La “morte per pena” e la Circolare del Dap di Santo Cambareri altrapsicologia.it, 15 agosto 2022 Dall’inizio del 2022 ad oggi i suicidi accertati nelle carceri italiane sono 51. Un dato che supera di gran lunga quello di agosto 2021 (32 suicidi) e si avvicina tragicamente alle cifre raggiunte a fine 2021 (59 suicidi) e a fine 2020 (62 suicidi) quando eravamo in piena pandemia. E poi c’è il confronto tra popolazione detenuta e popolazione libera. Per l’OMS il tasso di suicidio in Italia nel 2019 era pari a 0,67 casi ogni 10.000 persone. Nello stesso anno, il tasso di suicidi in carcere era pari a 8,7 ogni 10.000 detenuti mediamente presenti. Mettendo in rapporto i due tassi, vediamo quindi come in carcere i casi di suicidi siano oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione libera. Una forbice enorme e preoccupante che negli ultimi anni è aumentata vertiginosamente. Ad oggi nelle carceri italiane i suicidi sono 20 volte più frequenti rispetto alla popolazione libera. Una ‘morte per pena’, parafrasando Marco Pannella. Nessun boia, nessuna iniezione letale, in compenso un sistema penitenziario che genera disperazione e suicidi ad un ritmo vertiginoso. Come AltraPsicologia abbiamo aperto un focus sull’argomento lo scorso aprile, nel corso del dibattito ‘Fenomeno suicidario in Italia - Realtà e falsi miti’, con la partecipazione tra gli altri di Rita Bernardini - Presidente di Nessuno Tocchi Caino e dell’On. Cristian Romaniello - primo firmatario della proposta di legge sulla “Prevenzione del suicidio e degli atti di autolesionismo”. Da allora la prepotente urgenza dei suicidi in carcere non ha accennato a placarsi e qualche giorno fa (lunedì 8 agosto) il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha emanato una circolare con oggetto: “Iniziative per un intervento continuo in materia di prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Un documento da seguire nel suo sviluppo, vigilando sulla sua applicazione, come cittadini e come professionisti della salute, nel rispetto del nostro mandato sociale. Innanzitutto si dà mandato ad ognuno dei 16 Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria (sono 16 perché alcuni di questi sono interregionali) di verificare che lo stato dei Piani regionali e locali di prevenzione sia in linea con il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti. Nel fornire raccomandazioni e direttive, il DAP mette in luce le lacune del sistema stesso, riconoscendo, nei fatti, che in alcune realtà i Piani regionali non sono neanche stati stipulati. In questi casi viene sollecitata l’nterlocuzione con le rispettive Autorità sanitarie per la pronta approvazione. La circolare riconosce nello ‘staff multidisciplinare’ (composto da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo) ‘la sede ottimale nella quale affrontare, ad opera delle varie professionalità e competenze presenti negli Istituti, l’analisi congiunta delle situazioni a rischio’, ma rileva anche ‘che, oggi, lo staff agisce sulle situazioni rispetto alle quali si è manifestato un evento o una richiesta di aiuto o in cui si è, comunque, riscontrata una qualche criticità. Rischiano, dunque, di rimanere fuori dall’analisi i cc.dd. casi silenti, riguardanti le persone che, all’atto dell’accoglienza in istituto e nell’ulteriore prosieguo della detenzione, non hanno manifestato un particolare disagio. Su questo versante è, dunque, necessario che ogni Direzione, unitamente ai componenti dello staff, abbia una adeguata strategia per intercettare questi soggetti, che rischiano di rimanere “invisibili”.’ Viene quindi sostanzialmente richiamata tutta la comunità che ruota attorno all’ambito penitenziario ad un impegno corale nel cogliere tempestivamente i c.d. ‘eventi sentinella’: situazioni oggetto di informazioni a disposizione della Magistratura, del Garante nazionale, dei Garanti locali, dell’Avvocato o della famiglia; casi in cui le persone detenute fanno rientro in istituto dopo un “fallimento” (come nel caso della revoca degli arresti domiciliari o di una misura alternativa); casi di situazioni familiari fragili e complesse; vicinanza di scadenze delicate, come un processo o la prossima separazione dal coniuge. “Tali “eventi sentinella” - recita la circolare - possono essere, di volta in volta, intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai Funzionari giuridico-pedagogici, dal Personale di Polizia penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli Assistenti volontari, dagli Insegnanti e, più in generale, da chiunque operi a diretto contatto con la popolazione detenuta, ivi compresi i Garanti, comunque denominati”. Propositi necessari e urgenti, ma bisogna riconoscere che il più delle volte questi accorgimenti sono già parte integrante dello sforzo messo in campo da tutti gli attori nominati nella circolare, basti pensare alle segnalazioni costanti di volontari, familiari, insegnanti, associazioni, avvocati, Garanti, Direttori, ecc. Uno sforzo che troppo spesso si scontra con la realtà chiusa e refrattaria del sistema penitenziario italiano, dove le informazioni faticano a circolare e ad arrivare a chi di dovere al fine di scongiurare gesti estremi da parte della popolazione detenuta. Nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico dei detenuti. Nello specifico si reputa necessario che la Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale provveda a organizzare giornate di studio e di confronto collettivo sul tema della prevenzione suicidaria da dedicare ai Provveditori e ad altri Operatori penitenziari. I Provveditori saranno chiamati a organizzare una adeguata e capillare formazione dei Direttori e degli Operatori in servizio nei territori di competenza, favorendo, in tali occasioni, la partecipazione e il coinvolgimento anche del Personale dell’Area sanitaria in servizio negli Istituti. Insomma tutto molto bello e giusto, ma se alla circolare non seguiranno interventi per aumentare e razionalizzare le risorse professionali all’interno delle carceri, il rischio concreto è quello di fermarsi ai buoni propositi. Dal rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone emerge che l’erogazione di supporto psicologico nelle carceri italiane si attesta in media sulle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti e proprio nelle carceri dove si è registrato il maggior numero di suicidi, le ore di servizio psicologico erogate risultano più basse rispetto alla media nazionale: Palermo Ucciardone 5,14 ore; Monza 6,6 ore; Foggia 10 ore; Roma Regina Coeli 6,8 ore. Proprio sulla questione delle risorse si soffermano le ultime righe della circolare, in cui il DAP, oltre ad auspicare una effettiva partecipazione delle Autorità sanitarie nazionali e regionali agli interventi prospettati (si spera anche in termini di assunzioni di personale sanitario) richiama la recente introduzione di nuovi capitoli di bilancio per l’incremento di professionisti esperti ex art. 80 O.P. ruolo in cui gli psicologi ricoprono un’importante funzione proprio per la valutazione del rischio suicidario. La sfida adesso è la traduzione in fatti di queste linee guida, in un’estate torrida, con il termometro del sovraffollamento effettivo che si attesta al 112%, con ancora addosso i segni della pandemia, nel bel mezzo di una campagna elettorale che nel migliore dei casi dribbla abilmente queste tematiche e nel peggiore dei casi si appiattisce sulle posizioni di quelli che vorrebbero ‘buttare la chiave’. Sarà il tempo (un tempo brevissimo si spera) a dirci se la circolare del DAP sarà una delle tante iniziative in emergenza per gettare un po’ di acqua sul fuoco o se piuttosto getterà le basi per una quanto mai urgente ristrutturazione del sistema penitenziario. “Più colloqui e telefonate per i detenuti”, la proposta dei penalisti ai vertici del Dap di Viviana Lanza Il Riformista, 15 agosto 2022 Più visite dei familiari, più possibilità di fare telefonate e di mantenere un contatto con gli affetti del mondo fuori. Sono alcune delle richieste che i penalisti hanno avanzato ai vertici dell’amministrazione penitenziaria al fine di fermare l’ondata di suicidi e i tanti drammi della solitudine che si consumano nel chiuso delle celle. Ieri, presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si è svolto l’incontro tra il capo del Dipartimento, Carlo Renoldi, e una delegazione dell’Unione Camere Penali Italiane, composta dal componente di Giunta, avvocato Carmelo Occhiuto, e dai responsabili dell’Osservatorio Carcere, gli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro. L’incontro, al quale ha partecipato anche il vicecapo del Dap Carmelo Cantone, era stato richiesto il 7 agosto dall’Ucpi a seguito dei numerosi suicidi avvenuti di recente negli istituti di pena. Al centro del confronto, i problemi di sempre e le soluzioni possibili finora mai attuate. L’argomento carcere è un tema complicato, su cui pesano gli anni di indifferenza e inerzia politica, l’inadeguatezza delle strutture, l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare preventiva, la mancanza di una riforma dell’ordinamento penitenziario, le inefficienze dei e le lungaggini dei procedimenti e delle istanze tra tribunali e uffici della Sorveglianza, un generalizzato populismo giustizialista. La questione giustizia è un’emergenza, quella delle carceri è un’emergenza nell’emergenza. Il numero dei suicidi in cella e delle morti di carcere in generale è un argomento sul quale non si può più prendere tempo. Va affrontato. Nel generale silenzio dell’opinione pubblica una voce è quella dei penalisti che chiedono alla politica di coinvolgere l’avvocatura nella ricerca di misure adeguate a fronteggiare questa emergenza. Si può cominciare da piccoli interventi, come incrementare le visite e le telefonate dei detenuti con i propri familiari. Si potrebbe favorire una maggiore integrazione dei reclusi con la vita stessa del carcere per limitare la sensazione di abbandono. Del resto, lo dice la Costituzione: la pena deve avere una funzione rieducativa e riabilitativa. Ma fin quando si lasceranno i detenuti in condizioni di isolamento e ozio forzato, il carcere sarà solo luogo di privazione, di disperazione e di violenza che si aggiunge a violenza. Di recente il Dap ha inviato alle direzioni degli istituti una circolare con una serie di indicazioni per frenare i tanti suicidi, ma, pur apprezzandone il contenuto, i penalisti hanno evidenziato l’inapplicabilità di questa circolare per assoluta mancanza di figure professionali specifiche, quali gli stessi direttori, psichiatri, psicologi, educatori. Di qui la proposta di un tavolo permanente nazionale presso il Dap e di tavoli permanenti presso i provveditorati regionali, a cui parteciperanno rappresentanti di magistratura, amministrazione penitenziaria, avvocatura, garanti. Speriamo sia la volta buona. Suicidi in carcere l’Ucpi al Dap: “Tavoli permanenti con i soggetti interessati” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 agosto 2022 Giovedì si è svolto l’incontro tra il Capo del Dap, Carlo Renoldi, e una delegazione dell’Unione Camere Penali, composta dall’avvocato Carmelo Occhiuto e dai responsabili dell’Osservatorio Carcere, Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro. L’incontro, al quale ha partecipato anche il vicecapo del Dap Carmelo Cantone, era stato richiesto dopo i numerosi suicidi avvenuti in questi giorni negli istituti di pena. Una nota dell’Ucpi ha fatto sapere che il confronto è stato “lungo e sereno sulle problematiche che, da tempo, affliggono l’esecuzione penale e verso le quali la Ministra Cartabia ha sempre mostrato una particolare sensibilità ed interesse”. In merito ai suicidi i penalisti “hanno sollecitato l’incremento delle visite e delle telefonate con i familiari e una maggiore integrazione dei detenuti con la vita stessa del carcere per limitare la sensazione di abbandono”. Quanto alla recente circolare del Dap, inviata alle direzioni degli istituti per i numerosi suicidi, “pur apprezzandone il contenuto”, i penalisti hanno evidenziato “l’inapplicabilità per assoluta mancanza di figure professionali specifiche, quali gli stessi direttori, gli psicologi e gli educatori”. L’Ucpi ha poi richiesto l’istituzione di un tavolo permanente nazionale presso il Dap e presso i provveditorati regionali, a cui parteciperanno i rappresentanti dei soggetti direttamente interessati alla detenzione: magistratura, amministrazione penitenziaria, avvocatura, garanti. I tavoli consentiranno di rilevare immediatamente problematiche di carattere generale e individuale, favorendo il necessario e rapido intervento. I tavoli regionali avranno il compito, con interlocuzioni immediate e con riunioni periodiche, di verificare e monitorare la situazione nel Distretto, con particolare riferimento a criticità generali e individuali, che potranno essere segnalate al tavolo permanente nazionale. È stata inoltre “ricordata l’importanza della partecipazione dell’Avvocatura, che ha un contatto diretto con i detenuti e i loro familiari”. Renoldi ha ritenuto “la proposta molto interessante e la stessa sarà esaminata a partire dal mese di settembre, al rientro di tutti i direttori generali del dipartimento”. Intanto alle lettera inviata a tutti i leader di partito sempre dall’Ucpi con l’elenco dei punti essenziali per una riforma della giustizia non più rinviabile hanno risposto al momento solo dal Terzo Polo. Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione: “Nel nostro programma c’è ben chiara la separazione delle carriere dei magistrati. E molto altro. Chi mi conosce lo sa”. A lui si è aggiunta la deputata di Italia Viva Lucia Annibali: “La separazione delle carriere e quella tra i poteri dello Stato, la ragionevole durata dei processi, il divieto di appello dei pm contro le sentenze di assoluzione, il superamento dell’idea carcerocentrica della sanzione penale e delle ostatività, la custodia cautelare come misura realmente eccezionale, sono tematiche centrali per l’obiettivo di una giustizia penale liberale e per un giusto processo”. Carcere fuorilegge, i politici come intendono arginare la mattanza di Stato? di Riccardo Polidoro Il Riformista, 15 agosto 2022 Storie di ordinaria ingiustizia continuano a flagellare i diritti dei detenuti, che dovrebbero subire solo la privazione della libertà ed iniziare il percorso di recupero previsto dalla Costituzione e dalle norme vigenti. Diritti inviolabili, come la dignità personale e la salute, non trovano alcun rispetto. L’abbandono e, spesso, trattamenti inumani e degradanti costringono a gesti disperati di autolesionismo, fi no al suicidio. Dall’inizio dell’anno i morti sono 98, tra questi 49 suicidi. In Campania vi sono stati 9 decessi, più di uno al mese. L’ultimo suicidio a Secondigliano, prima ancora a Poggioreale e ad Arienzo. Vite spezzate di persone disperate che non intravedono - ed a cui non si fa intravedere - una soluzione alla loro ingiusta sofferenza. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, unitamente al suo Osservatorio Carcere, ha inoltrato, il 7 agosto scorso, una lettera al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, con la richiesta di un urgente incontro affinché l’avvocatura venga messa a conoscenza delle modalità con cui viene affrontata questa drammatica emergenza, aggravata dall’incessante caldo. Immediato il riscontro del Dap e ieri i responsabili dell’Osservatorio Carcere Ucpi, unitamente al referente di Giunta, hanno visto a Roma Carlo Renoldi, da pochi mesi alla guida del Dipartimento. L’8 agosto è stata inviata, a sua firma, una circolare ai Provveditorati regionali e alle Direzioni degli istituti di pena, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute. È previsto che siano gli staff multidisciplinari - composti da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - a svolgere in ogni istituto l’analisi congiunta delle situazioni a rischio, al fine di individuare dei protocolli operativi in grado di far emergere i cosiddetti eventi sentinella, rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. La circolare prende atto della tragedia di quanto sta avvenendo, ma non tiene conto delle condizioni in cui versano la maggior parte degli istituti, privi di personale specializzato e, a volte, dello stesso direttore/direttrice. A Poggioreale, ad esempio, ma la situazione è analoga in moltissimi istituti, vi sono solo 2 psichiatri e 9 educatori per oltre 2.000 detenuti. Quale attività potrebbe effettivamente svolgere lo staff multidisciplinare? L’ “evento sentinella” da chi potrebbe essere rilevato? La circolare del Dap resta, pertanto, un’idonea organizzazione per un carcere che non c’è. Che non c’è mai stato. Le probabilità che resti inattuata - perché inattuabile - sono altissime. Il problema - come le Camere Penali hanno ribadito più volte - è politico, perché il Parlamento non ha mai mostrato reale interesse ad un’esecuzione della pena con modalità legali, nonostante gli appelli di Pontefici e Presidenti della Repubblica. In questo torrido agosto, la politica pensa al suo futuro e non a quello del Paese, di cui il mondo dell’esecuzione penale fa parte a pieno titolo. C’è una guerra in atto per conservare il comodo posto in Parlamento ovvero per accedervi per la prima volta. Una lotta senza esclusione di colpi, soprattutto di quelli di pura fantascienza politica, che vedono tripli salti mortali da uno schieramento all’altro ed unioni a dir poco impensabili, vista la passata storia dei gruppi politici e i percorsi personali dei protagonisti. Pallottoliere alla mano, dunque, si fanno i conti guardando i sondaggi, valutando il numero di elettori su cui ciascun partito può contare. Uno squallido vedere che offende i cittadini, ritenuti privi di pensiero politico e di capacità per valutare un serio programma elettorale. Così, mentre, giorno dopo giorno, aumentano i suicidi ed i morti in carcere - giovani vite di emarginati e non di pericolosi criminali - i segretari dei partiti restano con il pallottoliere a fare i loro conti, senza dirci come intendono arginare la mattanza di Stato, che si sta verificando nel nostro Paese. Sarebbe il caso che i politici oggi abbandonassero il pallottoliere, le cui palline dopo il voto inizieranno ad impazzire, decretando l’ennesima ingovernabilità e chiarire agli elettori quale futuro li attende. In tema di carcere, ad esempio, si vorranno finalmente rispettare i principi costituzionali del 1948? Si vorrà dare seguito a quanto ci chiede il Consiglio d’Europa, dopo la condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013? In tema di ergastolo ostativo si vorranno rispettare - e non aggirare - le precise indicazioni della Corte Costituzionale? Si vorrà dare seguito ai lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, alla Legge Delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, al lavoro delle numerose Commissioni ministeriali? Si vorrà spiegare ai cittadini che le misure alternative al carcere sono comunque delle pene che limitano la libertà e, allo stesso tempo, garantiscono il recupero sociale del condannato? E che per “certezza della pena” non s’intende “certezza del carcere”, ma che la condanna può essere scontata anche con altre modalità? E che “l’affettività” non è un pericoloso termine malavitoso, ma aiuterebbe i detenuti a superare, almeno in parte, le difficoltà quotidiane e contribuirebbe a stemperare le tensioni all’interno degli istituti? Le risposte chiare su questi temi ci potrebbero far comprendere da che parte stare. Lo scandalo della riforma bloccata e quei bimbi in carcere con le madri di Luigi Manconi La Repubblica, 15 agosto 2022 Prima della caduta del governo Draghi mancava solo il voto definitivo alla riforma che avrebbe eliminato questa ingiustizia che riguarda 27 bambini da 0 a 3 anni. C’era una piccola riforma che aspettava solo di essere approvata da un voto definitivo del Senato, dopo il parere favorevole della Camera dei Deputati. C’erano tutte le condizioni perché ciò accadesse: l’impegno incondizionato della Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e la non opposizione delle destre, disponibili a lasciar passare il provvedimento in modo “indolore”. E c’era (e c’è) soprattutto, qualcosa di assai simile a una “emergenza umanitaria”: 27 minori dai 0 ai 3 anni reclusi in carcere con le proprie madri. Sono gli “innocenti assoluti” che ostacoli e lungaggini burocratico-amministrative, diffidenze di settori della magistratura e ritardi legislativi tengono prigionieri nelle celle del sistema penitenziario italiano. Quella piccola riforma, intelligente e razionale, li avrebbe “liberati”, trovando soluzioni alternative alla detenzione. Nel corso degli ultimi due decenni il numero di quei bambini prigionieri è stato sempre superiore alle dieci unità, talvolta anche molto di più (fino a oltre 50). Una cifra in apparenza modesta, ma una grande infamia, forse la più oltraggiosa per la nostra civiltà giuridica tra quante se ne consumano quotidianamente nei luoghi di privazione della libertà personale. Ora la piccola riforma è stata cancellata dallo scioglimento anticipato delle Camere: e appare altamente probabile che il prossimo Parlamento non troverà ragione e tempo da dedicare al problema. Questo mi induce ad alcune considerazioni. Sono un estimatore di Mario Draghi, ma anche se fossi stato un suo severe critico o un suo fiero avversario, prima di contribuire alla caduta del governo da lui guidato, avrei fatto una serie di riflessioni. Quelle relative alla sua indiscussa autorevolezza internazionale, quelle collegate all’urgenza di implementare e tradurre in provvedimenti concreti e decreti conseguenti il PNRR, quelle riferite alle prossime e improrogabili scadenze, e alla ripresa del Covid e alla guerra in Ucraina e all’inflazione… Ma avrei pensato anche alla necessità di portare la legislatura alla sua naturale scadenza, per consentire l’approvazione - prevista per ottobre - di quella piccola riforma. Capisco che la mia possa essere considerata una concezione, come dire?, eccentrica dell’azione pubblica (infatti non sono un Parlamentare della Repubblica), ma penso che o la politica sarà capace di farsi carico della sofferenza di quei 27 bambini e della loro sorte futura, condizionata in profondità dall’esperienza attuale, oppure il suo declino e la sua perdita di senso si riveleranno irreversibili. Aggressioni ad agenti nelle carceri, il Dap prepara un piano agi.it, 15 agosto 2022 Presto nuove dotazioni, più sostegno psicologico e formazione. Più equipaggiamenti ma anche un maggior supporto psicologico per la polizia penitenziaria, una struttura ad hoc per monitorare in tempo reale gli eventi più critici, e una formazione mirata che dia omogeneità agli interventi degli agenti attraverso modelli operativi definiti e condivisi, “ispirati alla logica di prevenzione come migliore strategia per evitare le emergenze”. Sono alcune delle misure con le quali il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria intende affrontare “il grave fenomeno delle aggressioni” in carcere ai poliziotti penitenziari, come scrive il capo del Dap Carlo Renoldi in una comunicazione destinata ai sindacati della polizia penitenziaria. Un piano che prevede tra l’altro nell’arco di quattro mesi la distribuzione di nuovi equipaggiamenti: 20.000 guanti anti-taglio, 8.500 caschi e scudi antisommossa, 2.000 sfollagente e 2.000 kit antisommossa. È da tempo che i sindacati segnalano l’aumento degli episodi violenti nelle carceri, chiedendo di intervenire su più fronti. Secondo il sindacato autonomo Sappe nel solo 2021 ci sono stati più di mille aggressioni nelle carceri contro poliziotti penitenziari, 334 risse, 750 incendi dolosi e 5.628 segnalazioni per violenze, minaccia, ingiuria, oltraggio, resistenza a pubblici ufficiali. Uno degli episodi più gravi, si è verificato il mese scorso nel carcere di Noto con quattro agenti di polizia penitenziaria pestati a sangue da alcuni detenuti e finiti in ospedale per fratture e ferite. Un’aggressione giudicata “brutale” dal Dap che ha annunciato anche l’intenzione di costituirsi parte civile nel processo a carico dei responsabili. Assicurare condizioni di sicurezza alla polizia penitenziaria nello svolgimento del lavoro rispetto al “grave fenomeno delle aggressioni” è l’obiettivo degli interventi che investono più piani e in cui è centrale la formazione, per la quale si pensa a un percorso in più tappe. A quattro gruppi di lavoro, costituiti da operatori di tutte le qualifiche, “autorevoli per esperienza e deontologia”, è affidato il primo passo, la ricognizione delle più efficaci metodologie per gestire le situazioni critiche, che saranno poi riassunte in un manuale, anche in forma multimediale. Previsto anche l’addestramento del personale nei casi di uso della forza e delle situazioni più estreme di proteste collettive, come le rivolte: si vuole arrivare alla definizione di protocolli omogenei che, “in una cornice di piena legalità, pongano in sicurezza anche l’operatore”. Crollo ponte Morandi, Cartabia ai familiari: “La vostra sete di giustizia è anche la mia” Il Dubbio, 15 agosto 2022 La lettera della ministra a Egle Possetti, fondatrice del Comitato Ricordo Vittime Ponte Morandi: “Una tragedia che grida dolore”. “Quella tragedia - come Lei dice nella Sua toccante lettera - da quattro anni “grida dolore”. Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia in una lettera inviata a Egle Possetti, fondatrice del Comitato Ricordo Vittime Ponte Morandi, e a tutti i familiari delle 43 vittime, nel quarto anniversario dal crollo del ponte Morandi a Genova. Cartabia parla di un “dolore che è anzitutto di ognuno dei familiari delle 43 vittime del Ponte Morandi - a cui La prego di far pervenire tutta la mia immutata vicinanza - , ma che è un dolore anche di tutto il Paese e, per quel che può valere, mio personale. Accanto a voi, familiari delle vittime, non c’è solo la città di Genova, ma l’intera comunità di italiane e italiani. E c’è il Governo, rappresentato quest’anno dal ministro Enrico Giovannini”. “In questi anni a Genova ogni 14 agosto ho respirato il vostro dolore e ho sentito crescere il vostro legittimo e bruciante bisogno di giustizia, non disgiunto dalla preoccupazione che il percorso processuale per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità possa incepparsi. Oggi, il processo è iniziato, dopo un lavoro assai intenso portato avanti dalla Procura di Genova con “grandissimo e lodevole impegno”, come ho avuto occasione di sottolineare anche in Parlamento. Ed è un processo che si contraddistingue per la sua complessità, oltre che per le altre ragioni che mi avete indicato nella lettera - continua la ministra -. Il ministro della Giustizia può e deve assicurare ai giudici competenti tutto il supporto necessario, in ossequio al compito che la Costituzione gli affida per “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. E così è stato da subito, dopo la tragedia del 14 agosto 2018: il ministero della Giustizia si è adoperato per garantire agli uffici giudiziari genovesi il personale necessario e l’assistenza tecnica e logistica, attraverso un interessamento attento e sollecito dei vertici del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, che sono in costante contatto con i colleghi genovesi”. “Mentre vi scrivo, ho qui davanti a me un lungo appunto del suddetto Dipartimento, che mi illustra la situazione del Tribunale di Genova in generale e in particolare gli interventi che sono stati messi in atto per prestare la dovuta assistenza per la celebrazione del processo sul crollo del Ponte Morandi. 16 fitte pagine, che vi metto a disposizione, con l’elenco di tutti gli interventi attuati ed in itinere. I numeri delle parti coinvolte, la specificità del caso, l’altissima doverosa attenzione della comunità e della stampa - italiana e internazionale - oltre alle cautele nel tempo dell’emergenza pandemica, si riflettono inevitabilmente sull’organizzazione del processo - aggiunge Cartabia -. Il ministero però continuerà a farsi carico di ogni esigenza, accanto ai responsabili degli uffici giudiziari genovesi. Ho seguito con attenzione l’andamento della prima udienza dibattimentale, svoltasi in modo soddisfacente per ciò che riguarda il coordinamento tecnologico e digitale tra i diversi spazi coinvolti: più aule e una tensostruttura mobile che ha permesso di continuare a svolgere all’interno del Palazzo di Giustizia le udienze, evitando traslochi di fascicoli e conservando il valore simbolico del luogo. In questi quattro anni sono stati attivati anche uffici di prossimità, per evitare che le difficoltà di collegamento nella città - dopo il crollo del ponte - si traducessero anche in ostacoli pratici all’accesso alla giustizia”. “È chiaro che per assicurare il migliore funzionamento del servizio giustizia, ciò che conta di più sono le persone: magistrati inquirenti e giudicanti, funzionari, cancellieri, operatori della giustizia ciascuno con la sua professionalità. In questi anni, in momenti diversi, tante persone sono arrivate a Genova con i distacchi temporanei di personale amministrativo e poi con le più recenti assunzioni. 237 in totale tra 2 funzionari, cancellieri esperti, operatori giudiziari e anche i giovani dell’Ufficio per il processo assunti (132). 79 inoltre sono i posti di funzionario giudiziario messi a disposizione per Genova, nel concorso Riparti per 2.242 posizioni di cui sono state da poco pubblicate le graduatorie. Decisiva, però, è la copertura dei ruoli dei magistrati: come sapete, l’assegnazione dei magistrati ai singoli distretti - di cui Genova lamenta la carenza - è in capo al Consiglio superiore della magistratura, ma auspico anche io - come il presidente del Tribunale, Enrico Ravera - che possano essere messi a punto i bandi necessari il prima possibile, prima del rinnovo dell’organo di autogoverno della magistratura”. “Lei, cara Egle, e con Lei tutti i familiari delle vittime che attendete una doverosa parola di giustizia, siete perfettamente consapevoli di come il “vostro” non sia l’unico processo ad impegnare gli uffici genovesi. Ogni processo, quali che siano i numeri e l’eco mediatica, è un momento importante per quanti sono coinvolti. Per questo, apprezzo in modo particolare la vostra sensibilità e il vostro costruttivo interesse esteso anche ad aspetti dell’organizzazione della giustizia genovese che potrebbero non toccarvi direttamente. Mi è giunto forte e chiaro il messaggio di preoccupazione dei penalisti di Genova, per i tempi degli altri processi pendenti nel distretto. Le energie straordinarie dedicate al crollo del Ponte Morandi non possono infatti divenire motivo di rallentamento per gli altri processi. Al contrario: gli aiuti approntati per un processo che ha - ad ogni evidenza - caratteristiche “fuori dall’ordinario” valgono anche a consentire che la vita ordinaria del Tribunale e della Corte d Appello di Genova non si arresti e non ne risenta. Tutte le istituzioni - Ministero, Csm, Uffici giudiziari - insieme all’Avvocatura e a ogni singolo pubblico ministero e a ogni singolo giudice, tutti tendiamo alla stessa meta che è quello di rendere l’essenziale servizio giustizia il più possibile rispondente ai bisogni dei cittadini, garantendone sempre la qualità e la tempestività. Auspico pertanto che possano al più presto dissolversi i timori che hanno indotto le Camere penali genovesi a indire una astensione per il 12 settembre, data della nuova udienza del processo per il crollo del Ponte. Mi adopererò anche personalmente per promuovere un incontro prima di allora, con tutti i soggetti coinvolti, per cercare soluzioni soddisfacenti alle esigenze degli uffici giudiziari genovesi. Un abbraccio affettuosissimo a Lei, cara Egle e a ciascuno dei familiari delle vittime, i cui volti ricordo ad uno ad uno; i cui occhi, più di ogni parola, mi parlano di una inestinguibile sete di giustizia. Sappiate che quella sete è anche la mia”. Patrizia Guerra: “Anch’io ero una bulla ma ora da mamma combatto i prepotenti” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 agosto 2022 Il sacco rosso appeso nella palestra stranamente deserta. “Che succede, non ci alleniamo oggi?”. Il suo maestro che la fissa dritto negli occhi e sibila: “O affronti quello che hai dentro adesso e lo sconfiggiamo, oppure ti giri e te ne vai”. Quel giorno, prendendo a pugni il sacco con tutta la rabbia che aveva in corpo, cambiò per sempre la vita di Patrizia Guerra. Perché questa donna coraggiosa e decisa che ad Ancona ha deciso di sfidare a viso aperto le baby gang che terrorizzano la città e che per ben tre volte hanno picchiato suo figlio, prima di essere una “mamma-coraggio” come tutti la chiamano, è stata prima bullizzata e poi, a sua volta, bulla. E oggi Patrizia, a 43 anni, è diventata simbolo della difesa del diritto dei ragazzi a crescere liberi senza subire violenze. E chi l’avrebbe detto che anche lei ha un passato da bulla? “Prima bullizzata e poi bulla. Ed è certamente questa mia storia che mi ha consentito di non sottovalutare mai il dramma che ancora sta vivendo mio figlio e tutti i ragazzi come lui. Tanti, troppi. E che spesso restano in silenzio, senza denunciare, senza ribellarsi, per paura o anche solo perché nessuno li ascolta”. È questo che è successo a lei? “Sì, nel paese dove vivevo da bambina, Monte Sant’Angelo in Puglia, mi avevano preso di mira per la mia timidezza. Ero alle scuole medie: mi portavano via la merenda, mi rinchiudevano in bagno, mi rubavano le matite, mi prendevano in giro, mi davano schiaffi. Quanto basta, a quell’età, a farti crollare l’autostima, a farti sentire debole, inferiore. I miei genitori non erano molto presenti a casa, mia madre faceva la pilota di auto, mio padre lavorava tutto il giorno. E non c’era nessuno che poteva ascoltarmi”. Da vittima a carnefice il passo è lungo. Come è accaduto? “Un giorno stavo seduta su una panchina a piangere quando mi avvicinò un signore. Mi propose di andare nella sua palestra di karate. Lui voleva propormi un’attività che mi impegnasse, io andai perché pensavo che sarei diventata più forte e avrei potuto vendicarmi. E così avvenne: picchiavo tutti, femmine e maschi. Mi chiamavano persino per le spedizioni punitive. Fino a quando il maestro lo scoprì...” Il famoso giorno del sacco rosso... “Sì, aveva saputo che avevo picchiato delle ragazze e mi affrontò in quel modo facendomi trovare la palestra deserta e mettendomi davanti ad una scelta. Quel giorno ho picchiato il sacco per un’ora, tirando fuori tutta la rabbia che avevo in corpo. È stata l’ora più lunga e significativa della mia vita. Quel mio maestro, che oggi ha 80 anni , di ragazzi come me ne ha salvati tanti. Gli devo tutto e questo mi ha fatto capire quanto può valere nella vita di tutti noi l’incontro con la persona giusta. Certo, trent’anni fa era un bullismo diverso, si faceva pace, io con quelli a cui ho dato botte sono rimasta amica. Oggi questi qui non sanno neanche cosa sia la pace, sono criminali, ti lasciano steso per terra e non vogliono cambiare. Ma non possiamo rimanere a guardare”. Siamo sedute al tavolino di un bar di piazza Roma, nel cuore di Ancona. “Questi qui” di cui parla Patrizia ci passano davanti a frotte: sono italiani e stranieri, si danno il cinque, si radunano sopra le scale che conducono ai bagni pubblici, proprio lì dove è scattato il primo dei tre agguati al figlio di Patrizia, nel 2019, l’ultimo a dicembre scorso. Tutti adesso qui sanno chi è questa donna volitiva, cintura nera, 2° dan, che ha anche deciso di portare ad Ancona la divisa dei City Angels, l’associazione di volontari nata a Milano. Patrizia, come sta suo figlio? “Si sta riprendendo, ma non posso dire che stia bene. Paura, attacchi di panico. A dicembre, dopo l’ultima aggressione, ho dovuto licenziarmi dalla scuola dove ero stata appena assunta. Dovevo stargli vicina, senza di me non riusciva a muovere un passo. Aveva terrore anche della mia battaglia contro l’omertà dei genitori che non denunciano e l’indifferenza degli adulti che si girano dall’altra parte. Intollerabile”. È per questo che ha deciso di scendere in campo a difesa di tutti i ragazzi vittime di bullismo? “ Si, non potevo permettere che mi portassero via mio figlio. E instillandogli questa paura me l’avrebbero portato via. Ero davanti allo stesso bivio di tanti genitori: o minimizzi e giustifichi il problema o lo affronti e io ho scelto la seconda strada”. Ma perché hanno preso di mira suo figlio? “Non c’è nessuna ragione particolare. Per questi criminali in erba è quasi un rito di iniziazione. Devono prendere di mira il primo che passa e massacrarlo. Quando è successo la prima volta mio figlio aveva 14 anni e stava passeggiando con degli amici, quando lo hanno accerchiato in dieci aggredendolo. Io mi trovavo nei pressi per caso quando ho visto la rissa e mi sono avvicinata. Poi ho capito che si trattava di lui, mi sono gettata nella mischia, ho bloccato il braccio di quello che lo stava picchiando, li ho messi in fuga. C’erano decine di persone che passavano, nessuno è intervenuto”. Avete denunciato subito? “Sì, anche se lui non voleva perché aveva paura. E invece li abbiamo denunciati, identificati, li hanno presi tutti, sempre, processati, condannati. Nel frattempo però hanno minacciato anche me, ci salivano in casa, mi sono ritrovata anche con un coltello puntato alla gola. Ma non mi sono mai fermata e alla fine lui mi ha detto “grazie”. Nonostante la paura vado avanti perché la battaglia non è finita, basta guardarsi intorno”. La sua è anche una battaglia per fare rete, per convincere gli altri genitori a scendere in campo. Ci sta riuscendo? “Pian pianino, ma sa che anche le mamme dei bulli mi vengano a cercare? È successo con la mamma di un giovane tunisino che ha aggredito mio figlio. Spesso anche questi genitori hanno bisogno di aiuto. E a quelli che restano a guardare dico: “Guardate che potrebbe capitare anche a vostro figlio”. E insomma adesso anche le istituzioni cominciano a darci ascolto. E anche il Papa a cui avevo scritto ci ha risposto con una lettera di incoraggiamento, invitandoci tutti ad andare avanti e a non avere paura. Per mio figlio è stata una grande iniezione di fiducia”. Garlasco, Alberto e la scelta di Rita di Giusi Fasano Corriere della Sera, 15 agosto 2022 Quindici anni dopo l’omicidio della figlia Chiara, Rita Poggi continua a non alzare mai la voce, a usare solo parole civili perfino mentre ne ascoltava di irrispettose per la memoria di sua figlia. Il 13 agosto del 2007 è un giorno vuoto di gente e pieno di silenzio, a Garlasco. C’è un ragazzo, davanti a una villetta, che chiama il 118 per chiedere un’ambulanza: “Credo che abbiano ucciso una persona, non son sicuro, forse è viva”. Quel ragazzo era Alberto Stasi, all’epoca aveva 24 anni ed era uno studente di Economia alla Bocconi. La “persona” era la sua fidanzata, si chiamava Chiara Poggi e quella fu l’ultima mattina di cui vide la luce. Aveva 26 anni, laurea in Economia e lavoro nello studio di un commercialista. Sono passati 15 anni - già 15, verrebbe da dire - e la sentenza definitiva dice che l’assassino fu proprio lui, Alberto. Che però nega tutto da sempre e dal carcere prova - finora con risultato zero - a riprendersi il titolo di innocente. Premesso tutto questo, non è di Alberto né dei “colpi di scena” di questa storia che vorremmo parlare: lo fanno già in troppi. E invece vale la pena concentrarsi su un dettaglio che in questi anni ha sempre brillato come una pietra preziosa, e cioè l’equilibrio dei Poggi, la famiglia di Chiara. La sobrietà, il criterio, la pacatezza e il buon senso di tutti, ma in particolare di sua madre Rita, alla quale è toccato il più delle volte raccontare della figlia e commentare qualche passaggio giuridico o mediatico. In un mondo che urla e pesta i pugni sul tavolo, nell’arena dei social spesso perfetti per fare a brandelli il senso della misura, nello scontro quotidiano di fazioni schierate come soldati in guerra su qualsiasi argomento - dal colore dei calzini ai vaccini - Rita è un esempio di valore inestimabile, con la sua gentilezza e il suo modo di affrontare il dolore indicibile per la figlia che non c’è più. Mai una parola fuori posto, mai una sbavatura. Prudenza, all’inizio, per non rischiare di accusare un possibile innocente. Risolutezza, dopo, senza perdere mai di vista il senso della giustizia. Davanti a una figlia uccisa una madre ha il diritto di essere Rita o il contrario di Rita, e ci mancherebbe altro... Lei ha scelto di non alzare la voce nemmeno quando ne avrebbe avuto motivo. Ha scelto parole civili perfino mentre ne ascoltava di irrispettose per la memoria di sua figlia. Ha scelto l’equilibrio anche nei commenti di un anno fa, quando ha saputo che Alberto avrebbe potuto uscire dal carcere (di giorno) per lavorare. Ce ne vorrebbero a milioni, di Rite, per rendere migliore questo mondo. Padova. Detenzione e diritti, l’appello del Coordinamento Carcere Due Palazzi di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 15 agosto 2022 Drammatico il dato sui suicidi tra detenuti. Richiesta “liberazione anticipata speciale per Covid e liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione”. Dall’inizio dell’anno si sono registrati cinquantuno suicidi nelle carceri italiane. Un dato impressionante che dice molto delle condizioni a cui sono sottoposti i detenuti. Se già prima la situazione era molto difficile, il Covid ha evidentemente peggiorato la permanenza forzata di chi è costretto dietro le sbarre. Per non parlare poi del sovraffollamento. La popolazione carceraria conta 54.841 detenuti a fronte di 50.900 posti. Sono numeri di cui bisogna prendere atto perché c’è poco da commentare. Mentre da fare c’è moltissimo e le proposte non mancano. Coordinamento - Il Coordinamento Carcere Due Palazzi è composto da realtà che operano nella struttura da molto tempo e conoscono bene la situazione a cui sono sottoposti di detenuti. Si tratta di realtà come Granello di Senape/Ristretti Orizzonti, Giotto Cooperativa Sociale, Telefono Azzurro, WorkCrossing Cooperativa Sociale, Associazione Amici della Giotto, AltraCittà Cooperativa Sociale, Coristi per caso, Solidalia Cooperativa Sociale, Volontà di Sapere Cooperativa Sociale, Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale, Pallalpiede, TeatroCarcere, Scuola Edile, Antigone Padova, Commissione Carcere Camera Penale di Padova e Insegnanti scuole in carcere. “Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza”. Telefonate - Non solo hanno deciso di farsi portavoce di una iniziativa che arriva da un carcere del milanese ma fanno anche specifiche proposte. “In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello ‘Una telefonata ti può salvare la vita’ rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa”. Suicidi - “Il Coordinamento Carcere Due Palazzi - sottolineano - esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il covid ha interrorro/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane”. Compensazione - Il Coordinamento Carcere Due Palazzi oltre ad aderire ad iniziative come quella di don David Maria Riboldi rilanzia con due richieste molto chiare: “Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione. Inoltre chediamo la liberazione anticipata speciale per Covid”. Firenze. Visita di Ermini e Nardella a Sollicciano controradio.it, 15 agosto 2022 La visita del sindaco Dario Nardella, insieme al vicepresidente del Csm David Ermini e al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, al carcere di Sollicciano - prevista per lunedì 15 agosto alle ore 11 - è spostata al giorno successivo - martedì 16 agosto - sempre alle ore 11. Nell’occasione sindaco, vice presidente del Csm e garante dei detenuti, incontreranno delegazioni della polizia penitenziaria, dei detenuti e dei dipendenti del carcere. “L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi: ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare. Per questo, insieme ai miei più stretti collaboratori, al Vice Capo, ai Direttori generali del Dap e ai Provveditori regionali abbiamo avvertito l’esigenza di visitare degli istituti penitenziari anche nel giorno di Ferragosto. Vogliamo portare un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria e ribadire riconoscenza al personale in servizio”. Così il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi, che lunedì 15 agosto, dopo aver partecipato al tradizionale Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica, visiterà la Casa circondariale femminile e la Casa di reclusione di Roma Rebibbia. Nell’istituto di Viterbo si recherà il Vice Capo Carmelo Cantone, anche in rappresentanza del Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise. A Palermo Ucciardone e Messina saranno presenti, rispettivamente, i direttori generali dei Detenuti e Trattamento Gianfranco De Gesu e del Personale e Risorse Massimo Parisi; Pietro Buffa, direttore generale della Formazione e provveditore per la Lombardia, sarà invece a Genova Marassi. Il provveditore per la Puglia e la Basilicata Giuseppe Martone sarà nell’istituto penitenziario di Lecce, in quello di Taranto andrà il provveditore per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta Rita Russo. Nella Casa circondariale di Palermo Pagliarelli si recherà il provveditore per la Sicilia Cinzia Calandrino, a Terni il provveditore per la Toscana e l’Umbria Pierpaolo D’andria. Quello per la Campania Lucia Castellano visiterà gli istituti di Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere, mentre per l’Emilia Romagna e le Marche due dirigenti delegati dal Provveditore Gloria Manzelli saranno, rispettivamente, negli istituti di Bologna e Modena e di Ancona e Pesaro. La Casa circondariale di Aosta sarà visitata dal Provveditore del Triveneto Maria Milano Franco D’Aragona, che a sua volta ha delegato un funzionario del Prap a recarsi nell’istituto di Udine; analogamente, il Provveditore per la Sardegna Maurizio Veneziano invierà un suo delegato a visitare l’istituto di Oristano. Infine il Provveditore per la Calabria Liberato Guerriero sarà nella Casa circondariale di Ariano Irpino. Cremona. Carcere, i politici in visita a Cà del Ferro laprovinciacr.it, 15 agosto 2022 “Negli ultimi anni la situazione interna ai penitenziari del nostro Paese è in peggioramento. Alle problematiche oramai croniche - strutture detentive fatiscenti, sovraffollamento, carenze igieniche e sanitarie, attività lavorative per i detenuti praticamente inesistenti - si sono aggiunge nuove e preoccupanti criticità: aumento abnorme di detenuti extracomunitari, tossicodipendenti e affetti da patologie psichiatriche. Ma il dramma non è soltanto dei detenuti. Si pensi agli agenti di Polizia penitenziaria, costretti a lavorare in numero inferiore rispetto a quello stabilito e con scarse risorse”. Produttivo incontro del sindaco Galimberti e degli assessori Manfredini e Viola con la direttrice Rossella Padula: “Le criticità sono legate alla carenza di personale”. Inizia con queste parole la nota diffusa ieri da Sergio Rovelli, storico esponente cremonese del Partito radicale, per illustrale la visita a Cà del Ferro prevista per domani pomeriggio. “Lo stesso - riprende Ravelli - si può dire per gli operatori sanitari, gli psicologi e gli educatori. Alla base di tutto ciò resta la sistematica violazione dei principi fondamentali dello stato di diritto, alla sistematica violazione dell’articolo 27 della Costituzione, all’abuso della carcerazione preventiva e alla consistente presenza di detenuti innocenti. Va comunque ribadito che le carceri non sono che l’epifenomeno, la punta dell’iceberg di un problema più vasto e preoccupante: il malfunzionamento della giustizia italiana. Non ha caso la battaglia per la giustizia giusta e per l’affermazione dello stato di diritto costituisce da decenni una delle priorità del Partito Radicale che anche quest’anno nel periodo ferragostano ha organizzato visite nelle carceri di tutta Italia. Dal 13 al 17 agosto, saranno più di 40 gli istituti che verranno visitati dagli esponenti radicali, spesso accompagnati da esponenti istituzionali. La visita alla Casa circondariale di Cremona è prevista il 16 agosto, alle 14”. La delegazione sarà composta da Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’Istituto Luca Coscioni; Simone Bossi, senatore della Lega - Salvini Premier Fabio Favalli, radicale storico di Cremona e dallo stesso Ravelli, consigliere generale del Partito Radicale. Alle 17, davanti all’ingresso del carcere, conferenza stampa per l’illustrazione dei risultati della visita. Rimini. “Carcere, prima sezione da chiudere” Il Resto del Carlino, 15 agosto 2022 Farà tappa oggi a Rimini il giro di visite del Partito Radicale in 40 istituti penitenziari italiani. Ispezione per verificare le condizioni di vita dei detenuti e dei malati psichiatrici presenti all’interno e i problemi causati dal sovraffollamento. Pochi giorni fa nell’ospedale di Rimini è morto dopo giorni di coma Aziz Rouam, 37 anni, marocchino, che si era impiccato il 4 agosto nella sua cella del carcere dei Casetti. Facendo salire così a 50 il numero dei detenuti suicida dall’inizio dell’anno in Italia. L’estate più “drammatica” di sempre. Presenti oggi a Rimini, Ivan Innocenti e Valter Vecellio del consiglio generale dei Partito Radicale e Aldo Brunelli iscritto. “Già il 24 novembre scorso il dottor Franco Borgognoni, dopo l’ispezione sanitaria dell’Ausl Romagna definiva le condizioni della prima sezione del carcere di Rimini “molto scadenti, con rischio sanitario per i detenuti. Le criticità si ritengono non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione”“, scrive Ivan Innocenti in una nota, facendo presente che Aziz Rouam si trovava proprio nella prima sezione dei Casetti. Roma. Tribunale sotto organico: “Il processo fra sei mesi” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 15 agosto 2022 Impossibile impiegare magistrati onorari perché servono già per il settore civile ancora più in sofferenza. Dunque slittano in avanti i processi che vengono dall’udienza preliminare. La coperta del Tribunale penale è sempre più corta. Impossibile impiegare i togati onorari (magistrati che non beneficiano delle stesse tutele rispetto ai colleghi in carica) perché già devono puntellare il settore civile, prioritario per ottenere i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Dunque, a giudizio di Roberto Reali, presidente del Tribunale di Roma, con il 14,51% di organico scoperto, restavano poche soluzioni. Così ha scelto di imporre un argine di sei mesi alle udienze collegiali provenienti dalle decisioni dei gip. Dal 15 ottobre in poi non verranno fissati nuovi collegi per i processi provenienti dall’udienza preliminare. La misura dovrebbe, nelle intenzioni del presidente, permettere ai magistrati di smaltire l’arretrato senza effetti collaterali per la produttività generale: “Ritenuto - si legge nel documento- che il provvedimento non inciderà negativamente sulla produttività dell’ufficio, atteso che lo sgravio parziale consentirà di avere più tempo a disposizione per lo studio dei fascicoli che si tradurrà in una più rapida definizione dei relativi procedimenti”. I giudici potranno continuare il proprio lavoro senza aggiungere nuovi processi alla già enorme mole di impegni quotidiani. Quanto ai tempi della giustizia, poco cambia se si considera che già oggi un processo per frode in pubbliche forniture è stato fissato per il 22 gennaio 2024, fra un anno e mezzo. Milano. El Simba, talento rap nato in carcere a Milano: ora il concerto al Castello Sforzesco di Giovanna Maria Fagnani Corriere della Sera, 15 agosto 2022 Il rapper, 22 anni, ha scoperto la passione per la scrittura al Beccaria dove è entrato a 17 anni. Don Gino Rigoldi. “Abbiamo bisogno di rapper come lui. La trap un modo per parlare ai giovani, ma oggi i testi sono pieni di aggressività e violenza”. “Siamo umani abbiamo fatto errori...Pensateci prima di parlare, ragionate prima di giudicare. Aiutateci per un futuro migliore. Siamo rinchiusi in un labirinto dove ci sono milioni di storie”. Alex ha 22 anni e canta gli sguardi giudicanti che sente su di sé. Nelle sue rime rap canta di un “peccato che ormai è fatto” di un passato che “ormai è morto non lo voglio risorto”. E del futuro che si affaccia: “Non voglio la guerra voglio la pax”. Alex Simbala, in arte El Simba, da bambino voleva seguire le orme del nonno e fare il meccanico. E invece venerdì 19 salirà sul palco di “Milano è viva”, al Castello Sforzesco, per il suo primo concerto da solista (ore 21, ingresso libero, prenotare su Mailticket). Una performance intitolata “Una speranza mille sentimenti” (come il suo nuovo singolo), che alterna canzoni, danza e narrazione. Il talento di Alex per il rap si è rivelato negli anni di detenzione al carcere minorile Beccaria. Ci è entrato a 17 anni. Gliene restano 2 e mezzo da scontare, ma ha ottenuto a marzo la messa in prova. È tornato a vivere in famiglia e ha già un lavoro: è assunto fra le maestranze di Puntozero Teatro, che gestisce la sala teatrale del Beccaria, pronta a riaprire al pubblico a settembre. “Sono molto emozionato, è il mio debutto come cantante e sarà su un palco così importante - racconta. Scrivo canzoni da circa 3 anni e ne ho incise 9. Prima avevo molta rabbia dentro di me. Al laboratorio teatrale mi sono avvicinato, sono sincero, solo perché c’erano anche le ragazze. Invece poi mi sono innamorato del loro progetto e della scrittura. Ho capito che posso sfogare la mia rabbia per gli errori che ho fatto, raccontare la paura, la speranza di potercela fare non con la violenza, ma con un foglio, una penna e una base. Il teatro mi ha aperto un nuovo mondo”. Nato in Ecuador, Alex ha raggiunto i genitori emigrati in Italia, a Pioltello, a 8 anni. “L’impatto con una nuova cultura, una nuova lingua, non è stato semplice”. Dopo le medie, il giovane si iscrive a meccanica, ma, dopo un anno, lascia. “Me ne fregavo, avevo atteggiamenti sprezzanti”. Finisce in un gruppo di coetanei che commette reati. Arriva la condanna. “La felicità è la libertà. La perdi, lasci la famiglia vuota, il tuo cuore è spezzato a metà. Ti manca l’affetto di mamma e papà” canta ora. La compagnia Puntozero, composta da 15 persone, fra detenuti e volontari, opera al Beccaria dal 1995. “Facciamo corsi di tutte le professionalità teatrali: tecnico luci, fonico, macchinista, addetti alle trasmissioni in streaming. Mestieri che puoi spendere anche in altri contesti. Il teatro diventa un’occasione per riappassionarsi allo studio” racconta il direttore artistico Giuseppe Scutellà. Tra i primi fan di El Simba c’è don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, che venerdì sarà in platea. E invita a non sottovalutare il rap e la trap. “Alcuni ragazzi che seguo vivono con me. Io metto su Chopin, loro cambiano e mettono la trap. E sentono la stessa canzone 20 volte di fila. È importante inserirsi anche in questa nuova forma di comunicazione, per raggiungerli. Senza moralismi, accettando anche qualche esagerazione o parolacce”. La trap “è un modo di comunicare con cui ragazzi, che gravitano soprattutto attorno alle periferie e alle carceri, parlano dei loro sentimenti e desideri. Sono molto ascoltati e questo non è da sottovalutare, perché i loro testi sono pieni di aggressività e violenza” aggiunge don Gino. I testi di El Simba invece “Non girano attorno a quattro luoghi comuni ma fanno riflettere. Abbiamo bisogno di rapper come lui”. È ora di dare il Nobel a Rushdie di Bernard-Henri Lévy* La Repubblica, 15 agosto 2022 Quello che mi ha sempre colpito è l’eroismo tranquillo del mio amico Salman. Alla fatwa gli amici di Rushdie, i suoi lettori, Rushdie stesso, non ci pensavano nemmeno più. Ebbene: ci sbagliavamo tutti. Quel genere di assassini non si arrende mai. Possiamo disprezzare o dimenticare i cacciatori di taglie che la Storia ci ha sguinzagliato alle calcagna. La muta non ci dimentica. Oggi lui lotta contro la morte. Un vento di terrore e orrore soffia sul mondo. E io non riesco a fare nulla, se non attendere in agguato le rare notizie e lasciare che i ricordi degli ultimi trentatré anni vengano a me. Quella riunione del Consiglio nordico a Helsinki, poche settimane dopo la fatwa, durante la quale avevo segretamente deciso di dividere il mio tempo di parola con lui... Apparve sul palco accanto a me. Il pubblico, sbalordito, trattenne il fiato. Credettero di vedere un fantasma, un condannato a morte evaso. Lui rise, con quegli occhi strani, a forma di mezzaluna, e le pupille troppo grandi che si mangiavano tutto il bianco. Poi improvvisò un frizzante monologo in cui sosteneva che, tra il suo lavoro e la sua vita, avrebbe sempre scelto il lavoro. Si guadagnò un’ovazione. Quel viaggio a Nizza, per il quale Air Inter gli aveva riservato tutta la prima fila. Si imbarcò all’ultimo momento assieme agli agenti di scorta, poco prima che si chiudessero le porte e dopo un misterioso balletto di agenti di polizia, auto di servizio e luci lampeggianti sulla pista. Anche questa volta, quando apparve, fu uno shock. Una signora svenne. Un’altra chiese di scendere dall’aereo. E quell’altro codardo. La sfortuna per noi è che sia stato ministro degli Affari esteri della Francia. Si chiamava Roland Dumas. La Règle du Jeu, la rivista mia e di Salman, fondata da noi assieme a pochi altri nel 1990, lo aveva invitato a incontrare i suoi amici parigini. Il ministro fu spregevole. Decretò che a questo cittadino europeo serviva un visto per entrare in Francia. E glielo negò, sostenendo di non essere in grado di garantire la sua sicurezza. Il suo collega, il ministro Jack Lang, protestò. François Pinault si offrì di fornire un aereo e la protezione necessaria. François Mitterrand chiuse la faccenda. E la Francia dei traffici e della vendita di armi cedette allo spirito di Voltaire. Un altro vigliacco? Il principe Carlo, negli stessi anni. Pranzo all’ambasciata del Regno Unito a Parigi. “Rushdie non è granché come scrittore”, brontolò il principe quando gli chiesi che cosa pensasse della vicenda. Poi aggiunse: “La sua protezione è molto costosa per la corona d’Inghilterra”. Martin Amis, un altro amico di Salman, lo rimbeccò: “Ci costa di più proteggere il principe di Galles, che tuttavia non ha, che io sappia, pubblicato granché di interessante”. Mi ricordo di quando Le Monde mi mandò a Londra per un reportage sulla vita quotidiana dello scrittore. Pranzammo da Scott. Passeggiammo per Mayfair. Passammo davanti a Kensington Palace, dove mi confessò di essersi precipitato il giorno della morte della principessa Diana. Andiamo alla Portrait Gallery per vedere una mostra di ritratti di scrittori di Henri Cartier-Bresson. Alcune persone lo avvicinavano: “Lei è Salman Rushdie?”. “Lo spero, io faccio del mio meglio...”. Quel giorno si fece un punto d’onore di comportarsi come se non avesse una spada di Damocle che gli pendeva sulla testa. Faceva i suoi esercizi di libertà come gli altri fanno esercizi di fitness. Mi ricordo del nostro progetto per un viaggio a Sarajevo. Il presidente Izetbegovi? si era dichiarato d’accordo, in linea di principio. Lui, Salman, desiderava andarci. Lungi dall’essere l’islamofobo che gli stronzi e i cretini descrivono, non era forse un amico dell’Islam moderato? Il difensore di un Corano che, come a Sarajevo, avrebbe combattuto per l’Illuminismo? Un certo Boutros Boutros-Ghali, all’epoca segretario generale delle Nazioni Unite ma da tempo ormai finito nel dimenticatoio, si oppose, con dei pretesti. Dovemmo arrenderci. Mi ricordo il suo matrimonio: una pioggia di petali di rosa, un’orchestra indiana, una cetra, un tamburo, il gesto di mettere l’anello alla caviglia della sua amata, circondato dai suoi amici, c’era anche suo figlio, era felice. Mi ricordo la sera della prima elezione di Barack Obama. Eravamo nel lussuoso appartamento di un magnate di New York. C’era un mix di letterati, attori, giornalisti, grandi donatori. A un certo punto squillò un cellulare. Era il presidente eletto che lo ringraziava per il suo sostegno. Mi ricordo il giorno in cui, con Pierre Nora e Claude Lanzmann, siamo andati a filmarlo per Arte. Non so che fine abbia fatto quel documentario. Abbiamo girato, credo, nella biblioteca di un club in una zona chic di Londra. Lanzmann era intimidito dall’autorità di Rushdie. Nora era infastidito dalla soggezione del suo vecchio amico ed ex compagno di classe. Sembrava volerlo proteggere da se stesso e dalla sua ben nota tendenza alla querelle mimetica. Salman era divertito. Gli piaceva l’idea che questi due vecchi secchioni, che ammirava, portassero avanti un’eterna conversazione da adolescenti. Mi ricordo di una giornata in spiaggia ad Antibes, la gioia di vivere, il sole di mezzogiorno, il tremolio della calura a perdita d’occhio, l’amore per il cinema e le attrici, Il disprezzo, chi era il vero proprietario di villa Malaparte a Capri? Quel giorno non desiderava altro che riuscire a girare un remake di Agente 007 - Licenza di uccidere. Amante della bella vita. Desideroso di esistere e di moltiplicare le esistenze. Tutto il contrario di un maledetto. Quello che mi ha sempre colpito, in tutti questi anni, è l’eroismo tranquillo del mio amico. Per questo gli altri, quelli che non hanno saputo proteggerlo, tutti noi, abbiamo un dovere. Questo scrittore punito per aver scritto, trent’anni fa, dei testi liberi e che rendono liberi, merita una riparazione. Questo atto di terrore assoluto, che, al di là del suo corpo trafitto e dei suoi libri, stende un’ombra di terrore su tutti i libri e le parole del mondo, richiede una risposta eclatante. Dobbiamo fare in modo che all’autore dei Versi satanici venga assegnata la più alta delle onorificenze. Dobbiamo far sì che, in nome di tutti i suoi e a suo nome, quest’anno, ovvero tra poche settimane, gli sia assegnato il premio Nobel per la letteratura. Non riesco a immaginare, oggi, nessun altro scrittore che abbia l’audacia di meritarlo più di lui. La campagna comincia in questo istante. Traduzione di Alessandra Neve* Intervista a Emma Bonino: “Sui diritti sfida ai reazionari” di Giovanna Vitale La Repubblica, 15 agosto 2022 La storica esponente radicale in campo con +Europa. “Ddl Zan e Ius scholae divisivi? Penso che la società sia più avanti dei partiti e su questi temi se non si procede si torna indietro. Spero che Renzi e Calenda non vadano in soccorso della destra ma dopo le ultime vicende mi aspetto di tutto”. Senatrice Bonino, il programma del Pd punta molto sui diritti. Pensa sia la scelta giusta per recuperare voti dall’astensione e dal centro? “I diritti sono un punto politico decisivo, dagli Stati Uniti all’Europa. Negli Usa dopo la sentenza della Corte Suprema alcuni Stati trumpiani vietano l’aborto, in Ungheria e Polonia per le donne e le persone Lgbtiq+ la vita si fa sempre più difficile. Per una liberale radicale come me la difesa della società aperta è una priorità, sui temi economici come sui diritti civili. E sono molto contenta che nel nostro campo sia stata avanzata la candidatura di Ilaria Cucchi e Aboubakar Soumahoro. La scelta è chiara: da questa parte i diritti e il progresso, dall’altra chi guarda a Orban e strizza l’occhio a Putin”. Alcuni temi, dall’uso terapeutico della cannabis allo Ius scholae, sono divisivi. Il Parlamento li ha fermati, ma secondo lei l’Italia è pronta? “Penso che la società sia più avanti dei partiti. Sui diritti, come sempre, la destra di Meloni e Salvini è reazionaria, altro che “moderati”. Faccio notare che in Germania la coalizione tra liberali, verdi e socialdemocratici si appresta a legalizzare la cannabis, e che la Cdu della Merkel aveva cominciato a discutere del tema. Sui diritti non si può rimanere fermi, se non si va avanti si torna indietro”. Non si rischia di impaurire gli elettori e spingerli verso i sovranisti che urlano contro la droga libera e la cittadinanza facile agli immigrati? “Come dicevo, gli elettori sono più maturi, anche quelli di destra. Chi mi conosce sa che da qualche decennio mi batto per i diritti, ma ciò non mi ha impedito di ricoprire cariche istituzionali, da commissaria europea a ministro; questo per dire che si può lottare per più cose insieme, buon governo e diritti. E voglio ricordare ai più giovani che pure le Meloni e i Salvini di un tempo erano contro il divorzio, l’aborto e i diritti degli omosessuali. La storia ha dato torto a quei politici, darà torto anche a quelli di oggi: dobbiamo impedire che facciano guai come i loro amici in Polonia e in Ungheria”. Sui migranti la destra gioca a soffiare sulle paure per nascondere la sua natura xenofoba? “Mi pare assurdo. Abbiamo un crollo demografico, in molti settori non ci sono lavoratori e le politiche per una crescita della natalità non hanno effetti immediati: come si fa a non capire che dobbiamo legare all’Italia i ragazzi che studiano nelle nostre scuole e che sono figli di stranieri? Lo Ius scholae non è un regalo agli stranieri, ma un investimento sul futuro del nostro Paese”. Si parla pure di matrimonio egualitario. Non sarà troppo per un paese cattolico come l’Italia? “La Spagna è un paese cattolico ed ha introdotto il matrimonio omosessuale molti anni fa. Noi di +Europa lo chiediamo da tempo e credo che la maggioranza degli italiani, in particolare i giovani, siano con noi. In più, nel nostro programma chiediamo anche pari diritti per le famiglie arcobaleno e adozioni per le coppie Lgbtiq+. Su questo vorrei omaggiare la memoria di Piero Angela che, intervenendo su Rai 3 tempo fa, poneva garbatamente l’evidenza scientifica sulla omosessualità, dicendo che non è contro natura, ma anzi queste coppie fanno esattamente lo stesso percorso di quelle eterosessuali. Perché, quindi, non riconoscere loro gli stessi diritti?”. Altro capitolo: il fine vita, sempre osteggiato dalla destra. Un governo Meloni l’approverà mai? “Temo proprio di no, dopo anni e anni di propaganda non avranno margini. Mi ricordo la vicenda di Eluana Englaro: da una parte un uomo mite e coraggioso, il padre, Beppino; dall’altra, una schiera di politici di destra esagitati, pronti cinicamente a dire che la stavano ammazzando. È stato grave anche per questo che la legislatura sia finita anzitempo. Faccio notare inoltre che la folle legge sugli stupefacenti causa disastri su ogni fronte, ingolfa i tribunali, riempie le carceri di tossicodipendenti ed è la principale causa del sovraffollamento. Una riforma antiproibizionista come quella che proponiamo è un passo non più rinviabile nel cammino verso quella giustizia giusta per cui ci battiamo da sempre”. Giovedì Azione e Iv presentano il loro programma: si aspetta che prendano posizione sui diritti? “Spero di sì, nel patto con il Pd sottoscritto da Letta, Calenda e Della Vedova i diritti c’erano come elemento importante e comune. Chi si richiama ai valori liberali non può non avere in agenda i diritti. Ma la presenza di molti esponenti del centrodestra cattolico nelle loro liste temo li renderà molto timidi su questo fronte”. Ha capito qual è il disegno del Terzo polo? Favorire la destra? “È un dato di fatto che nei collegi uninominali che rappresentano oltre un terzo degli eletti il Terzo polo avvantaggerà Meloni e Salvini. I due leader sono entrambi stati eletti nel Pd e credo che i loro elettori non voterebbero un candidato di destra, ma per effetto della legge elettorale finiranno per favorirne l’elezione”. Se Meloni & Co. non riuscissero ad ottenere la maggioranza assoluta, crede che Renzi e Calenda andranno in soccorso? “Spero di no, ma dopo le ultime vicende mi aspetto di tutto”. Afghanistan, nuovo Medioevo di Francesca Mannocchi La Stampa, 15 agosto 2022 Un anno fa i talebani prendevano Kabul, restauravano il terrore e cancellavano i diritti civili. Le donne non studiano e scompaiono dalla vita pubblica, metà della popolazione soffre la fame. “Siamo stanche di essere discriminate, resteremo qui per riavere i nostri diritti”. È la vigilia del primo anniversario della presa del potere dei talebani in Afghanistan, i video che arrivano da Kabul mostrano decine di donne afghane tornate in strada a chiedere pane e libertà. Hanno sfidato i divieti fino a raggiungere il ministero dell’Istruzione dove i talebani hanno aperto il fuoco, sparando in aria per disperdere le donne e arrestando dieci tra giornalisti e operatori che seguivano la manifestazione. Un’istantanea che ricorda al mondo cosa siano stati gli ultimi dodici mesi per i cittadini e le cittadine afghane: l’intervallo tra la caduta di Kabul che ha scosso il mondo e il lento oblio che ha portato alla fame venti milioni di persone. Kabul, un anno fa - Il 15 agosto 2021 cade Kabul e insieme alla capitale afgana cadono le illusioni di vent’anni di guerra e miliardi di dollari spesi in aiuti. Le immagini di quei giorni sono nella memoria di ognuno di noi: i talebani che in dodici giorni accelerano l’offensiva iniziata in primavera conquistano una dopo l’altra le province del Paese fino ad arrivare, senza incontrare resistenza, a presidiare le strade di Kabul. Mancavano due settimane al definitivo ritiro delle truppe statunitensi dal Paese. I funzionari della Repubblica afghana cominciavano a organizzare la fuga di uomini e capitali da settimane, da quando in primavera - confermati gli accordi di Doha tra i talebani e l’amministrazione statunitense - era chiaro a molti che la domanda non era se i talebani sarebbero arrivati a riconquistare il Paese, ma quando lo avrebbero fatto. Così, quando il 14 agosto i talebani erano alle porte della città, mentre le ambasciate organizzavano ponti aerei dalla Green Zone all’aeroporto, la gente si è riversata in strada. Incredula, spaventata, tradita. C’erano quelli che ricordavano il primo emirato islamico (1996-2001) e non volevano riviverlo e quelli che non volevano far ricordare il secondo Emirato - che era già lì, in strada - ai propri figli e soprattutto alle proprie figlie. L’aeroporto Hamid Karzai è diventato in poche ore la cronaca di un fallimento, della sbalorditiva assenza di strategia degli Stati Uniti e degli alleati che non avevano previsto l’annunciato ritiro delle truppe con la capitale tornata in mano ai talebani. Solo tre mesi prima, a giugno del 2021, funzionari americani avevano affermato che Kabul sarebbe caduta in sei, massimo dodici mesi dal ritiro statunitense. Invece il Paese è capitolato in pochi giorni, i talebani sono entrati in città, hanno occupato il palazzo presidenziale e i giorni che separavano la conquista di Kabul dal 31 agosto sono diventati il prologo di una strage annunciata che ha portato all’attentato suicida del 26 agosto. Morirono duecento persone, tra le migliaia ammassate lungo i muri perimetrali dello scalo nel tentativo disperato di raggiungere gli ultimi voli di evacuazione. Così mentre le sedi diplomatiche esfiltravano il personale, mentre l’ex presidente Ashraf Ghani fuggiva senza una parola per il suo popolo, salvando famiglia e denaro, chi aveva lavorato e creduto per la Repubblica cercava un nascondiglio per paura di essere braccato e giustiziato, o cercava la fuga. Morivano così gli afghani coi talebani in strada e gli occidentali in fuga, morivano aggrappati alle ali degli aerei in decollo, come Fada Mohammed, un giovane dentista morto il 16 agosto, i cui resti sono stati ritrovati giorni dopo a dieci chilometri dall’aeroporto. In pochi giorni Kabul ha cambiato faccia. Sono comparse le bandiere degli studenti coranici, sono state rimosse quelle della Repubblica afghana, è sparita la musica, i cartelloni pubblicitari, sono stati rimossi i volti delle donne nelle vetrine dei negozi, pian piano sono sparite anche le donne. Coperte dai veli, dai burqa, dai divieti, dalla paura. “Assicuriamo alla comunità internazionale che non ci saranno discriminazioni contro le donne”, aveva detto il portavoce Zabihullah Mujahid durante una conferenza stampa già il 17 agosto. “Che i loro diritti saranno rispettati, ma entro le strutture che abbiamo”. L’ambiguità delle parole di garanzia di Mujahid “entro le strutture che abbiamo”, sarebbe presto diventato l’alibi della segregazione femminile. Il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, restituito a poche settimane dalla presa di Kabul, era per le donne afghane il preludio al peggiore degli scenari possibili: la loro scomparsa dalla vita pubblica. Il corpo delle donne - La comunità internazionale ha isolato immediatamente il nuovo regime di Kabul. I talebani sapevano che la partita del riconoscimento della loro autorità si sarebbe giocata sui diritti delle donne e hanno millantato per mesi un’apertura che non è mai arrivata, anzi. A gennaio Zabihullah Mujahid è tornato a parlare di istruzione femminile, non per rassicurare la comunità internazionale e le famiglie afghane, ma per prendere tempo: “È una questione di capacità, spero che le scuole possano riaprire a marzo perché noi - dice ai giornalisti che lo incalzavano sull’accesso alle scuole per le ragazze - non siamo contrari all’istruzione”. Ma quando il 23 marzo - primo giorno del nuovo anno scolastico afghano - le ragazze sono uscite di casa con gli zaini in spalla hanno trovato le scuole aperte per i ragazzi ma non per loro. È stato chiaro il senso delle parole di Mujahid, le strutture che “avevano a disposizione” non sarebbero mai state adeguate alla presenza femminile. Da maggio alle donne afghane è stato imposto l’hijab, hanno l’obbligo di coprirsi il viso quando sono in pubblico, è loro proibito fare viaggi a lunga distanza da sole e possono visitare i parchi pubblici della capitale solo nei giorni in cui gli uomini non sono ammessi, ma secondo la polizia religiosa resta preferibile, comunque, per le donne “rimanere in casa che uscire in strada” anche negli orari in cui sarebbe loro concesso. È stato ripristinato il requisito del mahram, un familiare di sesso maschile che funga da accompagnatore, la cui presenza inevitabilmente influenza ogni aspetto della vita sociale femminile, dalla possibilità di fare la spesa, quella di occuparsi dell’assistenza sanitaria e alimentare delle loro famiglie. A quella di spostarsi, o lavorare, cioè contribuire alla sopravvivenza di famiglie che in pochi mesi sono precipitate nell’abisso di una crisi economica senza precedenti. Una povertà tale che un numero sempre maggiore di ragazzine è esposto al rischio di matrimoni precoci. Bambine promesse, cedute o vendute che sono diventate merce di scambio per famiglie che non sanno più come sfamarsi o come ripagare i debiti. Le sanzioni, la crisi economica, la fame - Quando i talebani hanno preso il potere, gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali che non hanno riconosciuto il loro come governo legittimo dell’Afghanistan e hanno posto il Paese sotto sanzioni, congelato oltre 9 miliardi di dollari in beni appartenenti alla Banca centrale afghana e la comunità internazionale ha ridotto gli aiuti, nonostante tutti i Paesi donatori fossero consapevoli che nell’ex Repubblica islamica dipendesse dagli aiuti esteri che finanziavano il 75 per cento della spesa pubblica. I governi donatori, guidati dagli Stati Uniti, hanno incaricato la Banca mondiale di tagliare circa 2 miliardi di dollari all’assistenza internazionale esterna che la banca gestiva attraverso l’Afghanistan Reconstructive Trust Fund (Artf) per pagare gli stipendi di milioni di insegnanti, operatori sanitari e altri lavoratori statali. Il risultato è che i salari non vengono pagati da mesi, i mercati sono pieni di merce che gli afghani non possono comprare, la classe media del Paese è scomparsa e alle donne - non potendo lavorare - non resta che elemosinare o sperare che qualcuno voglia una delle figlie in cambio di denaro. La disoccupazione è aumentata vertiginosamente, le importazioni sono crollate e la povertà ha raggiunto livelli quasi universali, un’epidemia di colera ha colpito la parte meridionale del Paese mentre la fame, aggravata dal secondo anno di siccità, è diventata un’emergenza per milioni di famiglie. Secondo i dati delle Nazioni Unite, oggi in Afghanistan 20 milioni di persone, approssimativamente metà della popolazione - stanno soffrendo il livello 3 o 4 di insicurezza alimentare, che corrispondono allo stato: crisi o emergenza. Il Programma Alimentare Mondiale ha riferito poche settimane fa che decine di migliaia di persone in una provincia, Ghor, erano cadute in una malnutrizione acuta di livello 5 (“catastrofica”), il livello che precede la carestia. Secondo la Croce Rossa in un anno il prezzo dell’olio è aumentato del 55%, quello della farina del 68%, il 70% delle famiglie afghane non è in grado di provvedere ai bisogni primari, 3 milioni e mezzo di bambini sono a rischio di malnutrizione. Da mesi le organizzazioni umanitarie lanciano allarmi sulla vastità della crisi e sulla causalità tra la fame e lo choc economico che vive il Paese. Coi soldi afghani bloccati dalle sanzioni il Paese vive il paradosso tragico e spietato per cui nei mercati e nei negozi c’è cibo ma non ci sono soldi per comprarlo. Una crisi economica che, secondo l’International Rescue Committee “rischia di generare una crisi umanitaria che potrebbe portare a più morti di 20 anni di guerra”. Il direttore nazionale afghano di Save the Children ha dichiarato: “Non ho mai visto niente di simile. Trattiamo ogni giorno bambini spaventosamente malati che da mesi non mangiano altro che pane. I genitori devono prendere decisioni impossibili: quale dei loro figli daranno da mangiare? Mandano i figli a lavorare o li lasciano morire di fame?”. Era metà febbraio, erano passati solo sei mesi da quando i talebani avevano riconquistato il Paese, il mondo (leggasi i donatori) di lì a poco avrebbe sostituito l’emergenza afghana con quella ucraina. I destini degli afghani, delle afghane hanno cominciato così a finire nell’ombra. Il dilemma occidentale sull’Afghanistan - Il destino delle donne afghane è strettamente intrecciato alla crisi economica aggravata dalle sanzioni. È stato immediatamente chiaro che il braccio di ferro sulle sanzioni avrebbe avuto come merce di scambio il riconoscimento dei diritti delle donne. Lo strumento economico è sembrato all’Occidente il modo più semplice per cercare di fare pressione sui talebani, la capacità dell’Emirato di dimostrarsi inclusivo, capace di garantire l’istruzione femminile sarebbe stata la leva per alleggerire le sanzioni economiche e facilitare di nuovo l’ingresso degli aiuti umanitari così necessari alla sopravvivenza del Paese. Il braccio di ferro però si è trasformato in un dilemma morale che dopo un anno non solo non ha raccolto i risultati sperati, ma ha dimostrato (una volta ancora) l’assenza di strategia occidentale per far fronte alla catastrofe umanitaria che ha contribuito a generare. Le donne sono rimaste senza diritti, costrette al burqa, alla vita domestica, all’ignoranza, i talebani sono rimasti al potere, ma puniti dalle sanzioni economiche. “Quello che sta succedendo in questo momento è che 38 milioni di persone stanno soffrendo perché poche centinaia sono al potere”, ha detto Samira Sayed Rahman, coordinatrice della comunicazione per l’International Rescue Committee (IRC), fotografando la crisi del Paese ma anche quella dell’Occidente. “Il popolo afghano sta vivendo un incubo, vittima sia della crudeltà dei talebani che dell’apatia internazionale”, ha detto Fereshta Abbasi, ricercatrice afghana di Human Rights Watch. “Il futuro dell’Afghanistan rimarrà cupo a meno che i governi stranieri non si impegnino più attivamente con le autorità talebane mentre le esercitino vigorosamente pressioni sul rispetto dei loro diritti”. Gli stessi talebani con cui gli Stati Uniti hanno firmato un accordo di pace nel febbraio 2020 per garantire il ritiro delle proprie truppe in condizioni di sicurezza, gli uomini che sono ed erano nelle liste dei terroristi internazionali durante i colloqui a Doha erano presentabili - anzi necessari - sono oggi impresentabili e dunque sanzionati. Prima da loro dipendevano gli attentati che avrebbero messo in pericolo l’incolumità delle delegazioni e delle truppe occidentali, oggi da loro dipende la vita di milioni di cittadini afghani. Per questo le organizzazioni internazionali chiedono lo sforzo di “impegnarsi con le autorità talebane”. È il vero dilemma dell’Occidente oggi, in Afghanistan. È il solo modo di salvare uomini, donne e bambini che rischiano di morire di fame. Kabul, un anno dopo il ritorno dei talebani: fame, paura e diritti cancellati di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 15 agosto 2022 Un anno dopo la presa di Kabul da parte dei talebani e la “fuga” degli americani sono altre le sfide globali sotto i riflettori. Ma i rapporti di forza tra Usa e resto del mondo forse sono cambiati lì. Forse Vladimir Putin non avrebbe attaccato l’Ucraina se l’America avesse mantenuto i suoi impegni in Afghanistan. Forse Pechino non sarebbe oggi così aggressiva con Taiwan e l’autoritarismo non sarebbe un modello politico competitivo rispetto alla democrazia. Forse la storia dirà che i rapporti di forza globali sono cambiati il 15 agosto 2021 con la caduta della Kabul filo-occidentale e gli afghani che precipitano dagli aerei pur di fuggire segnano la fine del mondo unipolare post Guerra Fredda. Gli “studenti del Corano” sono tornati padroni perché un Afghanistan civile non era più (parole di Biden) nell’”interesse nazionale americano”. Dopo aver speso migliaia di miliardi e perso 3.600 soldati tra americani e alleati (53 italiani) Washington ammetteva di non poter essere il gendarme al mondo. È stata una presa di coscienza lunga: il democratico Barack Obama ha promesso il ritiro, il repubblicano Donald Trump firmato gli accordi di Doha, il democratico Joe Biden li ha attuati. Abbiamo capito che il mondo non cambia (solo) con le armi? Probabile, anche se repubblicani e democratici, invece che sulle scelte di fondo, litigano ancora su chi abbia la responsabilità del caos nel ritiro dello scorso anno. Un memo della Casa Bianca accusa gli accordi di Doha firmati da Trump. L’altro schieramento punta il dito sulla pianificazione dell’exit strategy di Biden. Manca però un pezzo del ragionamento: se Usa e alleati rinunciano a migliorare (a nostra immagine) il resto del mondo, gli altri Paesi ci lasceranno vivere sereni e tranquilli la nostra ricchezza? I 10 milioni di profughi ucraini sono solo un assaggio di quel che potrebbe capitare. Russia e Cina vogliono riprendersi terre che considerano loro per diritto storico. Le fabbriche di chip taiwanesi sotto controllo cinese sarebbero un incubo per l’industria elettronica da cui dipendono le nostre vite. India, Africa, Medio Oriente e Sud America hanno ricordi poco piacevoli della supremazia occidentale e sono pronti a cambiare alleanze. Persino dal povero, lontano Afghanistan arrivano minacce. Al Zawahiri, successore di Osama bin Laden, era a Kabul pochi giorni fa quando è stato ucciso da un drone. Significa che gli Usa possono difendersi senza uomini sul terreno, ma anche che il potenziale terroristico dell’Emirato talebano è intatto. Restare indifferenti alla fame, alle discriminazioni, alle dittature, ai fanatismi non è una soluzione. Se generazioni di afghani cresceranno nella versione oscurantista dell’Islam talebano ci sarà un prezzo e non lo pagherà solo chi in Afghanistan ha creduto alle nostre promesse di libertà e sviluppo. Prima o poi, anche noi dovremo affrontare un’altra ondata di odio e rivalsa.