla di ribellione al caporalato, portata avanti con coraggio da un piccolo gruppo di senegalesi, è diventata una casa per tanti africani e non solo, in cerca di diritti. Casa Sankara dunque, il luogo dove molti immigrati provano a usare questo ponte per emanciparsi dalla condizione di marginalità, che purtroppo ha le porte più larghe rispetto alla legalità. Chi ha diritto di restare e sperare in una vita migliore? Tra le ultime battaglie sull’immigrazione, ce n’è una in particolare che emerge sempre con più forza in questi ultimi anni e che si manifesta con più violenza in questa ultima campagna elettorale, per voce della destra: la divisione tra i “rifugiati veri” e tutti gli altri, che verranno chiamati in maniera dispregiativa “clandestini”. Anche volendo, in buona fede, provare a capire le ragioni di questa propaganda, riesce comunque difficile non percepire la rozzezza di questa semplificazione. Tanto più che - di fronte a un’umanità che rischia la vita per approdare in un posto che considera sicuro e migliore rispetto a quello che si è lasciato alle spalle - ci vuole un bel pelo sullo stomaco per setacciare un mondo di tragedie e miserie umane salvando una parte sola. Come se la siccità e la miseria della povertà non fossero una persecuzione e una ragione valida per scappare, quanto quella di chi viene perseguitato per le sue idee politiche, religiose o sessuali. Lo sa bene Faye che, grazie al suo lavoro, mantiene in Senegal sorelle, fratelli, moglie e figli, che oggi possono permettersi di andare all’università grazie al suo lavoro nei campi e a chi, a Casa Sankara, ha tutelato i suoi diritti. Perché, se l’immaginario e le leggi sono improntati male, la realtà sul campo - come sempre - è un’altra. Anche questo, lo sanno molto bene gli operatori che si occupano di immigrazione e che in tutta Italia provano a dare un volto, un nome e una storia a chi arriva nel nostro Paese sperando in un nuovo inizio. Sono tanti, e tutti consapevoli che tutto si può fare, tranne semplificare un tema complicatissimo come quello dell’immigrazione. Per averne piena consapevolezza non c’è esperienza migliore di quella creata dall’associazione Casa Sankara, nata in difesa dei braccianti sfruttati dai caporali, ma finita poi ad accogliere una molteplicità di persone con le storie più disparate, e provenienti da diversi territori. Il successo di questa esperienza sta nel fatto stesso che, a tirare su questa struttura nata da volontari nel 2012, ci siano più anime, di stranieri e italiani, che mettono a frutto le loro esperienze a favore dell’ascolto, dell’inserimento e dell’emancipazione di tutti coloro che passano da qui, e in questi anni sono stati centinaia. “Attualmente ospitiamo più di 400 persone di undici nazionalità differenti - spiega Mbaye Ndiaye, uno dei fondatori di Casa Sankara - . C’è chi arriva dal Ghana, chi da Mali, Senegal, Togo, Benin, Nigeria, Costa d’Avorio, Camerun, Guinea, e tutti hanno una storia triste alle spalle. Non è facile lasciarsi alle spalle il proprio mondo, ma lo si fa quando non si hanno altre alternative”. Chi arriva qui, arriva con molte ferite. Non solo quelle visibili, come per esempio quelle inflitte dai carcerieri in Libia. Ce ne sono tante altre intime e più profonde. Non è un caso che qui venga messo a disposizione anche un servizio sanitario con uno psicologo. Maria Assunta La Donna, altro pilastro della Casa, la prima italiana che ancora universitaria ha dovuto “affrontare i pergiuduzi e la discriminazione di chi non mi voleva vedere in mezzo a tutti quei neri e non capiva perché volessi aiutare quelle persone straniere”, in questi anni non ha mai perso il suo sorriso, e nemmeno la sua battaglia. Continua infatti a essere l’interfaccia dell’associazione, a seguire minuziosamente, passo dopo passo, le storie di chi arriva, che lei incontra per prima allo sportello. “Non sono pochi quelli che presentano problemi di salute a livello psicologico - spiega Assunta - perché hanno alle spalle esperienze terribili, e in più si trovano a vivere una doppia pressione. Perché c’è grande aspettativa nei loro riguardi nel Paese d’origine e da parte delle famiglie che lasciano in condizioni estreme. Depressione, insonnia, ansia, paura della sconfitta: tutti elementi che lo status d’instabilità dei loro documenti accentua”. Il presidente Papa Latyr Faye mostra orgoglioso le stanze dove s’insegna italiano ai ragazzi. “La lingua è la forza di tutti gli esseri umani, senza la quale si è mutilati di una parte importante delle proprie capacità. Proviamo a far capire a tutti che devono impegnarsi nel conoscerla, perché sarà anche la lingua italiana a liberarli e a consentire loro di emanciparsi una volta fuori di qui”. Quel “qui” è fatto anche di 100 unità di prefabbricati. Ogni modulo all’interno ha 3-4 letti, un tavolo, due sedie, un frigo, corrente elettrica e acqua potabile. Ed è la salvezza per molti che fuggono dai ghetti, dai caporali e dalla criminalità organizzata, pronta a far leva su disperazione e miseria per arricchire la sua manovalanza. Mohamed mi guarda dalla sua finestra, con il dito incerottato. Si è fatto male al lavoro. “Qui almeno mi sento protetto, se sto male non sono obbligato a lavorare. Ho un contratto e qualcuno che mi segue e spiega i miei diritti”. Jallow Bubacarr ha la faccia consumata dal sole, ma anche la vita consumata dai soprusi. Dal Gambia ha attraversato interi Stati per poi ritrovarsi in prigione in Libia, picchiato e maltrattato. “Quelle non erano persone, ma aguzzini”, spiega. Ma il suo incubo non finisce nemmeno quando rischia la vita attraversando il mare per arrivare in Italia. Nel Belpaese trova, per anni, il caporalato e lo sfruttamento. Solo sotto Casa Sankara riesce a rialzare la testa. A Casa Sankara, che ospita 400 persone tra rifugiati, richiedenti asilo, chi è in Italia con la protezione umanitaria e chi invece è riuscito ad avere un permesso di soggiorno per lavoro, si può stare solo due anni, durante i quali, si cresce e impara a capire come funziona il mondo di fuori. Perché l’obiettivo del progetto è accompagnare gli ospiti a una vita indipendente, con una casa propria, un contratto di affitto. Il compito degli operatori dopo l’ascolto è mettere a posto i documenti di queste persone, poi metterli in contatto con gli imprenditori italiani come lavoratori. E infine, una volta che il rapporto si è consolidato, continuare a seguirli per aiutarli a conquistare un’altra fiducia, quella di chi poi li accetterà come affittuari. “Trovare una casa in affitto per molti immigrati non è semplice - spiega ancora Maria Assunta - nonostante si presentino con documenti in regola e contratto di lavoro. Ecco perché noi proviamo a fare da intermediari anche per questo passo successivo”. Intanto mi viene aperta la porta di una sartoria inaugurata da poco. I tessuti sono quelli africani, coloratissimi. Sui manichini i vestiti hanno anche loro il taglio tipico dell’Africa subsahariana. A forza di lavorare solo nei campi della raccolta, si è dimenticato che forse a qualcuno piaceva fare altro. O ancora meglio: che qualcuno, nelle mani, custodiva altro. È bastata un’intuizione per dar vita a una vera e propria sartoria, che diventa così un’altra opportunità di lavoro. Come quella data proprio questo mese - mi spiega Faye - ad altri rifugiati, che hanno seguito un corso di formazione per guidare mulinetti e trattori. Dopo una giornata di lezione e un esame hanno ottenuto gli attestati di guida, e sono già stati inseriti con un contratto di lavoro in imprese agricole che avevano bisogno proprio della loro figura professionale. “Quest’estate abbiamo inserito anche un altro ragazzo come cuoco in un ristorante sulla costa pugliese - mi spiega ancora il presidente di Casa Sankara - mentre altri tre sono stati presi come camerieri”. Il passo avanti infatti è provare a guardare gli immigrati sempre più in profondità, cercando di scoprire anche i loro talenti. E diversificando il loro inserimento, che non può e non deve esaurirsi solo nella raccolta nei campi. Baye Diouf, del sindacato dei lavoratori africani, spiega con passione quanto sia semplice, ma allo stesso tempo complesso, togliere certe etichette ai lavoratori africani, e racconta la sua battaglia per aprire loro un mercato del lavoro più vasto possibile. “Tra gli uomini accolti qui in Casa Sankara, abbiamo scoperto che quattro erano tra i più importanti pescatori della costa africana. E pensare che qui in Italia figure come le loro sono ricercate. Ovviamente avranno bisogno di ulteriore formazione anche per quanto riguarda le modalità che si usano in Italia, ma intanto bisogna insistere sul fatto che abbiamo tra le mani una ricchezza che non approfondiamo, quando invece dovremmo”. Mentre mi lascio indietro le parole di Diouf, tra i pomodori emerge come un sogno un uomo con un vestito elegante lungo, di tipica fattura senegalese. Potrebbe avere trent’anni come sessanta. Improvvisa un canto accompagnato dal suono di uno strumento a me sconosciuto. Sorride, e come una star cerca di conquistare un pubblico che non c’è. Lo lascio finire, lo fisso ancora negli occhi, e riconosco uno dei tanti braccianti intervistati tra i campi. Mbaye Ndiaye è divertito, mi dice sotto voce che quell’uomo è molto conosciuto in Senegal. A Dakar, suonava al Grande teatro. I suoi video sono su YouTube. Mentre si allontana elegantemente, soddisfatto della sua esibizione, una domanda mi tormenta: perché stava chino con la bocca chiusa a lavorare nei campi, anziché deliziare il pubblico italiano con la sua voce e il suono di quello strumento proveniente dall’Africa? Probabilmente perché non abbiamo ancora imparato a guardare negli occhi e più in profondità quella umanità di immigrati che abbiamo sul nostro territorio. Iran. Penzolano dalla forca anche donne e minori di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 19 agosto 2022 Sono già 379 le esecuzioni nel 2022. L’escalation non si ferma: a luglio 71 nuove esecuzioni, di cui 4 a carico di vittime di mariti violenti. E ripartono anche le impiccagioni pubbliche per scoraggiare il dissenso. Tendiamo ad adulare e compiacere i potenti. Lo facciamo nonostante l’esperienza costantemente mostri come questo fondi relazioni fasulle e legittimi gravi violazioni di diritti umani fondamentali. Il ministro degli Esteri dell’Iran, Hossein Amirabdollahian, ha recentemente scelto il nostro come il primo Paese europeo da visitare dalla sua entrata in carica lo scorso agosto 2021. Adulazione e compiacenza sono state tali da indurre il ministro Amirabdollahian, finita la sua visita, a twittare la promessa di un “futuro radioso per la nostra cooperazione reciprocamente vantaggiosa”. Dante aveva collocato gli adulatori nella bolgia dei fraudolenti perché la loro arte è una forma di inganno. Li disprezzava a tal punto che li aveva coperti di sterco, quale contrappasso al profluvio di miele delle loro parole. Hossein Amirabdollahian ha corrisposto cinguettando la promessa di un “futuro radioso per la nostra cooperazione” mentre nel mese di luglio in Iran venivano impiccate almeno 71 persone in un’escalation che ci porta a contare, ad oggi, almeno 379 esecuzioni da inizio anno. Tra i giustiziati in luglio, figurano anche quattro donne, per lo più vittime di violenze domestiche. Tre di loro sono state giustiziate in tre diverse carceri nello stesso infausto giorno del 27 luglio. Faranak Beheshti è stata impiccata nella prigione centrale di Urmia per l’omicidio del marito. Soheila Abedi è stata impiccata nella prigione centrale di Sanandaj. Era una sposa bambina, costretta alle nozze quando aveva solo 15 anni. Dopo dieci anni di umiliazioni, nel 2015, aveva ucciso il marito che l’aveva per l’ennesima volta picchiata in casa. Senobar Jalali, una donna afghana, è stata giustiziata nella prigione di Rajai-Shahr. L’accusa, anche nel suo caso, è quella di aver ucciso il marito al termine di una lite familiare. Una quarta donna, Robab Danayi, era stata impiccata il 21 luglio nella prigione centrale di Yazd per omicidio premeditato, non è dato sapere di chi. Con queste ultime quattro, sono salite a 140 le donne fatte penzolare con il cappio al collo in Iran dal 2013. Un record mondiale, che si aggiunge a quello del maggior numero di minorenni giustiziati che si aggiunge a quello del maggior numero di esecuzioni in rapporto alla popolazione. Il 23 luglio, sono riprese anche le esecuzioni in pubblico che non si registravano più dall’11 giugno 2020 all’inizio della pandemia. Un operaio edile di 28 anni, Iman Sabzikar, è stato portato fuori dal carcere di Shiraz mentre era ancora buio e alle prime luci dell’alba è stato impiccato nel luogo in cui avrebbe compiuto l’omicidio di un agente di polizia nel febbraio scorso. Molti parlano di un’escalation della repressione per soffocare le proteste in una società esasperata dall’aumento dei prezzi e dalla fame a cui è costretta. Certo è che l’incremento è iniziato a partire dal 1° luglio 2021, dopo che il nuovo presidente della Repubblica Islamica Ebrahim Raisi e la Guida Suprema Ali Khamenei hanno nominato quale nuovo capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei, un ex ministro dell’intelligence dal cupo record di repressione di manifestazioni pacifiche, di persecuzione dei militanti dei diritti umani e di esecuzioni in Iran. Ma è nella natura delle cose che ci sia anche chi racconta la realtà per quella che è, e non è gradita all’adulato potente. Il quale riversa sulla voce sincera tutta la violenza di cui è capace. Ci sono ad esempio i militanti della Resistenza iraniana che oggi hanno trovato accoglienza in Albania. Nei loro confronti continua quell’opera di annientamento che vide nel 1988 gli stessi Raisi e Ejei, seppur con ruoli diversi da quelli ricoperti oggi, mandare a morte nel giro di pochi giorni oltre 30mila oppositori politici. L’opera continua con una rete di agenti iraniani sparsi ovunque per silenziare, finanche attraverso la morte, la voce critica. È accaduto in Francia, quando un attentato nel 2018 è stato sventato alla Convention della resistenza iraniana. Per questo crimine, un alto funzionario iraniano, Assadollah Assadi, è stato condannato in Belgio a una lunga pena detentiva. È accaduto di nuovo in Albania dove a fine luglio si sarebbe dovuta tenere una grande Convention internazionale, rinviata per motivi di sicurezza avendo l’intelligence albanese intercettato informazioni su un possibile attentato. Per questo due agenti iraniani, Afshin Kalantari e Batool Soltani, sono stati espulsi dal Paese. L’alternativa all’inganno dell’adulazione e alla complicità dell’accondiscendenza è manifestare la sincerità e il coraggio di vedere e raccontare le cose come stanno. Il che significa vedere e raccontare non solo la realtà di quel che accade in Iran, ma anche la realtà - la realpolitik - di noi italiani, europei, “occidentali”, quel che ci accade di essere di fronte alla oscurità e alla violenza del regime iraniano. Il “futuro radioso” si vede dal principio, dal rispetto o meno di ciò che principia, orienta e illumina di immenso il nostro stare insieme: i diritti umani universali. Stati Uniti. Rimase paralizzato dopo il pestaggio della polizia in cella. Le prove in un video Il Dubbio, 19 agosto 2022 Gli avvocati di Christopher Shaw, un 41enne afroamericano rimasto paralizzato dal collo il giù dopo essere stato sbattuto sul pavimento di una cella del Texas, dove è rimasto per ore abbandonato pur chiedendo aiuto hanno fatto causa allo Stato. I fatti risalgono al giugno del 2021, ma gli avvocati di Shaw li hanno raccontati ora nel presentare la loro causa in cui accusano la polizia di Beaumont di aver violato i diritti costituzionali del loro assistito. Fermato perché trovato ubriaco in mezzo alla strada, Shaw era stato condotto alla Jefferson County Correctional Facility dove l’agente che l’aveva arrestato, James Gillen, lo spinse con forza contro il pavimento di cemento della cella, facendogli sbattere la testa riportando una frattura alla spina dorsale. Shaw rimase per 20 ore solo nella cella prima di ricevere una qualche assistenza medica, con lo staff del prigione, anche medico, che si rifiutava di aiutarlo. “Non ti aiuterò fino a quando non aiuterai te stesso” fu la risposta che ottenne da un infermiere, riferiscono gli avvocati. Quando finalmente è stato soccorso, è stato trasferito in ospedale dove è stato sottoposto a diversi interventi di emergenza. “È l’America del caos, della brutalità della polizia e di agenti che operano con ignoranza ed autorità, ed è la pericolosa combinazione di queste cose di cui è vittima nostro fratello Christopher Shaw”, ha detto durante la conferenza stampa, Candice Matthews, presidente della sezione del Texas dell’associazione di Jesse Jackson, la Rainbow Push Coalition. Lo scorso settembre il capo della polizia di, Beaumont, James Singletary, pur dicendosi “molto dispiaciuto per il signore che è rimasto ferito”, ha difeso l’operato dell’agente Gillen sostenendo che “stava solo facendo il suo lavoro”. Ma ora gli avvocati di Shaw affermano che esiste un video che mostra l’incidente anche se al momento la sua diffusione è proibita dai regolamenti sulla sicurezza del carcere. I legali e gli attivisti per i diritti civili stanno comunque cercando di poter ottenere l’autorizzazione alla pubblicazione del video. L’Interpol ha trasferito in Iran un condannato a morte arrestato in Malesia? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 agosto 2022 La domanda di Iran Human Rights, la più autorevole organizzazione per i diritti umani in Iran, è chiara: l’Interpool ha arrestato in Malesia e trasferito in Iran una persona condannata a morte? Il 16 agosto, durante una conferenza stampa, il portavoce della magistratura di Teheran, Massoud Setayeshi, ha parlato della vicenda di Shahrooz Sokhanvari, la cui esecuzione sarebbe imminente dopo la ratifica della condanna a morte da parte della Corte suprema. Il reato: corruzione sulla terra (efsad-fil-arz), mediante la creazione di un centro dedito alla corruzione, ai sensi dell’articolo 286 del codice penale islamico. Secondo fonti di stampa iraniane, Sokhanvari è stato arrestato dall’Interpol in Malesia nel 2020 e trasferito in Iran. Se questo fosse vero, se cioè l’Interpol avesse trasferito in un altro paese una persona condannata a morte, sarebbe un fatto gravissimo.