Comunicato sulla drammatica situazione nelle carceri di Coordinamento Carcere Due Palazzi Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2022 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: - liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione - liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. Coordinamento Carcere Due Palazzi - Granello di Senape/Ristretti Orizzonti - Giotto Cooperativa Sociale - WorkCrossing Cooperativa Sociale - Associazione Amici della Giotto - AltraCittà Cooperativa Sociale - Coristi per caso - Solidalia Cooperativa Sociale - Volontà di Sapere Cooperativa Sociale - Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale - Pallalpiede - TeatroCarcere - Scuola Edile - Antigone Padova - Commissione Carcere Camera Penale di Padova - Insegnanti scuole in carcere Hanno dato la propria adesione: - Associazione Closer Venezia - Cooperativa sociale “Rio Terà’ dei Pensieri” Venezia - Cooperativa sociale “Il Cerchio” Venezia - Il Granello di senape O.d.V Venezia - Associazione Loscarcere - Marcello Pesarini e Giovanni Russo Spena Suicidi in carcere: uno scandalo politico di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 agosto 2022 Nessun partito si occupa di una tragedia incivile. Lo sciopero della fame di Rita Bernardini. Mentre il populismo di destra sa solo lanciare slogan sulle nuove costruende galere, che come sempre in passato non verranno poi fatte; mentre il populismo dei Cinquestelle sa solo riempire le liste di ex magistrati antimafia, slogan vuoti sulla “legalità”; mentre il resto dei partiti, quelli che dovrebbero rappresentare il progressismo e la visione liberale dello Stato, evitano come la peste di occuparsi di giustizia e carceri, nelle prigioni italiane si muore. Il numero dei suicidi quest’anno è altissimo: 52, l’ultimo un ragazzo di 25 anni, a Torino, dopo i quattro degli scorsi giorni. Tanto che è la stessa Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, a lanciare l’allarme, considerando anche “le centinaia di suicidi tentati dai detenuti”. Gli agenti denunciano il “grave dissesto del sistema e il fallimento dell’attuale politica penitenziaria”. Causata, soprattutto, da un sovraffollamento che sarebbe evitabile se solo si cambiassero alcune norme d’esecuzione e alcune leggi inutilmente restrittive, dalla scarsità di personale di custodia e dalle strutture indecenti. Di fronte a questo si erge il muro di gomma delle amministrazioni (e spesso dei magistrati di sorveglianza) e il disinteresse della politica. Tanto che Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, ha iniziato un nuovo sciopero della fame per sensibilizzare proprio sui suicidi. Non solo una iniziativa umanitaria, è molto preciso anche il percorso esposto dalla dirigente radicale: sostenere il lavoro del ministro Cartabia, invitando il governo a riprendere come provvedimento d’urgenza la proposta di Roberto Giachetti sulla “liberazione anticipata speciale” e a concludere prima delle elezioni l’iter della riforma della giustizia penale; sostenere le proposte del capo del Dap, Carlo Renoldi, per migliorare le condizioni dei detenuti. Quando lo stato prende in consegna il corpo di un cittadino e lo restringe in reclusione, si assume la responsabilità della sua vita e dalla sua salute. Il resto è barbarie, e una politica che se ne disinteressa è complice. Crescono i suicidi in carcere. Lavoro e relazioni la risposta di Luca Cereda Avvenire, 18 agosto 2022 In Lombardia 17 finora i detenuti che si sono tolti la vita quest’anno. Nel 2021, a metà agosto, erano 6. L’ultimo caso risale a venerdì scorso e si è verificato nel penitenziario di Monza dove un ragazzo di 24 anni, nonostante fosse sottoposto a sorveglianza per problemi di autolesionismo, si è ucciso. Episodi di questo tipo si sono verificati, oltre che a Monza, nelle tre carceri di Milano, ma anche a Sondrio, Brescia, Pavia, Bergamo e Como. Oggi in Lombardia ci si trova davanti a un’escalation, rispetto agli scorsi anni: i detenuti che un anno fa si erano tolti la vita in cella al 15 agosto erano sei, per un totale di 13 a fine 2021. Mentre nel 2020 si erano tolte la vita venti persone, e 11 lo avevano fatto entro la metà agosto. Invertire questa tendenza sembra un’impresa difficilissima. Eppure: “Una telefonata salva la vita”. È questo l’appello lanciato dal cappellano del carcere di Busto Arsizio (Varese) don David Riboldi, sacerdote della diocesi di Milano: “Mi sono rivolto direttamente alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per chiedere di consentire l’uso dei cellulari nelle celle, una proposta sottoscritta nella sua recente visita nel carcere di Busto anche dal presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, e rilanciata dall’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi”. Tra le cause principali dei suicidi dietro le sbarre ci sono la solitudine, le poche - quando e dove sono presenti - attività rieducative (dal lavoro all’istruzione) e il sovraffollamento. La Lombardia, che ospita 18 istituti di pena dei 190 in Italia, è la peggior regione - secondo l’ultimo rapporto di Antigone - riguardo all’affollamento carcerario: ci sono in media 150 detenuti per 100 posti, con picchi del 190% nell’istituto milanese di San Vittore, ma anche del 174,7% a Busto e del 167,7% a Lodi. “Mettere i telefoni in cella per prevenire i suicidi non è solo una proposta. È una pratica che dove esiste già, funziona - testimonia don Riboldi -. Recentemente ho ricevuto una chiamata alle 22.30 da un recluso che ho conosciuto al carcere di Busto e che ora sconta la sua pena in un penitenziario del Nord Europa. ‘Don, mi sento giù. Ha voglia di ascoltarmi un po’?’. Abbiamo parlato mezz’ora e mi ha detto che subito dopo avrebbe chiamato sua madre”. Il nostro ordinamento stabilisce che si possa chiamare solo dieci minuti a settimana. Con la pandemia le video-chiamate erano entrate in carcere per sopperire ai mancati colloqui, “ma questa buona pratica introdotta negli ultimi anni a causa del Covid sta sparendo “, dice amareggiato don Riboldi. Il telefono in cella, senza limiti di orari, era stato suggerito lo scorso dicembre per prevenire i suicidi anche dalla commissione parlamentare sul carcere. Le giornate dei detenuti “sono vuote perché mancano attività ricreative, didattiche e lavorative - insiste il cappellano di Busto. In carcere lavora solo il 5% dei detenuti. Per aiutare a invertire la rotta ho inaugurato a ottobre 2020, alla presenza della ministra Cartabia, La Valle di Ezechiele, una cooperativa sociale che dà lavoro a persone recluse”. Dopo la pausa di agosto saranno quattro detenuti, due persone impegnate nei lavori di pubblica utilità e cinque su richiesta del Tribunale, i lavoratori che raggiungeranno la sede operativa della cooperativa nell’ex vellutificio di Fagnano Olona (Varese), vicino a Busto. All’interno della struttura vengono realizzate stampe specializzate, calendari e, in tempo d’Avvento, i cesti di Natale: “Dei 15 detenuti che in questi anni hanno imparato una professione vera, che esiste anche fuori dal penitenziario, e hanno lavorato per La Valle di Ezechiele, nessuno è più tornato dentro. Confermo che lavorare abbatte la recidiva e recentemente un ragazzo, scontata la pena, è stato assunto da un panificio”, racconta don Riboldi. Il lavoro, insomma, ripaga e abbatte la recidiva. “Siamo molto soddisfatti di aver fatto produrre ai detenuti le stampe delle magliette indossate dai ragazzi degli oratori nella diocesi di Milano. È un messaggio concreto che vale più di tante parole”. La sfida di Renoldi: trasformare l’inferno in chance di riscatto di Valentina Stella Il Dubbio, 18 agosto 2022 Ormai sono 52 i suicidi in carcere dell’inizio dell’anno. Perdite drammatiche di vite, paradossalmente quando le persone sono sotto la custodia dello Stato. Sono dati che allarmano e preoccupano soprattutto la ministra Cartabia e il Capo Dap Carlo Renoldi. a Ministra Cartabia, il Capo Dap Carlo Renoldi e i vertici dell’Amministrazione penitenziaria, il giorno di Ferragosto, hanno visitato diverse carceri italiane. Come hanno fatto per anni gli esponenti del Partito Radicale. La Guardasigilli Cartabia ha ricordato che ‘ siamo tutti chiamati ad occuparci di questa parte della società, una parte della nostra Repubblica’. Peccato che quando lei lascerà via Arenula saranno poche le speranze di riformare il carcere, se ipotizziamo un Governo di centrodestra. Quello che preoccupa maggiormente in questo momento sono i suicidi dietro le sbarre: 52 dall’inizio dell’anno. Perdite drammatiche di vite, paradossalmente quando le persone sono sotto la custodia dello Stato. ‘ Quello dei suicidi è un fenomeno in drammatica progressione - ci dice Renoldi. Le motivazioni alla base di una scelta così drammatica sono individuali e legate al vissuto particolare di ciascuna persona e non di rado al problema della salute mentale, ma il carcere - con il senso di lontananza e di precarietà esistenziale connessa - finisce per amplificarle a dismisura. Lo provano i dati disponibili: i suicidi in carcere sono più frequenti rispetto alla popolazione libera; ciò rivela, impietosamente, una stretta correlazione tra la condizione detentiva e la decisione di togliersi la vita’. A questa tragica escalation contribuiscono, ammette Renoldi, ‘ inutile nasconderlo, anche le difficili situazioni di molti istituti, tra carenze di personale, vetustà delle strutture, sostanziale carenza dei servizi sanitari, in specie del personale psichiatrico, indispensabile per la gestione del disagio di una parte crescente della popolazione detentiva, che presenta anche correlate problematiche di dipendenza da sostanze psicoattive. E poi a volte, la difficoltà di rendere quel tempo non solo vuoto e di attesa, ma effettivamente pieno di possibilità. E l’estate, col caldo, è sempre uno dei momenti peggiori in carcere’. Lo abbiamo raccontato spesso da questo giornale: celle bollenti e scarsità di acqua rendono la detenzione infernale. Anche per far fronte a questa drammatica situazione, ‘ che l’Amministrazione ha il dovere, morale e giuridico, di cercare di arginare’, il Dipartimento ‘ ha varato, di recente, una circolare per la prevenzione dei suicidi. Con questo intervento, che non a caso è stato definitivo come “continuo” (a rimarcare la necessità di un’attenzione permanente e non legata alla contingenza), si intende innanzitutto stimolare l’approvazione dei piani regionale e locali per la prevenzione dei suicidi, che purtroppo non tutte le autorità regionali si sono dimostrate disponibili ad approvare; quindi a verificare la conformità dei piani già approvati alle linee guide nazionali’. Ma soprattutto, prosegue Renoldi, ‘ si intende dare nuovo impulso agli staff multidisciplinari, già istituiti a partire da una circolare del 2007 e che riceveranno nuova linfa dall’arrivo di oltre 200 educatori nel prossimo mese di settembre, in un’ottica di rete che coinvolga anche, accanto al personale più vicino al detenuto, come la polizia penitenziaria, anche altri depositari di conoscenze specifiche quali l’avvocatura, i garanti, il volontariato, i familiari’. Renoldi è consapevole che si tratta di ‘ una sfida difficile e impegnativa, che va comunque doverosamente raccolta, riguardando la fondamentale missione istituzionale dell’Amministrazione, ovvero la salvaguardia dell’incolumità delle persone che le vengono affidate’. Ma come? La difficile partita va giocata ‘con sempre maggiore formazione e valorizzazione delle specifiche professionalità del personale dell’ amministrazione penitenziaria, sulle cui gambe cammina l’azione amministrativa e sulle cui spalle grava il peso quotidiano di un lavoro difficile’. Per questa ragione, il 15 agosto, ‘abbiamo voluto essere presenti in carcere, come ogni giorno, per manifestare gratitudine e vicinanza al nostro personale e all’intera comunità penitenziaria, oltre che per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su una realtà, quella carceraria, troppo spesso ingiustamente negletta. Ovviamente il miglioramento della qualità della vita e del lavoro in carcere passa attraverso una pluralità di interventi di diversa natura’. Come sappiamo ‘il mondo dell’esecuzione penale - ha proseguito il Capo del Dap - sta vivendo una importante fase di transizione: più ricorso alle misure alternative, ma il carcere resta uno strumento irrinunciabile delle politiche penali, che deve essere realmente funzionale a quei percorsi di reinserimento che la Costituzione assegna alla sanzione penale’. Il magistrato ci ricorda come ‘la Ministra si è fatta promotrice di una importante modifica delle norme sull’edilizia penitenziaria, per abbreviare le procedure per la progettazione e la realizzazione di nuovi spazi detentivi, in grado di disegnare un contesto carcerario più vivibile per gli operatori e le persone detenute. Ed è stata, inoltre, avviata una politica delle assunzioni indispensabile per la funzionalità dell’Amministrazione, in particolare per alcune figure chiave nella vita del carcere: direttori, educatori, mediatori culturali, contabili, amministrativi e, ovviamente, poliziotti penitenziari’. Infine ‘ l’Amministrazione ha avviato alcune iniziative per redistribuire il personale penitenziario e la popolazione detentiva all’interno dei vari istituti, in particolare, per quanto riguarda questo secondo aspetto, con la circolare sul circuito della media sicurezza, che ridisegna l’organizzazione delle modalità della detenzione secondo un criterio di progressività trattamentale. E altre iniziative sono state messe in campo e sono in fase di definizione sul versante delle concrete condizioni di vita delle persone detenute: dall’autorizzazione all’acquisto dei ventilatori nei reparti detentivi, alle prossime misure in materia di video-colloqui, sino alla circolare sulla prevenzione dei suicidi’. Tutto questo può bastare? È un inizio ma dalla prossima legislatura - Governo e Parlamento - non potranno non affrontare le problematiche carcerarie: dai fatti di Santa Maria Capua Vetere all’aumento dei suicidi, passando per condizioni di (in) vivibilità carceraria disumane e degradanti la politica non potrà voltarsi per l’ennesima volta dall’altra parte. Carcere, le visite dell’amministrazione centrale sono importanti: ecco su cosa si agisce di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2022 Il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi ha deciso di andare in giro a visitare carceri insieme ai suoi colleghi ai vertici del Dipartimento. Lo ha fatto in questo Ferragosto doloroso per l’alto numero di suicidi che si è verificato nelle ultime settimane all’interno degli istituti di pena. Un’iniziativa importante. Renoldi si è recato nel carcere romano femminile di Rebibbia, mentre il Vice Capo Carmelo Cantone, provveditori e direttori generali coprivano le carceri di Viterbo, Palermo Ucciardone, Messina, Genova, Lecce, Taranto, Terni, Napoli Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Modena, Ancona, Pesaro, Aosta, Udine, Oristano, Ariano Irpino. La visita in carcere non è affatto qualcosa di formale. È piuttosto uno strumento fondamentale di conoscenza del sistema nonché di prevenzione degli abusi. Il carcere è un luogo che per propria natura può tendere verso piccoli o grandi arbitri nell’uso del potere. Tre elementi costitutivi lo spiegano: è un luogo chiuso, che tende all’opacità e a favorire l’omertà; è un’istituzione che prende in carico globalmente le persone che reclude; è abitato da due categorie di persone dal potere sociale molto differente: i custodi e i custoditi. Visitare le carceri significa agire su tutto questo, rendere più sottili le mura delle prigioni affinché lo sguardo esterno vi penetri più facilmente. “Il carcere trasparente”, si chiamava il primo rapporto mai pubblicato dall’associazione Antigone. Quel titolo racchiudeva il programma politico che stiamo portando avanti da oltre due decenni. Che le carceri siano visitate dalla società civile e dagli organismi indipendenti internazionali è importantissimo. Ma lo è anche che siano visitate dall’amministrazione centrale. Le stesse Mandela Rules, gli standard di detenzione elaborati a livello mondiale dalle Nazioni Unite, prevedono alla regola 82 un doppio sistema di ispezioni regolari, di cui il primo canale è rappresentato da “ispezioni interne o amministrative condotte dall’amministrazione penitenziaria centrale”. L’iniziativa del Dap di queste ore ha dunque una grande rilevanza. In un momento drammatico come quello attuale per le carceri italiane, varcare quei cancelli da parte dei vertici Dap, camminare nelle sezioni, parlare con le persone detenute, far sentire loro la presenza dell’amministrazione centrale, mandare un messaggio unitario e centralizzato in uno scenario frammentato dove spesso ogni carcere costituisce un mondo a sé non ha nulla di formale; è invece un’azione che avrà ricadute effettive tangibili. Lo stesso discorso si potrebbe riportare in scala per quanto riguarda singoli istituti di pena. Se il Ministero deve organizzare visite centralizzate alle varie strutture, ogni singola direzione dovrebbe visitare i reparti del carcere che dirige. Dovrebbe calpestarli, girarli, conoscerli a menadito. Quando noi, con il nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione, andiamo in visita agli istituti, capiamo subito dove ciò accade e dove no. Ci sono direttori che, nell’accompagnarci durante la visita, conoscono ogni stanza e ogni scala dei reparti detentivi, chiamano per nome le persone da più tempo detenute, conoscono gli agenti di servizio nelle varie sezioni. E ci sono invece direttori che i detenuti non li hanno mai visti in faccia. Li guardano e domandano chi siano, come lo chiedono di noi. Direttori che non conoscono i corridoi dell’istituto che dirigono e hanno bisogno di un educatore o di un poliziotto che faccia loro strada. Direttori che interpretano il proprio lavoro esclusivamente alla scrivania del loro ufficio. Si respira un’aria enormemente diversa nelle une o nelle altre carceri. *Coordinatrice Associazione Antigone Il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri di Giacomo Galeazzi interris.it, 18 agosto 2022 A togliersi la vita sono sempre di più detenuti giovani, la maggior parte di chi lo ha fatto quest’anno aveva tra i 20 e i 30 anni. Secondo il filosofo francese Voltaire, “la civiltà di un Paese è data dalle condizioni delle sue carceri”. Sos di Antigone: nel 2022 un suicidio ogni mille detenuti. Antigone è un’associazione che si impegna da decenni per i diritti e le garanzie nel sistema penale. È nata alla fine degli anni ottanta nel solco della omonima rivista contro l’emergenza. Promossa, tra gli altri, da Massimo Cacciari, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda. Vi aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti. E cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. carceri Allarme carceri - Un detenuto ogni mille presenti si è tolto la vita in carcere nel 2022 - riferisce Antigone. Se nel mondo libero si fossero suicidate 60.000 persone (questa la proporzione) vedremo grande attenzione. Invece verso il carcere le iniziative legislative tardano ad arrivare”. Un altro detenuto si è tolto la vita. È salito così a 51 il numero dei suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Numeri così alti non ce ne sono mai stati. Nemmeno nel periodo peggiore del sovraffollamento nelle carceri. Quello che portò alla condanna dell’Italia a parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dall’inizio dell’anno 51 detenuti si sono tolti la vita. Una media di più di uno ogni 5 giorni. L’anno scorso nello stesso periodo i suicidi erano stati più di una decina in meno. 34. Un allarme rilanciato dal Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Carceri Record negativo - Il record negativo è della Campania dove in 5 giorni tre detenuti si sono ammazzati. Ma è nel complesso delle carceri italiane che ci si suicida molto di più di quanto accade nel mondo esterno. Oltre 16 volte di più. La drammatica contabilità dell’associazione Antigone richiama l’attenzione anche su un altro dato. A togliersi la vita sono sempre di più detenuti giovani. La maggior parte di chi lo ha fatto quest’anno aveva tra i 20 e i 30 anni. Un’emergenza che allarma e preoccupa anche i vertici dell’amministrazione penitenziaria. Nei giorni scorsi il Dap ha varato linee guida per contrastare il dramma dei suicidi in carcere. Si punta a rafforzare il carattere permanente delle attività di prevenzione. Con un approccio multidisciplinare. carceri Valore simbolico e concreto - È poi arrivata un’altra iniziativa che ha insieme un valore simbolico e concreto. Per la prima volta i vertici del Dap, anche a Ferragosto, hanno visitato una ventina di istituti penitenziari. Tra gli altri l’Ucciardone, Poggioreale, Marassi, il carcere di Santamaria Capua Vetere. L’intento è portare in questo difficile periodo un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria. E ribadire riconoscenza al personale in servizio. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è uno dei quattro dipartimenti in cui si divide il ministero della Giustizia. Da esso dipende il corpo di polizia penitenziaria. Ad annunciare l’iniziativa è stato il capo del Dap Carlo Renoldi, che si è recato in visita Rebibbia. Mentre il suo vice Carmelo Cantone si è recato a Viterbo. Le condizioni nelle carceri - Il Garante nazionale Palma è stato invece a Ferragosto a Sollicciano. Con il vicepresidente del Csm, David Ermini e il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Si sono, inoltre, concluse ieri le visite di parlamentari nelle carceri. Per verificare le condizioni dei detenuti. Spiega Carlo Renoldi: “L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi. Ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario. Dobbiamo chiederci quanto è stato fatto finora. E quanto sia ancora necessario fare”. La cannabis va depenalizzata. Così miglioriamo il sistema carcere di Giulia Merlo Il Domani, 18 agosto 2022 Non si capisce perché gli individui siano liberi di scegliere di consumare alcool e sigarette e cannabis no. Chi detiene cannabis, a prescindere dall’uso che ne fa, viene pesantemente sanzionato. Depenalizzare la cannabis, avrebbe un effetto anche sul sistema carcerario, che costa ogni anno intorno ai tre miliardi di euro, una cifra enorme, che produce suicidi, e alti livelli di recidiva per chi torna in libertà, l’affinamento delle capacità delinquenziali in tanti che vi passano. Se per il piccolo spacciatore si prevedessero, invece del carcere, percorsi dedicati di recupero, si ridurrebbe non solo la pressione del sovraffollamento carcerario, ma anche quello sul sistema giustizia. La Costituzione mette la libertà al centro dello stare insieme: stabilisce che la libertà personale è inviolabile. La libertà è anche il perno dell’articolo 1, secondo cui l’Italia è una Repubblica democratica. Perché la democrazia funzioni, infatti, è necessario che le persone siano capaci di gestire la loro libertà, capaci di scegliere. Diventare capaci di scegliere non si impara e non si insegna attraverso la minaccia di punizioni o la promessa di premi, ma attraverso una elaborazione culturale che sviluppi la capacità critica di capire cosa fare e cosa no; per essere liberi occorrere conoscere le alternative tra cui scegliere e saper discernere. Libertà è scelta personale, non imposizione dall’alto. Se questo ragionamento è corretto, non si capisce sulla base di quale principio le istituzioni lo abbiano seguito in materia di alcool e tabacco ma non per la cannabis. Lo stato, infatti, consente ai cittadini di comprare alcolici e sigarette, pure se esistono dati medici che dimostrano quanto loro o i loro eccessi siano dannosi per la salute. Le persone, quindi, sono libere di scegliere se consumare questi prodotti, e quanto consumarne, facendosi deliberatamente o inconsciamente del male (ed eventualmente facendone anche agli altri). Mi chiedo perché lo stesso principio non valga per la cannabis. I casi sono due. O si crede che le persone non sappiano scegliere se e quanto bere, fumare tabacco o cannabis oppure no, e allora si vietano tutte queste sostanze, oppure si crede che ne siano capaci, o possano diventarne capaci, e allora le si permettono tutte, dedicando competenze e risorse per educare le persone a un loro uso corretto. Voglio dire che se si consente l’acquisto di alcool e tabacco, non ha senso vietare quello della cannabis, che per altro ha controindicazioni mediche decisamente meno drammatiche. Legalizzare è controllare - Il problema di fondo sta nell’educazione degli individui a saper scegliere responsabilmente il se, il come e il quanto, esercitando così la loro libertà nella consapevolezza dei propri limiti. Su un piano generale, inoltre, non si può seriamente contestare che esistano relazioni tra criminalità organizzata e vendita di cannabis: legalizzando il prodotto e il suo consumo, con ferme limitazioni ai minorenni come per alcool e tabacco, si limiterebbero introiti e presenza della criminalità, tutelando nel contempo anche la salute dei consumatori. Legalizzare significa controllare il prodotto, evitando che chi ne fa uso sia esposto al consumo di sostanze la cui composizione non è sempre nota e può essere manipolata per aumentare la percentuale di thc per favorirne la dipendenza. La nostra legislazione prevede che chi in qualunque modo si intrometta nel mettere cannabis a disposizione di altri sia punito, indipendentemente dal modo e dalla quantità. Non considera reato il suo uso, ma lo sanziona pesantemente. Chi consuma, ma anche chi comunque detiene per consumare (anche se poi non consuma), secondo la legge si vede sospendere la patente, il porto d’armi, il passaporto, il permesso di soggiorno per un periodo da uno a tre mesi (o il divieto di conseguirlo se extracomunitari). Se l’assunto è che la cannabis influisce negativamente sulla salute di chi la consuma, ne deriva che chi fa un uso tale da creare problemi di salute dovrebbe essere curato piuttosto che subire le pesanti sanzioni amministrative previste. E non dovrebbe essere penalizzato il possesso di quantità che ora consentono l’arresto seppur destinate all’uso personale. Qui entriamo in un campo ulteriore, che riguarda l’uso del carcere. Non vorrei allargare troppo il discorso, ma credo sia dimostrabile che la restrizione della libertà serve solo nei confronti di persone pericolose, finché permane la pericolosità (e purché tutti i loro diritti che non confliggono con la tutela della collettività siano rispettati). Negli altri casi si tratta di esercizio della vendetta. Ma questo, come dicevo, è un altro discorso, pur se riguarda anche il piccolo spacciatore, che dovrebbe essere rieducato attraverso altri canali (appunto educativi) e non immesso nel circuito carcerario che non limita la recidiva e anzi spesso diventa scuola di delinquenza. Per contestualizzare, qualche dato utile è fornito dalla relazione 2022 del governo al parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze. Secondo la relazione la cannabis è la sostanza più utilizzata in Italia: corrisponde al 74 per cento di quelle sequestrate nel 2021 e il contrasto al suo commercio ha riguardato il 50 per cento delle operazioni antidroga. Considerando che 12.371 denunce per reati di droga - il 41 per cento del totale - e il 75 per cento circa delle segnalazioni per uso personale riguardano la cannabis, se la sua legalizzazione venisse approvata i primi effetti si vedrebbero sul carcere, con taglio significativo degli ingressi legati al suo consumo. Va notato che gli arresti relativi alla cannabis sono stati 7.191, e che quasi tutte le segnalazioni hanno riguardato l’uso di cannabinoidi, con un pesante coinvolgimento di giovani sotto i 20 anni. I costi del carcere - Il sistema del carcere costa ogni anno intorno ai tre miliardi di euro, una cifra enorme, che produce suicidi, e alti livelli di recidiva per chi torna in libertà, l’affinamento delle capacità delinquenziali in tanti che vi passano. Se per il piccolo spacciatore si prevedessero, invece del carcere, percorsi dedicati di recupero, come in alcuni casi già ora avviene, si ridurrebbe non solo la pressione del sovraffollamento carcerario ma anche quella sul sistema giustizia, data anche dal numero di procedimenti penali riguardanti lo spaccio al minuto pendenti davanti ai nostri tribunali. Secondo i dati del ministero della Giustizia riferiti al 2020, infatti, la sola violazione dell’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti ha prodotto 92.875 procedimenti penali. La scuola in carcere fa diminuire la recidiva - Il tema centrale, tuttavia, riguarda non la punizione a valle, ma la prevenzione a monte. Cosa c’è dietro il consumo di sostanze, siano alcolici, tabacco o cannabis? Disagio sociale e individuale, desiderio di fuggire dalle proprie condizioni, a volte soddisfazione di una specie di delirio di onnipotenza. Si tratta anche di richieste di soccorso, che andrebbero accolte come tali, diffondendo la consapevolezza che se si sbaglia si viene aiutati. Più che proibire acriticamente, per altro equiparando droghe leggere e droghe pesanti, lo stato ha il dovere di intervenire sulle cause che generano il ricorrervi. Rivolte nelle carceri, il Dap: la scintilla fu il divieto ai colloqui, non ci fu regia criminale di Raffaele Sardo La Repubblica, 18 agosto 2022 Le conclusioni della commissione ispettiva del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria relativa ai fatti del marzo 2020. “Dietro le rivolte scoppiate nelle carceri italiane nel marzo del 2020, non c’era la criminalità organizzata e nemmeno una matrice politica anarchica o insurrezionalista”. I motivi vanno ricercati nella sospensione dei colloqui con i familiari. Lo scrive la Commissione ispettiva del Dap, presieduta dall’ex procuratore Sergio Lari, nella relazione finale sulle rivolte negli istituti penitenziari. Per la commissione le rivolte hanno attecchito “in un terreno reso fertile dalla insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria”. La scintilla che ha innescato la protesta è stata, “l’emanazione del decreto legge numero 11 dell’8 marzo 2020 con cui sono state introdotte drastiche limitazioni alla vita sociale dei detenuti, prima fra tutte la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari”. Secondo quanto emerge dalla relazione finale della commissione, la sospensione dei colloqui “ha comportato per i detenuti l’impossibilità di ricevere i generi di conforto che solitamente i familiari portano in quelle occasioni ed ha fatto sorgere il timore di non potere fruire dei video colloqui in sostituzione di quelli in presenza a causa delle note carenze informatiche e strutturali degli istituti penitenziari. Inoltre, la misura è apparsa, a molti detenuti, poco convincente sul rilievo che il virus, favorito dal sovraffollamento, avrebbe comunque potuto diffondersi all’interno degli istituti tramite la polizia penitenziaria, gli operatori sanitari e gli altri soggetti che normalmente accedono alle strutture penitenziarie per lavoro”. A protestare violentemente furono circa ottomila detenuti che tra il 7 e il 12 marzo 2020 che inscenarono manifestazioni collettive con battiture di oggetti di metallo sulle sbarre delle celle, rifiuto del vitto, lancio di oggetti ed atti vandalici che interessarono 57 istituti penitenziari. In 22 carceri, tra cui Salerno e Poggioreale, ci furono devastazioni delle strutture, atti di violenza nei confronti del personale penitenziario e sanitario, sequestri di persona, evasioni di massa come quelle del carcere di Foggia (72 evasioni). Ma ci furono anche 13 detenuti che persero la vita in quelle giornate così violente. L’attività di indagine della Commissione ha riguardato i 22 istituti in cui si verificarono i fatti più eclatanti. Ad accendere la miccia della protesta fu proprio il carcere di Salerno. Il 7 marzo alle 14.40 fu il 1° reparto detentivo a reagire a quei provvedimenti che impedivano i colloqui. La protesta coinvolse esclusivamente i detenuti di media sicurezza del secondo piano e pochi detenuti del primo piano. L’istituto all’epoca ospitava 539 detenuti su una capienza consentita di 394 posti. Nella protesta I detenuti utilizzarono armi improprie per distruggere tutto quello che potevano. I danni furono ingenti: 440mila euro e 6 unità di personale penitenziario dovettero far ricordo a cure mediche. Quella rivolta ebbe un notevole impatto mediatico che fece da detonatore per le altre carceri. Il giorno dopo anche a Poggioreale, alle 14,15, circa novecento carcerati, ristretti nei padiglioni posti sul lato destro dell’Istituto di pena, cominciarono una protesta violenta. I rivoltosi appartenevano tutti al circuito della “media sicurezza” ad eccezione di quattro detenuti classificati “alta sicurezza”. In quel momento nel padiglione erano in servizio 5 unità di polizia penitenziaria. Dovettero ritirarsi per non avere la peggio. Solo intorno alle 18 il personale di polizia penitenziaria riuscì a ristabilire l’ordine. I danni di quella rivolta sono stati calcolati in circa 1 milione 300 mila euro. Berlusconi lancia l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, è scontro tra penalisti e Anm di Fabio Calcagni Il Riformista, 18 agosto 2022 Il processo è già una pena, che colpisce l’imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro. Per questo non deve trascinarsi all’infinito, in appelli e controappelli. Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili. Un cittadino - una volta riconosciuto innocente - ha diritto di non essere perseguitato per sempre”. Lo scrive su Fb Silvio Berlusconi nella sua pillola quotidiana. Silvio Berlusconi punta forte sulla giustizia. Il leader di Forza Italia, nella consueta pillola quotidiana sui social in cui evidenza i punti del programma del partito, lancia una proposta che ha immediatamente alzato un polverone. Ricordando come ogni anno in Italia “migliaia di persone vengono arrestate e processate pur essendo innocenti”, Berlusconi ha attaccato l’attuale sistema giustizia, un processo “che è già una pena che colpisce l’imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro”. Per questo “non deve trascinarsi all’infinito, in appelli e controappelli”. Dunque l’idea del leader e fondatore di Forza Italia è che le sentenze di assoluzioni “di primo o di secondo grado non saranno appellabili”. “Un cittadino - una volta riconosciuto innocente - ha diritto di non essere perseguitato per sempre”, è la proposta di Berlusconi. Idea che riceve l’ok di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, che ha ricordato come l’inappellabilità delle assoluzioni “è una cinque riforme da noi indicate a tutti i leader politici come imprescindibili per una riforma liberale della giustizia. Se sei stato assolto una volta, nessun secondo giudizio potrà mai eliminare il dubbio”. Il numero uno dei penalisti ricorda che si tratta di un’ipotesi rilanciata anche dalla commissione Lattanzi, sulla riforma del processo penale, ma poi “sacrificata”. “La legge in tal senso portava la prima firma di Gaetano Pecorella che era parlamentare di Forza Italia ma anche presidente dell’Unione delle Camere penali, ed è vero che la Consulta l’ha dichiarata incostituzionale, ma questa ipotesi è stata rilanciata dalla commissione Lattanzi istituita dalla ministra Cartabia”, sottolinea l’avvocato Caiazza, ricordando che “esplicitamente la commissione si preoccupava di sottolineare che ovviamente la legge delega che suggeriva avrebbe dovuto tenere contro delle ragioni di annullamento da parte della Corte costituzionale. Poiché questa proveniva da una ex presidente dalla Consulta, è certamente una strada praticabile”. Caiazza sottolinea come la ministra Marta Cartabia abbia “fatto pressoché il massimo, dato il contesto della sua maggioranza. La riforma della Giustizia è un esercizio di equilibrio pressoché impossibile tra le componenti liberali e giustizialiste della maggioranza. Noi abbiamo espresso apprezzamento per questo lavoro - conclude il presidente dei penalisti - ma abbiamo anche detto che però, andando verso una nuova legislatura, non ha più senso ancorarsi a quelle mediazioni forzate”. A mettersi di traverso è pero l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati. Il suo presidente Giuseppe Santalucia ha ricordato che “la questione era stata affrontata dal legislatore nel 2006 con la legge Pecorella e la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima quella legge”. “Ci sono principi costituzionali - sottolinea Santalucia - che devono essere necessariamente rispettati. Il tema può essere discusso ma non rappresento nei termini che ho letto, ossia che migliaia di persone siano ingiustamente sotto processo. Questo non rende giustizia al difficile lavoro dei tribunali e delle corti nell’accertamento della verità dei fatti”. “Ora il Cav può farcela: tutelare chi è stato assolto è un principio sacrosanto” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 agosto 2022 Inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Parla Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma. Ha detto ieri Berlusconi sui social: “Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili. Un cittadino - una volta riconosciuto innocente - ha diritto di non essere perseguitato per sempre”. Ne parliamo con Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, già componente laico del Csm. Ha fiducia nelle promesse di Berlusconi? Se il centrodestra riuscirà ad avere una maggioranza politica credo che il progetto di riforma della giustizia sui due piani di separazione delle carriere e inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm sia realizzabile. Ritengo però più proficuo spostare il piano della discussione dalla questione politica a quella giuridica. In che senso? I tempi sono giuridicamente maturi per una tale riforma e per vari motivi. Primo tra tutti: questa ipotesi era anche contenuta nel progetto di riforma della Commissione presieduta da Giorgio Lattanzi. Tuttavia era stata poi accantonata sull’altare del compromesso. L’errore iniziale è stato quello di legare la legittimazione del pm ad appellare alla ipotesi della cosiddetta critica vincolata per consentire l’accesso dell’imputato al secondo grado di giudizio. In pratica uno svantaggio al pm, inappellabilità della sentenza di assoluzione, doveva per forza essere controbilanciato da uno svantaggio per la difesa, vale a dire la fondatezza dei motivi di appello. Se saltava uno, saltava anche l’altro. Eppure adesso, con i decreti attuativi della riforma del processo penale, è chiaro che la difesa sarà chiamata a un onere molto forte in sede di impugnazione. Quindi si potrebbe benissimo porre contemporaneamente un freno all’appello del pm contro le sentenze di assoluzione. Quali sono le altre ragioni giuridiche? Partiamo dal dato che se l’imputato venisse condannato per la prima volta in appello subirebbe un grave pregiudizio, potendo esperire contro la sentenza solo il ricorso in Cassazione. Ma c’è qualcosa di più: oggi abbiamo costruito un processo penale nel quale il pm fa le indagini, non archivia, va a dibattimento e la sua tesi non viene accolta. A questo punto gli è comunque riconosciuto il diritto di ricorrere in Cassazione per tutti i motivi di legittimità. C’è una terza ragione? Sì. Se fossi prosciolto in via definitiva per un fatto ma per mille motivi venissi condannato per lo stesso fatto, il codice prevede che tra sentenze contraddittorie irrevocabili deve prevalere quella più favorevole. Ma c’è un ulteriore motivo. Ci dica professore... Mettiamo che il giudice dell’appello non decida in tempo. Emetterebbe dunque una decisione di improcedibilità che annulla anche il proscioglimento dell’imputato. Quindi il discorso non può essere trattato in termini fideistici. Pensiamo poi ai costi sociali, e a quelli per l’imputato, di rifare un processo, dopo che già dei giudici ti hanno ritenuto innocente. Bisognerebbe addirittura condannare il pm alle spese processuali, come proponemmo nella Commissione Canzio, qualora avesse avviato un procedimento inutile. Ma c’è di peggio. Cioè? La situazione assolutamente patologica legata al rito abbreviato. Il pm ha raccolto materiale, ha esercitato l’azione penale. In udienza preliminare, io imputato chiedo il rito abbreviato sulle carte dell’accusa, sanando anche le sue nullità. Vengo assolto ma il pm impugna. E io sono costretto a subire un appello, nonostante abbia chiesto un abbreviato secco sulle sole carte dell’accusa, con il rischio di essere condannato. Ma poi professore, l’articolo 111 della Costituzione riconosce all’accusato la facoltà, “davanti al giudice, di interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa”. L’appello preclude spesso questa possibilità essendo spesso cartolare, e anche se si riapre l’istruttoria la testimonianza perde credibilità col passare del tempo... Sì, esatto, ha ragione. Vorrei aggiungere un altro elemento. Quando un giudizio di primo grado si chiude non accogliendo la tesi del pm, delle volte il giudice, per non smentire l’accusa, emette una sentenza cosiddetta di 530, comma 2, per cui la prova che il fatto sussiste è insufficiente o contraddittoria. Ciò permette al pm di uscire dall’aula e dire “la mia impostazione non è stata smentita”. Questo non è vero, perché io vengo assolto senza alcun dubbio, tuttavia questa formula incentiva l’appello da parte dell’accusa. C’è un altro aspetto negativo. La personalizzazione dell’accusa? Esatto. Non succede spesso quanto accaduto a Milano, dove nel processo Eni la procuratrice generale non ha impugnato la sentenza di assoluzione di primo grado, contraddicendo la Procura. C’è il grosso problema degli appelli pretestuosi, frutto della personalizzazione dell’impostazione accusatoria. L’Anm passa subito all’attacco di Berlusconi: “La questione era stata affrontata dal legislatore nel 2006 con la legge Pecorella e la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima quella legge”, ha detto il presidente Giuseppe Santalucia... Stiamo parlando di una sentenza del 2007, di acqua sotto i ponti ne è passata. E non ha torto il collega Ferrua quando scrive che “fu una sentenza poco convincente, emanata in un clima politico avvelenato dai processi a Berlusconi”. Poi, sottolineo nuovamente, che a proporre lo scorso anno quello che oggi chiede Berlusconi è stato l’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi. In ultimo, vorrei evidenziare che la decisione della Corte costituzionale contiene un errore giuridico, di cui forse l’estensore Flick si sarà pentito. Egli parlò di “soccombenza del pm”: è un concetto sbagliato perché il pm non è portatore di interessi personali. Tanto è vero che con la riforma della Commissione Carcano del 2015 limitammo il potere di impugnazione del pm rispetto alla pena. Così la destra smonta la riforma Cartabia: ma si rischiano i fondi del Pnnr di Liliana Milella La Repubblica, 18 agosto 2022 Il centrodestra ha voglia di ribaltare il tavolo sulla giustizia, come si può vedere dai programmi che ripropongono gli stessi temi dei referendum del 12 giugno pur bocciati dagli elettori. Ma la riforma è una delle richieste precise di Bruxelles legate alla concessione dei fondi. È stato, e sarà sempre, il terreno di scontro più scivoloso e divisivo. Con il rischio di un perenne “fai e disfa”. Il centrodestra ha voglia di ribaltare il tavolo sulla giustizia, come si può vedere dai programmi che ripropongono gli stessi temi dei referendum del 12 giugno pur bocciati dagli elettori. Separazione delle carriere di giudice e pm, responsabilità civile diretta dei giudici, inappellabilità delle sentenze, “bavaglio” a pm e giornalisti. Ma anche stretta sulla custodia cautelare e ritorno alla prescrizione della ex Cirielli. Il centrodestra punta a ribaltare le riforme della Guardasigilli Marta Cartabia, frutto di un compromesso per consentire un’intesa tra tutti, mantenendosi però nel perimetro della Costituzione. Riforme come quella del Csm che ha già garantito la corsa di 90 magistrati per i 20 posti dei togati al Csm, a fronte delle elezioni del 2018 con concorrenti risicati. Ma Berlusconi è nostalgico delle riforme tentate dai suoi governi nel 2001-2006 e ancora nel 2008-2011. Lega e FdI lo seguono tentando di cambiare la Carta. Calenda e Renzi hanno le stesse idee della destra. Fanno argine Pd e M5S. E le riforme Cartabia? L’intenzione è di sgretolarle, anche se in Parlamento, a denti stretti, Lega e Fi le hanno votate. Contro solo FdI. Nessuno dimentica i durissimi affondi da avvocato della responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno. Può salvarle la paura di perdere i fondi del Pnrr che salterebbero se i progetti garantiti dall’Italia fossero stravolti. È un fatto che Didier Reynders, il commissario europeo per la Giustizia, ha elogiato via tweet le riforme della ministra. Un loro stravolgimento creerebbe un problema serio con l’Europa. Separazione delle carriere: due concorsi, due Csm - Separare i giudici dai pubblici ministeri. Due concorsi, due carriere, due Csm. Nessun passaggio da una funzione all’altra. È l’obiettivo che unisce tutto il centrodestra, Forza Italia, Lega, FdI. Lo teorizzano, da sempre, Berlusconi con la battuta che “il pm non deve andare dal giudice col cappello in mano”. Si batte il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto che, come tutti gli avvocati, considera la separazione “il” traguardo. Ne è convinta Giulia Bongiorno, avvocato anche lei, e responsabile Giustizia della Lega. Nonché legale dello stesso Matteo Salvini. Ma lo vogliono pure Azione con Enrico Costa e Italia viva. I programmi riprendono il progetto delle Camere penali che, con Giandomenico Caiazza, ha presentato anche un legge di iniziativa popolare che ha visto pure il consenso di esponenti del Pd. Ritorno alla legge Pecorella: ricorso “impedito” ai pm - Fu uno smacco, il 24 gennaio del 2007, quando la Corte costituzionale bocciò, “senza appello”, la legge Pecorella, che giusto un anno prima (era il 20 gennaio), per mano del presidente della commissione Giustizia della Camera, nonché notissimo avvocato, Gaetano Pecorella, esponente di punta di Forza Italia, aveva stabilito che le sentenze di assoluzione fossero ricopribili solo in Cassazione. Un “colpo di spugna” sul processo di appello. Giusto quello che adesso chiede di nuovo tutto il centrodestra. La Consulta fu netta, e a firmare la sentenza fu l’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, divenuto poi presidente della stessa Corte. Bocciatura difficile da superare, perché stabilì che vietare l’appello va contro il principio di uguaglianza in quanto al pm viene negato quello che è consentito al condannato. Responsabilità civile dei giudici: chi sbaglia paga di tasca sua - È il tema che tiene banco dal 1987, quando il referendum proposto dai Radicali di Marco Pannella passò con l’80,21% dei sì. Ma, lamenta chi vuole la responsabilità civile “diretta” dei giudici, quel risultato fu “violato e violentato” dalla legge di Giuliano Vassalli - ex Guardasigilli e padre del codice di procedura penale - dell’anno dopo che fissò il principio della responsabilità “indiretta”, paga lo Stato per conto del giudice. Principio confermato dalla legge Renzi-Orlando del 2014. Lega e Radicali hanno tentato l’assalto coi referendum, ma la Consulta di Giuliano Amato li ha fermati. Referendum inammissibile. Adesso ci risiamo. Anche qui tutto il centrodestra unito per chiedere che sia il magistrato che sbaglia a pagare. Enrico Costa di Azione tuitta sui pochissimi casi di toghe condannate dal 2014 a oggi. Bavaglio alla stampa: stop ai contatti con i giudici - Le inchieste giudiziarie devono finire nel cono d’ombra del silenzio giornalistico. Nessuna notizia dai magistrati alla stampa, no ai titoli ad effetto. Atti del tutto segreti. Procure in cui il procuratore detiene un potere “assoluto”. Pm imbavagliati, giornalisti fuori dai corridoi delle procure. Forze dell’ordine costrette a rendere conto al procuratore di ogni loro contatto con la stampa. Atti segreti, ovviamente comprese le “odiate” intercettazioni. Tutto il centrodestra è d’accordo, all’insegna della “buona fama” dell’imputato, com’è scritto nel programma comune. L’obiettivo di Fi, Lega, FdI, nonché Azione e Iv, è “spegnere” la cronaca giudiziaria, condannando le inchieste al totale silenzio fino al processo. Come apripista viene citata e utilizzata la legge sulla presunzione d’innocenza fatta approvare da Cartabia. Berlusconi vuole legare le mani ai magistrati, destra divisa sulla giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 18 agosto 2022 Per la campagna elettorale, Silvio Berlusconi rispolvera un suo storico cavallo di battaglia: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione sia di primo che di secondo grado. Ovvero il fatto che l’accusa non possa proporre ricorso, nel caso in cui l’imputato venga assolto in uno dei due gradi di giudizio perché “un cittadino ha diritto a non essere perseguitato per sempre”, ha spiegato Berlusconi, che ha annunciato anche di candidarsi al collegio uninominale di Monza per il Senato. Un proposito che viene da un politico imputato in più procure. Attualmente i processi a suo carico in corso sono infatti quattro: il Ruby ter di Milano, che è in attesa di sentenza di primo grado; c’è poi aperto il filone gemello di Roma (in un altro, a Siena è stato assolto in primo grado, ma la procura ha fatto, appunto, appello); infine il processo sulle escort a Bari e l’indagine per le stragi di mafia a Firenze. L’inappellabilità è un antico pallino del Cavaliere, che quando era al governo nel 2006 aveva provato a introdurlo con la legge Pecorella. “Una legge che la Corte costituzionale ha già dichiarato illegittima”, ha subito precisato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia. Il sindacato delle toghe non ha chiuso a revisioni del sistema dell’appello ma ha bocciato quella di Berlusconi. La versione di FdI - La proposta ad ora non è stata commentata dalle altre forze di centrodestra. Proprio la giustizia, infatti, è uno dei settori su cui i tre partiti hanno visioni molto diverse e su cui il programma condiviso rimane volutamente molto generico, prevedendo la separazione delle carriere tra giudici e pm e la “riforma del Csm e del processo civile e penale”, tutte e tre appena approvate dal governo Draghi. Così, negli ampissimi margini previsti dall’accordo, ogni partito va per la sua strada. FI, appunto, spinge prioritariamente per la riforma del sistema dei ricorsi penali nel senso garantista più estensivo, sulla base del principio che una sentenza di condanna deve essere pronunciata oltre ogni ragionevole dubbio e già il fatto che un giudice abbia assolto rappresenta il dubbio necessario a fermare l’accusa. L’ipotesi viene inserita anche nel programma della Lega che però, in modo quasi antitetico, prevede un irrigidimento delle misure cautelari, prevedendo meccanismi “più rigorosi per la loro applicazione” in casi di reati particolari e senza però specificare quali. Con un paradosso: prevede più misure cautelari, anche in carcere, e sulla base della sola ipotesi di reato indicata dalla procura. Quindi prima del processo e di una sentenza che, se poi fosse di assoluzione, la stessa Lega vorrebbe rendere non appellabile. FdI, invece, sul punto prudentemente tace. Sia la Lega che FI, poi, prevedono l’abolizione della legge Severino che fece decadere da senatore proprio Berlusconi, per la quale era già stato tentato anche il referendum della giustizia. Proprio su questo la posizione di FdI è opposta: al referendum aveva dato indicazione di votare no all’abolizione della Severino e poi ha proposto una sua parziale revisione, risolvendo lo squilibrio tra parlamentari e amministratori locali con la decadenza in caso di sentenza passata in giudicato. Il carcere - Altro punto non toccato dal programma quadro, su cui il centrodestra ha sensibilità molto diverse, è quello del carcere. Le posizioni più securitarie vengono da FdI, che è stata contraria a ogni ammorbidimento del cosiddetto carcere ostativo, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale. Nel 2018, poi, ha presentato un progetto di riforma costituzionale dell’articolo 27, che prevede il principio della funzione rieducativa del carcere e che FdI vorrebbe subordinare alla “pericolosità sociale del condannato” e “senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. Tradotto: per alcuni detenuti il carcere potrebbe avere solo funzione contenitiva. Sul fronte leghista l’orientamento è più temperato, si chiede una riforma carceraria che punti alla “vivibilità dei detenuti e alla sicurezza delle carceri” con una ricetta chiara: costruire più carceri e assumere più polizia penitenziaria. Esattamente la direzione opposta a quella immaginata dagli interventi sull’esecuzione delle pene voluta da Cartabia, che prevede strumenti alternativi alla detenzione per ridurre la pressione del sovraffollamento e per permettere il reinserimento sociale, e il cui delegato sul tema era il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, storico esponente azzurro. L’interrogativo vero è che fine faranno le tre riforme Cartabia in caso di governo Meloni: sono state approvate con i voti di Lega e FI, a cui la ministra è venuta incontro su molti punti. Meloni vuole riscriverle anche se ancora non ha spiegato come, ma farlo significa sconfessare un anno e mezzo di lavoro dei suoi alleati. In cella per uno scambio di persona. Storie di ordinaria ingiustizia di Riccardo Radi* Il Dubbio, 18 agosto 2022 Fratello e sorella arrestati per rapina (e poi risarciti) sulla base di testimonianze ritenute attendibili nonostante le incongruenze palesi denunciate dalla difesa. Nelle aule di giustizia avvengono, quotidianamente, fatti che meriterebbero una attenta e profonda riflessione. Uno di questi fatti processuali voglio raccontarvi. Siamo a Roma e nel quartiere Casilino sono avvenute una serie di rapine in farmacia compiute da un uomo ed una donna e alle volte dalla sola donna. I carabinieri acquisiscono le immagini dei circuiti di videosorveglianza delle farmacie ed un maresciallo si convince di riconoscere in E. F. (iniziali a fantasia) una donna incensurata di 36 anni, la rapinatrice. Gli inquirenti estrapolano la foto della donna dai video e verificano che il fratello della donna, un uomo di 40 anni, ha precedenti per reati contro il patrimonio. Tale circostanza li convince di aver trovato i colpevoli, preparano dunque un album fotografico contenente i ritratti di entrambi i “sospettati” e convocano le persone offese per un riconoscimento fotografico. Le persone offese riconoscono, “senza ombra di dubbio” nelle foto entrambi i sospettati, quali gli autori delle rapine. I carabinieri li arrestano all’alba di un giorno di fine estate, mentre sono in casa con la madre disabile. È uno shock per fratello e sorella che vivono lavorando saltuariamente come commessa e fattorino è un dramma per la mamma lasciata incustodita in casa. Eppure non è ancora nulla rispetto a quello che sta per accadere: la donna viene condotta nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, il fratello viene associato a Regina Coeli. A inchiodarli ci sarebbero due elementi, entrambi frequenti nella casistica degli errori giudiziari del nostro Paese: le testimonianze. Anzitutto quella di un carabiniere, convinto di avere riconosciuto proprio la donna dalle immagini. In passato, infatti, la donna aveva accompagnato spesso in caserma il fratello sottoposto all’obbligo di firma. In secondo luogo, la testimonianza delle farmaciste, ben sette, che avevano subìto i colpi: sono certe di riconoscere il volto di E. F. e di O.F. nei fotogrammi estrapolati dai video. Per entrambi, però, ci sono notevoli discrasie tra le descrizioni fornite dei rapinatori dalle persone offese e le loro reali fattezze. Ma il sistema è sicuro “senza ombra di dubbio” che sono colpevoli. Vengo nominato loro legale da entrambi dopo che i loro ricorsi al Tribunale del Riesame di Roma sono stati respinti. Li vado a trovare in carcere e li trovo disperati e prostrati dalla carcerazione preventiva subita. Gridano la loro innocenza e mi supplicano di aiutarli. Presento un incidente probatorio per effettuare una ricognizione di persona da parte delle farmaciste e sollecito una consulenza antroposomatica per entrambi. Tutte le mie richieste vengono respinte perché “superflue allo stato degli atti”. I miei assistiti non possono permettersi la nomina di un consulente e quindi ci avviamo al necessario processo. In cella a Rebibbia la commessa passerà 202 giorni. E subito dopo, altri 40 agli arresti domiciliari. Il fratello trascorrerà in carcere 210 giorni. Intanto, si celebra il processo. Esaminando gli atti, mi accorgo che nella descrizione della rapinatrice fatta prima del riconoscimento fotografico da parte delle farmaciste, queste avevano raccontato di aver descritto una donna mora, robusta, con delle verruche bianche che ricoprivano le mani della malvivente. Ma esaminando la cartella clinica di E.F. al momento del suo ingresso in carcere, venti giorni dopo l’ultimo dei colpi a lei addebitati, mi rendo conto che la donna non aveva verruche, bolle o altre cicatrici sulle mani. È la svolta. Durante il dibattimento, questo elemento avrà un peso fondamentale per scagionare E. F., ma non sarà l’unico. Le farmaciste vedendo dal vivo in aula i presunti rapinatori manifestano forti perplessità sul fatto che la donna e l’uomo possano essere davvero quelli che le hanno rapinate. A questo punto, la beffa, il Tribunale a distanza di anni e dopo che la difesa l’avesse più volte richiesta senza esito, dispone una perizia antroposometrica. Nonostante le evidenze probatorie a favore il sistema non può permettersi, a cuor leggero, di dichiarare di aver sbagliato. La perizia non potrà che confermare l’estraneità dei miei “sventurati patrocinati” ed anzi indica il possibile colpevole: “… Gli accertamenti fisionomici svolti su E. F. hanno permesso al perito di osservare una corrispondenza di elementi tra il soggetto ripreso ed un altro individuo presente negli archivi digitali della Polizia di Stato, già coinvolto in una serie di episodi delittuosi simili a quelli in contestazione nel presente procedimento”. E così, a due anni di distanza dal giorno dell’arresto, il Tribunale di Roma assolverà E. F. e O. F. per non aver commesso il fatto. Divenuta irrevocabile la sentenza, entrambi gli sventurati presentano istanza di riparazione per ingiusta detenzione per i mesi trascorsi da innocenti agli arresti, tra carcere e domiciliari. Proprio in questi giorni entrambi i fratelli sono stati risarciti con decine di migliaia di euro mentre i carabinieri che svolsero le indagini, il pubblico ministero che richiese la misura cautelare e il Gip che la dispose e che respinse le richieste difensive, che avrebbero evitato il carcere a persone innocenti e scoperto il reale colpevole, hanno fatto, comunque, la loro onorata carriera. *Avvocato “Più radio e libri nelle nostre celle”: ma la Cassazione stoppa le richieste di due detenuti al 41 bis di Marcello Giordani La Stampa, 18 agosto 2022 I boss chiedono condizioni di detenzione meno dure, con più musica per radio e un numero maggiore di volumi per studiare, ma i magistrati non concedono miglioramenti. Al centro delle rimostranze dei detenuti del 41 bis al supercarcere di via Sforzesca questa volta sono alcuni comfort che mancano. Una richiesta riguarda la possibilità di potere ascoltare un numero maggiori di canali radiofonici. Ad avanzarla è Umberto Accurso, giovane ras del clan Vanella Grassi che operava a Scampia e Secondigliano, arrestato nel 2016, che ha chiesto di potere ascoltare anche i canali Rtl 102.5,m2o, Radio Italia e Gr Parlamento. Canali che, ha puntualizzato Accurso nel ricorso alla Cassazione, vengono ad esempio ascoltati liberamente nel carcere di Nuoro. I giudici hanno però ritenuto che l’amministrazione penitenziaria novarese abbia agito correttamente perché il mancato accoglimento della richiesta non incide sul diritto all’informazione garantito dall’accesso alla stampa periodica e dall’offerta televisiva autorizzata. La seconda richiesta proviene da Alessio Attanasio, scarcerato all’inizio di luglio per aver espiato una pena di oltre 20 anni, e tornato in carcere dopo dieci giorni perché ritenuto dai magistrati della Procura distrettuale antimafia di Catania a capo della cosca siracusana Attanasio-Bottaro. E’ noto anche perché durante la detenzione ha conseguito due lauree, una in Scienze della Comunicazione e l’altra in Giurisprudenza; ed è altrettanto famoso in tutti gli ambienti giudiziari per avere presentato, a partire dal 2017, 670 ricorsi in Cassazione. L’ultimo riguarda la possibilità di avere a disposizione nella cella più di quindici volumi, il numero massimo consentito dal regolamento carcerario. La direzione del carcere di Novara aveva vietato al detenuto di tenere altri cinque libri, che venivano collocati nell’armadio esterno alla camera e venivano sostituiti di volta in volta secondo le esigenze di studio. In magazzino aveva 150 volumi di proprietà da cui poteva scegliere solo una volta la settimana, il venerdì. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché Attanasio ha avuto comunque la possibilità di scegliere i volumi su cui studiare e gli è anche stato permesso di utilizzare cd rom didattici. Dovrà pagare anche tre mila euro alla Cassa delle ammende. Campania. Malati psichiatrici in carcere: “Mancano medici e progetti” napolitoday.it, 18 agosto 2022 In tutta la Campania sono centinaia i detenuti affetti da disturbi mentali che scontano la pena in strutture non adeguate. Carcere e malattia mentale, un binomio che rischia di diventare esplosivo nei penitenziari napoletani, dove le condizioni sono al limite della vivibilità. Il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha fatto visita al carcere di Secondigliano dove ha incontrato, tra gli altri, i 18 detenuti detenuti dell’articolazione psichiatrica. In Campania oltre a Secondigliano ci sono articolazioni psichiatriche anche negli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Salerno, Sant’Angelo dei Lombardi e Pozzuoli. E poi ci sono due Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) a Calvi Risorta e san Nicola Baronia che ospitano complessivamente 40 internati. “Nelle nostre carceri ci sono centinaia di detenuti con sofferenza psichica, dovremmo chiederci: perché entrano in carcere e le strutture esterne non prendono in carico i sofferenti psichici, perché ci sono pochi professionisti, pochi spazi, pochi progetti di recupero nelle carceri e infine perché i magistrati non utilizzano misure alternative alla detenzione per questi diversamente liberi”. Da Ciambriello una critica al sistema: “È inutile continuare a sbandierare il successo della chiusura dei manicomi criminali se non siamo in grado di sciogliere nodi sinora inestricabili: presa in carico dei sofferenti psichici in gruppi di appartamento, assistenza domiciliare, potenziamento dei servizi di salute mentale, tutto in fase di prevenzione. E poi creazione di una nuova Rems in Campania, così come deciso all’unanimità dal consiglio regionale il 3 maggio, potenziamento delle figure di psicologi, psichiatri, tecnici della riabilitazione in carcere, misure alternative al carcere per i sofferenti psichici. Il problema rimane quello di offrire un’adeguata assistenza psichiatrica ai detenuti e di garantire ai dipartimenti di salute mentale le giuste risorse economiche e umane per trattare i liberi vigilati”. Campania. Ciambriello: “Persone con sofferenze psichiatriche non dovrebbero entrare in carcere” ottopagine.it, 18 agosto 2022 Il Garante: “Inutile continuare a sbandierare chiusura manicomi se non siamo in grado di gestire”. Il Garante campano per i diritti dei detenuti continua le sue visite nelle carceri campane durante la settimana di Ferragosto. Oggi è stato nel carcere di Secondigliano dove ha incontrato tra gli altri i detenuti psichiatrici. All’uscita del carcere Ciambriello ha dichiarato: “dovremmo chiederci: perché entrano in carcere e le strutture esterne non prendono in carico i sofferenti psichici, perché ci sono pochi professionisti, pochi spazi, pochi progetti di recupero nelle carceri ed infine perché i magistrati non utilizzano misure alternative alla detenzione per questi diversamente liberi. Il diritto alla salute, l’unico peraltro al quale la Costituzione (art.32) riserva l’aggettivo fondamentale, ha sempre suscitato un’annosa e tormentata disputa teorica. È inutile continuare a sbandierare il successo della chiusura dei manicomi criminali, traguardo che, peraltro, andava tagliato già dagli anni Sessanta, in ragione di importanti pronunce giurisprudenziali di legittimità e di merito, se non siamo in grado di sciogliere nodi sinora inestricabili: presa in carico dei sofferenti psichici in gruppi di appartamento, assistenza domiciliare, potenziamento dei servizi di salute mentale, tutto in fase di prevenzione. E poi creazione di una nuova Rems in Campania, così come deciso all’unanimità dal consiglio regionale il 3 maggio, potenziamento delle figure di psicologi, psichiatri, tecnici della riabilitazione in carcere, misure alternative al carcere per i sofferenti psichici. Il problema rimane quello di offrire un’adeguata assistenza psichiatrica ai detenuti e di garantire ai dipartimenti di salute mentale le giuste risorse economiche e umane per trattare i liberi vigilati”. Piacenza. Detenuto si impicca nel reparto di osservazione psichiatrica piacenza24.eu, 18 agosto 2022 Il Garante regionale: “Emilia Romagna tra le regioni con più suicidi in carcere, medici psichiatri e volontari anche nelle ore serali”. Suicidio al carcere di Piacenza, un detenuto si è impiccato all’interno del reparto di osservazione psichiatrica del penitenziario delle Novate. Un caso sul quale interviene il garante dei detenuti. Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, interviene sul caso di suicidio di un detenuto che si è impiccato, ieri sera, all’interno del reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Piacenza. L’uomo di 52 anni, arrestato per reati comuni, era in attesa della definizione della sua situazione detentiva da parte del magistrato di sorveglianza e delle autorità sanitarie. “Questo gravissimo fatto porta a 54 il numero dei suicidi in Italia nell’anno corrente e a 4 quelli avvenuti in carcere in Emilia-Romagna”, forte preoccupazione viene espressa da Cavalieri, che, per scongiurare queste tragedie, sollecita i direttori degli istituti penitenziari “ad attivare collaborazioni con il volontariato permettendone la presenza in carcere anche nelle ore serali”. Sul fronte sanitario, aggiunge, “è poi auspicabile l’attivazione di un servizio di presenza dei medici psichiatri anche nelle ore serali e notturne, prevedendo in queste fasce orarie interventi che non siano solo collegati a situazioni di emergenza”. Questo, prosegue il Garante, “per superare quella che sembra essere una applicazione solo amministrativa dei protocolli anti-suicidari, che non sembrerebbero garantire i risultati attesi”. “Con la vicenda di Piacenza l’Emilia Romagna si attesta tra le regioni in cui è più alto il tasso di suicidi in carcere”, conclude Cavalieri. Torino. Suicida in cella a 25 anni, la procura apre una nuova inchiesta sul carcere di Federica Cravero La Repubblica, 18 agosto 2022 Si è tolto la vita infilando la testa in un sacchetto di plastica che non avrebbe dovuto avere. La ministra Cartabia: “Provo dolore”. Si è suicidato in cella, a 25 anni, mai stato in carcere prima. Alessandro Gaffoglio, torinese di origini brasiliane, nella notte tra il 14 e 15 agosto si è coperto con il lenzuolo e senza essere visto si è stretto attorno al collo un sacchetto di nylon ed è morto soffocato. Ma perché era stato lasciato in cella quel sacchetto a un ragazzo che già cinque giorni prima aveva cercato di togliersi la vita? È questa una delle domande a cui cerca di dare risposta l’inchiesta, al momento senza indagati, che il pm Valerio Longi ha aperto sul suicidio del giovane, che era stato arrestato il 2 agosto dopo che aveva rapinato due market a San Salvario. All’udienza di convalida l’avvocata Laura Spadaro aveva chiesto per il giovane i domiciliari, facendo leva anche sul fatto che fosse incensurato. Ma gli sono stati negati e ieri Alessandro avrebbe dovuto avere il primo colloquio con i genitori al Lorusso e Cutugno. Invece il giorno di Ferragosto hanno ricevuto la notizia del decesso del ragazzo. E hanno saputo anche che aveva già provato a suicidarsi pochi giorni prima. Era avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 agosto, quando si trovava nella sezione “nuovi giunti”. Dopo quell’episodio per il giovane era stata alzata la sorveglianza al massimo livello ed era stato ricoverato nel reparto sanitario. Un provvedimento che nel giro di pochi giorni era stato poi tramutato, sulla base di una nuova valutazione da parte degli psichiatri, in una forma di sorveglianza minima all’interno del cosiddetto “Sestantino”, ovvero quattro celle singole continuamente monitorate in cui vengono reclusi i detenuti che necessitano di una osservazione psichiatrica. L’allentamento della sorveglianza si accompagna anche alla possibilità di tenere in cella oggetti. Compresa la borsa usata per togliersi la vita. “Il giovane era seguito quotidianamente da uno psichiatra - spiega la direttrice del carcere Cosima Buccoliero - È importante che ci sia una valutazione continua dello stato di salute di un detenuto per cercare il tipo di sorveglianza più adatta poiché anche la “massima osservazione” e la privazione di oggetti se prolungata per troppo tempo può avere effetti controproducenti”. Sull’accaduto interviene la ministra Marta Cartabia: “Provo dolore. Il dramma dei 51 suicidi in Italia dall’inizio dell’anno riguarda tutti”. Due a Torino nell’ultimo mese. E insistono i sindacalisti dell’Osapp: “Si devono considerare anche centinaia di suicidi tentati dai detenuti, sventati dall’intervento dei poliziotti penitenziari”. Ieri intanto Andrea Giorgis, deputato Pd, ha fatto un sopralluogo al Lorusso e Cutugno con la garante dei detenuti Monica Gallo: “Da tempo segnaliamo un trend crescente di arresti di ragazzi giovani con pene inferiori a due anni - denuncia Gallo - E si dovrebbero potenziare le misure alternative, che ridurrebbero anche il sovraffollamento”. “Il grado di sofferenza psichiatrica nelle carceri è alto - dice Giorgis - Ci vogliono più personale e più risorse”. “Si deve accelerare - conclude Gianna Pentenero, assessora comunale con delega al carcere - perché la detenzione assuma davvero quel ruolo rieducativo e riabilitativo previsto dalla Costituzione”. Torino. Suicidio in carcere, la rabbia dell’avvocata; “L’ho saputo solo tramite i giornali” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 agosto 2022 Alessandro Gaffoglio si trovava dal 2 agosto nel “Lorusso e Cutugno” e si è tolto la vita ricoprendosi la testa con un sacchetto di plastica. Qualche giorno prima il giovane aveva già tentato il suicidio utilizzando le lenzuola del suo letto. Gaffoglio si trovava in carcere per due rapine commesse nello stesso giorno ed era indagato per altre tre. Nella giornata di ieri si è tenuta alla presenza dell’avvocata Maria Rosaria Scicchitano, in sostituzione della collega Laura Spadaro che difendeva il venticinquenne, l’udienza per il conferimento della Ctu e il successivo svolgimento dell’autopsia, prevista per oggi. “In merito alla vicenda del mio assistito - commenta l’avvocata Laura Spadaro - non ho tante notizie nel senso che diverse cose io le ho scoperte tramite alcuni articoli di stampa. Purtroppo, non era stato neppure comunicato al padre di Alessandro il precedente tentativo di suicidio. Una cosa orribile, scoperta solo quando gli è stato detto che il figlio era morto. Una notizia data dal cappellano del carcere. Tra l’altro il padre di Alessandro aveva chiesto di fare i colloqui già da alcuni giorni. La richiesta è stata inoltrata l’8 agosto ed è stata accolta con la fissazione del colloquio per il 16 agosto”. Una data che avrebbe potuto fare la differenza. L’avvocata Spadaro non nasconde le sue perplessità in merito a come sono state gestite le cose. Un misto tra rabbia e commozione. “Se una persona - afferma - manifesta l’intenzione di suicidarsi, come minimo vengono fatte delle comunicazioni alla famiglia. In questo caso i genitori. Invece neanche una telefonata. Ma neanche io sono stata mai informata su questo episodio. Questa cosa ci dilania più di tutte. I genitori di Alessandro avevano espresso la loro preoccupazione già nei giorni scorsi. Un altro aspetto che ha gettato la famiglia nella disperazione riguarda la presenza del sacchetto usato per mettere da parte la biancheria usata”. Il difensore di Gaffoglio, inoltre, sottolinea un altro aspetto: “A distanza di un giorno è stato scoperto che il giovane è morto. Possibile che non si poteva monitorare adeguatamente il giovane durante la detenzione, considerato che aveva già tentato il suicidio? Siamo in una fase iniziale delle indagini ed è giusto farsi delle domande per trovare quanto prima delle risposte. Non si vogliono a tutti i costi attribuire delle colpe a qualcuno però bisogna capire se ci sono oppure no e come sono andate effettivamente le cose”. Spadaro fa un’ultima riflessione soffermandosi sulle condizioni dei detenuti in generale. “Nel carcere - conclude l’avvocata del Foro di Torino - ci dovrebbe essere un po’ più di umanità. Se ti rendi conto che sussiste una situazione di malessere del detenuto, e mi riallaccio direttamente al caso di Alessandro Gaffoglio, non comprendo perché non debbano essere informate le persone più vicine. In alcuni casi quando si registrano situazioni particolarmente problematiche sarebbe opportuno intervenire con celerità per evitare tragedie come quella che stiamo commentando”. Il riferimento dell’avvocata è anche al colloquio tra il padre ed il giovane suicidatosi. Se fosse stata accolta prima l’istanza, il genitore avrebbe potuto rassicurare il figlio, confortarlo e spazzare ogni idea suicidaria? Una domanda alla quale, purtroppo, non ci sarà mai una risposta. Modena. Tragica rivolta in carcere a Modena: “Sì, i detenuti furono picchiati” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 18 agosto 2022 La rivelazione di un agente penitenziario. Ma il sindacato: “Se davvero sa qualcosa lo dica agli inquirenti”. “Quell’otto marzo di due anni fa i detenuti sono stati picchiati, chi di noi non voleva partecipare restava fuori dal casermone. Vedevo i detenuti entrare in un modo e poi li vedevo uscire sanguinanti. Chi era d’accordo all’azione punitiva entrava e partecipava al pestaggio, chi non voleva si limitava a stare fuori dalla stanza”. Emergono scenari inquietanti dalle parole di un agente della polizia penitenziaria di Modena che, intervistato anonimamente dal ‘Domani’, avrebbe ammesso come durante la rivolta in carcere a Modena, l’8 marzo di due anni fa, i detenuti avrebbero subito violenze. Carcerati che sarebbero stati pestati appunto pur essendo già stati resi ‘inoffensivi’. L’agente, il cui nome non è stato reso noto, non avrebbe assistito in prima persona ai presunti pestaggi ma avrebbe visto ‘i risultati’ delle violenze sul corpo dei detenuti. Proprio a seguito delle denunce presentate da alcuni carcerati, cinque agenti della polizia penitenziaria sono indagati dalla procura di Modena con le ipotesi di reato di tortura e lesioni aggravate e sono già state chieste due proroghe d’indagine. Per quanto riguarda invece le morti dentro e fuori dal carcere - quattro detenuti sono morti durante la rivolta e altri quattro nel corso dei successivi trasferimenti in altri penitenziari - il fascicolo è stato archiviato. Il caso non risulta chiuso invece per le autorità tunisine. Infatti sono approdate sul tavolo della magistratura tunisina le denunce presentate dai familiari di due delle otto vittime. L’avvocato Cosimo Zaccaria, che difende due dei cinque agenti della polizia penitenziaria indagati sottolinea che: “I due pubblici ufficiali che assito, per il mio tramite, ribadiscono non solo la loro innocenza, ma la completa estraneità dalle accuse. Fin da subito hanno chiarito e professato la loro innocenza. Quanto alle notizie pubblicate, si prende atto della avvenuta diffusione di dati che sembrerebbero riferiti all’attività di indagine, ancora non conosciuti dagli indagati, né, a quanto risulta, comunicati dall’autorità giudiziaria - sottolinea Zaccaria - Se così fosse, ci si riserva di comprendere come ciò sia potuto accadere, considerata l’attuale pendenza delle indagini. In ogni caso, i miei assisti confidano nell’operato degli organi inquirenti e nel pronto chiarimento dell’intera vicenda e della loro innocenza”. Su quanto dichiarato al Domani dalla guardia carceraria insorge Gennarino De Fazio, il segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria: “Chi ha notizie in merito a quanto successo, tanto più se agente o ufficiale di polizia giudiziaria, riferisca immediatamente agli inquirenti. Altrimenti, non solo non è credibile, ma rischia di commettere molteplici reati”, affema De Fazio. Modena. Agenti e detenuti raccontano le violenze nel carcere, ma i video sono un mistero di Nello Trocchia Il Domani, 18 agosto 2022 I fatti accaduti l’8 marzo 2020, nel carcere Sant’Anna di Modena, sono episodi che trasformano quella giornata nella più buia della storia penitenziaria della repubblica italiana. Un carcere in fumo, detenuti liberi di distruggere l’istituto, di strafarsi, in nove muoiono per overdose mentre altri si premurano, sollecitati dal vertice del carcere, di liberare il personale imprigionato. Lo stato, le procure e il ministero della Giustizia che passi hanno finora compiuto per chiarire tutti i drammatici eventi e le responsabilità dello scandalo? Ci sarebbero due questioni da affrontare. La prima riguarda quanto accaduto nel casermone prima dei trasferimenti dei detenuti in altri istituti. Leggendo le testimonianze di alcuni reclusi e anche di alcuni agenti, proprio lì sono iniziati i pestaggi dei poliziotti sui detenuti inermi. Su quelle presunte violenze è stato aperto un fascicolo giudiziario che è già alla seconda proroga. Sono passati due anni e mezzo dai fatti. Ma all’interno di quel fascicolo sono contenuti i video di quella giornata, che documenterebbero attraverso le immagini le accuse dei carcerati da un lato e i saccheggi citati dai poliziotti dall’altro? La seconda questione invece riguarda direttamente il ministero e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Per fare luce su quei fatti, e sulle rivolte all’inizio della pandemia, la ministra Marta Cartabia ha sollecitato l’istituzione di una commissione presieduta dall’ex magistrato Sergio Lari. La relazione è stata consegnata ad aprile, cosa ha stabilito sulla prigione emiliana? Domani ne ha chiesto conto all’ufficio stampa del ministero della Giustizia e proprio ieri, dopo la pubblicazione della prima puntata della nostra inchiesta, è stata pubblicata la relazione. Il video misterioso - Partiamo dalle violenze sui carcerati. Il procedimento è nella fase delle indagini preliminari, l’ultima proroga è stata richiesta e ottenuta dalla procura nell’aprile scorso. Sono cinque gli agenti indagati per tortura. Gli inquirenti stanno cercando di fare luce su quanto è accaduto, ma le indagini procedono a rilento. Sono iniziate a seguito di alcuni esposti presentati, nel 2020, da sette detenuti che hanno raccontato quello che era successo prima nel carcere emiliano, e poi in quello marchigiano, Ascoli Piceno, dove alcuni di loro erano stati trasferiti. Il fascicolo è nelle mani della magistrata Lucia De Santis e del procuratore Luca Masini. Tutti i detenuti denuncianti raccontano di violenze iniziate all’interno di uno stanzone, nell’area mensa. “Gli davano i calci nelle gambe, li buttavano a terra, tanto erano ammanettati, erano in due, gli toglievano le scarpe, le scarpe le hanno buttate tutte in un unico punto, le hanno ammassate tutte in un unico punto e là manganellate a tutta forza”, racconta uno dei detenuti. A Domani anche un agente penitenziario ha confermato i pestaggi. “Alcuni detenuti entravano e poi uscivano con i volti sanguinanti”, dice un agente. Ma altri detenuti che non figurano tra i denuncianti, indagati per i saccheggi e per le devastazioni, raccontano le stesse scene. Le testimonianze - “Il carcere, quel giorno, è stato abbandonato, i reparti antisommossa dovevano entrare prima ed evitare la morte dei reclusi per overdose. Sono andato in questo stanzone, un locale a U, ci doveva essere un’altra stanza anche dall’altra parte. In quel locale c’erano detenuti già sanguinanti, erano stati massacrati, ad altri venivano inferte manganellate sulla schiena. Quando i detenuti venivano portati fuori ricevevano calci e pugni. Prima di uscire c’erano agenti a destra e sinistra, li hanno massacrati. A me no, sono malato di cuore e rischiavo l’emorragia. Ricordo Liccardi (Giobbe, ndr) che era lì a organizzare i trasferimenti e anche Maria Rosaria Musci che era al suo fianco (entrambi indagati, ndr)”, spiega R.M, un ex detenuto. Liccardi e Musci sono indagati per tortura, ma si dichiarano estranei alle contestazioni. Ma i video che potrebbero incastrare o scagionare gli agenti esistono oppure no? Parrebbe di sì, almeno a leggere le relazioni scritte da Mauro Pellegrino, comandante del carcere. “Dall’analisi delle videoriprese disponibili, si possono delineare le condotte tenute dai rivoltosi, il grado di partecipazione e i profili di responsabilità dei singoli soggetti”, scrive Pellegrino il 20 luglio 2020 nella sua relazione alla procura. La stessa procura cita una nota della squadra mobile depositata l’11 marzo 2020 con allegati otto dvd. “Una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interna ed effettuata la conseguente valutazione del grado di partecipazione di tutti i detenuti coinvolti”, continua Pellegrino il 21 luglio 2020. Video agli atti del fascicolo sul saccheggio del carcere, dunque, ma indisponibili alle parti e non presenti nei fascicoli sulle morti? Eppure le due vicende giudiziarie raccontano gli stessi episodi avvenuti nello stesso giorno e nello stesso carcere. La divulgazione rappresenta inoltre un elemento di pubblico interesse, necessaria a fare trasparenza sulla pagina più cruenta della storia penitenziaria della Repubblica italiana. Al momento quei video non sono visionabili, ma non dovrebbero comunque esserci immagini relative a quanto accaduto nello stanzone dove sarebbero avvenuti i pestaggi. Le telecamere dovrebbero infatti aver ripreso solo quanto accaduto nel nuovo padiglione. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere, il ministero aveva promesso telecamere funzionanti in tutte le carceri e promosso l’istituzione di una commissione ispettiva per ricostruire quanto accaduto nelle prigioni italiane nel periodo pandemico, attraverso un provvedimento firmato da Bernardo Petralia, capo del Dap e dal suo vice Roberto Tartaglia. Entrambi hanno lasciato l’incarico, sostituiti da Carlo Renoldi. Appena istituita la commissione, la ministra Marta Cartabia aveva dovuto difendere la scelta di inserire nel gruppo di lavoro Marco Bonfiglioli, presente l’8 marzo a Modena, in stretto contatto con Mauro Pellegrino. La ministra ne confermava la presenza nella commissione ispettiva rispondendo a una interrogazione parlamentare presentata dalla deputata Giuditta Pini, ora fatta fuori dalle liste del Pd. Alla fine Bonfiglioli non ha lavorato al caso Modena. La relazione della commissione è stata pubblicata ieri dopo la diffusione della prima puntata della nostra inchiesta. Cosa emerge? Gli agenti della polizia penitenziaria hanno fronteggiato situazioni da “scenario di guerra”, evitato una fuga di massa, non sono emersi elementi utili a ritenere scorretto il comportamento della polizia penitenziaria che ha fronteggiato resistenze nella fase di preparazione dei trasferimenti, fase nella quale potrebbero essere avvenute le violenze. “Sono, tuttavia, residuati dei dubbi di non poco momento per quanto riguarda l’ipotesi, cui si è accennato in precedenza, che da parte della Polizia penitenziaria possano esservi state violenze in particolare ai danni di un gruppo di detenuti nella fase prodromica al trasferimento in altri istituti, mentre si trovavano radunati in un locale della caserma agenti in attesa di essere identificati e perquisiti”, si legge. Ma la commissione non ha avuto accesso ai verbali e neanche ai video, la procura di Modena non ha risposto alla richiesta di “avere i filmati prodotti anche dalla Polizia di Stato, oltre che dalla Polizia Penitenziaria”. Così su quel giorno il giudizio è sospeso in attesa del lavoro dei pubblici ministeri. Monza. “Botte ogni giorno e dolore per i suicidi”, vita di un agente penitenziario di Manuela D’Alessandro agi.it, 18 agosto 2022 Domenico Benemia racconta cosa succede nella Casa circondariale dove da inizio anno si sono registrati 2 dei 53 suicidi del 2022 e le rivolte sono continue Cinquantatré suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, una progressione statistica che può rendere il 2022 uno degli anni più orribili di un’istituzione in crisi profonda. Due di questi nella casa circondariale di Monza, uno a febbraio, il secondo pochi giorni fa di un ragazzo tunisino di 24 anni a cui sono seguiti tre roghi di protesta appiccati dai reclusi nelle ultime ore. Il momento in cui si scatena la rabbia - Domenico Benemia, agente della polizia penitenziaria nella città brianzola e sindacalista dell’Uilpa Lombardia, racconta all’AGI cosa sta succedendo dal punto di vista dell’altra faccia del carcere che agonizza. “Ogni santo giorno, uno di noi viene aggredito dai detenuti con conseguenze fisiche anche gravi. Pugni e sputi in faccia, oggetti che vengono lanciati, botte. La giornata comincia, appena messo piede dentro, coi reclusi che hanno problemi psichiatrici o sono tossicodipendenti che ci sommergono di richieste. Vogliono parlare con gli psicologi, gli psichiatri, gli educatori, il personale amministrativo”. Ed è in questo passaggio che si alimenta la loro rabbia “perché queste figure non ci sono o, se ci sono, il loro numero è ridicolo rispetto alle esigenze”. Benemia fa i conti: “Con 600 detenuti abbiamo solo 4 educatori e un solo psichiatra presente di giorno ma non di notte quando gli animi si scaldano. E chi ci aggredisce avrebbe proprio bisogno di questa figura che non c’è. I malati psichiatrici dovrebbero stare in un luogo di cura, non dietro le sbarre. Provate a pensare: siete in un ufficio delle Poste, c’è un solo addetto e voi passata la giornata ad aspettare. Che fate? Vi arrabbiate. E la rabbia dentro un carcere vuol dire prendersela con chi è più vicino. Con noi”. Benemia mostra le foto di agenti col volto insanguinato. “Diversi sono finiti in ospedale. Dall’inizio dell’anno a Monza sono già stati accesi una decina di roghi con la devastazione delle strutture e danno economico per lo Stato”. “Non ce l’abbiamo coi detenuti, siamo carne da macello” - Gli agenti in forze alla casa circondariale sono 300, “un numero esiguo perché abbiamo tante mansioni, alcune che ci competono, come occuparci degli spostamenti dei detenuti, altre no, come le attività amministrative, la contabilità. Ma lo Stato ci ha messo a fare anche quello perché manca il personale con competenze specifiche in questo ambito”. “Il carcere è come un paese senza bar, tabacchino, supermercato. Un paese vuoto. I detenuti passano il tempo ad accumulare frustrazione che poi riversano su di noi. Sì, ci sono i volontari ma si dovrebbe fare molto di più per il loro percorso di reinserimento. Nessuno di noi ce l’ha con loro, è il sistema che non funziona”. E i suicidi sono pugni in faccia. “Quando uno di noi trova una persona senza vita, sta molto male. Magari al mattino ci aveva parlato perché poi a noi tocca anche fare gli psicologi, in mancanza di quelli veri. E alla sera lo trova morto. Siamo carne da macello: noi e loro”. Roma. “Che follia mettere in galera quella donna di 84 anni” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 agosto 2022 Il caso di Loretta, la sarta dei divi che oggi ha lasciato Rebibbia per raggiungere una struttura gestita dalle suore. La denuncia della Garante Stramaccioni: “Ha agito per difendersi, perché sono state ignorate le misure alternative?”. Loretta è stata prelevata lo scorso 9 agosto dalla sua abitazione di Roma e condotta a Rebibbia per aver accoltellato il marito durante una lite. L’anziana ha detto di essersi difesa in seguito all’ennesima aggressione subita dal coniuge. Forse - ma lo accerteranno gli inquirenti ed il processo - se non avesse agito così avremmo commentato l’ennesimo femminicidio. La donna, con un passato da sarta dei divi del cinema ai tempi della “Dolce vita”, ha 84 anni ed è stata trasferita in carcere così come era vestita al momento dell’arresto: in camicia da notte. Non le è stato consentito neppure di portare con sé la dentiera. “La vicenda di Loretta - dice al Dubbio Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale - non ha nulla di divertente. Anzi, è molto triste e preoccupante. Portare in carcere una donna di 84 anni ad agosto, in un periodo quasi post-pandemico, significa che non si conosce la situazione drammatica che si vive in questa realtà. Si dice sempre che il carcere deve essere l’ultimo strumento da adottare, in casi di estrema gravità, ma in questo caso abbiamo assistito al contrario. La signora, inoltre, viene da una situazione particolare. Lei si è difesa in una lite in famiglia, dove il marito, e non è stata la prima volta, ha iniziato a picchiarla. Sulla vicenda giudiziaria però si concentreranno i magistrati e ci sarà un processo. La soluzione, comunque, non può essere quella di prelevare una persona dalla sua casa, in pigiama, senza neanche la dentiera e condurla in carcere”. Arrivata a Rebibbia, Loretta è stata messa in isolamento per motivi sanitari. “Loretta - spiega Stramaccioni - è stata sottoposta a cinque giorni di isolamento totale per le normative anti-Covid ancora in vigore. Si è trovata in uno stato confusionale. Non aveva capito che sarebbe stata portata a Rebibbia e posta in isolamento. Possiamo immaginare le conseguenze che si possono avere su un soggetto anziano. Loretta è andata in carcere per la prima volta dieci giorni fa ed è in difficoltà anche per il fatto di essere sola. Non ha figli, ha soltanto una sorella, malata terminale di tumore in ospedale”. La Garante dei detenuti ha incontrato Loretta tre giorni fa, la mattina di ferragosto: “Era ancora in camicia da notte. Una giovane detenuta si sta dimostrando molto attenta e la sta aiutando. La solidarietà mostrata è commovente. Le ha dato una maglietta e delle calze, e la aiuta nel farla mangiare. Mi sono attivata per trovare una accoglienza diversa. Le suore che operano come volontarie a Rebibbia metteranno a disposizione “La casa del povero” per ospitare Loretta. Sono state attivate le procedure con i relativi invii di documenti all’autorità giudiziaria e la richiesta al Gip per la scarcerazione”. Oggi pomeriggio la buona notizia. Loretta ha lasciato Rebibbia per raggiungere la struttura gestita dalle suore. La storia della sarta dei divi del cinema riaccende i riflettori sulle condizioni in cui versano i detenuti. Come vanno le cose a Rebibbia negli ultimi tempi? “Abbiamo superato di nuovo le 1400 presenze”, evidenzia Gabriella Stramaccioni. E aggiunge: “Il caso di Loretta insegna che la società si sta abituando all’idea che tutto quello che non viene affrontato e risolto all’esterno del carcere si manda in carcere. Qualsiasi problema di natura sociale, legato alla droga o ad altre dipendenze viene relegato nel carcere. Questo è uno sbaglio. Dietro le sbarre non possono starci tantissime persone, come avviene adesso. Tra l’altro facciamo i conti con la mancanza di personale, polizia penitenziaria, educatori e psicologi. Le persone vengono semplicemente ammucchiate nelle stanze detentive. Se poi pensiamo al caldo degli ultimi mesi, gli istituti penitenziari sono diventati bollenti sotto tutti i punti di vista. Sono micce che possono accendersi in qualsiasi momento. Questa situazione andrebbe conosciuta e affrontata con maggiori strumenti. Noi, come Garanti, chiediamo la possibilità di utilizzare maggiormente le misure alternative al carcere, come proposto anche dalla ministra Cartabia per coloro che sono stati condannati a pene al di sotto di quattro anni”. Il futuro potrebbe presentarsi con le stesse caratteristiche del presente, se sensibilità e pragmatismo non andranno di pari passo. “Ci ritroviamo ancora una volta - conclude la Garante dei detenuti - a fare considerazioni amare. Noto che più passa il tempo, nonostante gli sforzi per sensibilizzare la società sulle condizioni delle carceri, più la politica è muta e silente. A parte i lodevoli sforzi di Rita Bernardini e dei Radicali. Negli ultimi anni non c’è più nessun controllo da parte dei politici per verificare le condizioni delle carceri. Se non entri, non puoi comprendere quanto sta accadendo. Di conseguenza è difficile lavorare in maniera adeguata e formulare proposte alternative. Ho l’impressione che questa tendenza sia destinata a ripetersi pure in vista dell’imminente campagna elettorale. Il carcere non porta voti ed è sempre un argomento divisivo. Temo che si farà per l’ennesima volta finta di niente e si andrà avanti con l’attuale andazzo”. Napoli. Partite calcio Sky in carcere, l’appello del Garante e il delirio sui social: “Non è un hotel!” di Viviana Lanza Il Riformista, 18 agosto 2022 Non è una detenzione a brioche e cappuccino, ma solo cercare di dare dignità a chi vive recluso tra le quattro mura di una cella e cerca di riempire il tempo dilatato di una condanna da scontare. È questo il senso di una delle proposte del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, in visita all’interno del carcere di Poggioreale nel giorno di Ferragosto. “Basta fare poco, affinché diventi molto” riferisce Ciambriello. “Proprio per dimostrare che a volte basta poco - afferma il garante campano - vorrei segnalare una serie di richieste che mi sono state rappresentate come esigenza comune, ovvero consentire la possibilità di vedere in chiaro le partite del Calcio Napoli”. Una proposta che era già nata alcuni anni fa su iniziativa del cappellano della casa circondariale “Giuseppe Salva”, don Franco Esposito. “Per questo - ha aggiunto Ciambriello - ho già avviato l’interlocuzione con i vertici di Sky, ma faccio appello anche ad associazioni o sponsor privati che siano disponibili a offrire un supporto economico e li invito a mettersi in contatto con il mio ufficio”. Servono soldi, in ordine di migliaia di euro. Apriti cielo! Alla notizia della proposta si sono scatenati i giustizialisti di turno. Sui social e sul web i commenti piccati di chi ritiene questa proposta un modo per alleggerire la detenzione come se si trattasse di trasformare il carcere in un albergo o la reclusione in un soggiorno vacanza, dimenticando e ignorando tutto l’orrore che proprio in questi giorni è emerso. Le carceri sono luoghi senza speranza, e ormai senza dignità. Sono luoghi difficili e invivibili anche per chi vi lavora e non solo per chi ci vive da recluso. Lo dimostrano i suicidi sempre più elevati, gli atti di autolesionismo in costante crescita, le criticità nel garantire la funzione rieducativa della pena, l’eccessivo ricorso alla custodia preventiva, l’eccessiva durata dei processi e l’ingente numero di detenuti in attesa di giudizio. Tutto questo a dimostrazione di come la sensibilità, rispetto ai temi della detenzione e della esecuzione della pena, sia scarsa quanto la cultura sul tema. La gente commenta in genere senza sapere, o sapendo ben poco di come funzionano e di come dovrebbero funzionare, secondo la legge, l’esecuzione della pena, il carcere e le misure alternative, i principi costituzionali. Dalla consueta visita di Ferragosto all’interno del carcere di Poggioreale, sono emerse numerose storie che fanno pensare, e dovrebbero far pensare tutti. “Ho visitato il carcere di Poggioreale - dice il garante regionale - per un giro di ascolto e perché l’azione dell’Ufficio del garante non conosce ferie”. Fa caldo e le mura dell’antico carcere partenopeo sono roventi. La visita dal garante ha interessato due padiglioni, il “Roma” e il Centro Clinico SAI. “In primo luogo - dice ancora - voglio esprimere il mio particolare apprezzamento per le donne e gli uomini dell’amministrazione penitenziaria e i loro vertici che - nel giorno di Ferragosto - hanno garantito con la loro presenza che il carcere fosse un luogo presidiato e non dimenticato”. Poi il garante si è intrattenuto con alcuni reclusi: “Ho ascoltato le richieste delle persone trans che chiedono giustamente la possibilità di acquistare prodotti femminili in un carcere che è invece pensato solo al maschile. Ho poi incontrato un uomo di 90 anni che deve scontare poco più di due anni di pena ma per il quale non si trova una struttura che lo possa ospitare. Come lui ci sono diverse persone di età avanzata che, con pochi accorgimenti, potrebbero terminare di espiare la pena in modalità alternativa”. Dipende dal reato che, se non ostativo, può generare questo tipo di aberrazioni, così che un uomo di 90 anni sconti quel che resta della sua vita dietro le sbarre. Sì, ha novant’anni ed è in carcere. Larino (Cb). “Oasi umana” nel carcere con il murales realizzato dai detenuti termolionline.it, 18 agosto 2022 Inaugurato ieri mattina, a mezzogiorno, il murales realizzato dagli studenti-detenuti nel carcere di Larino. Nell’ambito delle attività extracurriculare organizzate dalle scuole presenti nella casa circondariale e di reclusione di Larino, il Centro territoriale per l’educazione in età adulta, ha offerto ai detenuti un laboratorio di street art, diretto dall’artista Massimiliano Vitti. Lo spazio su cui realizzare l’opera pittorica è stato individuato nella facciata di un padiglione, il primo che si incontra entrando nella struttura. L’artista ha diviso il muro in 22 rettangoli, quanti sono i detenuti partecipanti al progetto. Ognuno di loro è stato invitato, nella fase iniziale del laboratorio, a confrontarsi con l’immagine più profonda di sé stesso, attraverso la produzione di un ritratto interiore. Il progetto ha utilizzato la dimensione pittorica per veicolare emozioni, aumentando la consapevolezza di sé e la conoscenza degli altri. L’idea alla base del laboratorio è che l’identità del singolo partecipante concorra a creare, insieme alle altre, una grande “Oasi umana”, una figura enorme distesa sul muro, sintesi delle emozioni vissute dai singoli detenuti. Ognuno di loro ha associato il proprio nome ad uno dei 22 quadrati, dipingendo l’immagine scelta per raffigurarsi. Il risultato finale è un meraviglioso collage di colorì ed emozioni, ma per i detenuti è soprattutto l’aver condiviso con l’artista per sette giorni spazi ed idee in un lavoro autenticamente collettivo, con la consapevolezza di aver lasciato su un pezzetto di muro la parte migliore di sé. La direttrice della struttura penitenziaria, Rosa La Ginestra ha ringraziato la lungimiranza della dirigente scolastica del Cpia, Valeria Ferra, che ha consentito la realizzazione del progetto, l’insegnante Filomena Di Lisio, per aver seguito giornalmente il laboratorio, gli artisti Massimiliano Vitti e Chiara Santinelli, per aver accompagnato i ragazzi nel percorso pittorico, i venti detenuti che hanno partecipato al progetto per aver accettato la sfida di confrontarsi con la parte più profonda di se utilizzando il pennello e i colori. Un razzo di pace, un’isola felice, i numeri come gli anni passati in carcere, una bicicletta che si perde nel cielo, due colombe che portano amore, un albero della vita, un gatto (quello che vive all’interno della struttura), così come il cane inquilino del carcere, un mondo circondato da stelle, un sole che sorge dal Perù al mondo, un aquilone su una spiaggia, una testa pensante, un gabbiano sospeso tra le fatiche del mondo e la voglia di volare alto, un vaso di pensieri, un altro dove svetta una croce, un acquario immerso nella natura, il bene ed il male, una clessidra che misura il tempo perso ma anche quello che c’è ancora da vivere fuori e una fenice come segno di rinascita ma anche la gioia di una vita che aiuti a non perdere più l’orientamento. Il murales è stato realizzato nell’ambito delle attività extracurriculari organizzate dalle scuole presenti nell’istituto di reclusione frentano d’intesa con il Centro territoriale per l’educazione in età adulta. All’inaugurazione dell’opera pittorica suddivisa dall’artista Vitti in 22 rettangoli quanti i detenuti che hanno preso parte al progetto, oltre agli artisti erano presenti la dirigente scolastica del Cpia, la dottoressa Valeria Ferra, che ha consentito la realizzazione del progetto, l’insegnante Filomena Di Lisio, che ha seguito giornalmente il laboratorio, la direttrice Rosa La Ginestra, la psicologa Elvira Pellegrino, altro personale della struttura e naturalmente loro i ragazzi del percorso pittorico, loro che hanno aderito al progetto ed accettato la sfida di confrontarsi con la parte più profonda di se utilizzando il pennello e i colori. Come spiegato dall’artista Vitti “ognuno di loro è stato invitato, nella fase iniziale del laboratorio, a confrontarsi con l’immagine più profonda di sé stesso, attraverso la produzione di un ritratto interiore. Il progetto ha utilizzato la dimensione pittorica per veicolare emozioni, aumentando la consapevolezza di sé e la conoscenza degli altri. L’idea alla base del laboratorio è che l’identità del singolo partecipante concorra a creare, insieme alle altre, una grande “Oasi umana”, una figura enorme distesa sul muro, sintesi delle emozioni vissute dai singoli detenuti. Ognuno di loro ha associato il proprio nome ad uno dei 22 quadrati, dipingendo l’immagine scelta per raffigurarsi”. “Il risultato finale - ha affermato la direttrice La Ginestra - è un meraviglioso collage di colorì ed emozioni, ma per i detenuti è soprattutto l’aver condiviso con l’artista per sette giorni spazi ed idee in un lavoro autenticamente collettivo, con la consapevolezza di aver lasciato su un pezzetto di muro la parte migliore di sé”. La condivisione dell’esperienza nell’aula scolastica dell’istituto resta certamente il momento più intenso ed emozionante della mattinata. Un momento di condivisione di storie e vissuti che loro, i detenuto hanno voluto rappresentare su quel muro, su quel muro di sincerità dove alcuni hanno scoperto un talento da coltivare, la pittura, altri la consapevolezza che si può uscire dal carcere cambiati, ma anche quella che strutture carcerarie come quella di Larino sono realmente luoghi di rieducazione dove chi ha toccato il fondo riesce a salvarsi proprio per le attività che si svolgono al suo interno che ti permettono di fare un viaggio dentro se stessi per scoprirsi cambiati: “perché tutto si può recuperare basta volerlo”. Scrittori minacciati di morte, c’è un mondo che ha paura di condannare di Orhan Pamuk Corriere della Sera, 18 agosto 2022 Per gli ultimi 15 anni la mia vita pubblica è stata tutelata grazie alla scorta. Nei Paesi musulmani i cittadini manifestano il loro rammarico a porte chiuse. Negli ultimi vent’anni ho avuto modo di intrattenere molte lunghe conversazioni con svariati scrittori minacciati di morte, specie da “islamisti” o “estremisti islamici”. Oppure con scrittori che, per i motivi più diversi, si ritrovano a vivere sotto tale minaccia nei Paesi islamici e meritano di usufruire della protezione delle guardie del corpo. Sono anch’io uno di loro. Per gli ultimi quindici anni, la mia vita pubblica è stata tutelata grazie alla scorta assegnatami dal governo turco. Tuttavia, per quanto siano simpatiche e premurose le guardie del corpo, e per quanto si sforzino di non dare nell’occhio, la loro presenza non è mai piacevole. Per esperienza, so benissimo che dopo i primi cinque anni, quelli più pericolosi, lo scrittore sotto protezione si convince che “il peggio è passato”, che forse può fare a meno della scorta e tornare alla sua vecchia, bella vita “normale”. Nella maggior parte dei casi, però, non è una decisione realistica e pertanto università, organizzazioni, fondazioni, enti e comuni che decidono di invitare quegli scrittori che non sono disposti a lasciarsi intimorire, hanno il dovere, automaticamente, di tutelare la loro sicurezza, a prescindere da quanto gli scrittori stessi possano pensare o sostenere riguardo la loro condizione. Ogni qualvolta uno scrittore subisce un’aggressione fisica, subito ci si lamenta che alle parole occorre rispondere con le parole, ai libri con altri libri. Ma questo antiquato principio ha ancora senso ai nostri giorni? Solitamente, tutti coloro che premono il grilletto o impugnano il coltello hanno letto assai pochi libri nel corso della loro vita. Ne avessero letti di più, o magari ne avessero scritto uno per proprio conto, sarebbero stati capaci di simili gesti di violenza? Sarebbero riusciti a far pubblicare la loro opera? Pur riconoscendo il ruolo svolto dalle disuguaglianze sociali in questo genere di brutale aggressione contro scrittori, libri e libertà di parola - l’umiliazione di sentirsi cittadini di seconda o terza classe, di apparire invisibili, senza rappresentanza e senza la minima importanza - ciò nulla toglie alla nostra difesa della libertà di espressione. Al contrario, ricordare le disuguaglianze sociali e culturali e i rancori nazionalistici, che spesso covano dietro queste minacce e questi attacchi, deve servire a rafforzare il nostro impegno per mantener viva la libertà di espressione. È inoltre assai deprimente vedere come questa vergognosa aggressione sia stata accolta con approvazione, applauso ed evidente soddisfazione non solo in Iran, ma in molti altri Paesi musulmani. I cittadini dei Paesi musulmani, che sinceramente deplorano e condannano l’attacco a Rushdie, manifestano il loro rammarico solo a porte chiuse e tra gli amici più stretti. Perfino i paladini della libertà di espressione non osano manifestare la loro disapprovazione. Alcuni amici, al corrente di queste mie poche righe, mi hanno già ammonito a prendere le dovute cautele, pur sapendo che godo della protezione di una scorta. Quei ripetuti allarmi contro le dittature che rischiano di uccidere l’antifascismo di Giovanni Orsina La Stampa, 18 agosto 2022 In questa estate elettorale come vent’anni fa contro Berlusconi, si fa ricorso alla stessa strategia. Chiamare alla difesa della democrazia è un’arma di ultima istanza che rischia di essere banalizzata. Son parecchi anni, ormai, che l’antifascismo non se la passa troppo bene. A giudicare da com’è cominciata, non è impossibile che questa campagna elettorale finisca per ucciderlo definitivamente. Con un’aggravante: che a vibrargli il colpo di grazia saranno stati proprio gli antifascisti. Come quella della patria per Salvatore Satta, la morte dell’antifascismo potrebbe rivelarsi “l’avvenimento più grandioso”, se non delle nostre vite, quanto meno di questa stagione della nostra storia. La Repubblica italiana sorge sulle macerie del fascismo dandosi valori diametralmente opposti a quelli del regime e proponendosi di scongiurarne per sempre il ripresentarsi. È indiscutibile, perciò, che il nostro ordine costituzionale sia antifascista e che il fascismo non possa trovare cittadinanza al suo interno. Una volta detto questo, tuttavia, non è che abbiamo risolto poi molto. Le etichette politiche sono elastiche, infatti, e l’attribuirle è esso stesso un esercizio politico. Che cosa dobbiamo intendere per fascismo, allora? Quand’è che siamo in presenza di un pericolo fascista e dobbiamo perciò mobilitarci a difesa della democrazia antifascista? E soprattutto: a chi spetta il diritto di rispondere a queste due domande? Storicamente, la cultura e le forze politiche di orientamento progressista hanno arrogato a se stesse quel diritto, nel nome della propria purezza antifascista e appoggiandosi al proprio predominio nel mondo intellettuale. E hanno dato alle prime due domande delle risposte “larghe”, dilatando la nozione di fascismo ben al di là dei confini storici del fenomeno e, di conseguenza, moltiplicando i pericoli fascisti e le chiamate alla difesa della democrazia. Fin quando è durata la Guerra Fredda, quest’antifascismo “largo” è servito soprattutto al Partito comunista per contrastare la retorica anticomunista che lo delegittimava e, a sua volta, delegittimare le forze politiche che adopravano quella retorica. Una volta caduto il Muro di Berlino, l’antifascismo - fattosi nel frattempo ancora più largo - è in buona misura confluito nell’antiberlusconismo. Più in quanto potenziale autocrate mediatico da terzo millennio che a motivo dei suoi alleati post-missini, Berlusconi è diventato la nuova incarnazione del pericolo fascista. Per le elezioni del 2001, così, Umberto Eco promosse un noto appello che definiva il voto nientemeno che un “Referendum Morale”, con tanto di maiuscole, “contro l’instaurazione di un regime di fatto”. Qualche tempo dopo, ironicamente ma non troppo, lo storico Paul Ginsborg si chiedeva se fosse “del tutto fantasioso immaginare che nel 2013 i “piccoli forzisti” vadano a letto stringendo nella manina il medaglione di Silvio B., come facevano i piccoli Balilla con quello del duce nel 1935”. L’obiettivo politico in questo caso era duplice: da un lato indebolire Berlusconi, delegittimandolo in Italia e all’estero (Berlusconi, dal canto suo, contraccambiava generosamente con l’anticomunismo), dall’altro restituire un po’ di tono e compattezza a una sinistra esangue e divisa. Dilatare l’antifascismo per ragioni politiche è un’operazione comprensibile e legittima. Gli effetti collaterali negativi, tuttavia, sono legione. Suonare a martello l’allarme antifascista e chiamare alla difesa della democrazia è un’arma da fine del mondo, una risorsa di ultimissima istanza. Se la si usa in continuazione la si banalizza e rende inefficace, un po’ come il pastorello che gridava al lupo per scherzo ed ebbe infine le pecore divorate quando il lupo arrivò davvero, e nessuno rispose ai suoi richiami. Tanto più se, come nella favola di Esopo, i primi allarmi si sono dimostrati infondati: dal “Referendum Morale” del 2001, che Berlusconi stravinse, sono passati ventun anni, e pure se ne abbiamo viste davvero di tutti i colori, abbiamo tuttavia continuato a votare in elezioni libere e il paventato “regime di fatto” proprio non s’è visto. Semmai, il governo Berlusconi del 2008-2011 resta l’ultimo che gli italiani si siano potuti scegliere nelle urne: piuttosto bizzarro come segno di fascismo. Se poi, come accadde appunto nel 2001, la parte politica accusata di fascismo o parafascismo vince pure, l’antifascismo (o meglio: quel tipo “largo” di antifascismo) ne riceve un danno ulteriore. Di fatto, la maggioranza degli elettori dimostra di non riconoscervisi, di non considerarlo il fondamento comune della convivenza repubblicana, ma il frutto indigesto di una drammatizzazione a uso politico, di una strumentalizzazione a fini elettorali. Torniamo così alla terza delle domande che facevo in apertura: a chi spetta il diritto di decidere se ci si trova in presenza di un pericolo fascista? In una democrazia, è difficile che la risposta a questa domanda non passi almeno in parte - e una parte rilevante, direi - per gli elettori. Per mancanza di concorrenti più qualificati, se non altro. Ma tanto più se la stragrande maggioranza di quegli elettori non ha dato segni rilevanti - negli studi demoscopici, nelle piazze, nel tasso pressoché nullo di violenza politica - di aver rifiutato i valori democratici e di vagheggiare derive autoritarie. Veniamo così a quest’estate del 2022. Quel che non cesserà mai di sbalordirmi del progressismo italiano, politico e culturale, è la coazione ossessiva a ripetere, l’incapacità d’imparare dai propri errori. Ci risiamo, quindi: l’uso politico dell’antifascismo, l’allarme democratico, la fine del mondo, gli strumenti di ultimissima istanza. Tutto questo di fronte a un Paese disincantato, stanco e distratto che pare crederci ancora meno che nel 2001, alla fine del mondo. Anzi, che non pare crederci affatto, se non altro perché, in una forma magari istintiva e confusa, conserva memoria degli allarmi rivelatisi infondati vent’anni fa. E se alla fine la coalizione di destra vincerà le elezioni, com’è probabile, l’antifascismo “largo” si sarà dimostrato ancora una volta lo strumento politico di una parte minoritaria che non sa più parlare altrimenti agli elettori. E quando, fra cinque anni al massimo, torneremo a votare in un sistema politico probabilmente altrettanto scombinato ma non meno democratico e liberale dell’attuale - esito sul quale, come la stragrande maggioranza degli italiani, non nutro il benché minimo dubbio - il Paese ricorderà che per l’ennesima volta il pastorello ha gridato al lupo, ma il lupo non c’era. E dovremo allora pregare che il lupo non abbia ad arrivare davvero, prima o poi. Perché a quel punto, se arrivasse, sbranerebbe indisturbato fino all’ultima pecora. Se avanza quel terribile amore per la guerra di Mario Giro Il Domani, 18 agosto 2022 Non esiste guerra santa o una guerra giusta: solo la pace è santa e giusta. Avanza del nostro mondo contemporaneo “un terribile amore per la guerra”, per utilizzare il titolo del saggio di James Hillman. Taiwan, Bosnia, Kosovo, Caucaso, Siria, Medio Oriente, Gaza, Kurdistan, Yemen… tutti i conflitti si riaccendono uno dopo l’altro, anche quelli spenti da decenni, quasi sempre per “futili motivi” come le targhe automobilistiche a Mitroviça. Il viaggio della speaker del Congresso Nancy Pelosi a Taipei ha sollevato una ridda di reazioni, determinato la collera dei cinesi che hanno messo mano a missili, caccia e incrociatori con il rischio di rasentare l’incidente fatale. Anche Corea del Sud e Giappone - alleati di ferro degli Stati Uniti - non hanno nascosto la loro irritazione per l’inutile provocazione. La guerra in Ucraina, coi suoi rischi nucleari, ha contagiato il mondo, ad iniziare da buona parte del nostro establishment mediatico che non perde occasione per incitare alla guerra quasi fosse l’unica e più giusta soluzione. Nelle analisi e negli editoriali l’improvvisazione regna sovrana: prova ne sia l’eccitazione dei ragionamenti e la rabbia che traspare ogni qualvolta qualcuno si oppone. Invece di dibattere si biasima, si accusa, si denuncia per tradimento. Dal mito a oggi - Per comprendere tanto improvviso amore per la guerra sembra che ci si debba rivolgere ai miti antichi: l’uomo che cede ad essi si fa prendere dal suo fondo pagano. La questione è se la guerra sia radicata nella cultura umana e/o necessaria alla società. Senza giungere al manifesto futurista di Marinetti (“noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”), pare proprio di essere di fronte alla rimozione della coscienza pacificatrice nata dopo la seconda guerra mondiale, in favore di un’idea in cui la guerra torna a essere la triste compagna della storia umana e un destino ineluttabile o irreversibile. La guerra diviene così, come diceva René Girard, quell’emozione che unifica una società e costruisce l’unanimità nella violenza. L’atto fondante della violenza fabbrica il consenso: patriottismo esasperato, nazionalismo dell’odio per le patrie altrui (fossero etniche, religiose o culturali), guerra preventiva e così via. Non esiste guerra santa - Come ben sa chi la guerra l’ha fatta, quando scoppia un conflitto tutti vengono presi da stress da combattimento che poi si trasforma in stress post traumatico: non si ragiona più lucidamente. Chi si fa ghermire da tale abbaglio pensa che non esista una soluzione pratica alla guerra, perché la considera come la verità archetipica dell’uomo. L’inumano si mette al posto dell’uomo, si traveste da umano. L’amore per la guerra avanza sempre mimetizzato (da amore per sé, vittimismo, rancore, nostalgia ecc.): va smascherato il prima possibile per svelarne l’impostura. Internet, trincea della cyberguerra di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 18 agosto 2022 Il coinvolgimento di attori non statali nei conflitti cibernetici, la censura dei media e la crescente importanza militare delle telecomunicazioni sta portando a un’accelerazione della balcanizzazione di Internet e alla fine dell’utopia di un mondo pacifico perché iperconnesso e interdipendente grazie alla Rete. Ci sono notizie che faticano a diventare notizie ma ci aiutano a capire il contesto in cui viviamo. Una è la scoperta da parte della società di cybersecurity Mandiant di un circuito mediatico usato dai cinesi per le information operations, nello specifico una campagna di delegittimazione degli avversari geopolitici denominata HaiEnergy; una seconda è l’uso del sistema Nimbus che consente a Israele di innalzare la repressione nei confronti dei palestinesi grazie all’integrazione del cloud di Google e Amazon con sistemi di intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale; un’altra è l’espressa previsione per l’Italia di poter contrattaccare a un attacco informatico senza limiti territoriali e di sovranità (art37 dl Aiuti bis). Sono facce diverse della stessa storia: la trasformazione di Internet in arma di guerra. Negli ultimi mesi abbiamo assistito al coinvolgimento della società civile nella guerra russo-ucraina. Il governo ucraino ha chiamato i cittadini a difendere le infrastrutture critiche del paese con mezzi informatici e a bersagliare con attacchi DDoS quelli russi e i russi hanno agito nello stesso modo mentre diffondevano malware distruttivi dentro e fuori il paese invaso. Per prevenire propaganda e disinformazione i governi occidentali hanno bandito social e media russi dai propri territori e la Russia ha fatto lo stesso in ritorsione. Intanto però prima dell’ingresso delle truppe russe in Ucraina, i modem della rete Internet satellitare KA-SAT di Viasat sono stati disabilitati in massa e poi sono arrivati gli attacchi informatici veri e propri. In aggiunta a questo i servizi segreti di Putin hanno sfruttato i gruppi ransomware filorussi per attaccare la supply chain di aziende dei paesi Nato con l’obbiettivo di interferire con la produzione di armi e l’erogazione di servizi essenziali come acqua e servizi sanitari. Motivo per cui gli Usa sono intervenuti nel conflitto coi loro cybersoldiers. Come era già successo nel 2015, le forze russe hanno anche occupato i principali Internet service provider della Crimea, interrotto i collegamenti con l’Ucraina, costruito un nuovo cavo sottomarino in fibra ottica e reindirizzato il traffico Internet attraverso Miranda Media, sede a Mosca, per consentire a Roskomnadzor, l’autorità russa di regolamentazione delle telecomunicazioni, di controllarlo e obbligare i residenti della penisola a rispettare le draconiane normative russe. Un modello replicato nei territori occupati di Kherson e altre città che ha indotto gli ucraini in ritirata a distruggere le loro stesse infrastrutture di comunicazione. Mosca ha pure tentato di vietare l’uso di Tor e reti private (Vpn), usate per aggirare la censura del governo, minacciando perfino di staccarsi dall’Internet globale col progetto RuNet. Nel frattempo Elon Musk offriva a Zelensky il suo sistema satellitare per garantire agli ucraini la possibilità di comunicare via Internet e diverse aziende private mettevano a disposizione le immagini dei propri satelliti per dirimere la responsabilità di eccidi come quello di Bucha, mentre ClearView, la famigerata azienda americana di sorveglianza, gli offriva sistemi di riconoscimento facciale per identificare i soldati russi, usati anche per minacciare le loro famiglie. Insomma il coinvolgimento di attori non statali, la censura dei media e la crescente importanza militare delle telecomunicazioni sta portando a un’accelerazione della balcanizzazione di Internet e alla fine dell’utopia di un mondo pacifico perché iperconnesso e interdipendente grazie alla Rete. E questo è un problema per tutti. Messico - Stati Uniti. La caccia grossa di Amlo e Biden ai migranti di Andrea Cegna Il Manifesto, 18 agosto 2022 Politiche sui flussi sempre più militarizzate su entrambi i lati della frontiera, l’ultima retata in Messico, nello stato di Puebla. Dall’ottobre 2021 sono state 1,82 milioni le persone tratte in arresto negli Stati Uniti per immigrazione illegale. L’estate non rallenta i flussi migratori verso gli Usa, e le politiche in atto nell’area fanno registrare numeri mai visti di arresti in Messico e negli States. E un crescente numero di persone che si affida ai trafficanti di uomini. È lo stato di Puebla ad essere, negli ultimi giorni, al centro, suo malgrado, di due tristi episodi di cronaca. Il primo, il 13 agosto, racconta di due operazioni congiunte organizzate dalle autorità messicane per l’immigrazione e che hanno portato all’arresto di 688 migranti provenienti principalmente da Guatemala, Cuba, Ecuador, El Salvador, Honduras e Nicaragua. Nella prima operazione sono stati fermati 567 migranti, di cui 110 minorenni, localizzati e identificati all’interno dell’hotel Conde del Aparador, sull’autostrada federale Puebla-Santa Ana Chiauteman. Una chiamata anonima aveva segnalato all’ufficio migratorio di zona la presenza di persone ammassate all’interno di cassoni trascinati da due roulotte. Arrestate anche le quattro persone che guidavano i mezzi, per loro l’accusa è di traffico di esseri umani. La seconda operazione, coordinata sempre dall’Istituto nazionale della migrazione, ha trovato e fermato 121 migranti trasportati in un container-rimorchio sull’autostrada Orizaba-Puebla vicino alla città di San Bartolomé Hueyapan. L’autista è stato trattenuto e circa 40 sono stati i minori identificati. Il 14 agosto, invece, almeno 8 migranti sono morti in un incidente stradale. Un camion si è ribaltato mentre viaggiava lungo l’autostrada. All’interno del mezzo viaggiavano in totale 17 migranti provenienti da Ecuador, Cuba, Venezuela e Nicaragua. “Qualche giorno fa, in uno sfortunato incidente a Puebla, hanno perso la vita 8 migranti. Stiamo seguendo la vicenda e continuiamo seguire i flussi migratori in modo che i loro diritti di esseri umani siano protetti”, ha detto ieri il presidente Lopez Obrador (Amlo) durante la sua rituale conferenza stampa mattutina. Non tutti però la pensano allo stesso modo, tanto che le recenti morti e gli ultimi arresti di migranti a Puebla, assieme ai casi simili che si stanno verificando in altre parti del Messico “continuano a essere il risultato diretto di politiche migratorie che privilegiano la militarizzazione e il contenimento dei flussi di chi transita irregolarmente” secondo l’Istituto Ignacio per i diritti umani ovvero il Servizio dei Gesuiti per i Migranti in Messico. Per Lopez Obrador il Messico “sta agendo contro i trafficanti di esseri umani e chi fornisce passaggi in condizioni rischiose e disumane. Al contrario l’Università Iberoamericana di Puebla dice che il governo messicano dovrebbe “cercare efficaci alternative politiche più vicine a quanto stabilito nel Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Sono svariate le realtà che seguendo e difendendo i diritti dei migranti denunciano il fallimento delle politiche di contenimento della migrazione tramite la militarizzazione dei confini come da accordi tra Usa, Messico e Guatemala: da una parte sempre più persone si rivolgono ai trafficanti di uomini dall’altra non si sta assolutamente riducendo il flusso migratorio, tanto che dal primo ottobre 2021, inizio dell’attuale anno fiscale del governo federale Usa, gli agenti della Border Patrol hanno arrestato circa 1,82 milioni di migranti al confine meridionale degli States. Nel solo mese di luglio sono stati registrati quasi 200mila arresti. Numeri mai visti nel recente passato. I caschi blu dell’Onu in Africa si sono sporcati le mani con abusi e inefficienze di Luca Attanasio Il Domani, 18 agosto 2022 In Africa è dispiegato il numero più alto di caschi blu. Più di cinquantamila militari sono dispiegati per le operazioni delle Nazioni unite nel continente e altre decine di migliaia per le missioni a guida regionale nei paesi in cui persistono guerre civili o insurrezioni che destabilizzano intere aree. Ma in molti casi, più che favorire pace e sviluppo, contribuiscono alle tensioni con abusi e violenze o restano inermi davanti alle stragi. In Congo il caso più eclatante. Nella Repubblica Centrafricana, invece, la Minusca, giunta come contingente di pace nel 2014 mentre infuriava il conflitto tra fazioni ribelli, è accusata da anni di abusi sessuali e violenze nei confronti della popolazione. Lo storico dibattito sull’efficacia dell’Onu e dei suoi molteplici organismi nel favorire pace e sviluppo, nella difesa dei diritti e nella promozione di equilibri e progresso, in Africa (e non solo) assume toni drastici. Nel continente, infatti, emerge con sempre maggiore frequenza quanto la presenza dell’Onu più che inutile stia diventando dannosa. Più che la soluzione, in altre parole, gli organismi delle Nazioni unite inviati a contenere gli effetti dei conflitti, a mantenere fragili processi di pace o a limitare penetrazioni terroristiche, sembrano essere il problema. L’Africa è il continente che ha il suo interno più missioni di pace di qualsiasi altro. Oggi, più di cinquantamila militari sono dispiegati per le operazioni delle Nazioni unite in Africa e altre decine di migliaia per le missioni a guida regionale nei paesi in cui persistono guerre civili o insurrezioni che destabilizzano intere aree. L’ultimo caso eclatante di guai provocati dalle Nazioni unite in termini di tempo, è quello che ha coinvolto la Monusco, la forza di interposizione Onu presente nella Repubblica democratica del Congo dal 1999. Nelle ultime settimane di luglio, in svariate città delle regioni dell’est del paese, si sono svolte manifestazioni di protesta contro i caschi blu accusati non solo di inefficienza, ma anche di complicità nei massacri e nelle tensioni che lacerano l’area da anni. La popolazione locale mostra da almeno un decennio profonda ostilità verso questo corpo preposto alla protezione dei civili e al contenimento del conflitto, che, a detta di molti, assiste inerme a stragi o, addirittura, è connivente. Gli effettivi della Monusco, dopo giorni di continue contestazioni che li hanno visti aprire ripetutamente il fuoco sui civili, nella giornata del 31 luglio scorso, secondo le ricostruzioni, hanno sparato e ucciso almeno tre persone e ferito altre 15, a Kasindi, al confine tra Congo e Uganda. L’episodio va ad aggiungersi a una serie di casi politici di grande frizione col governo che, nella giornata del 3 agosto, ha chiesto alle Nazioni unite di garantire che “il portavoce Monusco nella Repubblica democratica del Congo, Mathias Gillmann, lasci il paese il prima possibile”. Il presidente Félix Tshisekedi ha sfruttato l’occasione degli ultimi avvenimenti per aggirare le accuse di inefficienza dell’esercito regolare nell’arginare le violenze nell’area, e puntare il dito contro Gillmann e la Monusco su cui scarica tutta la colpa del totale fallimento. Gillmann, oltre che per la condotta dei suoi uomini, paga per alcune frasi pronunciate di recente con le quali ha spiegato l’insuccesso nel contrasto alle famigerate milizie ribelli dell’M23, sostenendo che la Monusco non avrebbe mezzi militari sufficienti. Peccato che la forza Onu in Congo sia tra le più costose al mondo, con un budget di oltre un miliardo di dollari all’anno e vanti un contingente tra i più consistenti, oltre 20mila uomini a cui è affidata una attrezzatura di prim’ordine, capace a fronteggiare eserciti organizzati. I traffici illeciti - Alla rabbia della popolazione del Kivu del nord e del sud e dell’Ituri, determinata dalle stragi, i rapimenti, gli agguati, le violenze che si susseguono a ritmo quotidiano, si aggiungono le dichiarazioni di alcuni missionari raccolte nei mesi scorsi, secondo cui la Monusco sarebbe protagonista di traffici illegali con le milizie locali e di fornitura di armi, e penserebbe maggiormente ai propri interessi che alla pace. “In Congo si paga l’inefficienza e la connivenza degli stessi organismi Onu che, ad esempio, utilizzano i mezzi in dotazione per traffico di armi e cobalto”, spiega Chiara Castellani, una missionaria laica da oltre 30 anni nel paese. “Agli uomini della Monusco non interessa facilitare la pace perché la guerra è per loro l’occasione di restare e continuare a guadagnare ottimi stipendi”, dice padre Gaspare Di Vincenzo, sacerdote comboniano ora a Kinshasa ma con una lunga permanenza nell’est del paese alle spalle. Per concludere la rapida analisi sugli effetti mefitici di enti dell’Onu in Congo, è doveroso fare un accenno alle gravissime responsabilità di Rocco Leone e Mansour Rwagaza, due dirigenti del Programma Alimentare Mondiale di area, nella strage in cui hanno perso la vita il nostro ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo il 22 febbraio 2021. Le accuse sono pesanti: omesse cautele nell’organizzazione del viaggio e falsificazione dei protocolli. Molto probabilmente, però, non saranno processati perché, come loro colleghi Onu indagati nel mondo, si appellano all’immunità diplomatica. Gli abisi in Centrafrica - Un altro paese tribolato in cui la presenza dei caschi blu Onu sembra aggravare la situazione piuttosto che alleviarla, è la Repubblica Centrafricana. Qui la Minusca, giunta come contingente di pace nel 2014 mentre infuriava il conflitto tra fazioni ribelli e governo che ha portato il paese in una permanente emergenza umanitaria, è accusata da anni di abusi sessuali e violenze nei confronti della popolazione. Nel 2015, gli abusi furono talmente gravi ed evidenti che portarono alle dimissioni del capo missione, il senegalese Babacar Gaye. Un numero significativo di suoi uomini di nazionalità francese, guineana e ciadiana, erano accusati di violenza sessuale nei confronti di minori. Il cambio al vertice con l’arrivo di Onanga-Anyanga, non portò sostanziali mutamenti di condotta: un anno dopo vengono sollevate nuove accuse circostanziate di abusi su ragazze e violenze sulla popolazione. Le imputazioni continuano in tutti questi anni, e nel settembre del 2021 la stessa Onu ha deciso di ritirare circa 450 caschi blu del Gabon dalla sua forza di interposizione nella Repubblica Centrafricana a seguito di accuse di sfruttamento sessuale e abusi su cui ha aperto un’inchiesta il governo di Libreville, capitale del Gabon. Qualche mese più tardi, a febbraio scorso, vengono arrestati quattro membri del contingente della missione di pace a Bangui, la capitale del Centrafrica. In questo caso l’accusa muoveva dai vertici dello stato che denunciavano una presunta partecipazione dei quattro militari in un possibile attentato contro il presidente Faustin-Archange Touadéra. L’episodio resta molto fumoso e le responsabilità tutte da accertare, ma evidenzia l’insofferenza di classi dirigenti africane nei confronti delle forze di interposizione Onu. L’Amisom, la missione creata dal Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana e autorizzata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite nel 2007 per la Somalia (lo scorso aprile rimpiazzata da Atmis, (African Union Transition Mission in Somalia), ha un pesante curriculum di violazioni e abusi al suo attivo. Secondo Human Rights Watch, è rea di stupri di massa sulla popolazione civile e di aver messo in atto un modello di sfruttamento che utilizzava il pretesto della distribuzione degli aiuti umanitari, per costringere donne e bambine a prostituirsi. Una riforma urgente - La Unmiss, la missione Onu in sud Sudan, è stata più volte accusata di vendere armi ai ribelli in lotta col governo centrale dal 2013 e di aver fallito nel suo compito di protezione dei civili. La sconfitta è stata addirittura certificata da José Ramos-Horta, presidente del Gruppo di alto livello sulle operazioni di pace delle Nazioni unite che nel giugno del 2017 candidamente ammise: “Abbiamo collettivamente fallito con il popolo del sud Sudan. La comunità “continua a fallire qui e in molte altre situazioni”. Anche la Unmis, la forza delle Nazioni unite in Sudan, ha accumulato imputazioni per stupri e omicidi di civili. Purtroppo l’elenco sarebbe più lungo e articolato di quello fin qui presentato. Nel novero del fallimento sostanziale, in alcuni paesi eclatante, di forze transazionali inviate per proteggere e facilitare pace e sviluppo e salvare vite, va anche aggiunto l’altissimo numero di vittime tra le forze Onu. Il tutto, dopo anni di disastri e polemiche, fa emergere con sempre più urgenza la necessità di riforma del sistema di peace operations delle Nazioni unite. Le strade di riforma al vaglio sono varie e passano per un maggiore coordinamento Onu/Ua, per un utilizzo di personale più addestrato e specializzato, per un maggior coinvolgimento degli Stati donatori perché il supporto non sia limitato all’erogazione di fondi e, come sostengono ormai da molti anni esperti e studiosi di tutto il mondo, per un maggior coinvolgimento di donne nella leadership, nella gestione delle operazioni di peace keeping e building e nelle forze militari. La Cina ha rinchiuso negli ospedali psichiatrici decine di dissidenti politici di Gianluca Modolo La Repubblica, 18 agosto 2022 Sottoposti ad abusi ed elettroshock, gli oppositori finiscono spesso in un buco nero. Il Partito comunista cinese continua a ricorrere a queste false terapie “nonostante più di un decennio fa abbia applicato modifiche legislative per frenare questa pratica barbara”, denuncia dell’Ong Safeguard Defenders. “Nel 2022 il Partito comunista cinese imprigiona ancora regolarmente oppositori politici negli ospedali psichiatrici nonostante più di un decennio fa abbia applicato modifiche legislative per frenare questa pratica barbara”. È la denuncia dell’Ong Safeguard Defenders, che nel suo ultimo rapporto documenta i ricoveri forzati per chi critica il Partito in strutture psichiatriche senza nessuna giustificazione medica. Dagli anni ‘80 le autorità di Pechino hanno utilizzato il sistema di ospedali psichiatrici del Paese, noto come “ankang”, per reprimere i prigionieri politici: ora l’Ong afferma che questa pratica continua, nonostante le riforme. La maggior parte dei dati contenuti nel rapporto proviene da interviste alle vittime e alle loro famiglie pubblicate online dalla ong cinese Civil Rights and Livelihood Watch, fondata dall’attivista e giornalista Liu Feiyue: i dati riguardano i casi di 99 cinesi sottoposti a ricovero psichiatrico per motivi politici tra il 2015 e il 2021. La collusione dei medici - “Medici e ospedali colludono con il Pcc per sottoporre le vittime a ricoveri inconsapevoli e non necessari dal punto di vista medico e a medicazioni forzate”, si legge nel rapporto. Dove si sottolinea che questi numeri rappresentano solamente “la punta dell’iceberg”. Stando al rapporto, in più della metà dei casi i medici non avevano condotto valutazioni psichiatriche prima del ricovero, violando una legge nazionale sulla salute mentale entrata in vigore nel 2013. “In nome del mantenimento della stabilità - denuncia l’ong con sede a Madrid - il Partito è in grado di allontanare gli attivisti senza alcuna speranza di vedere un avvocato o di andare a processo, mentre diagnostica loro una malattia mentale in modo che siano socialmente isolati anche dopo il rilascio”. Una volta all’interno, le vittime possono rimanervi per mesi o addirittura anni. “Molti pazienti hanno subito abusi fisici e mentali. Sono stati sottoposti a dolorosi elettroshock, spesso senza anestesia; sono stati legati ai loro letti dove sono stati lasciati per ore a giacere umiliati nei loro stessi escrementi; sono stati picchiati e isolati”. La ragazza dell’inchiostro - Tra le storie citate nel rapporto-denuncia spicca quella di Dong Yaoqiong, la “ragazza dell’inchiostro”. Questa trentenne originaria dello Hunan venne arrestata dopo che su Twitter aveva postato un video in cui macchiava di vernice nera il ritratto del presidente Xi Jinping. Sottoposta a sorveglianza 24 ore su 24 e costretta ad assumere farmaci, venne rilasciata l’anno seguente. Passano dodici mesi e viene rimandata in ospedale, “dove ha subito percosse ed è stata legata al letto”. Dimessa sei mesi dopo, mostrava segni di demenza e soffriva di incubi notturni. È stata rimandata in ospedale all’inizio del 2021. Oggi nessuno sa esattamente dove si trovi la “ragazza dell’inchiostro”.