Comunicato sulla drammatica situazione nelle carceri di Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2022 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello “Una telefonata ti può salvare la vita” rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: - liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione - liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. Hanno aderito al comunicato del Coordinamento Carcere Due Palazzi: - Associazione Closer Venezia - Cooperativa sociale “Rio Terà’ dei Pensieri” Venezia - Cooperativa sociale “Il Cerchio” Venezia - Il Granello di senape O.d.V Venezia Coordinamento Carcere Due Palazzi - Granello di Senape/Ristretti Orizzonti - Giotto Cooperativa Sociale - WorkCrossing Cooperativa Sociale - Associazione Amici della Giotto - AltraCittà Cooperativa Sociale - Coristi per caso - Solidalia Cooperativa Sociale - Volontà di Sapere Cooperativa Sociale - Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale - Pallalpiede - TeatroCarcere - Scuola Edile - Antigone Padova - Commissione Carcere Camera Penale di Padova - Insegnanti scuole in carcere Detenzione e diritti, l’appello del Coordinamento del carcere di Padova di Luca Cereda vita.it, 17 agosto 2022 È sempre più drammatico il dato sui suicidi tra detenuti, dal penitenziario di Padova arrivano le richieste: “Liberazione anticipata speciale per Covid e liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione”. Dall’inizio dell’anno si sono registrati cinquantadue suicidi nelle carceri italiane. Un dato impressionante che dice molto delle condizioni a cui sono sottoposti i detenuti. Se già prima la situazione era molto difficile, il Covid ha evidentemente peggiorato la permanenza forzata di chi è costretto dietro le sbarre. Per non parlare poi del sovraffollamento. La popolazione carceraria conta 54.841 detenuti a fronte di 50.900 posti. Sono numeri di cui bisogna prendere atto perché c’è poco da commentare. Il Coordinamento Carcere Due Palazzi è costituito da realtà che operano nella struttura da molto tempo e conoscono bene la situazione a cui sono sottoposti di detenuti. Si tratta di realtà come Granello di Senape/Ristretti Orizzonti, Giotto Cooperativa Sociale, Telefono Azzurro, WorkCrossing Cooperativa Sociale, Associazione Amici della Giotto, AltraCittà Cooperativa Sociale, Coristi per caso, Solidalia Cooperativa Sociale, Volontà di Sapere Cooperativa Sociale, Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale, Pallalpiede, TeatroCarcere, Scuola Edile, Antigone Padova, Commissione Carcere Camera Penale di Padova e Insegnanti scuole in carcere. “Come operatori -scrivono nellain una nota - a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello ‘Una telefonata ti può salvare la vita’ rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa”. “Il Coordinamento Carcere Due Palazzi - sottolineano ancora - esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane”. Il Coordinamento Carcere Due Palazzi oltre ad aderire ad iniziative come quella di don David Maria Riboldi rilancia con due richieste molto chiare: “Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione. Inoltre chiediamo la liberazione anticipata speciale per Covid”. Suicidi in carcere, le cifre dell’orrore. Intervenire subito di Rita Bernardini Il Dubbio, 17 agosto 2022 Lo so: molte compagne e compagni, molti amici e amiche, ci rimarranno male, ma - salvo che succeda qualcosa di clamoroso nelle ultime ore - dalla mezzanotte del 16 agosto inizierò uno sciopero della fame rivolto a tutti coloro che, nelle Istituzioni possono (e quindi debbono) intervenire efficacemente per fermare l’ondata di suicidi che si sta verificando nelle carceri italiane (e dico italiane perché da noi le morti per suicidio rappresentano il 38,2% delle morti in carcere, mentre la media europea è del 26%). Mentre scrivo, siamo arrivati a 52 uomini e donne che in cella si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Gli ultimi sono un tunisino di 33 anni che si è suicidato nel carcere di Monza inalando il gas dal fornelletto, un marocchino di 37 anni che nel carcere di Rimini si è impiccato alle sbarre con il lenzuolo e un ragazzo italiano di 25 anni che a Torino si è soffocato nella sua branda infilando la testa in un sacchetto di plastica. Come porre mano allo stato disastroso della giustizia e delle carceri non sembra essere nella testa di chi in queste ore si appresta a preparare simboli, liste e candidature in vista delle elezioni politiche del 25 settembre. Con l’iniziativa nonviolenta, che mi auguro divenga corale, si intende 1) Sostenere la volontà della Ministra Marta Cartabia che deve però necessariamente trovare il supporto (cioè il voto) di coloro che nel Consiglio dei ministri ancora fanno parte del Governo Draghi (in questi giorni e fino alle elezioni). Governo che è chiamato a gestire l’ordinaria amministrazione ma non può non considerare fatti di eccezionale gravità. E non è gravissimo quanto si sta verificando nelle nostre carceri con lo stillicidio quotidiano di morti e suicidi? Il sovraffollamento, cioè l’illegalità di detenere molte più persone di quelle che l’amministrazione è in grado di accogliere ce lo teniamo, costringendo i servitori dello Stato che prestano la loro opera in carcere a violare ogni giorno i diritti umani fondamentali? Da questo punto di vista, chiediamo di riprendere in un decreto- legge, cioè in un provvedimento D’urgenza la proposta dell’on. Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale 2) Sostenere la Ministra Marta Cartabia affinché si concluda prima delle elezioni del 25 settembre l’iter della Riforma della giustizia penale che prevede, tra l’altro, un maggiore accesso alle misure alternative e l’allargamento dell’istituto della messa alla prova. 3) Sostenere la volontà riformatrice del Capo del DAP Carlo Renoldi. Bene la circolare sui suicidi (che evidentemente non basta), bene le visite di ferragosto di tutti i vertici dell’amministrazione (che però costituiscono solo un “segnale”), ottima la definizione di “comunità penitenziaria” (un’espressione usata da Marco Pannella, felice e piena di senso), ma occorre fare qualcosa di più concreto; tra le misure indispensabili, due si segnalano per la loro estrema necessità: a) chiedere ai direttori delle carceri di concedere da subito ai detenuti molte più telefonate straordinarie e video- chiamate (raccogliendo così - almeno in parte - l’appello di Don Davide Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio); b) rispondere, e rispondere in tempi ragionevoli, alle istanze dei detenuti che chiedono di essere trasferiti per stare più vicini alla famiglia o che chiedono di poter andare in istituti dove ci siano più possibilità di lavoro e di studio. 4) Chiedere alle forze politiche che si presenteranno alle prossime elezioni: a) di inserire come priorità dei loro programmi la riforma dell’esecuzione penale in senso liberale e costituzionale, come proposto in queste ore anche dal Presidente dell’UCPI Giandomenico Caiazza, secondo le direttrici indicate dalle Commissioni Giostra e Ruotolo; b) di riformare l’ergastolo ostativo secondo quanto richiesto dalla Corte EDU con la sentenza Viola e dalla Corte Costituzionale con la sentenza Cannizzaro; c) di impegnarsi per un provvedimento di amnistia e di indulto che consenta a tutto il sistema penale che si sta riformando di ripartire su nuove basi. 5) Chiedere, che nel sito web del Ministero della Giustizia siano inseriti da subito gli elenchi delle persone morte in carcere, con riguardo sia ai “detenuti” che ai “detenenti” (ancora copyright Marco Pannella); sono dati che bisogna portare alla pubblica conoscenza, e finora lo fa solo la benemerita Associazione Ristretti Orizzonti per i detenuti. (https://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/) Suicidi in carcere. Don Grimaldi: “Un dramma che deve preoccupare la società tutta” di Gigliola Alfaro agensir.it, 17 agosto 2022 “La solitudine, la mancanza di futuro, la lontananza dalle famiglie, il sovraffollamento” sono, per l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, tra i fattori scatenanti del gesto estremo tra i detenuti, fenomeno in aumento quest’anno. Il 51° suicidio è avvenuto, a Ferragosto, nel carcere di Torino: a togliersi la vita un ragazzo di 25 anni. “Quando si parla di suicidi in carcere non è un problema solo estivo, ma si verifica durante tutto il corso dell’anno, anche se d’estate si intensificano i momenti difficili per i detenuti”. A parlare al Sir è don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. In Italia il 2022 sicuramente è un anno nero sul fronte dei suicidi in carcere: da Nord a Sud purtroppo continuano ad aumentare i detenuti che compiono il gesto estremo, com’è avvenuto nei giorni scorsi a Monza, a Rimini e a Secondigliano (Napoli). L’ultimo caso, a Ferragosto, nel carcere di Torino, dove si è tolto la vita un venticinquenne. “Apprendo con dolore di un nuovo suicidio in carcere, a Torino. È un’estate davvero drammatica: il Ministero, l’Amministrazione penitenziaria molto stanno facendo per migliorare complessivamente la qualità della vita e del lavoro nei nostri istituti, ma il dramma dei 51 suicidi dall’inizio dell’anno riguarda tutti. Tutti siamo chiamati ad occuparci di questa parte importante della nostra Repubblica”, ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, commentando il nuovo dramma consumato tra le mura di un carcere. Secondo l’Associazione Antigone in Italia dentro il carcere ci si uccide 16 volte in più che “fuori”. Indubbiamente ci sono fattori che contribuiscono ad aumentare la sofferenza implicita nella privazione della libertà. Come il caldo di questa torrida estate, la riduzione delle attività, i diminuiti contatti con l’esterno. Ma non solo, come ci spiega l’ispettore dei cappellani. “La maggior parte di coloro che vivono la drammatica esperienza del suicidio sono persone molto fragili psicologicamente, non hanno un supporto o si sono chiuse in se stesse e non fanno emergere le loro umane difficoltà. A queste persone fragili nei nostri Istituti occorre porre una maggiore attenzione sia a livello sanitario sia da parte del personale penitenziario. I fragili avrebbero bisogno di essere monitorati. Purtroppo, nei nostri Istituti le persone che hanno una forte fragilità psicologica sono molte, un po’ perché si sentono sole, un po’ perché non hanno davanti a sé un futuro, un po’ perché hanno perso la speranza, un po’ perché sono depresse. Sono tutti aspetti che possono incidere sulla scelta drammatica di suicidarsi. Il numero elevato dei suicidi non deve preoccupare solo gli operatori, ma la società tutta”, avverte don Grimaldi. La situazione è difficile dappertutto? “Girando in diversi Istituti e anche dalla mia esperienza di tanti anni di cappellano nel carcere di Secondigliano - risponde il sacerdote -, ho notato che, in Istituti piccoli o maggiormente organizzati, questa forma di sofferenza e di solitudine non si vive fortemente, ma in tanti altri Istituti si vede l’abbandono dei detenuti che per 24 ore si ritrovano soli in cella, non ci sono attività o almeno in certi periodi le attività sono sospese, non entra il mondo del volontariato, non ci sono corsi che impegnano i detenuti e li aiutano a vivere, per quanto è possibile, serenamente la propria detenzione. Queste situazioni si aggravano nei periodi estivi, soprattutto luglio e agosto sono tempi un po’ morti all’interno del carcere, perché molto personale va in ferie e tanti detenuti si sentono soli e abbandonati. Molte volte anche i familiari non riescono ad andare a trovarli per i colloqui perché spesso le carceri si trovano in luoghi lontani dalle residenze delle famiglie e i viaggi sono costosi o difficili da organizzare. Questo è un altro problema perché le famiglie sarebbero un supporto importante”. Il sovraffollamento può essere una delle cause che inducono al suicidio? “È un problema annoso nelle nostre carceri e di cui si discute da anni, si stanno cercando vie per ovviare il problema e ridurre la presenza dei detenuti in carcere, ci sono molti che potrebbero uscire ma non possono farlo a causa della burocrazia, perché non hanno una dimora, non hanno familiari che li accolgono - precisa don Grimaldi -. Il sovraffollamento incide anche negativamente sulla serenità dei nostri Istituti, anche per il personale è più difficile gestire la situazione. Faccio un esempio: un educatore non può facilmente assolvere il suo compito di fronte a una presenza raddoppiata di detenuti. I colloqui vengono meno, il rapporto interpersonale viene meno, anche tutti gli aiuti possibili vengono meno. Dunque, sì, il sovraffollamento contribuisce al rischio suicidi. Quando un detenuto sta male ha bisogno urgentemente di essere ascoltato, ma il più delle volte ciò non avviene. In più quando non ci sono educatori specifici, psicologi, vediamo che la Polizia penitenziaria cerca di sostituire in tutto queste figure, perché ha il polso della situazione e sa chi ha più bisogno di sostegno, vengono anche scritte relazioni, ma tante volte non ricevono risposte, anche per mancanza di personale che le dovrebbe prendere in carico”. Per contrastare il dramma dei suicidi in carcere il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha annunciato la messa a punto di nuove linee guida che puntano a rafforzare il carattere permanente delle attività di prevenzione. “Un ‘intervento continuo’, attraverso il quale - si legge nella circolare - il Dipartimento, i Provveditorati regionali e gli Istituti penitenziari siano tutti coinvolti, in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. La circolare, firmata dal capo Dap Carlo Renoldi, ha l’obiettivo di rinnovare, anche con il coinvolgimento delle Autorità sanitarie locali, gli strumenti di intervento e le modalità per prevenire il fenomeno tragico dei suicidi che in questi mesi sta facendo registrare un sensibile incremento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. “Di documenti ce ne sono tanti in giro - commenta don Raffaele - , soprattutto sul rispetto della dignità della persona. Se fosse messo in pratiche quanto scritto in circolari e documenti qualche aspetto problematico si risolverebbe. Ma dobbiamo dire con franchezza che la circolare è una cosa e la sua attuazione un’altra. Nell’ultima circolare dell’8 agosto si parla molto della necessità di un’attenzione da parte del mondo sanitario a persone fragili. Infatti, anche l’aspetto sanitario in carcere non è molto presente, proprio a causa del sovraffollamento che rende difficile rapportarsi a tutti i detenuti che vivono queste fragilità”. L’ispettore generale aggiunge: “Si investe molto sulle strutture penitenziarie, ma poco sulle misure alternative, che potrebbero essere le occasioni non solo per evitare il sovraffollamento ma anche per dare una prospettiva di futuro. Ma spesso le strutture dove realizzare le misure alternative non sono sostenute economicamente e tante comunità sono costrette a chiudere. Sarebbe sicuramente importante investire su queste realtà esterne per dare la possibilità ai detenuti di usufruire delle misure alternative”. Il sacerdote ricorda che “molti episodi di suicidio avvengono perché in tanti detenuti, ammalati, psicologicamente deboli o meno, manca la certezza di futuro. Alcuni suicidi si verificano proprio alla vigilia dall’uscita dal carcere proprio perché quei detenuti non hanno prospettive, non hanno una famiglia che li accoglie, non hanno un luogo dove deporre il loro capo, non hanno un lavoro, non hanno un futuro, si sentono presi da una grande paura che si trasforma nell’azione drammatica del suicidio”. Accanto ai detenuti e ai loro familiari ci sono, per quanto è possibile, i cappellani: “Facciamo da ponte tra loro e le famiglie. La nostra presenza in carcere è non solo morale, ma anche un aiuto materiale perché tante volte i ristretti non hanno neanche il necessario. Tante volte noi cappellani, con l’aiuto dei volontari, dei religiosi e delle religiose che lavorano negli Istituti, siamo non solo la valvola di sfogo, ma un’ancora di salvataggio per molti detenuti. Il ruolo del cappellano in carcere è fondamentale, quindi, anche se tante volte la sua figura viene messa un po’ da parte: ad esempio, quando proponiamo attività particolari per far sì che i nostri Istituti siano maggiormente umanizzati troviamo ostacoli. Il nostro ruolo è umanizzare le carceri attraverso attività spirituali e di promozione umana - sottolinea don Grimaldi -. Ma tante volte i cappellani si lamentano che non possono vivere serenamente il loro ministero e sono ostacolati, per motivi di sicurezza o altro, e non possono svolgere adeguatamente il loro servizio e apostolato. Siamo consapevoli di essere la voce di Dio che vuole entrare tra le sbarre per portare pace, serenità e speranza. Oggi il carcere, infatti, rappresenta una delle periferie esistenziali di cui parla Papa Francesco. Ogni volta che mi incontro con i vescovi li sollecito ad aiutare il mondo carcerario, una scelta pastorale di vicinanza per stare, come ci chiede il Pontefice, accanto agli scartati della vita”. Ferragosto in carcere, Cartabia e Renoldi: “Riguarda tutti” di Marco Belli gnewsonline.it, 17 agosto 2022 “Apprendo con dolore di un nuovo suicidio in carcere, oggi a Torino. È un’estate davvero drammatica: il Ministero, l’Amministrazione penitenziaria molto sta facendo per migliorare complessivamente la qualità della vita e del lavoro nei nostri istituti, ma il dramma dei 51 suicidi dall’inizio dell’anno riguarda tutti. Tutti siamo chiamati ad occuparci di questa parte importante della nostra Repubblica”. “E proprio per portare un segno di vicinanza alla popolazione detenuta e di riconoscenza al personale, che svolge un lavoro delicatissimo con dedizione ammirevole, i vertici del Dap si sono recati in molti istituti penitenziari in questa giornata che tradizionalmente è di festa per tutti. Anch’io ho voluto aderire a questa iniziativa e ho visitato il carcere di Aosta”. Così la Guardasigilli Cartabia, che ha passato il 15 agosto nell’istituto penitenziario di Aosta, dove - accompagnata dalla provveditrice del Triveneto, Maria Milano Franco D’Aragona, dal comandante Pino Renda e dalla direttrice di Fossano Assunta Di Rienzo - ha incontrato il personale in servizio, alcuni detenuti e ha visitato il panificio e la lavanderia del carcere. “Il carcere non va in vacanza”, ha sottolineato il Capo Dap Carlo Renoldi, in visita nel carcere femminile di Rebibbia. “Anche a Ferragosto nei nostri istituti sono ospitate circa 55mila persone e migliaia di operatori penitenziari sono al lavoro. Quest’anno, in un momento difficile per il mondo del carcere, segnato anche dal dramma dei suicidi, la ministra Cartabia e tutti i dirigenti generali dell’amministrazione penitenziaria sono anche oggi negli istituti penitenziari per dimostrare riconoscenza ai nostri operatori, vicinanza alla popolazione detenuta e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica tutta verso la realtà penitenziaria”. Il vice Capo Dap, Carmelo Cantone, è stato in visita a Viterbo. A Palermo, nella casa circondariale dell’Ucciardone, è andato il Direttore generale detenuti e trattamento, Gianfranco De Gesu. A Messina, il Direttore generale personale e risorse, Massimo Parisi. Pietro Buffa, Direttore generale della formazione e provveditore della Lombardia, è stato invece a Genova Marassi. Il provveditore per la Puglia e Basilicata, Giuseppe Martone, è stato nell’istituto di Lecce. In quello di Taranto, la provveditrice per la Liguria, Piemonte e Valle D’Aosta, Rita Russo. Nella casa circondariale di Palermo Pagliarelli, è stata la provveditrice per la Sicilia, Cinzia Calandrino. A Terni, il provveditore per Toscana e Umbria, Pierpaolo D’Andria. La provveditrice per la Campania, Lucia Castellano, è stata nell’istituto di Napoli Poggioreale e a Santa Maria Capua Vetere. Mentre per l’Emilia-Romagna e le Marche due dirigenti delegati dalla provveditrice, Silvia Della Branca ed Ernesto Cimino, sono stati negli istituti di Bologna, Modena, Ancona e Pesaro. Nell’istituto di Udine, è andato in visita un delegato della provveditrice. Analogamente, il provveditore per la Sardegna ha inviato un suo delegato, Marco Porcu, a visitare l’istituto di Oristano. Infine, il provveditore per la Calabria, Liberato Guerriero, è stato nella casa circondariale di Ariano Irpino. Ferragosto in cella, Renoldi a Rebibbia: “Il carcere non va in vacanza” di Davide Varì Il Dubbio, 17 agosto 2022 I vertici del Dap in visita negli istituti penitenziari segnati dal dramma dei suicidi. Gli agenti: “È ipocrisia”. “Il carcere non va in vacanza. Anche a Ferragosto nei nostri istituti sono ospitate circa 55mila persone e migliaia di operatori penitenziari sono al lavoro. Quest’anno, in un momento difficile per il mondo del carcere, segnato anche dal dramma dei suicidi, la ministra Cartabia e tutti i dirigenti generali dell’amministrazione penitenziaria sono stati, anche oggi, negli istituti penitenziari per dimostrare riconoscenza ai nostri operatori, vicinanza alla popolazione detenuta e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica tutta verso la realtà penitenziaria”. Così il capo Dap, Carlo Renoldi, che ha visitato Rebibbia femminile dopo essere stato al Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza. “L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi: ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare. Per questo, insieme ai miei più stretti collaboratori, al Vice Capo, ai Direttori generali del Dap e ai Provveditori regionali abbiamo avvertito l’esigenza di visitare degli istituti penitenziari anche nel giorno di Ferragosto. Vogliamo portare un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria e ribadire riconoscenza al personale in servizio”, ha spiegato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma le parole di Renoldi suonano ipocrite a Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “Leggo con sgomento - commenta - le dichiarazioni odierne del Capo del Dap Carlo Renoldi che dispone il Ferragosto in carcere per lui e tutti i vari dirigenti dell’amministrazione penitenziaria. Intanto vorrei capire perché Renoldi, anziché a Rebibbia femminile, il 15 agosto non va a Poggioreale, affollato da oltre duemila detenuti… Renoldi e C sappiano che il carcere si vive 24 ore su 24, 365 giorni, tra le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, per cui il Capo Dap prende una corposa indennità stipendiale. Se questo è il nuovo che avanza, davvero ci cadono le braccia…”. Capece ricorda che “Renoldi ha una concezione assai personalistica del Sindacato costituzionalmente previsto: vanno bene solamente quelli che sostengono le sue tesi, non chi critica e propone alternative alla degenerazione penitenziaria quale è la vigilanza dinamica ed il regime aperto a tutti i detenuti, indiscriminatamente, causa dell’esplosione degli eventi critici nelle carceri. Fa riferimento alla generica “comunità penitenziaria”, affollata da Garanti et similia che conoscono il carcere solo dalle parole dei detenuti, e dimentica che lui prende i soldi dallo Stato per essere Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria”. 40 istituti in 7 giorni, l’iniziativa dei Radicali - Appuntamento in carcere a Ferragosto, come di consueto, anche per il Partito Radicale. Dall’11 al 17 agosto, le delegazioni visiteranno 40 istituti penitenziari italiani “per ricordare il problema degli innocenti in carcere, per verificare le condizioni delle strutture, dei detenuti e dei malati psichiatrici al loro interno”. “Attualmente, su circa 55 mila detenuti, circa 16 mila sono in custodia cautelare, mentre il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica. Faranno parte delle delegazioni in visita anche alcune Operatrici Socio-Sanitarie, giuridicamente in servizio ma, nei fatti, sospese dall’attività. Non mancherà occasione di reiterare la richiesta di far rientrare in servizio le OSS, figure professionali necessarie, fino alla regolare scadenza del loro contratto”, conclude il Pr. Gli OSS delle Carceri: “Continuate ad ignorarci, eppure abbiamo salvato i detenuti dal Covid”. di Angelo Minghetti assocarenews.it, 17 agosto 2022 Nell’estate agostana nessun politico ha messo in evidenza una soluzione per i tanti oss che hanno lavorato nelle carceri per fronteggiare la pandemia. Il premio che hanno avuto dopo due anni di duro lavoro, essere lasciati a casa senza un riconoscimento. Molti sindacati hanno fatto promesse “sarete riassunti”, ma il risultato e quello attuale, dal 31 maggio tutte le promesse sono svanite, le stesse delibere regionali per la stabilizzazione non richiamano questi eroi ma altri eroi. Molti oss credono alle fole politiche, ora più che mai la politica cerca voti per le elezioni, e le promesse sono promesse di pinocchio, e poi guardano altrove quando saranno eletti. Una politica, che invece di prendere posizione e cercare di risolvere gli errori che la protezione civile ha commesso, continua a fare promesse da marinaio, portando questi oss ad aspettare un dialogo, un dialogo che non porta da nessuna parte. Non ci sono soluzioni e per questo che molti di loro si sono rivolti alla Federazione Migep e Shc per intraprendere una diffida verso il Governo, il Ministero della Salute, Ministero della Giustizia, e al dipartimento della Protezione Civile per avere risposte che fino ad oggi non hanno avuto. Questi operatori socio sanitari sono diventate vittime di un ciclone di brodaglie e rimescolamenti di norme sbagliate, senza una reale risoluzione, dove si rileva la mancanza di una linea politica coerente che mette questi operatori in una condizione di conflitti fra loro. Non c’è più spazio per fare una norma coerente, è per questo che hanno deciso di presentare una diffida al Governo Italiano per aver svolto le mansioni di OSS all’interno di vari istituti penitenziari, rsa, senza un contratto di lavoro, senza che sia stata loro riconosciuta alcuna anzianità di servizio e versata alcuna contribuzione, negandogli il proseguimento del rapporto di lavoro fino al 31 dicembre 2022. Crediamo che questi operatori debbano avere delle risposte che siano esaustive. *Federazione Migep OSS “Con i decreti sul penale il processo cambia ma le garanzie restano” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 agosto 2022 Decreto attuativo della riforma del processo penale: parla il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale nell’Università di Milano e consigliere della ministra Cartabia. Indagini. Alcuni contestano una restrizione dei tempi di durata... La durata massima si riduce nei procedimenti per le contravvenzioni; per quelli relativi ai delitti mutano solo i termini base, allungati per consentire di svolgere meglio, per più tempo in segreto, le indagini per i reati più gravi. Si è poi intervenuti sulle proroghe: una sola, di sei mesi, e motivata dalla complessità delle indagini. Non si può costruire un processo di efficiente e di ragionevole durata ignorando l’esigenza della qualità e tempestività delle indagini. Il pm dovrà chiedere l’archiviazione se gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Non dovrebbe già essere così? Guardi, il processo non è il luogo dove il pm va a cercare le prove davanti al giudice o a saggiarne l’effettiva idoneità; è il luogo in cui porta a giudizio l’imputato quando è ragionevolmente convinto che gli elementi raccolti a suo carico porteranno a una condanna. Se la percentuale degli assolti in primo grado è di circa il 35% vuol dire che il filtro nelle indagini preliminari non ha funzionato. Il processo è di per sé una pena per chi lo subisce, e va evitato ogni volta in cui non vi è una ragionevole previsione di condanna. Impugnazioni: gli allarmi dell’Unione Camere penali sui rischi di limitarle oltremisura erano eccessivi? In Italia l’appello dura otto volte di più rispetto alla media del Consiglio d’Europa. Per ridurre i tempi medi del processo è inevitabile filtrare e ridurre il numero dei procedimenti per i quali si celebrano secondo e terzo grado di giudizio. Le principali leve della riforma sono l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi, l’inappellabilità delle sentenze di condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità e delle sentenze di proscioglimento o non luogo a procedere per reati puniti con pena pecuniaria o alternativa. La presidente del Cnf Maria Masi ha detto: “Il timore è che il prezzo da pagare in nome della semplificazione, celerità e razionalizzazione delle procedure sia, ancora una volta, il sacrificio del diritto alla difesa”... Posso tranquillizzare la presidente Masi, con la quale l’interlocuzione della ministra Cartabia e mia, quale suo consigliere per le professioni, è continua: l’efficienza del processo nella riforma non è concepita in chiave aziendalistica. Il processo deve sempre essere conforme ai principi e alle garanzie costituzionali, a partire da quelle della difesa. È un punto fermo. Il processo è il luogo nel quale vanno accertati in tempi ragionevoli i fatti e le eventuali responsabilità, sempre nel rispetto delle garanzie. Un processo che tutela le garanzie ma che ha durata irragionevole e non accerta fatti e responsabilità non adempie alla sua naturale funzione. Le garanzie, nel dibattito pubblico, non devono essere agitate come un freno all’azione riformatrice, di cui il Paese ha un vitale bisogno. Devono piuttosto accompagnarla sempre e l’avvocatura fa bene a ricordarlo. Molte polemiche per la possibilità che sia il giudice di cognizione a irrogare misure alternative al carcere per condanne sotto i 4 anni... È purtroppo ancora diffusa l’idea che il carcere sia l’unica pena, ma non è così. Nella maggior parte dei Paesi, accanto al carcere sono previste pene diverse. Perfino negli Usa, il Paese della mass-incarceration, su 10 condannati solo 3 sono in carcere; 7 sono ‘ supervised in the community’. In Italia il rapporto è di 4 a 6: a fronte di 55.000 detenuti, 73.000 persone scontano la pena nella comunità. L’esecuzione penale esterna è già realtà. Non si può fare a meno di alternative al carcere, nell’interesse di tutti: i tassi di recidiva si riducono notevolmente. La riforma rivitalizza le pene sostitutive della legge 689/ 1981 e razionalizza il sistema. I condannati a pene detentive inferiori a 4 anni dal 1998 possono infatti già evitare il carcere con la sospensione dell’ordine di carcerazione e la richiesta al Tribunale di sorveglianza di una misura alternativa. Nel 70% dei casi è l’affidamento in prova al servizio sociale, concesso spesso a distanza di anni, generando i cosiddetti liberi sospesi: condannati liberi in attesa di sapere se e quale pena scontare a distanza di anni dalla condanna. La riforma anticipa al giudizio di cognizione la decisione sulla sostituzione della pena, entro lo stesso limite di 4 anni. Le pene sostitutive sono immediatamente esecutive, incentivano i riti alternativi e riducono il fenomeno dei liberi sospesi, che si stima siano circa 80- 100.000. Sono inoltre pene dal contenuto effettivamente sanzionatorio e risocializzante, perché costruite sull’idea della pena come programma di reinserimento sociale: lavoro di pubblica utilità, detenzione domiciliare e semilibertà. Oltre alla pena pecuniaria per le pene inflitte in misura non superiore a un anno. La direzione è quella della effettività ed efficacia della pena. Un importante capitolo riguarda proprio le pene pecuniarie... Anche qui la direzione è quella dell’effettività. Oggi solo l’ 1% di multe e ammende viene eseguito, il riscosso è pari allo 0,4%, con perdite di oltre due miliardi di euro l’anno. È inaccettabile. La riforma cambia il sistema: abbandona la farraginosa procedura del recupero crediti e prevede un ordine di esecuzione del pm con l’initimazione di pagare entro 90 giorni. Se il condannato, pur potendo, non paga, la pena pecuniaria si converte in semilibertà, che cessa non appena il condannato paga. Se il condannato non può pagare, per difficoltà economiche, la conversione è in lavoro di pubblica utilità o, se vi è opposizione, in detenzione domiciliare. La minaccia della conversione indurrà a pagare, come avviene in Germania e in altri Paesi europei. Giustizia riparativa: servirà anche un approccio culturale diverso da parte dell’intera società? La giustizia riparativa arriva nel nostro Paese sulla scia di un fecondo movimento di pensiero internazionale: va studiata, compresa e sperimentata. Anche su questo terreno la riforma Cartabia è innovativa e coraggiosa. Serve un approccio culturale diverso alla pena e al problema del rapporto autore- vittima di reato. La stampa e la politica dovrebbero favorirlo, nell’interesse del progresso civile del Paese. Lo Stato non deve solo punire ma altresì incoraggiare la soluzione dei conflitti, la riparazione dell’offesa, la riconciliazione, il superamento della ferita causata dal reato all’individuo e alla società. È una concezione moderna della giustizia penale e dei bisogni della società, che necessita di pacificazione e di difesa degli interessi e dei valori, prevenendo i reati e riducendo la recidiva. Tra inammissibilità e improcedibilità, quale prevale? La soluzione della Cassazione mi persuade: prevale l’inammissibilità perché l’impugnazione inammissibile non consente la costituzione di un valido avvio della corrispondente fase processuale. Procuratori, dall’Antimafia al Parlamento di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 17 agosto 2022 Tre su tre, da quasi 10 anni: da Pietro Grasso a Franco Roberti a Federico Cafiero de Raho. Contraltare all’infornata di condannati definitivi che nel disinteresse generale sta per affollare le liste. Tre su tre, da quasi 10 anni tutti i procuratori a capo della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, appena vanno in pensione, passano in politica: a marzo 2013 Pietro Grasso parlamentare pd e poi presidente del Senato, nel 2018 Franco Roberti assessore in Campania e poi europarlamentare pd, e adesso Federico Cafiero de Raho (procuratore Dna sino a quattro mesi fa) nel M5Stelle di Giuseppe Conte al pari del neo pensionato procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Tutti e tre reclutati da partiti che - nella penuria di dirigenti alla Pio La Torre, cioè capaci di autonome elaborazioni politiche sull’antimafia - intendono segnalare il proprio impegno per la legalità rincorrendo ex toghe (finanche con curiosi incroci ad esempio tra Cafiero de Raho, che da procuratore di Napoli “coordinò la cattura del boss di camorra Michele Zagaria”, e nel centrodestra invece forse Catello Maresca, già candidato a sindaco di Napoli sull’onda dell’essere stato “il pm che catturò Zagaria”). Certo un maggiore stacco temporale tra fine servizio di procuratore Dna e entrata in politica sarebbe più elegante nel far decantare patrimoni informativi acquisiti, in quel ruolo, dalla banca dati di tutte le indagini italiane, dai colloqui investigativi in carcere, e dal monitoraggio delle intercettazioni finalizzato a evitare indagini “doppie” tra Procure. Ma altrettanto certamente questa remora può apparire snob a confronto della infornata di condannati definitivi che nel disinteresse generale sta per affollare le liste della destra. Persino la ricandidatura di Silvio Berlusconi ha tenuto banco poco e solo sotto il profilo politico del suo ritorno in Senato, nell’oblio invece dei motivi di una condanna per frode fiscale confermata da tre gradi di giudizio e poi nemmeno intaccata dalle tentate revisioni a Brescia e Strasburgo. “Aspettiamo le sentenze definitive” si giura quando inizia una inchiesta: poi però, quando le sentenze arrivano, nessuno più vuole (né da cittadino pretende di) tenerne conto. E in fondo questa indisponibilità ad accettare l’esito definitivo di un processo fa il paio con l’apparentemente opposta collezione elettorale di toghe, entrambe mostrando che le urne del 25 settembre già propongono un risultato: la sostanziale irrilevanza del tema giustizia, e il suo declassamento a puro paesaggio, fondaco di dispute collaterali. La passione dei Cinque stelle per i magistrati antimafia di Giulia Merlo Il Domani, 17 agosto 2022 Per rimanere primo partito al sud, Conte mette in lista due nomi autorevoli delle toghe antimafia. In campo l’ex procuratore generale antimafia De Raho e il procuratore generale Scarpinato. I due dovranno passare per la ratifica online del voto sul web, ma si tratterà di una mera formalità: l’interrogativo vero è dove saranno candidati. Le voci più insistenti danno Scarpinato in Sicilia, mentre Cafiero De Raho sarebbe orientato verso una candidatura in Calabria. Conte ha scelto di far leva sull’antimafia con due alti profili che hanno legato la loro carriera in magistratura ai processi sulle stragi di mafia e alla lotta alla criminalità organizzata. Anche a costo di dirottare nella contesa politica due figure che, fino a pochi mesi fa, dovevano rappresentare la terzietà della giustizia. Nel cosiddetto “listino” del capo politico Giuseppe Conte, spuntano due nomi che in pochi avrebbe potuto immaginare di vedere insieme nella stessa battaglia politica. Entrambi magistrati antimafia ed entrambi pensionati da poco, l’ex procuratore nazionale antimafia, Federco Cafiero de Raho e l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, hanno profili assai diversi. Ma entrambi hanno deciso di puntare al parlamento salendo sul carro dei grillini. I due dovranno passare per la ratifica online del voto sul web, ma si tratterà di una mera formalità: l’interrogativo vero è dove saranno candidati. Le voci più insistenti danno Scarpinato in Sicilia, dove è nato e dove ha svolto tutta la sua carriera professionale conclusa nel gennaio 2022. Mentre Cafiero De Raho, napoletano e noto per le sue indagini contro il clan dei Casalesi, sarebbe orientato verso una candidatura in Calabria, dove ha svolto il ruolo di procuratore della Repubblica di Reggio Calabria prima di approdare alla procura Antimafia. L’obiettivo politico dell’operazione contiana è quella di fermare l’emorragia di voti almeno nel meridione, rimasto unico riferimento territoriale del Movimento cinque stelle ma oggi potenzialmente insidiato da due ex toghe famose come Luigi De Magistris e Antonio Ingroia, con cui c’erano stati tentativi di intesa poi andati a vuoto. Per farlo, Conte ha scelto di far leva sull’antimafia con due alti profili che hanno legato la loro carriera in magistratura ai processi sulle stragi di mafia e alla lotta alla criminalità organizzata. Anche a costo di dirottare nella contesa politica due figure che, fino a pochi mesi fa, dovevano rappresentare la terzietà della giustizia. De Raho e l’Antimafia - Non è una novità. Quella di De Raho, addirittura, è la terza candidatura proveniente dal vertice della Direzione nazionale antimafia. Il Pd nel 2013 candidò e fece eleggere al Senato Piero Grasso, mentre nel 2019 portò Franco Roberti al parlamento europeo. Magistrato legato alla corrente moderata Unità per la costituzione, secondo le ricostruzioni dell’ex capocorrente Luca Palamara, De Raho fu nominato prima a Napoli e poi all’Antimafia grazie anche al potente ex ministro dell’Interno del Pd, Marco Minniti. I suoi contatti con la politica, però, sono proseguiti anche dopo il pensionamento: il neosindaco di Napoli frutto dell’accordo tra Pd e M5s, Gaetano Manfredi, lo ha voluto infatti come membro del consiglio d’amministrazione del teatro Mercadante di Napoli appena un mese dopo il suo addio alla Dna. Il suo nome sarebbe in “quota” Conte e rischia però di essere poco gradito alla base storica del Movimento: fu proprio De Raho, infatti, ad allontanare dal pool stragi dell’antimafia il vero magistrato paladino dei grillini, Nino Di Matteo (il provvedimento di espulsione venne revocato 16 mesi dopo). La sua discesa in politica - come accaduto anche per i suoi predecessori della Dna, ma nel suo caso sono passati appena 7 mesi dalla fine dell’incarico - è la rappresentazione plastica del cortocircuito tra poteri. Tra le sue ultime dichiarazioni da capo dell’Antimafia nel gennaio 2022, De Raho disse che “arriverà un nuovo pezzo di verità sulle stragi, ne sono convinto”. Le sue parole generarono scalpore e attesa perché dalla sede di via Giulia il magistrato aveva accesso ai fascicoli riservati e alle evoluzioni delle inchieste più delicate in corso. Tra queste, quella per le stragi di mafia in corso a Firenze, che tra gli indagati ha Silvio Berlusconi. Candidato al Senato per Forza Italia, contro il quale De Raho dovrebbe fare campagna elettorale. Scarpinato il “filosofo” - Molto diverso, invece, è il profilo di Scarpinato. Vicino alla corrente di sinistra di Magistratura democratica, è soprannominato “il filosofo” perché solito offrire analisi storico-culturali sul fenomeno mafioso. È tra gli ultimi esponenti della generazione di magistrati che lavorarono con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il suo nome è legato alle inchieste di Palermo e poi di Caltanissetta sulle stragi. La sua carriera, però, si è conclusa con una sorta di incidente diplomatico sulla cosiddetta “pista nera” di Capaci, in merito alla presenza del neofascista Stefano Delle Chiaie sul luogo della strage. Sua è la voce presente nell’inchiesta di Report sulla pista nera, che ha prodotto uno duro scontro con il procuratore capo di Caltanissetta, Salvatore De Luca, titolare dell’indagine che ha smentito l’ipotesi, aggiungendo che “non compete a questo ufficio esprimere valutazioni generali in ordine alla completezza e tempestività delle indagini coordinate da altra autorità giudiziaria, a meno che le stesse non abbiano una rilevanza penale in un procedimento di sua competenza”. Anche nel suo caso, l’intento del Movimento 5 stelle è quello di catalizzare i consensi del mondo legato all’antimafia, e nei confronti dell’ex magistrato è già arrivato l’endorsement di Salvatore Borsellino. Le presenze nelle liste di De Raho e Scarpinato confermeranno il Movimento 5 stelle come “partito dei pm”, con un occhio rivolto al passato che puntata sul ruolo storico dell’antimafia. I due profili serviranno a Conte per spingere sullo scontro tra giustizialismo e garantismo, sull’onda dei principi delle origini del M5s e molto distante da quello tenuto dai grillini nel corso del governo Draghi. Che sotto la guida della ministra Cartabia ha messo rigidi paletti in merito al ruolo dei magistrati (in attività) prestati alla politica. Oblio e zero intercettazioni. La destra prepara i bavagli di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2022 La coppia di avvocati Sisto-Bongiorno inserisce il “diritto alla buona fama” nel programma: ennesima stretta per pm e giornalisti. Tecnicamente è un “rimedio alla compressione della reputazione in forza della presunzione di innocenza”, per usare la formula burocratica di Jacopo Morrone, capogruppo della Lega in commissione Giustizia. In sostanza è un bavaglio in arrivo. Nei confronti di giornalisti e pubblici ministeri. Quattro parole - “diritto alla buona fama” - inserite nel programma della coalizione di centrodestra e dietro cui si cela il nuovo tentativo di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi di rendere più difficile la cronaca delle indagini e degli scandali che coinvolgono la politica. Il principio è stato inserito al tavolo di coalizione al capitolo giustizia e approvato dai tre leader del centrodestra. A volerlo è stata la coppia Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) - Giulia Bongiorno (Lega), entrambi aspiranti ministri della Giustizia in un governo di centrodestra. Recita così: “Giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama”. Il diritto alla “buona fama” (un termine che non esiste nella letteratura giuridica) per ora resta un principio nero su bianco: più fonti, nel centrodestra, riferiscono che non ci sono ancora dettagli e la coalizione aspetterà di vincere le elezioni e andare al governo per trasformarlo in legge. Nel programma comune si è preferito rimanere sul generico. Ma, soprattutto nella Lega e in Forza Italia, le idee su come tradurre in norma quel principio sono molto chiare. In primis, la “buona fama” riguarderà due fasi: quella dell’indagine-processo e quella successiva alla sentenza definitiva. Nella prima fase, l’obiettivo è quello di muoversi in linea con il decreto legislativo di Marta Cartabia che già impone pesanti restrizioni ai rapporti tra i magistrati e la stampa: niente nomi alle inchieste, solo i procuratori possono parlare con i giornalisti tramite atti ufficiali, niente informazioni ai giornalisti. Ma al centrodestra non basta. Il linguaggio sarà al centro della misura: le notizie sulle indagini dovranno essere date spiegando che si è sempre innocenti fino a sentenza definitiva, andrà evitata l’equiparazione “indagati uguale condannati” e si imporrà che le sentenze di assoluzione sui media abbiano lo stesso spazio delle inchieste o delle sentenze di condanna. Ipotesi che sono state sintetizzate così nel programma della Lega: “Prevedere strumenti in grado di garantire il diritto a una buona fama, per riconoscere effettivamente, anche a livello mediatico, il principio della presunzione di innocenza dell’indagato o imputato coinvolto in un procedimento penale”. Inoltre dietro al principio della “buona fama” si cela anche una stretta sulle intercettazioni, vecchio pallino berlusconiano: l’idea sarebbe quella di limitare ulteriormente la diffusione delle informazioni “non penalmente rilevanti” che riguardano personaggi pubblici e spesso finiscono nei brogliacci degli investigatori, spiega un parlamentare di Forza Italia. Uno strumento, quello delle intercettazioni e della loro pubblicazione, che è già stato fortemente depotenziato dalla politica negli ultimi anni. La seconda fase, invece, è quella successiva alla sentenza definitiva. In caso di assoluzione, l’obiettivo del centrodestra è quello di coinvolgere il garante della Privacy perché i motori di ricerca e i siti siano “ripuliti” dalle notizie delle indagini e di ipotetiche sentenze di condanna precedenti all’assoluzione. Una sorta di diritto all’oblio tout court. Idee che piacciono a Sisto, già avvocato di Berlusconi e oggi sottosegretario alla Giustizia, che parla di “programma autenticamente liberale, volto a fare del cittadino il punto di riferimento dell’intero sistema Paese”. Ma il nuovo “bavaglio” non è l’unica idea sulla giustizia del centrodestra. Oltre alla separazione delle carriere, nel programma della Lega è spuntata una proposta anch’essa ispirata agli anni d’oro del berlusconismo. Il ritorno alla legge Pecorella, dal nome dell’avvocato dell’ex premier Gaetano, che rendeva inappellabili le sentenze di assoluzione e proscioglimento, poi in gran parte definita incostituzionale dalla Consulta pochi mesi dopo. Oggi la Lega propone di ripristinarla. Con il naturale via libera di Silvio Berlusconi: “Renderemo inappellabili le sentenze di assoluzione” ha scritto su Twitter a Ferragosto. Femminicidi, una donna uccisa ogni 3 giorni di Marina Della Croce Il Manifesto, 17 agosto 2022 Il dossier del Viminale: in dodici mesi le vittime sono state 125 contro le 108 di un anno fa. Il lockdown è finito ma le donne continuano a essere uccise. Se nel 2021 il divieto di uscire da casa a causa della pandemia ha costretto molte donne a una convivenza forzata con partner violenti e provocato un aumento dei femminicidi (dato Istat), il ritorno alla libertà di movimento non ha ridotto i casi di violenza che, anzi, secondo il consueto rapporto sull’attività del Viminale diffusa nel giorno di Ferragosto, sono addirittura aumentati. Drammaticamente. Negli ultimi 12 mesi (1 agosto 2021- 31 luglio 2022) in media più di una donna è stata uccisa ogni tre giorni. In tutto 125 vittime contro le 108 del 2021, cifra che rappresenta quasi il 40% (39,2%) del totale degli omicidi volontari (319 contro i 276 dell’anno precedente). Più in generale il dossier del Viminale segnala un aumento del numero complessivo dei reati rispetto al 2021, anche se ancora inferiore rispetto ai dati registrati prima della pandemia: 2.116.476 quelli commessi tra il 1 agosto 2021 e il 31 luglio 2022 - seppure più alto del 12,87% rispetto ai dodici mesi precedenti, resta tra i più bassi dell’ultimo decennio. Violenza di genere e discriminazione. Dei 125 femminicidi commessi nel 2022, 108 sono stati commessi in ambito familiare/affettivo e 68 da partner o ex partner. Le denunce per stalking sono state 15.817 che hanno avuto come conseguenza 3.100 ammonimenti del Questore (1.640 per violenza domestica) e 361 allontanamenti. L’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) ha inoltre ricevuto 314 segnalazioni, delle quali 121 riguardanti razza/etnia, 83 la religione, 34 la disabilità, 67 l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Minacce ad amministratori. Nei primi sei mesi dell’anno quelli che hanno ricevuto minacce sono stati 300, di cui 153 sindaci. Nella metà dei casi la matrice è ignota, in 36 è legata a tensioni sociali, in 25 sono state opera di criminali comuni. Guida la classifica delle minacce la Lombardia (42) seguita da Campania (40) e Calabria (33). Nello steso periodo ci sono stati 64 episodi intimidatori nei confronti di giornalisti, di cui 55 tramite web. Terrorismo. Le persone arrestate per motivi legati alla sicurezza dello Stato sono state 24, mentre altre 61 sono state espulse. 146 sono infine i foreign fighter inseriti nella lista del Comitato di analisi strategica e antiterrorismo (Casa) e monitorati. Immigrazione. Le persone sbarcate entro lo scorso 11 agosto sono state 45.664, con un incremento del 40,36% rispetto al 2021. Di queste 6.070 sono minori non accompagnati (+8,30%), mentre le forze dell’ordine hanno arrestato 137 scafisti (+41,24%). Per quanto riguarda la tipologia degli sbarchi, 21.347 sono avvenuti a seguito di eventi Sar (ricerca e soccorso), 7.270 persone sono state tratte in salvo dalle ong e 24.317 sono sbarcate in maniera autonoma. I Paesi di partenza sono, nell’ordine, Libia, Tunisia. Turchia, Libano, Algeria, Siria e Grecia, mentre per quanto riguarda la nazionalità dichiarata al momento dello sbarco guida la classifica la Tunisia seguita da Egitto, Bangladesh e Afghanistan. In leggero calo il numero dei rimpatri: 3.955 contro i 4.321 del 2021. 95.184 sono invece i migranti in accoglienza, +23,9% rispetto al 10 agosto 2021. Sempre nell’ultimo anno sono stati rilasciati 1.735.128 permessi di soggiorno, di cui 459.632 per lavoro subordinato e 644.651 per ricongiungimenti. Concesse, infine 134.016 nuove cittadinanze. Afghani e Ucraini. Il regime afghano e la guerra in Ucraina hanno portato a un incremento delle richieste di protezione internazionale da parte di cittadini di questi Paesi. Dal 1 agosto 2021 al 31 luglio 2022 hanno ottenuto asilo 5.960 afghani (contro i 1.407 dell’anno scorso, con una percentuale di riconoscimento del 96%), mentre 149.321 ucraini hanno avuto un permesso di protezione temporanea. Lotta alle mafie. Quasi 2,4 miliardi sequestrati alla criminalità organizzata negli ultimi 12 mesi, mentre i latitanti arrestati sono stati 48 e 82 le operazioni di polizia contro le mafie. Sono invece 59 le gestioni commissariali di enti locali per infiltrazioni della criminalità organizzata, 15 scioglimenti e 10 proroghe. Quando a uccidere sono le armi “regolari” di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 17 agosto 2022 Violenza di genere. Nel periodo agosto 2021-luglio 2022 vi sono stati 16 omicidi di donne in ambito familiare e relazionale con armi regolarmente detenute. Il numero appare contenuto, ma rappresenta il 14,8% di questi omicidi e femminicidi: un dato rilevante e preoccupante se si considera che solo il 6-8% della popolazione adulta italiana ha una licenza. C’è una persistente grave emergenza in Italia. Ma non sono gli sbarchi di immigrati e nemmeno i furti o le rapine. Sono i femminicidi e gli omicidi di donne. È ciò che emerge dal Dossier Viminale presentato, come di tradizione, a ferragosto dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, durante la riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Dopo il minimo storico realizzato negli anni scorsi contrassegnati dall’emergenza Covid-19 e da periodi di lockdown e da restrizioni delle attività pubbliche, tra agosto 2021 e luglio 2022 sono aumentati gli omicidi (319) che comunque rimangono al di sotto del periodo pre-pandemico (erano 334 tra gli stessi mesi del 2018-19). Il fenomeno degli omicidi è in costante calo dal 2013 - di fatto già dagli anni novanta - e oggi l’Italia è uno dei paesi meno pericolosi in Europa nonostante il permanere di formazioni mafiose e criminali (i cui omicidi sono aumentati nell’ultimo anno, ma va considerato che le vittime sono per la gran parte appartenenti ad altri gruppi malavitosi). La delittuosità in generale mostra una ripresa e lo stesso vale per le rapine, ma anche in questo caso i dati sono ben al di sotto del decennio pre-Covid ed anzi i furti e gli scippi - che sembrano allarmare gli italiani più di ogni altro crimine - risultano in calo anche rispetto al periodo pandemico e sono quasi dimezzati rispetto ad una quindicina di anni fa. Tutto questo non lo dice Matteo Salvini che nel suo sguaiato tweet a commento dei dati del Viminale non ha potuto far altro che rivolgere l’attenzione - e sollevare un inesistente e generico allarme - su “reati, sbarchi, insicurezza e cyber-attacchi”. Il vero allarme riguarda invece la “violenza di genere”. Sono stati 125 gli omicidi di donne tra agosto 2021 e luglio 2022, in aumento rispetto ai 108 registrati nello stesso periodo dell’anno scorso: rappresentano il 39,2% di tutti gli omicidi volontari commessi in Italia. Di questi 108 sono stati commessi “in ambito familiare/affettivo” e 68 perpetrati “da partner o ex partner”: significa che oggi in Italia più di un omicidio su tre ha come vittima una donna e si consuma in ambito familiare e relazionale. A conferma, come scriviamo da diversi anni, che la sfera di maggior pericolo per le donne non è quella pubblica, ma quella dei rapporti familiari e personali. È in questo contesto che si manifesta, nella sua brutalità e violenza, la propensione al dominio, alla sottomissione e all’assoggettamento che sono componenti primarie di quella cultura patriarcale maschilista che, purtroppo, è tuttora fortemente radicata nel nostro paese. La pericolosità per le donne della sfera familiare si riscontra anche negli ammonimenti dei Questori: quelli per violenza domestica sono saliti a 1.640 (quattro anni fa erano 667), segno che le donne stanno denunciando maggiormente le violenze che subiscono in famiglia. Preoccupa, invece, che i provvedimenti di allontanamento siano diminuiti (361 rispetto ai 414 dell’anno scorso) e non è chiara la ragione del calo delle denunce per stalking. Il Viminale non riporta lo strumento con cui le donne vengono uccise. Ma i dati pubblici contenuti nel database dell’Osservatorio Opal mostrano che nel periodo agosto 2021-luglio 2022 vi sono stati 16 omicidi di donne in ambito familiare e relazionale con armi regolarmente detenute. Il numero appare contenuto, ma rappresenta il 14,8% di questi omicidi e femminicidi: un dato rilevante e preoccupante se si considera che solo il 6-8% della popolazione adulta italiana ha una licenza per detenere armi. Significa, infatti, che le armi detenute legalmente con la motivazione di volersi difendere da ladri e rapinatori vengono usate più spesso per uccidere la moglie, la compagna o la ex piuttosto che per difendersi da rapine nella propria abitazione. Da diversi anni, infatti, in Italia è maggiore il rischio, soprattutto per una donna, di essere uccisa da un familiare o conoscente che detiene legalmente delle armi che da un rapinatore. Omicidi di donne e femminicidi sono problemi che vanno contrastati con l’educazione, sradicando la cultura del dominio dell’uomo sulla donna. Ma richiedono anche provvedimenti urgenti per limitare il possesso delle armi, norme più rigorose sul rilascio delle licenze e controlli più frequenti e accurati sui legali detentori di armi. Non è più accettabile che l’arma detenuta col pretesto della legittima difesa divenga lo strumento privilegiato per l’illegittima offesa nei confronti di una donna. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa - Opal Io, ex generale del Ros, dico: lo Stato non ha mai “protetto” Provenzano di Giampaolo Ganzer* Il Dubbio, 17 agosto 2022 La motivazione del processo d’appello sulla cosiddetta “trattativa Stato- mafia”, pur riconoscendo che la finalità dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros era del tutto legittima, in quanto volta alla cessazione delle stragi e alla tutela dell’incolumità per la collettività nazionale, censura la condotta degli stessi sostenendo che, per preservare una fazione di cosa nostra asseritamente più moderata rispetto alla linea stragista di Riina, avevano “discretamente” protetto la latitanza del vertice di questa componente, Bernardo Provenzano. Ne consegue una suggestiva, ma non certo inedita rilettura in malam partem di vicende già oggetto del giudicato penale, sino ad affermare che le attività di ricerca del latitante, arresti di affiliati e favoreggiatori compresi, erano sempre state effettuate con la precisa riserva di evitarne comunque la cattura, che avrebbe pregiudicato lo scopo ultimo dell’operazione. Se ciò fosse vero, si sarebbe trattato effettivamente di una raffinata operazione di intelligence e di un’ abilissima manipolazione dell’avversario, condotta sul piano della prevenzione, piuttosto che della polizia giudiziaria, ma - per quanto di diretta cognizione questa ricostruzione risulta totalmente difforme dalla realtà storica, prima ancora che processuale. L’ impegno più dispendioso e incondizionato di risorse umane, tecnologiche ed economiche del Ros, fu infatti la ricerca di Bernardo Provenzano, iniziata poco dopo l’arresto di Riina e proseguita sino alla sua cattura, per oltre un decennio. Giova peraltro ricordare, come sottolineato nella mia mai contestata testimonianza avanti la Corte d’assise di Palermo, che sino alla spontanea costituzione di Salvatore Cangemi nel luglio 1993, non solo sul Provenzano non vi erano notizie, ma era addirittura diffuso tra gli addetti ai lavori il convincimento di una sua scomparsa. Lo stesso gruppo investigativo che aveva catturato Riina, potenziato nel tempo in uomini e mezzi, avviò pertanto la ricerca, condotta sul campo esclusivamente con le tradizionali tecniche investigative e con tutte le difficoltà che questo comportava in aree ad alta densità mafiosa, dove ogni presenza è oggetto di controllo della controparte. E in particolare, rispondendo ad una domanda del Presidente della Corte, avevo ribadito che questa linea non era mai mutata, semplicemente perché la ricerca del principale latitante di cosa nostra dopo Riina, era il prioritario obiettivo del Ros. Nella citata testimonianza avevo anche ricordato come, in relazione alla vicenda Ilardo e alla riesumata “mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso”, avessi personalmente sottolineato al tenente colonnello Riccio che l’ Ilardo, dopo il suo incontro con i Magistrati di Palermo e Caltanissetta, doveva essere considerato a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia e non doveva pertanto rientrare in Sicilia. Lo stesso Riccio, che aveva a suo tempo precluso qualsiasi servizio di pedinamento in occasione del preannunciato incontro con il latitante (asserendo che ciò sarebbe stato troppo pericoloso e che l’opportunità si sarebbe presto ripresentata senza il timore di controlli sulla fonte), all’insaputa del Comando Ros aveva invece disatteso, con tragiche conseguenze, l’elementare misura di sicurezza. Del resto, il ten. col. Riccio aveva instaurato con l’informatore, affidatogli a suo tempo dalla Direzione della Dia, un rapporto esclusivo, tanto da trattenerne la gestione anche dopo la sua repentina restituzione all’Arma; conseguentemente, ne manteneva pure in via esclusiva l’ impiego e la responsabilità. Dopo l’ omicidio dell’Ilardo, i dati e le confidenze raccolti e rassegnati dall’ufficiale furono sviluppati investigativamente dal Raggruppamento, e tradotti in un vasto quadro associativo ed all’operazione Grande Oriente. Pure di essa la Corte censura presunti ritardi e omissioni, sebbene le Procure di Caltanissetta e di Palermo, che dirigevano le indagini, non solo nulla abbiano mai eccepito, ma piuttosto apprezzato ed elogiato pubblicamente l’operato del Ros. Unica nota stonata fu la divulgazione mediatica che le stesse Autorità giudiziarie intesero gestire con separate conferenze stampa nelle sedi dell’Arma dei due capoluoghi distrettuali. Se quella della mancata cattura del Provenzano a Mezzojuso è quindi una leggenda, poiché, come anzidetto, per decisione del Riccio non era stato ipotizzato alcun intervento, ma semplicemente l’osservazione dell’ incontro preliminare dell’ Ilardo con i mafiosi che avrebbero dovuto accompagnarlo in un luogo diverso e sconosciuto, nel 1997 invece, del Provenzano fu realmente sfiorata la cattura tra l’autoscuola Primavera di Palermo e Belmonte Mezzagno, dove egli era custodito dall’allora capomandamento mafioso, Francesco Pastoia. Qualcuno, necessariamente interno alla filiera delle intercettazioni telefoniche, era riuscito tuttavia a metterlo in guardia tempestivamente, e i carabinieri non poterono fare altro che osservare dalle microtelecamere di sorveglianza (queste ultime applicate autonomamente e quindi non note ad altri), le operazioni di bonifica ambientale effettuate dai mafiosi. Da quel momento il Procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Caselli, procedette ad iscrizioni criptate dei soggetti intercettati, ma era troppo tardi; furono arrestati alcuni favoreggiatori, mentre i responsabili della provocata fuga non furono mai individuati. Fu tuttavia pazientemente ripreso e ricostruito, passo dopo passo, il percorso dei pizzini utilizzati per comunicare con il Provenzano dagli altri esponenti di cosa nostra. Da un’ enorme azienda agricola di Vittoria (Rg), mimetizzati dal trasporto di ortaggi, i messaggi raggiungevano la provincia di Caltanissetta, per poi proseguire verso Casteldaccia, Baucina, e infine giungere a Bagheria, storica roccaforte del latitante, dove il reggente della famiglia mafiosa, Monreale Onofrio, provvedeva alla consegna finale. La convergenza di indagini e di acquisizioni sulla stessa area, indusse a quel punto la Procura di Palermo (i Pm Pignatone e Prestipino) a procedere massicciamente e contestualmente sulla fitta rete di affiliati e di favoreggiatori, con gli arresti dell’operazione Grande Mandamento, condotta congiuntamente da Ros e Sco della Polizia di Stato, che costrinse il latitante a rifugiarsi nella masseria di Corleone, dove sarebbe stato infine arrestato. In quella circostanza, il Procuratore aggiunto di Palermo, dottor Pignatone, pur essendo stata la cattura opera della Polizia di Stato, sottolineò pubblicamente il fondamentale contributo del Ros ad un risultato conseguito per tappe successive, prosciugando progressivamente la rete di favoreggiamento e di supporto logistico; un metodo questo, adottato da tutte le Forze di Polizia e dalla Magistratura più esperta, per la ricerca dei latitanti di maggior spessore criminale. Solo chi legga queste procedure con le lenti colorate del pregiudizio, oppure sopperisca con la fervida fantasia alla minor competenza, può ritenere una quasi- finzione un lavoro estenuante ed irto di difficoltà, in cui ogni scelta operativa può peraltro apparire a posteriori meno indovinata e quindi soggetta a malevoli riletture. Ma, prima ancora dell’esclusione di ogni atteggiamento di favore nei confronti del Provenzano, sono i dati storici a escluderlo oggettivamente. Non solo infatti il medesimo, come anzidetto, era ignorato sino alla costituzioni del Cangemi, ma che egli rappresentasse un’ala più moderata dell’organizzazione è frutto di acquisizioni e di valutazioni di molto successive. È pertanto profondamente errata, sotto il profilo logico e giuridico, una lettura dei fatti basata su elementi inesistenti o comunque non disponibili all’epoca. E ciò senza scordare che le stragi non cessarono certo con la cattura di Riina, né consta che il Provenzano ad esse si sia opposto neppur successivamente. Se una spaccatura interna a cosa nostra allora era nota, si trattava di quella tra i corleonesi e i palermitani, conclusasi con la sconfitta di questi ultimi, meno feroci e determinati dei cosiddetti “viddani”. Ma che ve ne fosse un’altra interna ai corleonesi, ammesso che ciò sia esatto, avrebbe richiesto facoltà divinatorie che neppur gli abili ufficiali possedevano. In ogni caso, come anzidetto, l’azione del Ros fu costante e incondizionata, indipendentemente dalle presunte modifiche di strategia di cosa nostra (il cosiddetto inabissamento), dettate peraltro verosimilmente dalla considerazione che lo stragismo non era pagante. Questo posso ribadirlo per aver condiviso, quale comandante di Reparto dal 1993, vicecomandante e comandante del Ros dal 1997 al 2012, tutte le attività accennate, e per aver continuato a disporle con immutati criteri, anche dopo il trasferimento del Generale Mario Mori, avvenuto nel gennaio 1999. I tanti militari del Raggruppamento che hanno operato per questi risultati con totale dedizione e, soprattutto, senza remore o riserve di alcun genere, non meritano certo sospetti, ma solo rispetto e gratitudine. *Già comandante del ROS dei Carabinieri Torino. Si uccide in cella a 24 anni, l’ultima sconfitta del sistema carceri di Irene Famà La Stampa, 17 agosto 2022 Cartabia: un’estate drammatica, lavoriamo per migliorare la situazione. “Come sta mamma? Sono dispiaciuto per quello che ho fatto, per aver deluso i miei genitori”. No, queste non sono le parole che un bandito rivolge a un giudice. E infatti Alessandro Gaffoglio non lo era. Ventiquattro anni e un’infanzia complessa, affetto da disturbi psichici, talvolta faceva uso di droghe. Il 2 agosto, a Torino, coltello alla mano, ha rapinato due supermercati. La polizia l’ha arrestato ed è finito davanti al giudice per la convalida del fermo. Il primo arresto, il primo giorno in carcere. Una misura cautelare, non una condanna. In cella Alessandro ha resistito due settimane, poi si è tolto la vita soffocandosi con un sacchetto di nylon. Alessandro Gaffoglio non era un bandito, era una ragazzo fragile. Come Donatella Hodo, di tre anni più grande, che nella sua cella a Moriondo, nel veronese, il 2 agosto si è uccisa inalando del gas da un fornelletto. Lottava contro la dipendenza da stupefacenti, usciva ed entrava dal carcere di continuo. Piccoli furti, i suoi. Come quelli di Alessandro. Difficoltà che la detenzione ha acuito, solitudini che ha reso insostenibili, paure e fragilità che non hanno lasciato scampo. Dalle loro celle, quei due ragazzi non hanno visto possibilità di riscatto, ma solo fallimento. “È un’estate davvero drammatica” dice la ministra della Giustizia Marta Cartabia, dati alla mano: cinquantadue suicidi da inizio anno nelle carceri italiane, nove nei primi quindici giorni di agosto. “Il ministero, l’amministrazione penitenziaria stanno facendo molto per migliorare complessivamente la qualità di vita e di lavoro nei nostri istituti, ma il dramma dei suicidi riguarda tutti”. Le carceri sono sovraffollate, d’estate non ci sono attività, il supporto psicologico non basta. Come sottolinea Cosima Buccoliero, la direttrice del carcere Lorusso e Cutugno di Torino: “Si interviene sulle situazioni in cui si crea allarme, quelle evidenti. Le altre non si riesce a individuarle”. E la richiesta di cambiamenti del sistema carcercario arriva da più voci, dal sindacao Osapp della polizia penitenziaria, dai garanti dei detenuti. Alessandro Gaffoglio era nato in Brasile. Poi era stato adottato e in Italia, a Torino, studiava. E lavorava. Lavoretti qua e là, come un periodo in uno dei tanti girarrosti. “Solare, dolce, attento alla famiglia”. Chi lo conosceva, lo descrive così: “Proprio la persona che speri non faccia quella fine. Doveva essere aiutato”. Aiutato ad affrontare la dipendenza dagli stupefacenti, che l’ha spinto, così pare, ad assaltare due supermercati e a tentare la fuga con un bottino intorno a un migliaio di euro. E forse, questo il sospetto degli inquirenti, a compiere altre rapine nei mesi scorsi. Seguito e monitorato per quei disturbi pischici. Entrato in carcere, è stato inserito nel cosiddetto “Sestantino”, l’area nella sezione dei “Nuovi giunti” per chi ha problemi psichiatrici. Poi è stato trasferito, sempre sotto osservazione, in un altro padiglione. “Stiamo cercando di capire come sono andati i fatti”, dichiara l’avvocata Laura Spadaro. La procura ha aperto un’inchiesta: al momento non ci sono indagati né ipotesi di reato. È stato sequestrato il fascicolo che riguarda Alessandro Gaffoglio, si cerca di capire se il ventiquattrenne è stato seguito e monitorato adeguatamente. L’indagine torinese riguarda Alessandro. A Verona si riflette sul suicidio di Donatella. Volti e storie differenti, simbolo, entrambi, della sconfitta di un sistema. Torino. Suicida dopo 13 giorni in cella: “In estate il carcere è molto più duro” di Irene Famà La Stampa, 17 agosto 2022 Aperto un fascicolo in Procura per verificare se il 24enne è stato monitorato in maniera adeguata. Quale speranza dietro le sbarre? Se di speranza si può parlare, Alessandro Gaffoglio non l’ha vista. In cella ha trascorso 13 giorni. Forse da quelle piccole finestre un pezzo di cielo si intravede. Ma per lui, 24 anni, non era abbastanza per credere nel futuro. Al contrario. Così si è soffocato con un sacchetto di nylon. In sei mesi, due detenuti si sono tolti la vita nel penitenziario di Torino. Nove i suicidi negli ultimi quindici giorni nelle carceri italiane. Mancanza di prospettiva. Ecco qualcosa che inasprisce la pena, che rende il carcere più difficile da affrontare, che vanifica il concetto e il tentativo di reinserimento nella società. La direttrice del carcere Lorusso e Cutugno lo spiega senza giri di parole: “Il periodo estivo è tra i più complessi da affrontare”. Perché? C’è la questione strutturale: il sovraffollamento, con 310 presenze in più rispetto alla capienza prevista di circa mille persone, gli spazi piccoli, la poca libertà di movimento. “Le condizioni di vita si fanno proibitive”. E poi “la scarsità di risorse per la detenzione alternativa. Ad agosto le attività scolastiche e quelle promosse dalle cooperative si interrompono”. Arriva l’ozio imposto, che dietro le sbarre significa completo annientamento. Ci sono i veterani della detenzione, criminali per cui la “galera”, così la chiamano, è quotidianità. Se non motivo di vanto. E poi ci sono i fragili, giovani in carcere per la prima volta. “Si tratta del 13% - sottolinea la garante dei detenuti Monica Gallo - Ragazzi tra i 19 e i 24 anni, che non riescono ad adattarsi”. Com’era Alessandro Gaffoglio. Ci sono giovani che, una volta arrestati, “trascorrono le prime 24 - 48 ore in carcere in preda a un disagio tale che gli agenti penitenziari devono tenere loro compagnia”. D’estate la situazione peggiora. “Il carcere cade in un silenzio disarmante - descrive Monica Gallo - Spaventa noi che quel posto lo conosciamo bene, si figuri i ragazzi così giovani”. Servirebbero spazi più ampi, ma sezioni più piccole e più attive. E ancora. Un incremento del supporto psicologico. E tempi più celeri per quanto riguarda le misure cautelari. Alessandro Gaffoglio, assistito dall’avvocata Laura Spadaro, non stava scontando una pena definitiva, non aveva nemmeno ancora affrontato un processo: il giudice aveva convalidato il fermo dopo l’arresto per rapina in due supermercati di San Salvario in attesa di capire come procedere. In attesa, così sembra, di inserirlo in una comunità. “Un suicidio è un fallimento di tutti”. La garante dei detenuti Monica Gallo è netta. “Non è solo responsabilità del carcere”, dice. Invita a una “riflessione” per arrivare “ad una radicale modifica delle prassi”. E chiama in causa tutti: dall’amministrazione penitenziaria alla politica. Cambiamenti li chiede anche l’Osapp, il sindacato della polizia penitenziaria. “Il numero dei suicidi e dei tentati suicidi nelle carceri è allarmante - dice il segretario generale Leo Beneduci - E testimonia il grave dissesto del sistema, il fallimento dell’attuale politica penitenziaria”. La procura ha aperto un fascicolo, senza indagati né ipotesi di reato. Si cerca di chiarire se il Alessandro Gaffoglio è stato seguito adeguatamente. Non era un criminale: era un ragazzo difficile e in difficoltà. Modena. “Detenuti picchiati e sanguinanti”, parla l’agente della Polizia penitenziaria di Nello Trocchia Il Domani, 17 agosto 2022 “Quel giorno i detenuti sono stati picchiati, chi di noi non voleva partecipare restava fuori dal casermone”, rileva un agente della Polizia penitenziaria a Domani parlando del più grande scandalo della storia carceraria italiana. Sequestri di persona, violenze, saccheggi e nove morti, includendo il decesso di un altro recluso dopo il trasferimento. Questo è successo nel carcere di Modena, l’8 marzo 2020. Considerando il numero di detenuti che hanno perso la vita, la distruzione del carcere, le botte nel casermone che sarebbero state inferte ai detenuti, denunciate dai reclusi e non solo, si tratta di una pagina nera della nostra Repubblica, la più grave avvenuta dietro le sbarre. Verità nascoste - Ma se non si fa luce su quelle ore, se non si recuperano le immagini, i video, se non si mettono in discussione anche i (pochi?) elementi fin qui emersi, ci dovremo accontentare di una verità addomesticata, di una ricostruzione rabberciata. Chi scrive ha parlato per la prima volta con alcuni agenti della polizia penitenziaria, con dirigenti della prigione modenese, con ex detenuti per ricostruire ogni passaggio della vicenda. Si parte da un’evidenza: nonostante una gestione disastrosa del caso, tutti i funzionari sono rimasti al loro posto. In assenza di video delle barbarie, non ci sono finora state reazioni (nell’opinione pubblica e nella politica) come invece accaduto per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Dove si è consumato un pestaggio di stato, ma nulla era accaduto prima della pubblicazione delle immagini da parte di Domani. All’inizio della pandemia da Covid-19, gli istituti di pena italiani diventano luoghi di rivolta e scontro per l’assenza di mascherine, e a causa della paura del contagio. Nel carcere di Modena, per protestare, decine di detenuti distruggono le celle e gli uffici: gli agenti penitenziari entrano a riprendere il controllo dell’istituto a tarda sera, quando ormai è troppo tardi. La procura della città emiliana apre tre fascicoli di indagine. Il primo serve ad accertare i danni e le devastazioni compiute dai detenuti, un’inchiesta ancora in corso. Un altro fascicolo si è occupato di approfondire le cause della morte di nove reclusi (overdose di metadone) ed è stato archiviato, nonostante l’opposizione degli avvocati Simona Filippi e Luca Sebastiani, che hanno aperto un fronte europeo facendo ricorso alla Corte internazionale dei diritti dell’uomo. Indagini giudiziarie che si sono appoggiate sulle relazioni del comandante del carcere. L’ultimo fascicolo si occupa delle violenze che i poliziotti penitenziari avrebbero compiuto durante e dopo la rivolta a Modena, ma anche nel carcere di Ascoli dove alcuni reclusi vengono trasferiti proprio la sera dell’8 marzo 2020. L’abbrivio di questo filone è un esposto presentato dai detenuti che sono stati sentiti come persone informate sui fatti. Durante i colloqui con i magistrati modenesi, i detenuti riconoscono diversi agenti consultando un album fotografico che gli inquirenti gli sottopongono durante un colloquio. Testimonianze che potrebbero allargarsi per un’inchiesta che ha ottenuto già due proroghe senza che sia stato ancora emesso l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, preludio alla possibile richiesta di rinvio a giudizio. L’agente testimone - Delle violenze di quel drammatico giorno fino ad adesso avevano riferito solo i detenuti, parlando di pugni e calci ricevuti dentro al casermone, una struttura esterna al carcere, ma all’intero del perimetro dell’istituto. Pestaggi che sarebbero avvenuti prima dei trasferimenti in altri istituti. Ma quel pomeriggio di orrori, sommosse e violenze, era presente un agente. Un poliziotto ancora in servizio, ma che rompe il silenzio su quella giornata. “Alcuni detenuti mentono, altri invece no. All’interno dell’istituto quando siamo entrati, forse troppo tardi, abbiamo usato la forza per reagire a chi opponeva resistenza o brandiva strumenti di offesa. Ma bisogna ammettere che una volta portati fuori alcuni carcerati, resi precedentemente inoffensivi, sono stati picchiati da alcuni colleghi”, dice il testimone. L’agente non era nel casermone perché non aveva intenzione come altri colleghi di farsi giustizia da sé. Le sue parole potrebbero essere frutto di un livore nei confronti dell’amministrazione, ma collimano con quelle dei detenuti denuncianti. “Io non ho visto direttamente con miei occhi quello che è accaduto, ma non c’era bisogno: vedevo i detenuti entrare in un modo e poi li vedevo uscire sanguinanti. Chi era d’accordo all’azione punitiva entrava e partecipava al pestaggio, chi non voleva si limitava a stare fuori dalla stanza senza partecipare”, aggiunge. L’agente ripensa a quei momenti, ai reclusi imbottiti di metadone e a quelli non salvati in tempo, ai corpi dei detenuti morti perché uccisi da abbandono e dipendenze. Si inclina la voce. “Non ci siamo arruolati per questo, non siamo tutti uguali a quelli di Santa Maria Capua Vetere, l’8 marzo si faceva fatica a mettere le coperte sui morti perché sembrava un cedimento emotivo. Si era creato un clima da guerra, l’umanità si è persa quel giorno”, aggiunge. L’indagine della magistratura che procede a rilento vede tra gli indagati, a vario titolo per tortura e lesioni aggravate, cinque persone, e tra queste c’è un funzionario della catena di comando. Gli indagati - Si tratta di Giobbe Liccardi, commissario e componente della segreteria provinciale modenese del Sappe. Prima ne era stato segretario provinciale. Il sindacato, al quale è iscritto anche Pellegrino, quando Domani ha rivelato i nomi degli indagati, non ha voluto commentare e non ha sospeso l’iscritto. Neanche il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha provveduto alla sospensione o trasferimento dei poliziotti penitenziari indagati in attesa dell’esito dell’indagine giudiziaria. Gli altri coinvolti sono Antonio Mautone, Giancarlo Inguì, Paola Tammaro e Maria Rosaria Musci. Tutti gli interessati respingono ogni addebito e sono certi di dimostrare la loro estraneità. Su quelle ore bisogna ricostruire adesso ogni passaggio, l’esistenza o meno delle immagini delle telecamere di sicurezza, le ragioni delle parti, le scelte dei vertici e della catena di comando a tutela dei detenuti, dei familiari di chi è morto, ma anche della stessa polizia penitenziaria. Perché il più grande scandalo carcerario della storia repubblicana, che ha lasciato a terra nove vite, merita una verità piena, non risposte parziali e rabberciate. Soprattutto dopo la confessione del primo poliziotto che ha deciso di raccontare la sua versione dei fatti. Firenze. Nardella su Sollicciano: “Condizioni disumane, molto meglio abbatterlo” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 17 agosto 2022 Il sindaco dopo la visita nel carcere: “Abbiamo chiesto un intervento d’urgenza”. “I detenuti mi hanno fatto vedere i loro corpi mangiati dalle cimici, dalle blatte. È una condizione disumana”. È il commento, dopo la visita al carcere di Sollicciano, del sindaco Dario Nardella. Che aggiunge: i soldi stanziati per recuperarlo? “Ho il dubbio che siano buttati via. Forse conviene ricostruire da zero”. “Vi prego sindaco, fateci lavorare, sfruttateci pure, ma fateci fare qualcosa, impazziamo a stare 24 ore al giorno chiusi qui dentro”. Il grido di dolore di Sollicciano arriva dalla voce di un detenuto che, guardando negli occhi il sindaco Dario Nardella nel corso della sua visita al penitenziario, gli ha espresso tutta la sofferenza della popolazione carceraria, che ha pochissime possibilità di lavoro e, quindi, di reinserimento una volta fuori. Una visita, quella di ieri mattina, che ha sconvolto Nardella: “La situazione — ha detto — è grave e insoddisfacente dal punto di vista strutturale, funzionale, ci sono molti problemi, a partire da quelli igienico-sanitari, i detenuti mi hanno fatto vedere i loro corpi mangiati dalle cimici, dalle blatte, la situazione è grave anche per chi qui dentro ci lavora. La situazione sanitaria è inaccettabile, la pena non può essere che stai in una cella con i topi, è contro i diritti dei detenuti, è una condizione disumana”. Doveva essere una visita lampo di un’ora, un incontro con alcuni rappresentanti dei detenuti e con gli agenti di polizia penitenziaria, insieme al garante nazionale dei detenuti Mario Palma e al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini. Invece il sindaco, incitato dal cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo, è entrato nella sezione transito, una delle più critiche. Ed è rimasto sconcertato dalle condizioni, ha visto alcuni detenuti urlare per la sofferenza mentale, ha visto alcuni reclusi con i tagli sugli avambracci per l’autolesionismo ripetuto, ha visto le condizioni di sporcizia in cui versano le celle, ha visto le infiltrazioni provocate dal temporale della scorsa notte. E dopo lo stanziamento degli 11 milioni da parte del ministero della giustizia lo scorso gennaio, è tornato a porsi lo stesso quesito: “Ringrazio il ministero per i fondi stanziati, ma ho il dubbio che questi soldi non siano buttati via e non sia invece più conveniente ricostruire da zero questa struttura”. Per questo, ha aggiunto Nardella, abbiamo chiesto “un fascicolo straordinario di emergenza” su Sollicciano e “abbiamo chiesto al ministero l’avvio di uno studio tecnico su quale sia la soluzione strutturale migliore, i tecnici sono già lavoro e presto avremo risposte”. Ed è proprio la ricostruzione di un nuovo carcere l’idea che convince anche il cappellano don Russo: “Sono per la demolizione di questo carcere perché la struttura non è più funzionale”. E così anche il vicepresidente del Csm Ermini: “Il problema strutturale è quello principale, pertanto bisogna capire se continuare a spendere soldi su Sollicciano o pensare altre soluzioni”. E poi, non ultima, la questione lavoro: “Vogliamo accelerare la procedura che poterà entro il 2023 alla realizzazione di un capannone di pelletteria dove i detenuti possono imparare un mestiere, la pelletteria è l’attività più idonea per il distretto economico della moda, che può essere realizzato in sinergia con le aziende del territorio”. Bologna. La Dozza ribolle, a fuoco l’auto del vice-capo della Penitenziaria di Roberto Russo Corriere di Bologna, 17 agosto 2022 Un incendio doloso, quasi certamente un attentato. L’auto del vice comandante del carcere della Dozza Paolo Limerzi, è stata incenerita nella notte tra domenica e lunedì di ferragosto, verso le 22,40 quando si sono sprigionate le fiamme. La Uil lancia l’allarme: “Clima pesante, agenti nel mirino”. Un incendio doloso, quasi certamente un attentato. L’auto del vice comandante del carcere della Dozza Paolo Limerzi, è stata incenerita nella notte tra domenica e lunedì di ferragosto, verso le 22,40 quando si sono sprigionate le fiamme. L’auto era parcheggiata sotto casa di Limerzi, non lontano dal penitenziario. “Non ho mai subito minacce” ha spiegato lui ai carabinieri, ma gli investigatori sono convinti che si sia trattato di un gesto dimostrativo e intimidatorio nei confronti del corpo degli agenti penitenziari. C’è chi mette in relazione l’incendio con la perquisizione che il 3 giugno scorso portò alla scoperta e al sequestro di 9 telefoni cellulari, di dimensioni “mini”, alcuni nascosti all’interno di sacchi di farina e destinati alla sezione Alta sicurezza, dove sono rinchiusi tra l’altro esponenti della Ndrangheta. Nel carcere venne trovata anche droga. In quell’occasione fu arrestato l’impiegato di una ditta esterna, accusato di aver introdotto i piccoli smartphone tra le sbarre. Non era certo il primo episodio del genere. Il 9 ottobre 2021 venne fermato un uomo arrivato dall’estero appositamente per introdurre alla Dozza cellulari e sim utilizzando addirittura un drone. L’uomo, un albanese di 30 anni, era pedinato da settimane, e venne fermato dalla Squadra Mobile di Bologna poco prima che riuscisse nell’impresa. Il 9 luglio scorso la vicesegretaria del Sinappe-penitenziaria, Anna La Marca, denunciò che addirittura una avvocatessa aveva tentato di entrare con alcuni microtelefonini. Domenico Maldarizzi lavora alla Dozza ed è segretario nazionale Uil-pa polizia penitenziaria. E parla di “situazione preoccupante”. Segretario, l’auto incendiata al vice comandante, come se lo spiega? “È sicuramente un segnale molto grave, un gesto compiuto da qualcuno che si sente intoccabile e vuole intimorire noi che lavoriamo lì dentro. Ovviamente senza riuscirci, ma è innegabile che il clima sia pesante. Abbiamo problemi di ogni tipo alla Dozza”. Per esempio? “Innanzitutto il sovraffollamento, in media arriviamo a 770 detenuti per un carcere che dovrebbe contenerne non più di 458. C’è pure una situazione di grande abbandono di molti detenuti con gravi patologie psichiatriche, oppure tossicodipendenti. L’assistenza sanitaria è sotto dimensionata, non facciamo altro che trasportare in ospedale i casi più difficili anche sotto il profilo psichiatrico. Insomma, è un caos”. Però è difficile pensare che chi ha incendiato l’auto del vice comandante fosse un semplice tossicodipendente. Nel carcere c’è una sezione ad alta sicurezza con esponenti legati alle cosche. E l’attentato arriva a distanza di qualche mese dal sequestro dei microtelefonini... “Esiste la sezione ad alta sicurezza ma non abbiamo esponenti al 41 bis che, come è noto, sono reclusi a Parma. Tuttavia la preoccupazione tra noi c’è. Siamo pochi per fronteggiare la complessa situazione della Dozza, mancano almeno cento agenti. Ogni giorno andiamo al lavoro e non sappiamo cosa ci accadrà. Intanto aumentano gli episodi di autolesionismo tra i detenuti, ma anche le risse. Molti reclusi sono legati al mondo della droga e parecchi sono immigrati nord-africani. Facciamo del nostro meglio per fronteggiare la situazione, ma siamo seduti su una pentola a pressione”. Avete chiesto rinforzi? “Innumerevoli volte. Il problema riguarda sempre il mondo politico. La realtà carceraria non porta voti e resta ai margini dei programmi dei partiti. Noi siamo stanchi di passerelle, vorremmo impegni concreti per migliorare il nostro ambiente di lavoro, ma anche la vita dei reclusi”. Lei ha detto che è in ferie, tornerà al lavoro lunedì 22 agosto. Ha paura? “No, nessuno di noi agenti penitenziari può avere paura. Ma sono molto, molto preoccupato, questo sì”. Piacenza. “Il Comune nomini il Garante dei detenuti alle Novate” Libertà, 17 agosto 2022 Il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, ha visitato gli istituti penitenziari di Parma, Reggio Emilia e Piacenza. In particolare, le semisezioni e il centro clinico del reparto 41 bis a Parma, le sezioni transessuali, donne e uomini sia circondariale che reclusione a Reggio Emilia e il reparto donne, uomini sex offenders e di osservazione psichiatria a Piacenza. Cavalieri, dopo aver rilevato che nel corso del periodo estivo nelle carceri “si assiste a un incremento degli eventi critici, anche gravi come il recente suicidio di un recluso di 37 anni nell’istituto riminese”, ha spiegato che nel contesto generale “pesano anche criticità in ambito sanitario, con molti detenuti che lamentano lungaggini nell’erogazione delle prestazioni”. In particolare, ha sottolineato, “le detenute della sezione femminile di Piacenza lamentano la sospensione dell’erogazione dei farmaci prescritti dagli stessi sanitari della struttura (ad eccezione di quelli salvavita)”. Su quest’ultimo tema il Garante si è quindi impegnato “a ricercare un confronto con i dirigenti dell’assessorato regionale”. Cavalieri ha indirizzato un invito alle amministrazioni locali di Piacenza e Parma per “una pronta nomina dei locali garanti dei detenuti (assenti da febbraio a Parma e da giugno a Piacenza)”. Per quanto riguarda la situazione interna alle case circondariali, ha evidenziato come “nei tre istituti si trovino complessivamente 1.374 detenuti di cui 625 stranieri e 28 donne, per Parma e Reggio Emilia si registra un sovraffollamento nell’ordine del 10 per cento”. Una situazione, che “non sempre consente alle amministrazioni penitenziare, nonostante l’impegno degli operatori attivi nelle strutture (a partire dal personale della polizia penitenziaria e dagli educatori), di garantire servizi adeguati alle esigenze del periodo, anche per le condizioni di estrema povertà in cui versano molti detenuti (come per numerosi senza fissa dimora e stranieri)”. Droghe e politica. L’estinzione dello “spazio civico” di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 17 agosto 2022 Nel campo delle droghe, ciò che in Italia di fatto funziona è un lobbismo opaco, episodico, disordinato, da cui il movimento di riforma è sostanzialmente escluso, in primis per attitudine culturale. Fanno eccezione poche sedi che, tranne rari casi virtuosi, sono però tavoli che includono il terzo settore nella sua veste ‘tecnica’ di provider di servizi. Come movimento che lotta per una profonda inversione di tendenza delle attuali politiche sulle droghe, da tempo facciamo i conti con l’estrema difficoltà di mettere il tema all’interno dell’agenda politica, e più ancora di farlo aprendo un discorso in cui esperienza e conoscenza siano riconosciute e abbiano un qualche ruolo. Non è una questione di carenza di attivismo: gli ultimi anni hanno visto il movimento più che mai vivo e produttivo. Ma condividiamo con tanti altri movimenti sociali il tema, epocale, della crisi del rapporto con la politica istituzionale, insieme a quello, a sua volta politico e non ‘tecnico’, del rapporto tra politica e sapere, conoscenza, ricerca. Nel campo delle droghe, ciò che in Italia di fatto funziona è un lobbismo opaco, episodico, disordinato, da cui il movimento di riforma è sostanzialmente escluso, in primis per attitudine culturale. Fanno eccezione poche sedi che, tranne rari casi virtuosi, sono però tavoli che includono il terzo settore nella sua veste ‘tecnica’ di provider di servizi. Che sono importanti, ma non è questa la giusta definizione di società civile, come ci ricorda il ‘Libro Verde sul ruolo della società civile nella politica in materia di droga’ della UE (2006), che dà la definizione ampia di società civile come vita associativa che si esercita nello spazio tra lo Stato e il mercato, incluse le iniziative individuali, e le attività delle organizzazioni non governative, di volontariato e comunitarie. Il Csfd - Civil Society Forum on Drugs - che tra il 2021 e il 2022 ha prodotto sia una ricerca sullo stato della partecipazione della società civile europea ai processi decisionali, sia la elaborazione di quality standard della partecipazione, precisa che si parla prima di tutto dei protagonisti e delle loro organizzazioni (persone che usano droghe, utenti dei servizi, con attenzione a specificità quali genere, etnia ecc); ricercatori ed esperti; operatori; associazioni per i diritti; associazioni non governative, realtà comunitarie. Secondariamente, in accordo con la Strategia EU sulle droghe, le realtà sociali partecipano a tutto il processo politico-decisionale: disegno, attuazione, monitoraggio e valutazione. Dunque, sia sotto il profilo degli attori che di quello delle aree di competenza, non è grazie a un tavolo tecnico sull’accreditamento che si risponde alla domanda partecipativa. Il Csfd affronta anche il tema del processo: indicatori come trasparenza, equilibrio, accessibilità, pubblicità di procedure e esiti ci ricordano come in Italia siamo al punto zero. Anche se il nodo è politico (il Parlamento europeo pochi mesi fa ha lanciato un allarme sul progressivo restringimento dello spazio civico), e non si risolve con una ingegneria burocratica della partecipazione, quello di un processo stabile e trasparente nella relazione con i decisori è un terreno che non va abbandonato. È dal 2008 (Consulta e comitato scientifico, ministro Paolo Ferrero) che non c’è una sede di confronto e co-programmazione. Ha rotto questa continuità negativa il processo costruito per la VI Conferenza nazionale, pieno di limiti quanto si vuole, ma capace, proprio grazie a una forte presenza sociale e professionale, di mettere in agenda prospettive e proposte altrimenti impensabili. Ma è stato un episodio, non l’esordio di un sistema, che l’orizzonte politico attuale rischia di destinare a morte certa. Dobbiamo essere capaci di rilanciare: ministeri, conferenza delle regioni, comuni, Dpa (dov’è finito l’impegno previsto all’art. 6 del Dpcm del 2018 per la selezione “secondo criteri oggettivi e trasparenti” delle associazioni consulenti dell’Osservatorio del Dipartimento Politiche Antidroga?), devono negoziare con la società civile sedi stabili, trasparenti, accessibili e con compiti espliciti. La documentazione citata è su fuoriluogo.it *L’autore fa parte del Forum Droghe L’attacco a Rushdie: odio, sangue e la libertà di inventare di Etgar Keret Corriere della Sera, 17 agosto 2022 L’arte non è più la città rifugio, sganciata da ogni vincolo, e si trasforma in un campo di battaglia dove gli artisti rischiano di ritrovare sé stessi, o la loro opera, grondanti sangue. Ho conosciuto Salman Rushdie soprattutto attraverso i suoi romanzi. Dopo la pubblicazione de I versi satanici, il libro che aveva scatenato la fatwa contro di lui, ero rimasto sorpreso nel constatare quanti organi di informazione avevano cominciato a definire “coraggiosa” la straordinaria scrittura di Rushdie. Non ho mai condiviso l’idea che la letteratura possa essere coraggiosa. Ogni volta che mi accingo a scrivere, accedo all’ambito dell’immaginazione, e persino quando escogito trame provocatorie o rischiose, non entra mai in ballo il concetto di coraggio, perché altro non faccio che raccontare una storia mai accaduta, in un mondo di personaggi inventati, in un libro che sfoggia il termine “finzione” sin dalla copertina. Ma chiedere al tizio seduto davanti a me nel cinema di smettere di chiacchierare al telefono nel bel mezzo di una proiezione? Quella sì che è una storia diversa, da far venire la pelle d’oca. Grande talento - Venerdì sera, quando ho appreso la notizia che Rushdie era stato accoltellato, il mio dispiacere è stato duplice: da una parte, il dolore per le gravi ferite inflitte a uno scrittore di grandissimo talento, di cui conoscevo la mente e l’immaginazione attraverso i suoi scritti; e dall’altra, la tristezza per il mondo in cui viviamo, un mondo in cui si va rapidamente sgretolando quell’immunità diplomatica che dev’essere garantita ad ogni ambasciatore creativo del regno dell’immaginazione, che fino a quel momento avevo dato per scontata. Quando le facoltà letterarie si rifiutano di insegnare Lolita, o cancellano le conferenze su Dostoevskij a motivo dell’invasione russa in Ucraina, o quando i vincitori di premi Oscar non sanno trattenersi dal prendere a ceffoni un comico in diretta televisiva, e giornalisti e caricaturisti vengono uccisi per aver pubblicato un pensiero o una battuta che offende i lettori, ciò vuol dire che il mondo è diventato un luogo pericoloso tanto per gli artisti che per l’arte stessa. È una strada a doppio senso: uno scrittore viene accoltellato a causa di idee e fantasie espresse in un’opera di finzione letteraria, mentre la condotta problematica di un artista creativo in campo religioso, morale o politico viene punita attraverso il boicottaggio di una forma d’arte che non nuoce a nessuno. E, a differenza del passato, quando era sanzionata dai regimi totalitari e dai movimenti religiosi, oggi la libertà artistica si ritrova sotto attacco da tutti i fronti, compresa la comunità liberale, che si affretta a vigilare sull’arte attraverso il boicottaggio e l’umiliazione. In una simile realtà, nessun creatore, nessuna creazione artistica ne esce indenne. L’arte non è più la città rifugio, sganciata da ogni vincolo di pragmatismo o interesse di parte, e si trasforma invece in un campo di battaglia dove gli artisti, nell’esprimere idee che potrebbero suscitare l’indignazione di qualcuno, rischiano di ritrovare sé stessi, o la loro opera, grondanti sangue. Il ricordo dell’Olocausto - Devo ammetterlo, sono una persona ansiosa. Potrei dire tante altre cose su di me: che trovo difficile rilassarmi, che sono un po’ vigliacco, e anche leggermente paranoico — diciamo che “ansioso” è il termine più educato, e non siamo qui per scagliare insulti. La verità è che ho le mie buone ragioni per essere ansioso: due genitori sopravvissuti all’Olocausto, pronti ad ammonirmi che il mondo potrebbe rivoltarmisi contro da un momento all’altro; una tipica infanzia israeliana, piena zeppa di armi e terrorismo; tre anni di servizio militare obbligatorio, quanto di più deprimente si possa immaginare. Tutte queste cose mi hanno insegnato che il mondo può essere un luogo crudele e violento, e di conseguenza faccio di tutto per procedere con cautela. Dovunque io mi trovi — al bar, dal calzolaio, su un treno — sono sempre all’erta, sempre a scrutare il mio prossimo, sempre alla ricerca dell’uscita, a tutela della mia sicurezza. Non si sa mai quello che potrebbe accadere. Le conferenze - Ma il solo luogo dove mi sento abbastanza sicuro per abbassare le mie difese è proprio, guarda caso, sul palco durante le mie conferenze, e quando scrivo. Non è una decisione razionale, quanto piuttosto una voce interna rassicurante che mi dice: “La vita è piena di pericoli, strade, virus, relazioni. Ognuna di queste cose potrebbe scoppiarti tra le mani da un momento all’altro. Ma oggi sei fortunato, ti trovi in una città rifugio: questo palco è un porto sicuro, protetto dai muri invalicabili dell’immaginazione e delle emozioni. Un luogo che ti offre una panoramica spettacolare sulla vita, eppure rimane al di fuori della sua giurisdizione. Un luogo dove puoi pensare, scrivere e condividere i tuoi timori e i tuoi desideri con tutti coloro che vorranno riunirsi attorno a te per ascoltarti”. Non passa giorno che non provi gratitudine per l’esistenza di questi luoghi. Perché se, mettiamo, dovessi confessare al preside della mia facoltà un sogno ricorrente nel quale vado a caccia di cuccioli di koala azzoppati per poi divorarli, ecco che rischio di pregiudicare le mie possibilità di un rinnovo contrattuale. E se dovessi rivelare questo sogno al mio amico vegano, la cosa potrebbe finire con un rimbrotto o uno schiaffo. Ma se racconto quel sogno in una storia o lo rivelo su un palco, so già che non ci saranno conseguenze. Perché il palco, come le parole che scrivo quando compongo una storia, non fa parte del nostro mondo, ma rappresenta una zona cuscinetto tra il mondo reale, fisico, pragmatico e legalistico, e il regno dell’immaginazione. E all’interno di questa terra di nessuno che separa la realtà dall’invenzione, non esistono leggi, non esistono profitti né perdite, ma solo libertà. Preghiere per Rushdie - Se credessi in Dio, pregherei per la pronta guarigione di Salman Rushdie. A dire il vero, anche senza essere un uomo di fede, mi ritrovo a pregare per lui senza sosta, nella speranza che nel giro di qualche giorno mi venga recapitata una nuova newsletter di Rushdie dall’eccellente piattaforma Substack. Mentre prego per la sua guarigione, non posso fare a meno di aggiungere un’altra supplica agnostica: la preghiera per un mondo dove le pagine dei libri, i cinema e i palcoscenici dei teatri possano ridiventare i luoghi in cui è lecito, in tutta tranquillità e sicurezza, pensare, immaginare e scrivere dei nostri timori e debolezze, attraverso storie irrequiete, ambigue, strane e inquietanti. Sì, strane e inquietanti. Perché, in fin dei conti, anche dopo aver letto qualcosa che ci fa andare su tutte le furie, o che ci lascia sgomenti, o scuote la nostra visione del mondo, sappiamo che non è realmente accaduto. È solo una storia. Gran Bretagna. Assange fa causa alla Cia: “Intercettate le conversazioni con i miei avvocati” di Enrico Franceschini La Repubblica, 17 agosto 2022 Il fondatore di Wikileaks denuncia che sarebbe stata violata la protezione della privacy fornita dalla Costituzione degli Stati Uniti. Gli avvocati di Julian Assange hanno fatto causa alla Central Intelligence Agency, sostenendo che l’agenzia di spionaggio americana ha intercettato le conversazioni private tra il fondatore di Wikileaks e i suoi difensori, violando la protezione della privacy fornita dalla Costituzione degli Stati Uniti. Le intercettazioni sarebbero avvenute nei confronti di almeno due legali di Assange che hanno cittadinanza americana e di due giornalisti, anch’essi di nazionalità Usa, dunque tutti coperti dalla protezione della riservatezza delle conversazioni stabilita dalla carta costituzionale degli Stati Uniti. In quanto australiano, viceversa, Assange non è protetto dal medesimo principio. Presentata davanti a un tribunale di New York, la causa sostiene che la Cia collaborò a tale fine con una società privata di investigazioni, la Undercover Global, che aveva un contratto con l’ambasciata londinese dell’Ecuador, dove Assange si rifugiò nel 2012 per sfuggire a una estradizione in Svezia, in cui era indagato per abusi sessuali. Assange rimase nell’ambasciata per sette anni, fino a quando il governo ecuadoregno gli ha tolto l’asilo politico e lo ha espulso dalla propria sede diplomatica, provocandone l’arresto non appena il fondatore di Wikileaks è uscito dall’edificio. L’indagine della magistratura svedese per abusi sessuali si è poi chiusa senza incriminazioni, ma Assange è stato dapprima condannato a un anno di carcere in Gran Bretagna per violazione della libertà provvisoria e poi ha affrontato sempre a Londra un processo per l’estradizione negli Usa, dove era stato incriminato per violazione di segreti di Stato e spionaggio in relazione alla pubblicazione nel 2010 su Wikileaks di documenti riservati sulla guerra in Afghanistan e in Iraq, un’accusa che comporta una sentenza fino a 175 anni di carcere. La sua difesa è sempre stata che quelle pubblicazioni erano protette dalla liberà di stampa, in quanto rivelavano abusi commessi da militari americani nel corso dei due conflitti. Dopo verdetti contrastanti, la Corte d’Appello e la Corte Suprema britanniche hanno stabilito che Assange può essere estradato in America. Al suo trasferimento manca solo l’autorizzazione finale da parte del Ministero degli Interni britannico. Ora la causa intentata negli Stati Uniti dai suoi avvocati potrebbe teoricamente bloccare il provvedimento. I legali hanno denunciato per violazione della privacy la Cia e Mike Pompeo, all’epoca di direttore dello spionaggio americano e in seguito segretario di Stato. “Il diritto di Assange a un equo processo è stato contaminato, se non distrutto” dalle intercettazioni, afferma Robert Boyle, un avvocato americano che lo rappresenta nella causa alla Cia. “Dovrebbe esserci una pena, fino al ritiro delle accuse (di violazione di segreti di Stato, ndr.) o al ritiro della richiesta di estradizione negli Usa”, ha dichiarato l’avvocato. La causa sostiene che la Undercover Global aveva piazzato microfoni intorno all’ambasciata dell’Ecuador e aveva intercettato i telefonini e i computer degli avvocati e dei giornalisti americani che visitavano Assange, fornendo poi alla Cia le informazioni ricavate. “Mike Pompeo era a conoscenza dell’operazione”, dice l’avvocato Boyle, “e l’aveva approvata”. Arabia Saudita, condannata a 34 anni di carcere una studentessa: rilanciava su twitter i post dei dissidenti di Paolo Foschi Corriere della Sera, 17 agosto 2022 La donna, madre di due figli, studia all’università di Leeds ed era rientrata in patria per una vacanza. Trentaquattro anni di carcere: è la maxi-condanna inflitta a Salma al Shebab, 34 anni e due figli, studentessa saudita dell’Università di Leeds, tornata a casa per una vacanza. La donna era finita sotto accusa per avere un account twitter e soprattutto per aver seguito e ritwittato dissidenti e attivisti. La drammatica storia è stata raccontata nel dettaglio dal giornale inglese The Guardian e rilanciata in Italia dall’agenzia Askanews. La vicenda ha destato scalpore non solo in Gran Bretagna, ma anche nella comunità di dissidenti sauditi che vivono all’estero. La sentenza del tribunale speciale per i terroristi è stata emessa settimane dopo la visita del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Arabia Saudita. Il caso di Salma al Shehab, seguito da varie ong internazionali che si battono per i diritti umani, secondo gli oppositori al regime del principe ereditario Mohammed bin Salman testimonia la nuova campagna di repressione che sarebbe stata avviatanel Paese. La studentessa araba è stata inizialmente condannata a tre anni di carcere per aver utilizzato Internet per “provocare disordini pubblici e destabilizzare la sicurezza civile e nazionale”. Due giorni fa però una corte d’appello ha emesso la nuova sentenza - 34 anni di carcere seguiti da 34 anni di divieto di viaggio - sulla base di presunti nuovi elementi portati in aula dal pubblico ministero. Secondo una traduzione degli atti del tribunale, che è stata visionata dal Guardian, in base alle nuove accuse Shehab avrebbe “aiutato coloro che cercano di causare disordini pubblici e destabilizzare la sicurezza civile e nazionale seguendo i loro account Twitter” e “ritwittando i loro tweet”. Arabia Saudita. Guerra saudita alle donne: 34 anni di carcere per un tweet Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 agosto 2022 La dottoranda Salma al-Shebab si è vista sestuplicare la pena in appello. E il suo non è un caso unico: le sentenze si moltiplicano, gli arresti anche. Trentaquattro anni di prigione, la più alta pena carceraria mai comminata in Arabia saudita a un’attivista per i diritti umani. È la condanna letta il 9 agosto scorso dal Tribunale penale speciale a Salma al-Shebab, dottoranda dell’Università di Leeds, attivista per i diritti delle donne e sciita (minoranza storicamente oppressa nel regno). In primo grado ne erano stati comminati sei, sestuplicati in appello. Si aggiungono, a seguire, 34 anni di divieto di espatrio. Il suo reato: aver pubblicato tweet in cui rivendicava diritti e libertà. “Le accuse mosse dalla procura - scrive l’ong saudita Alqst - includono (…) l’aver minato la sicurezza e la stabilità dello Stato e l’aver pubblicato rumor tendenziosi su Twitter”. Era stata arrestata il 15 gennaio 2021, durante una breve vacanza a casa. Erano poi seguiti 285 giorni sotto interrogatorio (e abusi). Il caso di al-Shebab non è unico: come ricorda l’ong Freedom Initiative, nel 2021 il suo fu uno delle centinaia di arresti di giovani nella Provincia orientale (sciita) del regno, quasi tutti giustificati con l’uso dei social media come megafono delle loro rivendicazioni. Non solo: secondo Bethany Alhaidari, direttrice di Freedom Initiative per l’Arabia saudita, in queste settimane sarebbero stati diversi i casi di condanne drasticamente incrementate in appello. Il timore è l’emersione nelle aule dei tribunali di una nuova tendenza, pene spropositate per reati-farsa. Il 2021 non è stato il solo anno di repressione di massa nei confronti di attiviste per i diritti delle donne: nel 2018 e nel 2019 era successo lo stesso. Tra i casi più noti quello Loujain al Hathloul, rilasciata nel febbraio 2021 dopo oltre mille giorni di carcere duro. Insomma, non si può parlare di eccezioni ma di una sistematica operazione di occultamento delle donne che opera su più fronti: status di cittadine di serie B (meno diritti e controllo maschile della loro vita) e punizione per chi disobbedisce. Nessuna riforma ha scardinato tale realtà, tanto meno quelle del principe ereditario e reggente di fatto Mohammed bin Salman. Quello a cui Joe Biden ha tributato una nuova legittimità con una visita nel regno, lo scorso luglio. Afghanistan, l’errore americano di Francesca Mannocchi La Stampa, 17 agosto 2022 Abbandonando un Paese corrotto e fragile si è rafforzato il consenso attorno ad Al Qaeda. L’uccisione di Al Zawahiri nel centro di Kabul dimostra che i jihadisti sono tutt’altro che sconfitti. “Mettiamola in prospettiva. Che interesse abbiamo per l’Afghanistan a questo punto con la scomparsa di Al Qaeda? Siamo andati in Afghanistan con l’esplicito scopo di sbarazzarci di Al Qaeda in Afghanistan, oltre a prendere Osama bin Laden. E lo abbiamo fatto”. Era il 20 agosto dello scorso anno e per Joe Binden, che parlava alla nazione sulla disastrosa evacuazione in atto a Kabul, la missione afgana era compiuta. La guerra e l’invasione iniziate nel 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle per punire i taleban di aver ospitato e coperto leader qaedisti poteva dirsi chiusa. “È ora di porre fine a questa guerra” ha ripetuto, più volte ribadendo che il terrorismo era ormai una metastasi. “L’Isis e Al Qaeda rappresentano un pericolo maggiore in altri Paesi che in Afghanistan”. Pochi giorni dopo il segretario di Stato Antony Blinken liquidava la presenza di Al Qaeda in Afghanistan come un “residuo” che non rappresentava più un serio pericolo per la patria degli Stati Uniti. Un anno dopo, il 31 luglio scorso, il leader di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri è stato ucciso da un attacco di droni statunitensi nel centro di Kabul. Viveva con la sua famiglia nel centro della città, nell’elegante zona del palazzo presidenziale, a poche centinaia di metri dagli edifici che un tempo erano stati la sede delle istituzioni della Repubblica Islamica, e oggi sono le abitazioni dei leader della Rete Haqqani, l’ala oltranzista del movimento. A dimostrazione che la missione afgana non solo era incompiuta un anno fa ma resta un interrogativo - di più, un dilemma - aperto per l’Occidente. Un dilemma che in vent’anni ha causato 241 mila vittime, cifra che non include i morti per malattia, mancato accesso a cibo, acqua, infrastrutture o altre conseguenze indirette della guerra. A patti con il nemico - Mentre gli Stati Uniti e l’Occidente celebrano l’uccisione di Al-Zawahiri è bene fare qualche passo indietro per capire perché la morte del leader qaedista rappresenti contemporaneamente una vittoria dell’intelligence americana e il fallimento sia di vent’anni di guerra sia degli accordi che hanno portato a concluderla, quelli del febbraio del 2020. Entrati in guerra per punire i taleban e impedire che attacchi futuri venissero pianificati e organizzati dall’Afghanistan, gli americani si erano presto ritrovati a contare i morti in un Paese che era sconosciuto allora e lo sarebbe rimasto. Quando l’ultimo volo di evacuazione è partito, ad agosto del 2021, i soldati statunitensi morti in Afghanistan erano 2.500. Quelli feriti 21 mila. Per le amministrazioni statunitensi era tempo di chiudere la partita da anni. Quando nel 2017 Trump entra in carica fa del ritiro dall’Afghanistan una delle sue priorità, ci vuole un anno e mezzo per vincere le resistenze dei suoi consiglieri militari che ritenevano ancora possibile la vittoria sul campo di battaglia, prima di annunciare nell’autunno del 2018 che era tempo di organizzare il rientro definitivo dei soldati. A capire come fare aveva chiamato Zalmay Khalilzad, diplomatico esperto nominato inviato speciale per la riconciliazione afgana. Khalilzad aveva due questioni vitali da negoziare: un cessate il fuoco e una soluzione politica all’interno dell’Afghanistan. Khalilzad si mostrava ottimista, affermava che gli Stati Uniti e i taleban stessero elaborato un “quadro” per un “possibile ritiro degli Stati Uniti come parte di un pacchetto”. “Niente è concordato finché tutto non viene concordato”, scrisse nel 2019, un modo per dire che era sì necessario porre fine alle ostilità ma che gli accordi erano interconnessi e gli Stati Uniti non avrebbero ritirato le loro truppe fino alla definizione di una road map per un futuro pacifico per l’Afghanistan. Con questi presupposti, nel febbraio del 2020 gli Stati Uniti di Trump hanno firmato a Doha l’accordo di pace con i taleban. L’accordo prevedeva che Washington avrebbe ritirato le truppe dall’Afghanistan e i taleban in cambio avrebbero intrapreso un dialogo intra afgano anche col governo di Kabul che fino a quel momento avevano evitato ritenendo il presidente Ghani un “fantoccio americano”, ma soprattutto i taleban si sarebbero impegnati a non “consentire a nessuno dei membri, di altri individui o gruppi, inclusa Al Qaeda, di usare il suolo afgano per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati”. In sostanza i talebani garantivano a coloro che consideravano da vent’anni usurpatori e occupanti un’evacuazione in sicurezza, nessun attentato, nessuna vittima tra i soldati degli Stati Uniti e degli alleati. L’annunciato ritiro degli occupanti era già una vittoria simbolica per i taleban, ma l’amministrazione Biden pochi mesi dopo avrebbe spianato loro la strada anche per quella militare. Ritiro senza condizioni - Trump aveva aperto la strada con l’obiettivo dichiarato di concludere “le infinite guerre americane”, Biden una volta entrato in carica, ignorando i consigli dei suoi consiglieri militari e delle sue forze armate sul campo, ha seguito la stessa strada. Era l’aprile del 2021 quando Biden annunciava che era “tempo di porre fine alla piu’ lunga guerra americana e di farlo senza condizioni”. L’obbligo che era alla base del trattato di Doha veniva meno. Le truppe statunitensi si sarebbero ritirare comunque, indipendentemente dal fatto che i taleban avessero rispettato o meno gli impegni presi a Doha nel febbraio 2020. Per l’Afghanistan è stato l’inizio della fine. Che l’accordo fosse fragile era chiaro dall’inizio, sbilanciato verso i taleban a cui si chiedeva di rompere con Al Qaeda, cioè di prendere un impegno sostanzialmente inapplicabile. Le condizioni di Doha parevano sempre più essere state scritte non tanto per accompagnare il Paese a un governo di transizione ma solo per consentire alle truppe statunitensi di lasciare il Paese senza subire attentati e perdite. Per vent’anni gli Stati Uniti avevano dimostrato di non conoscere il Paese, sostenendo governi sempre più corrotti e predatori. In vent’anni le condizioni di sicurezza delle truppe erano così peggiorate che le truppe americane facevano sempre più affidamento su incursioni notturne e bombardamenti indiscriminati che provocavano spesso vittime civili. Era questo il pantano che era necessario abbandonare. E così è stato fatto, abbandonando insieme al Paese un governo imperfetto, un Presidente - Ashraf Ghani, la cui corruzione era nota da anni - profondamente indebolito e senza nessuna credibilità, ma abbandonando soprattutto le forze armate afgane che restavano il solo presidio di resistenza all’avanzata talebana. Dopo l’annuncio di Biden gli appaltatori statunitensi che fino ad allora avevano garantito la logistica e la manutenzione alle truppe afgane hanno cominciato a lasciare il Paese, consci che l’offensiva che i taleban stavano rafforzando avrebbe potuto portare velocemente alla caduta del Paese. L’esercito che rispondeva all’allora presidente Ashraf Ghani, l’esercito che per vent’anni gli Stati Uniti e gli alleati avevano armato e addestrato, si è trovato senza supporto di base, senza pianificazione, senza strategia. Gli americani andavano via, salvando il (loro) salvabile mentre per gli afgani era ormai troppo tardi. Al punto di partenza - Il 31 agosto 2021, durante il primo discorso alla nazione dopo il ritiro militare dall’Afghanistan, il presidente Joe Biden disse che “Al Qaeda era stata decimata”. Un anno dopo, la morte di Al-Zawahiri che da sei mesi viveva accanto a una casa di proprietà del ministro dell’Interno talebano Sirajuddin Haqqani, dimostra che il gruppo terroristico aveva e ha un rifugio sicuro nell’Afghanistan talebano, Paese in cui gode di libertà di azione e movimento. Non sorprende se consideriamo che mentre le amministrazioni statunitensi consideravano Al Qaeda una minaccia marginale in Afghanistan, il gruppo celebrava la vittoria dei taleban come propria. Oggi l’uccisione del leader qaedista ci dice molte cose sugli errori occidentali e ne suggerisce alcuni sugli scenari futuri afgani. Primo punto: i taleban hanno disatteso gli accordi di Doha, e questo è certamente vero. È altrettanto vero che quegli accordi e il ritiro incondizionato delle truppe nell’agosto 2021 hanno contribuito a rafforzare il consenso intorno al gruppo e creato le condizioni che hanno permesso a Ayman al-Zawahiri di trasferirsi sei mesi fa nel centro di Kabul. Ecco perché oggi gli Stati Uniti non possono limitarsi a gridare vittoria di fronte alla morte del leader qaedista ma devono considerare interlocutori quei taleban pragmatici che hanno, con evidenza, venduto la testa degli integralisti. Tanto più che il Dipartimento della Difesa americano ha avvertito che le forze dell’Isis-K e di Al Qaeda con base in Afghanistan potrebbero avere la capacità di lanciare attacchi contro l’Occidente entro due anni. E poi il secondo punto. Quest’anno ha reso evidente che i taleban non siano un movimento monolitico. La promessa di recidere i legami con Al Qaeda ha creato fratture nei taleban tra i pragmatici del movimento e gli intransigenti sulla loro futura posizione nei confronti di Al Qaeda. I primi hanno sostenuto l’allontanamento del gruppo da Al Qaeda, per concentrarsi sulla transizione dall’insurrezione armata alla gestione della macchina statale, al contrario l’ala intransigente sostiene i legami con Al Qaeda. Se questa spaccatura può da un lato rappresentare il primo varco per indebolire il consenso talebano, dall’altro rischia di consentire ad altre formazioni terroristiche che operano nel paese, come Isis-K, di capitalizzare la debolezza talebana per espandere la propria influenza. Il punto è che tutto questo avviene in un Paese che vive una crisi economica senza precedenti, un’emergenza alimentare dilagante, con la maggioranza dei giovani senza lavoro. Condizioni che li rendono terreno fertile al reclutamento.