Suicidi nelle carceri, il grido si moltiplica: “Subito le telefonate libere ai detenuti!” di Luca Cereda Avvenire, 14 agosto 2022 Altri suicidi, in carcere. Ed ora sono 51. Cinquantuno le persone che si sono tolte la vita in cella da inizio anno a venerdì, quando il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha aggiornato i suoi dati. In tutto il 2021 erano stati 57. L’ultimo a farla finita, a Monza, è stato il 24enne Mohamed Siliman: sarebbe uscito il prossimo aprile ed era sottoposto ad una misura di “grande sorveglianza” per problemi di autolesionismo. Qualche ora prima un altro detenuto si è tolto la vita a Rimini. Una escalation che sembra inarrestabile. Di fronte all’emergenza - un suicidio si è verificato anche nella casa di reclusione di Padova pochi giorni fa - il Coordinamento del carcere, il Due Palazzi, ha deciso di riprendere e rilanciare l’appello promosso dall’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi, sulle pagine di Avvenire: “Una telefonata può salvare la vita di un detenuto, per questo chiediamo la liberalizzazione delle telefonate in cella, come possibilità di trovare nei legami familiari e affettivi la forza di andare avanti anche nei momenti di disperazione” spiega Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto, da anni impegnata nel reinserimento lavorativo dei detenuti, e sottoscritto anche da Ristretti Orizzonti - nata nel penitenziario padovano - così come da Telefono Azzurro, Antigone Padova, Teatro Carcere per un totale di ben 18 realtà del Terzo settore. “In questi anni di pandemia i detenuti hanno potuto chiamare e nella maggior parte dei casi anche videochiamare casa - aggiunge Boscoletto. Hanno rivisto i genitori, i figli e gli amici. Con il virus che oggi non è più pericoloso per chi sta in carcere grazie al vaccino, telefoni e smartphone stanno sparendo, si sta tornando ai precedenti 10 minuti di telefonata alla settimana”. Ma la tecnologia non mette a rischio la sicurezza di chi sta fuori? “Semmai permette un maggior controllo di quello che viene detto, sia durante la chiamata, che a posteriori ricontrollando tutto. La scelta di non mettere i telefoni in cella è incomprensibile, anche perché alla maggior parte dei detenuti non vengono controllate le lettere scritte in carcere, quindi perché non dovrebbero telefonare?” La ricetta che arriva da Padova è semplice: a queste persone va data fiducia. “Il carcere non può essere un orfanotrofio per adulti. Se la fiducia viene tradita, si valuta come procedere, se ridurla o revocarla. Ad oggi in carcere le persone imparano a diventare detenuti, non a tornare cittadini. Viene insegnato loro come diventare invisibili - chiosa Boscoletto - a fronte di 18mila detenuti che avrebbero bisogno d’essere trasferiti in centri di recupero per tossicodipendenti o in centri psichiatrici”. E invece sono chiusi in celle sovraffollate. Mentre il Capo del Dap, Carlo Renoldi, a Ferragosto visiterà la Casa circondariale femminile di Rebibbia a Roma - invitando i suoi rappresentati territoriali a fare lo stesso - dal penitenziario di Padova, dove pure le attività e i progetti portati avanti coi detenuti sono strutturati da tempo (è il caso della rinomata pasticceria nata e cresciuta nell’istituto), il Coordinamento registra come “il carcere che abbiamo oggi ha fallito, è diventato una discarica indifferenziata in cui meno del 30% fa un lavoro vero, professionalizzante, non le pulizie nel penitenziario. Anche per questo la recidiva reale è al 90%: chi esce delinque come e più di prima. Questo è un costo sociale ed economico”. Che, tra processo e carcere, arriva a costare oltre 4 miliardi di euro. E poi c’è il nodo della mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia: “Chiediamo al Dap di tornare a lavorare anche su questo punto”. Suicidi in carcere, 14 in più rispetto allo scorso anno. A Napoli il primato di Manuela Galletta La Stampa, 14 agosto 2022 Una media di 6 decessi al mese. In Campania si sono tolte la vita tre persone in soli cinque giorni. Quel “+” accanto al numero dei suicidi in carcere è un segno che fa male e spinge il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, a suonare nuovamente l’allarme: “La detenzione non deve tradursi in un annientamento della possibilità di speranza di una persona privata della libertà personale”. Dall’inizio dell’anno a oggi i suicidi dietro le sbarre sono stati 50, ben 14 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Praticamente una media di 6 decessi al mese. Troppi. Numeri così alti non ce sono mai stati, nemmeno nel periodo peggiore del sovraffollamento nelle carceri che portò alla condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Numeri dietro i quali si nascondono spaccati che raccontano disagi, ristrettezze che a volte vanno ben oltre il limite della tollerabilità. La storia che più ha toccato le corde del cuore è stata quella della 27enne Donatella Hodo, morta suicida nel carcere di Verona lo scorso 2 agosto: il giudice che ha seguito il suo percorso, Vincenzo Semeraro, ha scritto una lettera per la ragazza chiedendo “scusa perché ho fallito”. Un caso che ha fatto scalpore e che ha fatto emergere il nome di Donatella dall’oscurità e dall’oblio cui sempre più spesso i detenuti sono abbandonati, finendo così con il diventare meri numeri. Numeri, nel caso dei suicidi, di una strage silenziosa che scuote solo chi ha contatti con il mondo dei penitenziari. La Campania ha il record negativo di detenuti che si sono tolti la vita in questo inizio anno: in appena 5 giorni tre persone si sono ammazzate. Tutte nel mese di agosto. Il primo decesso si è registro il 5 agosto nel carcere di Arienzo, nel Caseratano: Sossio Cicchiello, 50enne di Frattamaggiore, si è impiccato nella sua cella. Il 7 agosto, nella casa circondariale di Poggioreale, si è ucciso il 43enne Francesco Iovine, detenuto per piccoli reati con fine pena 2024: l’uomo si è suicidato nel reparto Sai (Servizio Sanitario Integrato) al secondo piano della struttura. “Francesco - hanno raccontato il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, e il Garante di Napoli, Pietro Ioia - era entrato nel novembre 2021 a Poggioreale nel reparto per gli ammalati: era anoressico, pesava 43 chili. Durante la sua permanenza più di una volta era stato portato per visite specialistiche al Caldarelli”. Il 10 agosto l’ultimo episodio: un algerino di 33 anni, Dardou Gardon, si è impiccato nella sua cella nel penitenziario di Secondigliano. Un finale tragico ma annunciato. L’uomo, condannato per rapina, aveva già tentato due volte di uccidersi, perché lontano dalla famiglia che non vedeva dal suo ingresso in carcere. Voleva essere trasferito al Nord, invece dal carcere di Benevento - dove era stato recluso dal 2021 - era stato spostato, a maggio scorso, in quello napoletano di Secondigliano. “Ogni suicidio in carcere è una nostra sconfitta, una sconfitta della società e delle Istituzioni a vari livelli. Occorre prevenire, intervenire prima, rilevare eventuali segnali di disagio e sofferenza emotiva in correlazione con un rischio suicidario. Intanto il carcere uccide”, commentano Ciambriello e Ioia. Alla luce delle drammatiche notizie giunte in questi giorni dagli istituti penitenziari, relative al numero di suicidi e allo stato di enorme sofferenza dei detenuti aggravato dall’incessante caldo”, l’Unione delle Camere penali italiane ha inviato una lettera a Carlo Renoldi e Carmelo Cantone, capo e vicecapo del Dap, chiedendo “un urgente incontro” “affinché l’Avvocatura possa essere messa a conoscenza delle modalità con cui viene affrontata quest’emergenza, che sta rendendo ancor di più la detenzione in Italia contraria alle più elementari regole della vita in un Paese civile”. Carceri, rieducazione negata e suicidi di Tommaso Marvasi La Discussione, 14 agosto 2022 Il sistema costituzionale e penale, l’intero nostro ordinamento, nega allo Stato il diritto di vita e di morte sui cittadini: la pena di morte è una barbarie ammessa per lo più soltanto in regimi totalitari e residualmente in qualche democrazia (tra queste alcuni Stati degli USA). Contro gli autori accertati giudizialmente di reati è prevista la “detenzione” (non propriamente il carcere; anche gli arresti domiciliari sono una forma di detenzione): che non è fine a sé stessa, ma deve tendere alla rieducazione. Fondamentali le garanzie previste dalla Costituzione: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2); “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (art. 13, commi 1 e 2); “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte” (art. 27, la norma anche della presunzione di innocenza, commi 3 e 4). Sull’argomento - avverto subito - sono molto radicale. Sono tra quelli che ritengono l’ergastolo contrario alla Costituzione. Se ritengo illegittimo l’ergastolo normale figuratevi la mia posizione rispetto all’ergastolo ostativo (il peggioramento della situazione carceraria del condannato per mafia che non “collabora”) e, ancora di più, rispetto al regime carcerario del 41-bis e del 41-bis speciale. Cito da “Il Dubbio” (D. Aliprandi, 14 gennaio 2018): “C’è il 41 bis, del quale si parla spesso. Una forma antica di carcere duro. Probabilmente anticostituzionale. Ma quasi nessuno sa se che esiste anche il 41 bis special, che è una forma di carcerazione ancora e parecchio più aspra del 41 bis. I detenuti sono tenuti in isolamento pressoché totale, in celle buie, spesso situate sottoterra, e minuscole. Racconta un detenuto che ha vissuto questa esperienza: “Per dieci anni sono stato isolato totale in una cella di un metro e 52 centimetri di larghezza per due metri e 52 centimetri di lunghezza, e cioè uno spazio occupato quasi tutto dal letto. Non mi arrivava un raggio di luce”. Insomma non sono certamente del partito del “gettiamo la chiave”. La giustizia, ritengo non deve essere vendetta: un sentimento che riguarda tutt’al più un’alterazione della sfera privata, che civilmente condanniamo e che se attuato costituisce reato. Lo Stato non deve vendicare, ma ricercare l’autore del crimine, giudicarlo e, se risulta colpevole, condannarlo: ad una pena - che non può essere tortura - da scontare in maniera civile, secondo i cennati principi costituzionali. Il sistema carcerario italiano ha un costo elevatissimo. Secondo una ricerca dell’Università Bocconi (richiamato da Il Riformista, V. Lanza, 13 novembre 2021) “ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei per il mantenimento del detenuto, appena 35 centesimi per la sua rieducazione, prevista dalla Costituzione italiana. I soldi degli italiani che lo Stato spende non mirano all’attuazione di uno principio costituzionale. Non rieducare significa incrementare la recidiva che in Italia, come sottolinea lo stesso studio, è del 68%, dato che scende al 19% quando si applicano misure alternative come la semilibertà e le forme di inserimento lavorativo”. Soprattutto tenendo conto del risultato sociale positivo che si ottiene con la semilibertà e con il lavoro probabilmente sarebbe utile che la percentuale destinata alla rieducazione - lo 0,23% di quei 154 euro giornalieri - aumentasse in maniera esponenziale. Sottolineo che 154 euro al giorno fanno € 4.620,00 al mese per ciascun carcerato. La Camera penale di Roma, in una manifestazione sulla Giustizia alcuni anni fa ha ricostruito nel cortile del Tribunale Penale di Piazzale Clodio una cella del carcere di Rebibbia, destando grande impressione tra i visitatori., che non credevano ad una situazione così deteriore. Il sistema carcerario italiano è in alcuni casi un’autentica tortura. Lo dimostra il forte tasso di suicidi, superiore alla media europea e che pone l’Italia ai primi posti. Suicidi che si sono incrementati in questa estate rovente, fino a far reclamare interventi immediati e, soprattutto, una immediata riforma del carcere preventivo: quei presunti innocenti tenuti in carcere a scontare una pena prima di una condanna che, forse, non verrà mai inflitta: l’Italia ha anche il record delle condanne di risarcimento per ingiusta detenzione, più di mille l’anno! Insomma il carcere è un sistema che deve essere immediatamente riformato: una parte essenziale della fondamentale riforma della giustizia. Con un dubbio che mi attanaglia da anni. Se si può negare allo Stato il diritto di uccidere un cittadino, si può anche negare il diritto di privare un cittadino della libertà. Un assioma estremo, lo ammetto. Onestamente non ho una soluzione da proporre, rendendomi conto delle ragioni di sicurezza che sottostanno alla detenzione (forse oggi sostituibile da sistemi elettronici di controllo, efficaci sotto il profilo considerato della sicurezza). Ma sono sicuro che verrà un tempo futuro in cui il carcere come lo intendiamo oggi verrà ritenuto una barbarie. Certamente, però, è già arrivato il tempo, nel 2022, di attuare i principi costituzionali stabiliti nel 1948: tre quarti di secolo fa. I suicidi in carcere sfidano la nostra indifferenza di Giuseppe Savagnone* tuttavia.eu, 14 agosto 2022 Il suicidio, nel carcere di Montorio (Verona), di Donatella Hodo è solo l’ultimo dei 49 casi di morte volontaria verificatisi in questi primi mesi del 2022. Donatella - di origine albanese, ma fin da bambina residente in Italia - aveva 27 anni. Era già stata più volte arrestata per i piccoli furti che era costretta a commettere per pagarsi la droga, da cui era dipendente. Si è uccisa nella notte del 1 agosto inalando gas da un fornelletto. Durante le esequie, che si sono tenute nella chiesa parrocchiale di Castel d’Azzano, un’amica della giovane ha letto una lettera inviata dal magistrato di sorveglianza a cui era affidato il compito di seguire Donatella, Vincenzo Semeraro: “Se in carcere”, ha scritto il magistrato, “muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito”. Qualcuno attribuisce l’alto numero di suicidi di quest’anno all’ondata eccezionale di caldo. Ma le statistiche dicono il contrario: anche l’anno scorso sono stati 55; due anni fa 62, tre anni fa 53, quattro anni fa 67. Dal 2000 ad oggi, ben 1.272! Senza tener conto dei tentativi falliti di togliersi la vita. Il problema non è nuovo. Già in una circolare del 30 dicembre 1987 la Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena esprimeva “vivissima preoccupazione per i ricorrenti, gravissimi fenomeni, purtroppo in aumento, degli atti di autolesionismo, in ispecie dei suicidi, posti in essere dai detenuti e dagli internati”. Sta di fatto che in Italia dentro il carcere ci si uccide 16 volte in più che “fuori”. In un’intervista ad “Avvenire” il giudice Semeraro ha evidenziato la base umana del fenomeno, collegata alla vulnerabilità estrema di molti dei reclusi. Quella di Donatella era una vicenda molto comune: “In carcere c’è un’umanità sterminata e le loro storie si assomigliano: sono fragili, fragilissimi, spesso provengono da famiglie altrettanto fragili. Entrano ed escono dal carcere di continuo”. Non è un caso che, per la maggior parte, secondo i dati riportati da Antigone, si tratti di giovani tra i 20 e i 30 anni. Particolarmente drammatica, secondo lui, la condizione delle donne in istituti penali studiati soprattutto in funzione degli uomini e incapaci di tener contro della psicologia femminile. È significativo che dall’inizio dell’anno ben 5 le detenute si sono tolte la vita. Un numero altissimo - ha sottolineato l’associazione Antigone - se si considera che, al 30 giugno 2022, le donne sono pari al 4,2% del totale della popolazione carceraria. Non è solo fragilità - Ciò non significa che il problema dei suicidi in carcere si possa ridurre - come in passato è stato fatto e ancora spesso si continua a fare - ad una conseguenza di disturbi psichici dei detenuti. Ancora oggi si tende a considerare il detenuto che si suicida o che tenta di farlo come una persona “non normale”, che era già affetta per proprio conto di una patologia psichica. Ne è la conferma il fatto che le misure che vengono adottate nei confronti di colui che ha tentato il suicidio sono rivolte sempre e soltanto alla salute mentale del soggetto: assistenza psichiatrica, isolamento, trasferimento all’ospedale psichiatrico giudiziario. In realtà, se il fattore umano è sicuramente fondamentale, ce ne sono alcuni di carattere strutturale che riguardano tutti i detenuti, a prescindere dalle condizioni personali. Decisivo è il problema del sovraffollamento. In Italia ci sono circa 55mila detenuti rispetto ai 47mila posti disponibili. Per non dire che molte strutture, oltre ad essere inadeguate dal punto di vista della capienza, lo sono dal punto di vista delle strutture logistiche. Ma c’è anche una cronica carenza di organici: il personale addetto è largamente insufficiente, soprattutto quello specializzato, che dovrebbe avere un ruolo decisivo nella cura delle condizioni psicologiche dei detenuti. E dire che il mantenimento in carcere di ogni detenuto costa allo Stato 154 euro al giorno! Di questi però solo 35 centesimi sono investiti nella rieducazione. Non stupisce che chi espia la pena tutta e solo in carcere torni a delinquere nel 68 per cento dei casi, contro il 19 per cento di chi invece la sconta in parte in misure alternative al carcere. A riprova delle condizioni di estremo disagio della vita all’interno dei nostri istituti di pena. E non è solo un problema di soldi. Troppe volte la logica di chi gestisce il carcere è ancora quella burocratica, ansiosa di evitare problemi e rischi, più che di realizzare gli obiettivi umani che la detenzione si propone. Bisognerebbe che venissero formati diversamente direttori e guardie carcerarie, valorizzando al tempo stesso l’apporto delle associazioni di volontari che con grande generosità offrono i propri servizi, sfidando una rete fittissima di restrizioni e di controlli. In attesa di una riforma di più ampio respiro, che dovrebbe riguardare la struttura stessa del sistema carcerario, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, incalzato dagli ultimi drammatici eventi, l’8 agosto ha varato delle “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, inviando una circolare ai provveditori e ai direttori di tutti gli istituti italiani. In essa il compito di svolgere in ogni struttura l’analisi delle situazioni a rischio viene attribuita a degli staff multidisciplinari composti da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo. Senonché, come ha ricordato il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, David Lazzari, “i presidi sanitari nelle carceri sono sguarniti di professionisti della salute mentale”. “Chi c’è - spiega Lazzari - fa naturalmente del suo meglio, ma spesso né il numero di ore né gli strumenti forniti sono completamente adeguati. In più gli psicologi esperti ex art. 80 hanno un numero di ore così esiguo che non resta tempo per lavorare sul trattamento oltre che sull’osservazione e spesso nemmeno per lavorare in maniera integrata con i colleghi dei servizi sanitari”. La circolare, così, è destinata a rimanere sulla carta, come quella del 1987. Gli anni passano, i governi si succedono, ma i problemi del nostro sistema carcerario non vengono risolti. Recentemente, nel rilevare che “purtroppo, le carceri continuano a generare morte, violenza e sofferenza”, Gennarino De Fazio, ispettore capo del corpo di polizia penitenziaria e segretario generale della Uil-Pa - Polizia Penitenziaria ha ancora una volta denunziato l’inefficienza della politica: “L’ex presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, nel suo discorso d’insediamento, si era impegnato a migliorare le condizioni di coloro che operano e vivono nelle carceri. Questo impegno è stato totalmente disatteso e le condizioni di vivibilità dei penitenziari sono ulteriormente peggiorate”. Oltre la cultura dello scarto - È inevitabile una riflessione sul significato che tutto questo assume se confrontato con la finalità del carcere. L’art.27 della nostra Costituzione è molto chiaro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In sintonia con quanto dice l’art. 13, secondo cui “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Pur nella consapevolezza del ruolo dei fattori psicologici individuali e delle libere scelte personali dei detenuti, c’è da chiedersi se un sistema carcerario come il nostro rispecchi oggettivamente le esigenze espresse in questi articoli. Se esso, cioè, sia in grado, così com’è, di esercitare una funzione rieducativa nei confronti di soggetti resi in partenza fragili da situazioni familiari e sociali sfavorevoli che le hanno spinte o comunque favorite sulla via dell’illegalità. Così pure, è probabile che, senza arrivare alla violenza fisica, ci possano essere, a causa delle disfunzioni del sistema carcerario, situazioni di disagio che costituiscono per il recluso forme di violenza morale. La verità è che mai forse come nel caso dei carcerati siamo prigionieri, a nostra volta, di quella “cultura dello scarto” denunciata più volte da papa Francesco. È in questa logica che qualche politico, per guadagnare consensi nei sondaggi, continua a ripetere che per la sicurezza dei cittadini bisogna chiudere la porta delle celle e “buttare la chiave”. Quando invece proprio i dati appena citati dicono, al contrario, che aprire le porte delle prigioni a misura alternative più umane è il modo migliore di non far ripetere i crimini. Non siamo ancora riusciti a passare dalla visione difensiva della detenzione come garanzia di sicurezza del cittadino “onesto” a quella per cui essa deve operare per la restituzione del soggetto alla società civile. Questa è la vera sicurezza. I suicidi nelle nostre prigioni ci interpellano tutti, come cittadini, su questi problemi cruciali. In realtà, non ci si pensa quasi mai. A parte gli stretti familiari, i reclusi sono anche abbandonati. Ma ogni uomo, ogni donna che preferisce morire, piuttosto di vivere nelle nostre prigioni, continuerà ad essere una sfida alla nostra indifferenza. *Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. Estate in carcere: si costruisce morte di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 14 agosto 2022 In questi giorni il tema dei suicidi in carcere è ricordato da numerose testate giornalistiche, cartacee ed online, in quanto prendono la massima rappresentazione statistica le persone che pongono la parola fine. È una situazione tutt’altro che nuova per le cronache italiane, ma ora sembra nettamente peggiorata. Ricordiamo che nel mondo chi e? detenuto si toglie la vita con una frequenza in media di 10-20 e più? volte maggiore rispetto alle persone libere. Il dato e? secco ed eloquente. Ancora oggi, nonostante i notevoli cambiamenti del regime detentivo, l’incidenza suicidaria tra i detenuti nel nostro paese e? molto più? elevata rispetto al resto della popolazione, e luglio ed agosto sono per le carceri mesi nefasti, oltre che per il gran caldo, soprattutto per l’assenza e la privazione di contatti umani. Il mondo lavorativo vuole uno stop per ritemprarsi, giusto e auspicabile, e per le carceri si amplia la forbice tra certo e incerto, tra io come persona che esiste e io come persona abbandonata. Il timore di essere abbandonati è il grande cancro che affligge i detenuti in questi mesi di vacanza civile e giuridica, una certezza che nelle celle può diventare infausta: morte. Senti il giro delle chiavi, quelle grosse pesanti chiavi che ogni volta che entrano nel foro della serratura gracchiano come il cappio al collo e non sai mai se giri a destra, per chiudere. O a sinistra per aprire. Aspetti, aspetti, poi percepisci che è girata a destra, chiuso. Chiuso per quanto? Per cosa? Per una colpa o perché mi ritengo innocente? Che importa, chiuso, chiuso, chiuso e via, via da ogni cosa, via dalla libertà, via dalla vita. Mi danno ragione di queste affermazione i tanti decessi per suicidio avvenuti in questi giorni nelle carceri di Bergamo, Brescia, Roma, Milano. Quanti sono? Tanti e troppi, perché il conto da numerario deve assumere valore per il concetto che una vita ha un valore immenso, così come i volti non noti di queste persone morte suicide in carcere. Non sono solo numeri, tra l’altro non andati agli onori della cronaca, come se il più delinquente meritasse maggiore attenzione e visibilità non per la sua vita ma per i suoi reati: ripeto tanti, troppi, quasi sempre sconosciuti, quindi senza diritto di cronaca! Inoltre, il fenomeno dei suicidi non riguarda solamente i detenuti, bensì anche gli agenti di polizia penitenziaria, a dimostrazione di una vita carceraria colma di frustrazione per i ristretti e per chiunque operi all’interno degli istituti penitenziari italiani. Dunque di un detenuto suicida dovrebbero accorgersi dei poliziotti penitenziari, privi di una esperienza specifica nel trattamento dei suicidi, che lo trovano inerme e non sanno capire se ancora ci sono possibilità di vita o meno, come e se intervenire, in attesa che giunga qualcuno della sanità, sempre troppo lontano per dare un parere sul come e cosa fare. Forse è bene ricordare che questo compito viene indicato agli agenti, come lavoro tra i tanti da fare, sempre senza preparazione. Se la formazione invece è stata fatta, i fruitori di questa formazione generalmente la fanno per avere più punteggio ed essere destinati ad altri compiti fuori dalla custodia dei detenuti, cioè per poi non operare effettivamente in reparto. Io sono dell’idea che nel caso chi ha frequentato il corso di formazione decida di passare ad altro incarico, ciò avvenga come demerito e con punteggio negativo. Appare comunque complesso pensare quali possano essere gli interventi per arginare il drammatico fenomeno appena descritto. Pare scontato auspicare una totale riforma della vita detentiva, all’insegna della tutela dei diritti del detenuto e di una vera rieducazione, inoltre, indispensabile sarebbe l’innalzamento di operatori penitenziari. Per questo ultimo punto vorrei citare che l’Amministrazione con circolare n. 3695/6145 prot. 0302875.4 del 8/8/22 al punto 3 comma A, afferma con giustezza l’importanza dello staff multidisciplinare ma dimentica che l’evento suicidario avviene nelle ore di “tranquillità” dove la presenza di un operatore della polizia penitenziaria è indicata come 1 unità. Chi accorre per primo è sempre agente di reparto, impreparato ad intervenire nell’immediato, in un secondo momento arriva lo staff multidisciplinare avvisato dallo stesso agente. Il suo agire, proprio per negligenza, non sua, ma nella preparazione, assumendo atti e ruoli decisionali di altre figure professionali e, per questo mancato riconoscimento dell’importanza dell’agente di reparto come punto focale e sostanziale non solo della custodia, potrebbe causare effetti negativi. Vorrei ricordare, per averci lavorato, che il Ministero della Giustizia è pieno di commissioni di esperti che vanno a riempire scantinati di proposte, mentre chi lavora in carcere, chi ha prelevato un suicida dalla cella, un educatore che aveva parlato con un detenuto suicida il giorno prima, rimangono protagonisti ignoti. Si preferiscono stampare volumi di parole, magari sintetizzate da altri volumi, per fare altri volumi per riempire scaffali. La situazione è grave, per questo sarebbe necessario concedere subito una liberazione anticipata di 6 mesi a tutti, proposta che feci nel 2016. Lo chiedo di nuovo oggi al Ministro della Giustizia, onorevole Marta Cartabia, per tutti questi morti soppressi dalla disperazione e per porre uno stop a tutti gli altri che si potrebbero attuare in quanto i suicidi andati a buon fine, con la morte dell’esecutore, senza particolare dolore per l’attore, suscitano una diaspora ripetitiva di addetti senza fine. Ministra Cartabia blocchi questi suicidi in fieri e la disperazione non solo dei familiari, ma degli stessi operatori chiamati in causa per rimuovere i loro corpi vedendoli distesi su una barella coperta da un lenzuolo che a fatica riconoscono i lineamenti del viso. Signora Ministra sia magnanima e ponga in atto il provvedimento della liberazione anticipata di 6 mesi, oltre che scarcerare le persone con fine pena imminente. Questo produrrà un effetto a catena, sarà un gesto di attenzione verso tutti e farà comprendere a tutta la massa dei detenuti, che non sono abbandonati, ma che c’è ancora speranza di vita. La speranza è il dono migliore, come diceva Sant’Agostino, che Dio ci dà anche se fossimo condannati all’inferno. A chi la ostacolerà dicendo che mette in libertà dei delinquenti, abbia a conforto la verità che chi vuole delinquere lo farà ovunque e sempre, prima o dopo la scarcerazione. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza No, la politica non sa proprio dire “giustizia” e “carcere” di Valter Vecellio Il Foglio, 14 agosto 2022 La mancanza d’interesse da parte della politica di due temi, carceri e giustizia. Ma dietro questo fenomeno, almeno in questa campagna elettorale, si nasconde una notizia. Niente. Non ce la fanno proprio neppure a pronunciarle le parole “Giustizia”, e “carceri”. Invitano a valutare i programmi, quello che hanno fatto, con chi; quello che intendono fare, fanno mille promesse, proclami, assicurazioni; ma sulla madre di tutti i problemi italiani, l’amministrazione della giustizia, e il suo epifenomeno, la situazione nelle carceri, nulla che non siano parole d’ordine forcaiole, quando ci sono. La questione, “semplicemente” sembra non esistere. Quando qualche giornalista domanda se ci sono, e quali, “temi qualificanti”, viene snocciolato un rosario generico di temi: europeismo; diritti civili; fine vita; libertà economiche; riforma della cittadinanza… Per carità tutte questioni importanti (poi se si va a vedere nel dettaglio, nelle varie coalizioni, le soluzioni proposte sono più che divergenti). Ma giustizia e carceri proprio non ce la fanno neppure a citarli. A questo punto, constata l’insensibilità della ahinoi classe politica di “Cesare”, viene voglia di rivolgerci, come in passato, a chi rappresenta Dio in terra: il mondo cattolico, il Vaticano; che peraltro, ormai a cadenza quotidiana, attraverso “L’Osservatore Romano” e “l’Avvenire”, ogni giorno già levano le loro voci. Il vangelo di Matteo contiene un passaggio che è un vero e proprio “manifesto” per credenti e laici (qui sì, il crociano “non possiamo non dirci cristiani”): “…Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi…”. Il presidente della Conferenza Episcopale dei Vescovi italiani Matteo Zuppi, anche di recente ha richiamato l’attenzione di tutti “per far cambiare in meglio il carcere”, e respingere “la tentazione di buttar via la chiave, e cercare invece quelle giuste per favorire recupero e reinserimento dei detenuti”. Con altri impiegherò, nei giorni del Ferragosto, qualche ora del mio tempo per andare nelle carceri, per ascoltare l’intera comunità penitenziaria, e dimostrare che non tutti dimenticano, non tutti sono indifferenti. Sarebbe bello e di grande significato, se il cardinale Zuppi in quei torridi giorni di Ferragosto mandasse all’intera comunità penitenziaria un “messaggio”. La comunità penitenziaria, ne sono certo, ne ricaverebbe motivo di consolazione e speranza. Di forza e di coraggio. L’assenza della giustizia dalla campagna elettorale è una notizia, vero, ma mi sembra una notizia interessante anche la scomparsa del giustizialismo dalla campagna elettorale, e viste le ultime campagne elettorali mi sembra un tema non da poco. Si potrebbe organizzare un forum a Bibbiano. Sull’ergastolo ostativo serve una legge, non slogan di Pietro Grasso* L’Espresso, 14 agosto 2022 Il testo arrivato al Senato era contraddittorio. La crisi ha interrotto un iter che il Parlamento deve riprendere. La sciagurata crisi di governo e il conseguente scioglimento delle Camere ha impedito la conclusione dell’iter legislativo del disegno di legge sull’ergastolo ostativo, o meglio sui reati ostativi alla concessione di benefici penitenziari. È una materia complessa, gravata da trenta anni di interventi che hanno snaturato l’iniziale impianto. L’obbligo di intervenire a seguito dell’indicazione della Corte Costituzionale poteva essere l’occasione per rivederne l’impianto complessivo e mettere finalmente ordine tra le norme, ma non è andata così. Il testo pervenuto al Senato dalla Camera lo scorso aprile ha il merito di intervenire sui principi di incostituzionalità enunciati dalla Suprema Corte, tuttavia presenta, come ho osservato in commissione Giustizia sin da subito, importanti e inaccettabili criticità, determinate probabilmente dalla necessità di trovare un compromesso politico a scapito della chiarezza tecnica. Infatti, l’introduzione di un nuovo comma (1-bis.2) e la mancata modifica o abrogazione di un comma previgente (1-ter), hanno finito col creare delle insanabili contraddizioni logico-giuridiche con conseguenti impossibilità applicative. Non è chiaro sia per i condannati, che devono presentare le istanze, sia per i giudici, quale sia il regime istruttorio, l’onere probatorio, nonché l’organo competente a fornire i pareri e le informazioni per identiche tipologie di reati se commessi in associazione, come ad esempio la tratta di persone, la violenza sessuale di gruppo, la prostituzione e pornografia minorile, la riduzione in schiavitù e così via. Addirittura per il reato di immigrazione clandestina si arriva a una disciplina meno severa se commesso in associazione rispetto al reato individuale. Così come perplessità sorgono nel mantenere un regime più lieve per i reati di omicidio, rapina ed estorsione aggravata rispetto a forme di associazione finalizzate a reati contro la pubblica amministrazione. Sono fermamente convinto che non si possa approvare il testo della Camera senza modifiche, come sostengono alcune forze politiche pur di utilizzare il tema in campagna elettorale. Sottoporre al vaglio della Corte Costituzionale una legge con tali contraddizioni rischia di produrre una nuova dichiarazione di incostituzionalità. Sarebbe stato più giusto, come ho proposto e come aveva indicato la commissione Antimafia, mettere ordine tra reati associativi e reati individuali, mentre col testo in esame si crea addirittura una paradossale disparità, per cui i condannati per tali ultimi reati dovranno sottostare a criteri più severi. Auspico che i parlamentari della prossima legislatura possano far tesoro di tutti i lavori svolti per migliorare questa legge anche su altri punti che ho messo in evidenza con la presentazione di puntuali emendamenti. Sono abbastanza sicuro che la Consulta, nelle more di una procedura parlamentare avviata, potrà concedere un ulteriore rinvio fino alla definitiva approvazione di un buon testo. Del resto il rischio è chiarissimo: non costruire un sistema sufficientemente rigoroso, pur nel rispetto dei principi costituzionali, può riportare senza le dovute certezze fuori dal carcere mafiosi del calibro dei Graviano. Il dovere del legislatore, nel trentesimo anniversario delle stragi di mafia, è quello di adeguare le norme alle indicazioni della Corte Costituzionale senza togliere a esse la loro incisività nel contrasto alle mafie. In tempi di utilizzo di ingenti fondi pubblici per fronteggiare le diverse emergenze che si presentano, è un obiettivo politico irrinunciabile e per questo mi aspetto che sia enunciato con chiarezza nelle proposte di tutti i partiti agli elettori. *Senatore di LeU, ex procuratore nazionale antimafia “Carceri, servono riforme per garantire le regole costituzionali” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 14 agosto 2022 Non ha dubbi Raffaele Piccirillo, Capo di gabinetto del ministero della giustizia, nel valutare la nuova emergenza che - tra mancanza di acqua, incubo Covid e tensioni quotidiane - si è abbattuta sul mondo penitenziario italiano, con 50 suicidi dall’inizio dell’anno. “Nella mia carriera di magistrato e di uomo delle istituzioni, ricordo la testimonianza di un ex detenuto, un ragazzo che riuscì ad offrire la propria esperienza in una scuola”. Cosa venne fuori da questa esperienza? “Ci disse semplicemente che a scuola, nella sua breve esperienza di alunno, era considerato un irrecuperabile. Gli dicevano che per lui non c’era speranza, che era un irrecuperabile, appunto. Ecco, quando parliamo di emergenza carceri dovremmo cominciare da qui: gli irrecuperabili non esistono; nessuno è irrecuperabile, il nostro lavoro - Costituzione alla mano - è di considerare tutti i detenuti come persone da recuperare”. Qualche notte fa, carcere di Santa Maria Capua Vetere, un focolaio di rivolta per il caldo e le condizioni di vita: come intervenire? “Le condizioni di Santa Maria Capua Vetere, così come quelle di Sollicciano, di Bolzano e di altri istituti italiani rappresentano un surplus di afflizione che qualunque visione si abbia della funzione della pena non possono essere tollerate. Il decoro e l’igiene degli spazi di vita e di lavoro di detenuti e operatori è presupposto della dignità, senza la quale nessun processo riabilitativo può funzionare. Il sovraffollamento, pur ridimensionato dalle misure introdotte per fronteggiare l’emergenza Covid, ammonta ancora 116,59% (è cioè presente negli istituti un 16,59% in più dei posti regolamentari). In Campania la media è del 114,24%. L’attenzione della Ministra su questi temi è massima. L’investimento nella riqualificazione degli spazi detentivi ammonta a 36 milioni 400mila euro per la sola regione Campania sugli oltre 100 milioni complessivamente appostati dal Dipartimento; mentre, nell’ambito dei fondi complementari, sono appostati circa 86 milioni per la realizzazione di nuovi padiglioni, uno dei quali nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Quando sono previsti gli interventi di riqualificazione? “Un recentissimo intervento normativo tende a velocizzare le procedure amministrative di assegnazione di questi lavori. Le nuove costruzioni ricalcheranno i format progettuali elaborati da una Commissione per l’architettura penitenziaria che disegnano un carcere costituzionale, nel quale gli spazi dedicati alle camere di pernottamento siano bilanciati con quelli dedicati alla socialità e al trattamento. L’idea è che il carcere non funziona e i tassi di recidiva aumentano, se il tempo della reclusione è un tempo vuoto dell’attesa, anziché un tempo denso di esperienze vitali”. Dopo l’inchiesta sui presunti pestaggi a carico di agenti di polizia penitenziaria, è possibile prevedere interventi a garanzia di tutti (indagati e detenuti)? “Non esistono interventi a garanzia dei detenuti che non abbiano ripercussioni positive sulle condizioni di vita e di lavoro degli agenti della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori che, con i detenuti, condividono spazi e tempi della quotidianità. Mettere in competizione i diritti dei detenuti e quelli degli operatori è un’operazione di propaganda irresponsabile, è un gioco a somma zero che alimenta la reciproca ostilità, e tradisce la funzione costituzionale della pena, senza garantire più sicurezza. La Costituzione scommette sulla risocializzazione, che presuppone che gli operatori credano nella possibilità che il detenuto diventi altro rispetto all’immagine cristallizzata nella sentenza di condanna; e che i detenuti per primi credano in questa possibilità”. Eppure, c’è il senso dell’abbandono in cella, con pochi progetti in grado di fare qualcosa di formativo durante la detenzione, non crede? “Un fattore decisivo di insicurezza è la carenza di attività trattamentali. È sconfortante che, a tutto il dicembre 2020, soltanto il 33,61% dei detenuti fosse impegnato in attività lavorative e che l’attività lavorativa pro capite ammontasse a soli 85 giorni annui. I modelli di regime aperto e sorveglianza dinamica, sicuramente appropriati per coloro che non presentano livelli elevati di pericolosità e che comportano la presenza di detenuti nelle camere di pernottamento per un tempo non superiore alle 8/10 ore giornaliere, non funzionano se, nel resto della giornata, i detenuti ciondolano nei corridoi dei reparti senza essere impegnati in alcuna attività. Comprensibilmente, gli agenti percepiscono questa condizione come pericolosa e chiedono di esercitare la vigilanza da remoto. Ma così è compromesso il contatto umano che è essenziale sia per il funzionamento del percorso riabilitativo, sia per la tempestiva percezione dei segnali di allarme. Nei sistemi penitenziari anglosassoni il regime aperto è concepito come la premessa di una sorveglianza-conoscenza, più efficace, in termini di prevenzione delle violenze, della sorveglianza statica”. Tanti suicidi nel 2022 in cella, come considera l’assistenza sanitaria per i detenuti più fragili sotto il profilo psicologico? “La scelta di consegnare questa materia alle aziende sanitarie locali, condivisibile per la finalità di assicurare pari livelli assistenziali ai cittadini liberi e detenuti, proietta nel mondo del carcere la disomogenea qualità di questi servizi nelle diverse aree del Paese. L’effetto è quello di caricare su un personale formato per la sorveglianza compiti impropri di gestione dello scompenso psichico, con gli esiti drammatici che le cronache riportano. L’insufficienza del personale e delle strutture deputate al trattamento esterno di questi soggetti costringe i magistrati di sorveglianza a preferire la collocazione nelle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) ad altre misure, come la libertà vigilata con prescrizioni sanitarie, che pure, in astratto, sarebbero sufficienti. È perciò necessario che tutte le istituzioni, locali e centrali si facciano carico del carcere, anziché fingere di non vederlo. Qual è la svolta possibile? “Vi sono importanti segnali di svolta. Tra questi, cito un’iniziativa comune della ministra Cartabia e del ministro Colao che coinvolge una platea potenziale di 2mila detenuti in attività lavorative altamente professionalizzanti e perciò capaci di favorire il reinserimento nella società al termine dell’esperienza detentiva. Detto questo, non avendo io una visione irenica della società o del carcere, capisco che il conflitto, il disordine possono comunque esplodere. E allora occorrono una formazione adeguata a fronteggiarli, con efficacia e senza abusi, e occorrono investimenti sulle tecnologie - impianti di videosorveglianza fissa e bodycam in grado sia di prevenire gli eventi critici, sia di scoraggiare reazioni sproporzionate. In questi settori sono già stati programmati e parzialmente realizzati interventi per circa 12 milioni di euro che, del resto, corrispondono a una forte richiesta fatta dagli operatori anche in occasione della visita dello scorso anno della ministra Cartabia e del presidente Draghi a Santa Maria Capua Vetere”. Al netto della professionalità di agenti penitenziari e dirigenti, crede che qualcosa sia sfuggita di mano in termini di assistenza e custodia dei detenuti? “Credo vi sia un problema di copertura degli organici della polizia penitenziaria, dei quali è stato recentemente sbloccato il turn-over (3237 unità saranno assunte nel biennio 2022/2023). Sono in corso diverse procedure concorsuali, come quella che consentirà nel prossimo settembre l’ingresso nell’amministrazione di 57 direttori, dopo 25 anni di stallo”. Secondo stime di massima, un terzo dei detenuti attuali non dovrebbe essere ristretto in cella, come uscire da questo imbuto? “Importanti interventi sono contenuti nella riforma penale che, pochi giorni fa, ha superato un importante passaggio in Consiglio dei Ministri. Si allarga il ricorso alla messa alla prova che, introdotta nel processo degli adulti nel 2014, ha fatto registrare, a dispetto delle iniziali diffidenze, importanti risultati. In questo momento gli adulti sottoposti a programmi di trattamento prima della decisione di condanna sono oltre 25mila, circa la metà della popolazione detenuta. È un ulteriore passo per garantire rispetto della dignità di chi entra in una casa circondariale”. Non crede che queste misure possano essere percepite dai cittadini come allentamenti sul versante della certezza della pena e della sicurezza? “Consideri che, per una disposizione del nostro codice di procedura, le persone condannate, con sentenza definitiva, a pene detentive contenute entro i quattro anni, attualmente non vanno in carcere ma attendono che il Tribunale di sorveglianza decida se sussistono le condizioni per ammetterle a misure alternative o se, invece, debbano eseguire la pena in carcere. Qualche volta l’attesa si protrae per mesi o anche per anni. In questo periodo, essi sono completamente liberi e non svolgono alcuna attività trattamentale. Le pare che questo garantisca la sicurezza meglio del sistema immaginato dalla riforma? Consideri anche che la certezza di scontare la pena in determinate forme può incoraggiare, negli imputati, la scelta del patteggiamento, in modo da ridurre il numero dei dibattimenti e garantirne la ragionevole durata, come richiesto dagli impegni del Pnrr. Se ai cittadini racconterete questo, vedrete che anche la percezione cambierà e le rappresentazioni emozionali che inquinano il dibattito pubblico perderanno terreno. Ripartire da un’idea di giustizia che rispetti la libertà della persona di Stefano Putinati Il Foglio, 14 agosto 2022 Il diritto penale liberale (splendido ossimoro) ha un cuore grande che batte in modo molto flebile. Ora, però, è arrivato il tempo dei Libdem italiani e potrebbe rianimarsi. Piccole neoformazioni politiche, infatti, crescono con grandi ambizioni. Si coagulano intorno a idee liberali, democratiche, ma anche un po’ socialdemocratiche, in un movimento centripeto che dovrebbe occupare praterie, quelle lasciate libere dagli smottamenti politici di questi ultimi anni (quantificabili a piacimento). Sono tempi di angosciose attese. Messi tutti in fila i problemi del momento (che in verità si ripropongono da sempre in modo circolare) generano grandi paure sotto l’effetto stordente di questo caldo torrido. Così, per distrarvi e rasserenarvi, inizierò con il raccontare una storia che parte da lontano, addirittura nella remota Australia, iniziata tanto tempo fa (come tutte le belle storie), ma che è riuscita incredibilmente ad arrivare ai giorni nostri. Una storia che ci porterà a parlare di John Stuart Mill e dell’utopia di un diritto penale liberale, nella convinzione che i Libdem italiani, una volta trovata la loro strada, ovviamente lastricata di buone intenzioni, non si dimenticheranno di proporre un intervento in materia penale, la parte più invasiva e forse più deturpata del nostro ordinamento giuridico. C’era una volta nel Queensland un signore che si chiamava Sir Samuel Walker Griffith. Gallese, emigrato in Australia nella metà dell’800. Fu avvocato, Attorney-general, Premier, Chief Justice (il più alto grado della magistratura) del Queensland e infine Chief Justice dell’intera Australia. Da giovane fece il suo Grand Tour europeo e studiò la lingua italiana. Gli Stati australiani erano all’epoca colonie britanniche e il loro diritto penale risentiva della classica caotica situazione di un sistema penale di common law prima di una consolidazione (raccolta più o meno organica) degli statutes. L’idea di procedere a una codificazione (non solo in materia penale) venne peraltro a un inglese, il grande Jeremy Bentham (ma questa è un’altra storia) a cavaliere tra il ‘700 e l’800. Ma torniamo al Queensland. Nel 1893 sulla spinta dei movimenti di codificazione in materia penale di molti paesi di common law, Griffith, quale più alta carica della magistratura dello Stato, ebbe l’incarico di procedere con i lavori preparatori del primo codice penale. Vi risparmierò i travagli del suo codice penale per parlare invece delle sue fonti ispiratrici. In particolare, con riferimento ai princìpi e agli istituti fondamentali che governano e disciplinano la responsabilità penale. Griffith, che come detto conosceva la lingua italiana, ricevette in dono da un amico e collega nel 1894 una copia del codice penale Zanardelli del 1889, il primo codice penale dell’Unità d’Italia, da sempre ritenuto un solido esempio (con alcuni caveat) dell’applicazione di princìpi liberali al diritto penale. Un vero codice penale liberale, insomma. Griffith presentò il progetto di codice penale nel 1897 che entrò poi in vigore nel 1901. Ebbe a dire, con espresso riferimento al codice penale Zanardelli: “Ho tratto grandissimo ausilio da questo codice, che è, ritengo, sotto molti profili il più completo e perfetto in esistenza”. Insomma, alcuni princìpi del diritto penale liberale finirono nel codice penale di uno Stato dell’Eastern Australia. E quasi incredibilmente il codice penale Griffith è ancora in vigore nel Queensland. Ma ancora più incredibilmente i princìpi di tale codice, e quindi anche quelli di diretta derivazione zanardelliana, sono finiti nei codici penali di altri paesi e non solo di altri stati australiani: attualmente in Papua-New Guinea è in vigore un codice penale che è in buona sostanza il codice penale Griffith. In gran parte della Nigeria (tranne quella del Nord) stessa cosa, ma tracce consistenti del codice penale Griffith e quindi del codice penale Zanardelli sono finite nei codici penali del Kenya, del Botswana e di molti altri stati africani anglofoni. Possiamo finire l’elenco con luoghi esotici come le Fiji, le British Solomon Islands e le Seychelles, dove il formante zanardelliano sopravvive attraverso il modello dettato dal codice Griffith. Invero, il codice penale Zanardelli aveva aspetti avanzati quali l’osservanza del principio di legalità, pene più equilibrate, abolizione della pena di morte e dei lavori forzati, interventi di garanzia in tema di tentativo e concorso di persone nel reato, ma anche zone d’ombra poco liberali, specialmente sui reati politici, sulle misure di prevenzione affidate alla Polizia e in generale sulla repressione di determinate categorie di soggetti senza troppe garanzie. L’evocato cuore del diritto penale liberale, invece, ha sempre battuto possente nel petto del Padre della concezione di quello che sarà conosciuto come harm principle, John Stuart Mill. “…l’unico scopo per cui il potere può essere legittimamente esercitato sopra qualsiasi membro di una comunità civilizzata contro la sua volontà è per prevenire il danno ad altri”. Il principio del danno come fondamento nei paesi di common law, ma soprattutto limite, del diritto penale. L’argomento richiederebbe invero accurati approfondimenti tecnico-scientifici in criminalibus qui non possibili. Mi piace ancora, cari Libdem, ricordarvi il possente lavoro di Joel Feinberg, professore americano dell’Università dell’Arizona, che ha sviluppato ed elaborato la teoria di Mill sull’harm principle strutturandola in quatto diverse declinazioni e che lo hanno portato a confermare che solo il danno o la molestia ad altri possa giustificare l’intervento penale dello Stato. Insomma, l’archetipo del liberalismo penale (invero di matrice illuministica) e i suoi attuali corollari. In estrema sintesi: il principio di legalità quale limite all’arbitrio (anche giudiziario), la distinzione tra reato e peccato, il danno quale lesione di diritti e concreti interessi dell’individuo, una pena che sia anche preventiva, proporzionata alla gravità del reato, un diritto penale minimo, come vera extrema ratio, che intervenga solo se strettamente necessario. Si parla spesso di diritto penale liberale. Si scrivono Manifesti (l’ultimo dell’Unione delle Camere Penali) che parlano di liberalismo penale, mescolandolo invero con il garantismo giuridico, concetti che sono, in verità, non esattamente sovrapponibili. Il liberalismo penale è per me una tensione, uno splendido scopo, un atto di amore per l’individuo e la sua libertà. Quasi un’utopia. La pena come limitazione della libertà non dovrebbe essere l’unica sanzione di un diritto penale liberale. Tutto ciò sembra quasi inconciliabile. Eppure qui siamo al centro della nostra concezione del mondo tra individualità e interesse sociale. Tra funzione repressiva solo di comportamenti dannosi e un diritto penale promozionale, a volte paternalistico, a volte mera esibizione muscolare. Questi ultimi anni abbiamo assistito, pietrificati e spesso rassegnati, a fenomeni di panpenalizzazione; ad inutili inasprimenti sanzionatori, demagogicamente orientati ad una parte dell’elettorato, che collidono con qualsivoglia concetto di rispetto dell’individuo e della proporzione della reazione statale, sia pure a fronte a comportamenti illeciti. L’elenco sarebbe troppo lungo. Spacciati come protezione della società e assolutamente necessari per il ripristino della legalità, sono stati fatti interventi di settore ai limiti dell’assurdità giuridica. Il diritto penale liberale minimo, che abbia al centro l’individuo, si è scontrato e si scontrerà sempre di più con una politica criminale livorosa, rabbiosa, incolta, costituendo infatti una declinazione della politica livorosa, rabbiosa e incolta alla quale ci stiamo abituando. Cari Libdem, torniamo a voi. Tra le mille preoccupazioni e le mille proposte di cui riempirete il vostro programma elettorale, avete pensato che abbiamo un codice penale coniato in epoca fascista che, nella parte speciale dove abbiamo l’elenco dei reati, mette al primo piano della tutela la Personalità dello Stato e solo alla fine l’integrità e i diritti della persona quale individuo? Che abbiamo una quantità esorbitante di leggi penali speciali? Che negli ultimi anni le pene per alcuni reati sono state aumentate senza alcun criterio in maniera simbolica e liberticida, nel senso pieno della parola? Che dobbiamo ripensare struttura e finalità dei reati, occupandosi al contempo, ovviamente delle garanzie processuali (ma non solo di queste)? Che la situazione carceraria deve portarci, tra le altre cose, a uscire al più presto dalla panpenalizzazione? Che se professate di essere liberali dovete rimettere l’individuo e le sue libertà al centro di tutto, anche nel diritto penale? Sono certo che ci avete pensato e, se raggiungerete Palazzo Chigi, potrete creare un codice penale degno e anzi migliore del codice penale Zanardelli, che ispirò la codificazione del Queensland. Il diritto penale liberale di nuovo conio potrà magari essere nuova fonte di ispirazione in chissà quali e quanti paesi del mondo. Noi confidenti aspettiamo che un novello Griffith vi prenda come imperitura guida. *Professore associato di Diritto penale all’Università di Parma “I candidati di Unicost per il Csm non li designa più l’elite del gruppo” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 agosto 2022 Prosegue il nostro viaggio per conoscere i candidati al Csm. Oggi intervistiamo Milena Falaschi, consigliere della Corte di Cassazione, settore civile, candidata di Unicost nella quota legittimità. Si candida con Unicost, che ha pagato il prezzo più alto per le vicende emerse a partire dalla cena all’hotel Champagne. Il nuovo Csm sarà quello della rigenerazione etica o il virus del carrierismo è ancora in giro? Quella vicenda è stata l’effetto di un deficit di democrazia interna ad Unicost. La nostra risposta è stata immediata e rigorosa. All’esito dei lavori dell’Assemblea costituente sono state dettate le regole della vita del gruppo, disciplinando i rapporti tra associati e tra soci e associazione stessa. Ci siamo proposti il fine di privilegiare la partecipazione dei colleghi e la trasparenza nell’assunzione delle decisioni del gruppo, rifuggendo dalle pericolose prassi del passato di affidamento a pochi. Sono stati previsti nuovi organi e affidati all’Assemblea compiti centrali, fra cui quello della designazione dei candidati per il Csm, non più rimessa all’elite del gruppo. Sento quindi di affermare con certezza che il processo di rigenerazione etica, già avviato nel gruppo, sarà praticato nel nuovo Csm. Il sistema di valori e regole che ci siamo dati deve essere soprattutto preteso nei fatti e quotidianamente praticato dai consiglieri Unicost. È chiaro che occorrerà fare i conti con il virus del carrierismo, introdotto con l’abbandono del criterio dell’anzianità dalla riforma del 2006, che non appare sconfessata nell’ossatura dalla riforma Cartabia, ma questa è la sfida che il nuovo Csm deve raccogliere. Il vostro programma per cosa si distingue dagli altri? Dopo avere ribadito i nostri valori fondanti - equilibrio, coerenza, ripudio di ogni forma di collateralismo ideologico, rispetto dei principi costituzionali, impegno ideale e sul lavoro, attenzione al bene comune, difesa della giurisdizione e della magistratura - abbiamo fissato dieci punti. Credo costituisca un novum soprattutto il terzo: la prevedibilità delle decisioni del Csm, vera sfida l’obiettivo del recupero del rapporto di fiducia con il corpo elettorale. Quali sfide dovrà affrontare la Cassazione? Affronta ormai da decenni il problema dell’arretrato: un peso gravoso per un ufficio che deve garantire la nomofilachia. L’aumento dell’organico, previsto di recente dal legislatore per accelerare lo smaltimento delle controversie pendenti, sta però comportando una radicale modificazione nella compagine delle Sezioni e della Procura generale. Al Csm spetta un ruolo determinante affinché l’attività di riorganizzazione si svolga in modo trasparente e nel rigoroso rispetto dei principi dettati dalla legge e dalle circolari del Csm soprattutto a tutela dell’autonomia e indipendenza dei magistrati della Corte, promuovendo altresì il superamento dell’approccio burocratico fondato sul mero calcolo statistico. Come rendere più trasparente il Csm, soprattutto nelle decisioni che riguardano i singoli magistrati? La trasparenza non può essere disgiunta dalla prevedibilità delle medesime decisioni. Essa delinea la comprensibilità dell’azione dei soggetti pubblici sotto diversi profili, quali la semplicità e la pubblicità, in modo da consentire la conoscenza reale dell’attività di autogoverno e di effettuare il controllo sulla stessa. La recente riforma Cartabia innova sul punto della trasparenza imponendo la pubblicità delle pratiche consiliari, con una previsione pienamente condivisibile. Quanto alla prevedibilità e condivisione delle decisioni, occorrerà lavorare, sempre sul solco della riforma Cartabia, individuando criteri di scelta condivisi e leggibili ed evitando che si dica tutto ed il contrario di tutto. Allo stato infatti le decisioni spesso appaiono rispondere ai principi più disparati e sicuramente sono insoddisfacenti rispetto alla stessa logica giuridica, visto il grande numero degli annullamenti del giudice amministrativo adito dai destinatari dei provvedimenti. Il nuovo sistema di valutazioni di professionalità è stato fortemente criticato dalla magistratura... Occorre una particolare attenzione, dovendosi contrastare un sistema che mira a dare consistenza al solo e mero dato numerico, senza tenere conto della peculiarità dell’ufficio giudiziario e della consistenza qualitativa degli affari trattati. Per questo bisognerà prevedere criteri oggettivi che consentano l’inserimento nel fascicolo del magistrato di atti specifici con caratteri di assoluta rilevanza nelle valutazioni. Va inoltre scongiurato il rischio che la valutazione qualitativa finisca per essere declinata in termini di tenuta dei provvedimenti nei gradi successivi: ciò con il tempo potrebbe condurre ad una malintesa gerarchizzazione dei diversi gradi di giudizio e determinare una sorta di conformismo giudiziario. Si negherebbe il ruolo fondamentale di spinta ai mutamenti giurisprudenziali, svolto dai magistrati con le decisioni di merito, che intervengono nel confronto con una realtà che muta in tempi troppo rapidi anche rispetto alla capacità di risposta del legislatore. Qual è la sfida che la magistratura dovrà affrontare? Quella di ristabilire un rapporto di fiducia con i cittadini e le istituzioni, nonché fra magistrati, ruolo che non può che essere riacquisito garantendo indipendenza interna e esterna della magistratura. Occorrerà una netta riaffermazione della terzietà della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato, così come l’assoluta indipendenza ed assenza di collateralismo rispetto ad ambienti politici e ai centri economico- affaristici che possono portare ad una - più percepita che reale, ma non per questo meno delegittimante - mercificazione dell’attività giudiziaria o declinazione ideologica delle decisioni o delle indagini, mettendo seriamente a rischio l’indipendenza del singolo magistrato. L’interpretazione delle norme non si traduce nella ricerca di consenso, ma nell’autorevolezza legata alla persuasività delle argomentazioni ed alla serietà dell’impegno quotidiano negli uffici. Cosa si aspetta dal nuovo ministro della Giustizia? Massima collaborazione nell’adozione di misure che siano davvero risolutive delle annose problematiche che affliggono gli uffici giudiziari. Bisogna superare la logica della supplenza della dirigenza amministrativa da parte dei capi degli uffici giudiziari; si tratta di un peso insopportabile per uffici già gravati da un alto carico degli affari giurisdizionali. Last but not least, nell’adozione dei decreti delegati previsti dalla riforma Cartabia ci sia un impegno concreto ad impedire la c. d. burocratizzazione dell’azione giudiziaria. “Così combattiamo la nuova piaga criminale delle estorsioni online” di Giancarlo Capozzoli L’Espresso, 14 agosto 2022 La guerra ma anche i raid estorsivi alle aziende. E la zona grigia dei mediatori. Parla Roberto Baldoni il capo della Cybersicurezza italiana. “Siamo partiti tardi ma la nostra catena di comando è corta. Presto altre assunzioni”. Roberto Baldoni, lei è da un anno il direttore dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. L’Agenzia delle entrate è stata attaccata, cosa è accaduto? “È stato attaccato uno studio di commercialisti. La cyber gang ha pensato erroneamente di essere all’interno del sistema tributario nazionale e ha dato la notizia sul suo sito scatenando il panico. Ma sia l’infrastruttura digitale di Sogei, che è la società partner tecnologico della Agenzia delle entrate, sia i server dell’Agenzia non hanno riscontrato danni. Alcune infrastrutture digitali che gestiscono servizi critici per la sicurezza nazionale, come il sistema tributario, sono all’interno del cosiddetto “perimetro di sicurezza nazionale cybernetica”, una legge approvata all’unanimità nel novembre 2019. Il perimetro impone una serie di misure di sicurezza molto elevate definite dal Dis, Dipartimento informazioni per la sicurezza, la struttura da cui io provengo”. Sono inattaccabili? “Il rischio zero non esiste, ma seguendo queste misure certamente si aumenta di molto il costo che un attaccante deve sostenere per penetrare la vittima e questo la rende meno appetibile”. L’Agenzia che lei dirige ha compiuto un anno il 6 agosto. Un primo bilancio? “Un anno fa ero l’unico dipendente, ora siamo 100 e saremo 300 alla fine del 2023. È stato un anno fondamentale in cui abbiamo corso parecchio. Pandemia e guerra hanno avuto un forte impatto sul numero degli attacchi cyber. E le cyber gang criminali sono in costante crescita. Tutto questo ha dato una accelerazione formidabile alla nostra crescita. Se lo smart working non è configurato e gestito adeguatamente dai gestori dei sistemi aziendali può creare vulneralbilità in più e le cyber gang le hanno sfruttate per le loro attività di ransomware”. E sul versante bellico? “Oltre agli attacchi meno evidenti che riceviamo costantemente, ci sono state le tre ondate di attacchi che abbiamo ricevuto nel maggio scorso, di tipo Ddos (Distributed denial of service) con lo scopo di rendere non accessibili siti nazionali rilevanti, da parte del gruppo di matrice russa Killnet. Farci trovare operativi e reattivi mentre creavamo l’Agenzia da zero è stata una sfida affascinante. Nella prima ondata sono stati attaccati i siti di grandi organizzazioni statali e diversi sono stati messi offline. Abbiamo studiato questi attacchi e nel giro di 20 ore abbiamo stabilito delle regole per poterci difendere. Regole che hanno fatto sì che alla seconda ondata di attacchi, il numero di siti di organizzazioni governative primarie andati offline siano diminuiti fortemente. Alla terza ondata, nessun sito governativo di una certa rilevanza è andato offline”. Più ci evolviamo, più diventiamo vulnerabili. Scenari che ci apparivano fantascientifici si realizzano. Che contromisure abbiamo a disposizione? “Più diventa grande la massa del software utilizzata, più diventa difficile mantenere tutto il software stesso aggiornato e ben configurato. Siamo passati dalle 6.500 vulnerabilità scoperte nel mondo e raccolte dal Cve (Common vulnerabilities and exposures) nel 2016 alle oltre ventimila del 2021. I software andrebbero immediatamente aggiornati quando i produttori intervengono. I ritardi creano finestre di vulnerabilità. Dobbiamo imparare a gestire questo rischio come cittadini, come impiegati, come dirigenti d’azienda. Le vulnerabilità cibernetiche saranno sempre in continuo aumento. Se ne aggiungeranno di nuove che si aggiungeranno a quelle del passato. Se non opportunamente mantenuti, i software aumentano nel tempo le loro stesse vulnerabilità. A questo va aggiunto che più pezzi di software facciamo più bisogna montarli assieme, interfacciarli, in quelle che si chiamano configurazioni”. Proprio come per la configurazione dei sistemi di smart working durante la pandemia? “Esattamente: si portano fuori, delle connessioni a delle applicazioni che prima erano all’interno del firewall e se non viene configurato bene il sistema, si creano delle aperture da dove l’hacker può entrare”. È difficile stabilire il numero esatto delle vulnerabilità potenziali? “Si stima con le stesse tecniche matematiche per quantificare il numero dei pesci in un lago. Sappiamo che è in continua crescita. Detto ciò, deve essere altrettanto chiaro che dal mondo digitale in cui siamo immersi non è possibile tornare indietro”. Anche perché ha vantaggi straordinari. “Di efficienza, di conoscenza e di velocità. Non avremmo più una economia competitiva. Andare avanti significa saper gestire il rischio, proprio come accaduto con la diffusione dell’automobile. Non attraverseremmo mai una strada trafficata senza guardare a destra e a sinistra. Questa consapevolezza che pur non azzera il rischio, rende il pericolo di essere investiti poco probabile. Questa è la mentalità che dovremo avere ciascuno per il proprio ruolo. Se un cittadino deve stare attento a non aprire gli allegati sospetti delle mail e ai siti che visita, il Ceo di un’azienda deve sapere che è necessario attivare dei framework di gestione del rischio cyber che deve governare in linea con le migliori best practices internazionali”. Un salto di qualità nella nostra cultura digitale? “Veniamo da un mondo prettamente fisico e stiamo entrando in un mondo che ibrida il fisico con il digitale. Nel mondo fisico ci sono delle regole di sicurezza chiare e stabili e che derivano dalla conoscenza che ci tramandiamo tra le generazioni. In questo mondo ibrido le regole di sicurezza cambiano nel tempo e dipendono dalle tecnologie e dai tipi di attacchi”. E dagli alert dell’Agenzia? “L’Agenzia dovrà essere un faro che ricava le regole di sicurezza da adottare studiando l’attacco in corso o dando misure di sicurezza a scopo preventivo”. Che sono in costante aggiornamento? “L’avvento del quantum computing renderà lo scenario tecnologico molto diverso da quello attuale. Si supereranno alcuni problemi di sicurezza attuale, ma se ne creeranno di nuovi a cui dovremo trovare delle risposte lungo la strada. Cosa che abbiamo cominciato a fare a livello internazionale definendo algoritmi di cifratura che sono in grado di resistere ad attacchi portati da computer quantistici. Ma contemporaneamente il quantum porterà immense opportunità economiche e di conoscenza per la società. Quindi gestire il rischio e cogliere le opportunità, questo sarà il nostro futuro di società”. Con una partecipazione attiva della vigilanza da parte di tutti, è così? “Nella cyber security non si delega. Nel mondo fisico il cittadino delega la difesa dei propri confini nazionali alle forze armate: in questo ambito non si può delegare. Bisogna seguire le indicazioni che dà l’Agenzia ed implementare queste indicazioni nei propri sistemi. Dallo smartphone o dal pc dell’utente domestico al sistema informativo aziendale”. Quanto l’Italia è indietro? “Siamo partiti tardi rispetto alle altre esperienze europee: trent’anni dopo la Germania, 15 dopo la Francia, 20 anni dopo Israele. Nel 2013 il Dpcm Monti ha dato una prima organizzazione. Nel 2017, è stata fatta una revisione con il Dpcm Gentiloni, con il quale veniva posto, al centro di questa architettura cyber nazionale, il Dis. Dal 2018 abbiamo iniziato a creare una certa capacità di resilienza a livello nazionale anche in termini di acquisizione di personale specializzato. Siamo in cento anche se con prospettive di crescita fino ad ottocento entro il 2027. Numeri comunque inferiori agli oltre 1000 impiegati nelle agenzie dei nostri colleghi francesi e tedeschi. Ma questo ritardo ci ha dato la possibilità di studiare le esperienze dei nostri colleghi europei, israeliani e americani e creare un’Agenzia che già a livello normativo superasse certe problematiche”. Quali? “La prima e più importante, quella del coordinamento: il premier è il capo della cyber security. Significa aver compreso a fondo che è strategica per il nostro futuro. In Germania, l’Agenzia dipende dal ministero degli Interni. È complesso coordinare giganti come il ministero della Difesa o quello dell’Economia. Tanto che stanno studiando una legge che riprende i principi della nostra agenzia creando una catena di comando corta come la nostra”. Il mondo cyber non ha confini, vale in termini di dominio su uno spazio dentro al quale i singoli Paesi si muovono. Una condizione che i criminali informatici conoscono bene. La territorialità della risposta è un limite, invece? “Nel cyber spazio tutti confinano con tutti: una cyber gang può aver il suo capo agli antipodi ma può attaccare senza problemi una nostra infrastruttura. Parliamo di organizzazioni che per definizione sono distribuite in varie nazioni e a più livelli. Che permettono di attaccare da più parti. Gli attacchi Ddos di maggio scorso sono arrivati da server ospitati in oltre 40 Paesi diversi”. Come si regola la risposta transnazionale? “La Nato ha già definito il cyber come un dominio di guerra al pari degli altri domini. La differenza fondamentale è che nel mondo fisico tutto può essere molto più palese, evidente come l’attribuzione di una certa azione. Certamente la Russia ha attaccato l’Ucraina. Nel mondo virtuale queste certezze sono molto più difficili da raggiungere. Arrivare ad una attribuzione di un attacco cyber, a meno che non ci sia una chiara rivendicazione, può essere molto complesso”. Con quello che comporta in termini di controattacco? “Il cyber è un mondo dove è molto facile lasciare “false flag” all’interno di uno scenario di attacco. Per questa ragione, bisogna stare molto attenti quando si attribuisce un attacco a qualcuno e pertanto agire sempre con estrema cautela. Il mondo anglosassone è molto più proattivo rispetto al mondo latino in termini di attribuzione. E in ambito Nato una attribuzione in ambito cyber rischia di generare risposte a livello cinetico con la possibilità di una escalation”. L’Agenzia si occupa del versante civile. “La cyber defense è delegata al Comando operazioni in rete (Cor) per la difesa delle infrastrutture digitali militari, l’Agenzia si occupa invece della cyber resilienza del sistema Paese, dalle sue infrastrutture critiche fino ad arrivare progressivamente a tutti i cittadini”. Come ridurre la portata degli attacchi ransomware, le estorsioni del mondo cyber? “Una vera piaga criminale. Noi stiamo cercando di capire come diminuire queste ondate di ramsonware sia trovando soluzioni tecniche adeguate sia distruggendo del tutto o in parte il modello di business associato a questo tipo di attacchi ovvero rendendo meno profittevole questa industria criminale che si sviluppa su scala globale. Su questo ultimo punto stiamo studiando delle misure con i nostri partner internazionali. Purtroppo non saranno tempi brevi così come non lo saranno i tempi di innalzamento delle difese di una qualsiasi azienda, perché l’ampiezza di questo intervallo di tempo passa anche per una questione di diffusione della cultura cyber a tutti i dipendenti. Dietro a un attacco ramsonware spesso c’è infatti un errore umano”. All’aumento del cyber crime è corrisposto una diminuzione dei crimini reali… “I rischi a cui ci si espone perpetrando un attacco cyber sono infinitamente minori. Inoltre molte aziende pur di non perdere in credibilità e reputazione e recuperare immediatamente l’operatività preferiscono pagare i riscatti e non lasciare trapelare gli attacchi subiti. Questo sta creando un indotto che si muove in una zona grigia tra la vittima e la cyber gang”. Un po’ quello che accade per alcuni fenomeni criminali, penso ai mediatori per i sequestri di persona o al meccanismo che regola il mercato delle estorsioni nel quale tra vittima e carnefice si interpolano soggetti che svolgono una sorta di triangolazione. “È un indotto da bloccare poiché alimenta le azioni criminali foraggiando la ricerca e lo sviluppo di sempre più sofisticate metodologie di attacco. Ricordiamoci poi che nulla garantisce che la cyber gang non lasci delle backdoor nell’azienda anche dopo averle restituito il controllo sui dati e sugli applicativi in modo da riattaccarla successivamente, magari sotto altre spoglie”. Torniamo alla Agenzia. A febbraio scorso avete fatto un concorso per assumere le prime sessanta unità di personale. “Ne faremo un altro per cento, centoventi persone a settembre al fine di cercare diplomati con esperienza in cyber security. Poi cerchiamo, laureati con esperienza in relazioni internazionali e in questioni giuridiche, della comunicazione e analisti del mondo tecnologico. Mentre il primo è stato un concorso prettamente tecnico, perché avevamo la necessità di far partire l’Agenzia, ora apriremo a tutta questa serie di professionalità non tecniche ma certamente non meno importanti per la riuscita della missione dell’Agenzia”. Con quali obiettivi? “Stiamo cercando persone in grado di lanciare e gestire progetti di ricerca e sviluppo innovativi in alcuni settori come il quantum, l’Intelligenza artificiale, i big data. Creeremo una struttura interna che si occuperà di organizzare partnership pubblico-private per arrivare a realizzare più tecnologia nazionale ed europea”. Fin qui dipendiamo molto dall’estero, non è così? “Più saremo indipendenti dal punto di vista tecnologico più saremo capaci di gestire meglio il rischio cibernetico in questo nuovo mondo fisico e digitale. Con la consapevolezza che non saremo mai del tutto indipendenti. Purtuttavia esistono delle tecnologie su cui è fondamentale investire perché ci rendono più autonomi e quindi meno attaccabili. Sottolineo: meno attaccabili. La geopolitica della tecnologia è un fattore che dovremo affrontare, come Italia e come Europa, in termini di dipendenza/indipendenza da determinati Paesi. Questo è un altro aspetto determinante, correlato al rischio di attacchi cyber, per quel che riguarda la prosperità e lo sviluppo del nostro Paese nel prossimo futuro”. Fermo. “Carceri, il dramma dei suicidi. Creiamo una rete di aiuto” di Renzo Interlenghi cronachefermane.it, 14 agosto 2022 “La notizia del suicidio di Donatella, giovane detenuta, dilania le nostre coscienze al pari di quella del dottor Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza, che è giunto a scrivere una lettera di scuse che potrebbe rappresentare il manifesto per il superamento dell’attuale sistema punitivo basato sulla detenzione carceraria”. A parlare è Renzo Interlenghi, capogruppo di Fermo Capoluogo #FermoFutura in una riflessione a tutto tondo sul sistema carcerario. “Anche Fermo - ricorda Interlenghi - era assurta alle cronache nel settembre del 2020 per il suicidio di un giovanissimo di 23 anni e, secondo i dati di Antigone (associazione che si batte per la tutela dei detenuti), ad aprile del 2022 le morti auto inflitte erano già 21 (57 nel 2021). Ciò sta a significare che il sistema custodiale non funziona come dovrebbe nel momento in cui lo Stato non è in grado di “custodire” i penitenti, circostanza che rappresenta il livello minimo di servizio che si deve rendere. Ancora più difficile è garantire il fine rieducativo della pena. “Al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti nelle carceri italiane, solo il 38 per cento era alla prima carcerazione. Il restante 62 per cento in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18 per cento c’era già stato in precedenza 5 o più volte” (fonte: “rapporto 2022 dell’associazione Antigone sullo stato dei penitenziari italiani” aprile 2022). In un mondo globalizzato in cui tutto ruota intorno all’informazione e all’informatizzazione, non è pensabile ritenere di costruire “l’uomo nuovo” facendolo vivere in celle di pochi metri quadrati (si calcolano circa 6/7 metri pro capite) occupate da 5/6 persone. Sì, perché anche i detenuti sono persone che nonostante gli errori commessi non smettono di appartenere al genere umano e il carcere dovrebbe essere anche il luogo in cui essi si rendono conto del disvalore dei fatti commessi. In questo anni, si è discusso e si discute dell’abolizione dell’ergastolo (circa 1.800 detenuti) e della norma del 41bis dell’O.P. (circa 800 detenuti) ma la maggior parte dei detenuti non sconta un “fine pena mai” né vive in regime di “carcere duro”. In Italia ci sono circa 55 mila detenuti (di cui 10 mila in regime di “alta sicurezza”). La tossicodipendenza è una delle principali cause nella commissione di reati e, spesso, le famiglie non sono attrezzate per far fronte a tali problematiche, per tale motivo l’unico rimedio rimane la repressione che, da sola, non basta. Occorre investire di più nella prevenzione, nell’informazione e nell’assistenza alle famiglie affinché si possa creare una rete di aiuto che permetta a coloro che non vedono una luce in fondo al tunnel di avere, quanto meno, un sostegno morale ed anche economico. Insieme all’assessore Mirko Giampieri, all’Ambito Sociale 19, alla Croce Rossa e alle Camere Penali di Fermo ci siamo già fatti promotori di un’iniziativa per cui sono stati consegnati alla Casa Circondariale di Fermo decine di kit d’ingresso per i detenuti (biancheria intima, asciugamani, sapone, shampoo, dentifricio, spazzolino, ecc..). Un piccolo contributo dal grande significato non solo simbolico che mostra l’attenzione delle istituzioni locali per un mondo che spesso viene dimenticato dai più fortunati. Occorre proseguire su questa strada anche per garantire il reinserimento sociale dei detenuti che vengono rimessi in libertà e che, sovente, non sanno nemmeno dove andare a dormire (il lavoro è una chimera). A questo servono le istituzioni”. Milano. La città dei senzatetto dimenticati, alla mercé delle bande di Pietro Mecarozzi L’Espresso, 14 agosto 2022 Cresce il numero dei senzatetto e delle violenze. Abbandonati in strada, terrorizzati dai clan. E usati come prestanome. Per Giorgio questa è la decima estate che passa per strada. Dopo il rigido inverno che ha percosso Milano, è la volta di un’estate con temperature record. Un caldo soffocante che si è impossessato di ritmi, abitudini e necessità delle migliaia di senza dimora (secondo gli ultimi dati ufficiali il range va dalle 3 alle 7mila persone). Il capoluogo lombardo è infatti la città con più senzatetto in Italia, anche se, come spiega Simone Trabuio, uno dei responsabili del Progetto Arca - che dal 1994 offre aiuto a persone senza dimora e a famiglie povere - “le stime non sono aggiornate e non considerano gli ultimi avvenimenti globali e nazionali che hanno fatto aumentare a vista d’occhio le persone in stato di estrema povertà a Milano”. Non serve infatti avventurarsi nei quartieri più difficili per capire che gli homeless sono in netto aumento. Si tratta di italiani e stranieri, molti giovani e qualche anziano: dormono ai piedi delle vetrine dei negozi di alta moda, barcollando in corso Buenos Aires tra un fiume di persone troppo impegnate per dedicargli un momento, invisibili agli angoli delle strade, icone di una città controversa e ambivalente. L’Espresso ha vissuto con loro e come loro, ascoltando storie, frugando tra ricordi e traumi con indosso uno stigma che nessun essere umano merita. Perché “non si è senzatetto solo nei mesi d’inverno, per poi finire dimenticati tutto il resto dell’anno”, puntualizza Giorgio. Da inizio 2022 a metà luglio, secondo i dati della fio.Psd (Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora), sono 205 le morti su strada di senzatetto, quasi uno al giorno. Una situazione emergenziale. Lunedì scorso una donna è stata accoltellata in pieno giorno a Trastevere. “Povertà e disoccupazione, mancanza di alloggi a prezzi accessibili, eventi drammatici che stravolgono la vita, sono le principali ragioni dietro alla condizione di molti senzatetto”, spiega Trabuio. “Ad esempio, molte donne si ritrovano in queste condizioni, ai margini della società, per la separazione dal coniuge o per sfuggire a una relazione violenta. Mentre altri, che già da prima vivevano situazioni economiche difficili, hanno visto peggiorare le loro condizioni dall’inizio della pandemia e con la crisi economica in corso”. Luigi, per esempio, è un veterano della strada. Ha cinquant’anni, si è trasferito dalla Campania a Milano da giovane e ha passato gli ultimi tre anni in carcere. Oggi si ritrova senza una casa, senza una famiglia, e con la difficoltà nel trovare un lavoro. “È complicato avere un impiego per un ex detenuto, quindi per vivere mi trovo lavoretti occasionali con imprese edili che non cercano operai da mettere in regola, oppure muovendo piccole quantità di stupefacenti”. Luigi ha il volto scalfito dal freddo dell’inverno e svuotato dal caldo dell’estate, sul braccio un coltello tatuato e un buco nero al posto dell’incisivo. “La vita dei senzatetto non è sempre come nei film: nella realtà sono pochi quelli che chiedono l’elemosina e vivono sotto un cartone, il classico “barbone” con abiti puzzolenti e la bottiglia in mano. E per sopravvivere, a volte, ti devi abbassare anche a fare affari poco legali”. I soggetti deboli sono una pedina invisibile nelle mani della criminalità. E come ci spiega Francesco Tresca Carducci, coordinatore di “Avvocato di strada Milano”, da qualche anno è stato pensato un nuovo espediente criminale per sfruttarli: ovvero l’intestazione fittizia, o sostituzione di persona. “Ci sono persone che hanno bisogno di un cellulare e di una connessione Internet per commettere reati. E in cambio di un panino o di 50 euro convincono un senzatetto a intestarsi un’utenza. Con quello che poi ne consegue, dopo le intercettazioni. C’è perfino chi si è rivolto a noi perché, nonostante lo stato di povertà assoluta, risultava proprietario di immobili, società e auto di lusso”, spiega Carducci. Tra la cinquantina di persone che ogni mese bussa allo sportello dell’”Avvocato di strada”, in piazza San Fedele, ci sono anche molti extracomunitari. “Arrivano molti cittadini ucraini, spesso donne, per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale. Sono senza una dimora e ci implorano di non farle ritornare nel loro Paese. Stiamo facendo di tutto con Comune e servizi sociali affinché questo non avvenga”, continua il legale. L’Ucraina, però, non è la sola nazione dalla quale i cittadini sono in fuga. Nadir, Omar e Rashad sono in un angolo del piazzale della stazione di Lambrate: hanno percorso, a piedi e con l’autostop, dieci Stati per arrivare a Milano dall’Afghanistan. Dormono dove capita, uno di loro ha le gambe insanguinate e tutti e tre hanno i piedi dilanianti dallo sforzo. “Siamo scappati dall’Afghanistan, abbiamo lasciato le nostre famiglie e non sappiamo cosa ci potrà capitare, ma tutto è meglio che vivere sotto il regime dei talebani”, confessano all’unisono. I tre ragazzi, come molti altri senzatetto intervistati, passano la notte sui treni, in strada, nelle sale d’attesa delle stazioni e del pronto soccorso, sulle panchine nei parchi. Durante l’inverno vanno a scaldarsi sugli autobus, nelle biblioteche, nei centri commerciali. E spesso l’unico sostegno, a parte il barista pietoso o il panettiere, sono i centri d’ascolto e le mense per i poveri. Il Progetto Arca, durante il primo lockdown ha creato la Cucina mobile: a tutti gli effetti un food truck che dona ogni sera 100-130 pasti caldi , 720 totali a settimana. Oltre ai tre ragazzi afghani, ad attendere il sacchetto con i viveri, ci sono laureati ed ex imprenditori, persone che svolgevano lavori più o meno importanti e avevano una casa, degli affetti, persi a causa della crisi o chissà per quale altro motivo. “Il menu è ciclico e cambia ogni giorno: si compie il massimo sforzo per rispettare i regimi alimentari e i divieti religiosi. Sempre di più si rivolgono a noi giovani e persone con famiglia, perché si è instaurato un rapporto di mutua fiducia”, aggiunge un volontario. Al 2021, secondo l’Istat, sono in condizione di povertà assoluta poco più di 1,9 milioni di famiglie (7,5 per cento del totale da 7,7 per cento nel 2020) e circa 5,6 milioni di individui (9,4 per cento come l’anno precedente). Molti degli “invisibili” sono quindi anche coloro che si confondono con la popolazione socialmente integrata della quale probabilmente facevano parte fino a poco tempo fa. Quanto al dormire, il problema si è intensificato dopo la fine della sospensione degli sfratti nel Comune di Milano a inizio 2022. Molti homeless preferiscono dormire fuori e usufruire dei bagni comunali per ogni necessità, ma la maggior parte cerca asilo nei dormitori. Si tratta di rifugi sparsi in tutto il comune meneghino: sono circa una decina, offrono in totale più di 1.500 posti letto, e per accederci c’è bisogno di un’intermediazione dell’assistente sociale e quasi sempre di uno screening sanitario. Siamo entrati nella Casa della Solidarietà in via Saponaro, gestita dalla Fondazione fratelli di San Francesco: si tratta di un centro di accoglienza diurno e notturno che accoglie diverse fragilità presenti sul territorio milanese, quali persone senza dimora, persone malate, anziani soli, richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati. Ad accoglierci, oltre al responsabile Bledjan Beshiraj, sono Washington e Sergio, due ex senzatetto entrati a far parte del personale della struttura. “Per stare qui si devono rispettare delle regole, e non tutti ci riescono”, puntualizza Sergio. “Il cibo è buono, ci trattano con dignità e nessuno ti manca di rispetto. Nelle camerate sono presenti sei letti e gli ospiti vengono da tutto il mondo, quindi ci possono essere delle incomprensioni, ma è sempre meglio che dormire per strada”. Gli ospiti in totale sono più di 250, la mensa fornisce circa mille pasti al giorno, e la Fondazione mette a loro disposizione psicologi, sociologi e uno sportello legale. All’interno dell’edificio molti giovani evitano il contatto visivo, sfuggono ai sorrisi e ai cenni di saluto: “Per parlare e aprirsi c’è il centro d’ascolto. È lì che si incrociano le storie di tutti, il luogo dove le persone raccontano i loro drammi quotidiani, elencano le necessità impellenti, chiedono, si informano, sperano”, chiosa Beshiraj. Ma visto l’aumento del numero di senzatetto, serve forse un maggior utilizzo dell’approccio housing first? “Negli ultimi anni il Comune ha investito molto sulle strutture di piccole dimensioni che, molto più dei grandi centri, possono contribuire a superare il fisiologico muro di diffidenza che molti anni di vita in strada hanno creato. Abbiamo privilegiato l’approccio housing first e led con appartamenti singoli o dedicati a pochissime persone, riservati per lo più a coloro che definiamo “irriducibili della strada” e che mal sopporterebbero la vita in comunità”, risponde Lamberto Bertolé, assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano. Si tratta di una sperimentazione partita da oltre quattro anni e che lentamente sta avvolgendo il tessuto sociale più fragile della città. “Non vogliamo fermarci e, infatti, tra i progetti presentati per i finanziamenti Pnrr abbiamo inserito anche la realizzazione, all’interno di alcuni stabili comunali da ristrutturare di nuovi appartamenti dedicati all’housing first”. Nonostante ciò, tra procedure e dedali burocratici, quello che manca è anche “la programmazione e la co-progettazione tra enti e Comune di Milano”, svela Alessandro Pezzoni, rappresentante di Caritas ambrosiana. “Non ci possiamo lamentare, perché la città è un esempio nel campo dell’assistenza ai senzatetto, ma ci sono alcuni aspetti che si possono migliorare: dobbiamo andare oltre le misure di emergenza, non possiamo ricordarci che esistono i senzatetto solo quando arriva l’inverno e dimenticarcene per il resto dell’anno”. Come? “Bisogna aumentare la qualità degli interventi e avere un’attenzione continua. Prima di tutto, inserire nelle unità di strada psicologi ed educatori. È il solo modo per non fermarsi alla semplice distribuzione di beni di prima necessità. Poi bisogna sposare l’approccio che ha dato buoni risultati ovunque è stato applicato: vuol dire che ai senzatetto bisogna dare prima di tutto un alloggio di cui possano sentirsi responsabili e fare così leva sulle loro capacità di auto-recupero”, conclude Pezzoni. Anche perché vivere per strada espone queste persone a rischi molto seri, sia d’inverno sia d’estate. Abbiamo provato a passare qualche notte nelle principali via di Milano, con un sacco a pelo e una valigia vuota. Dormire è difficile: forse perché avvisato da un altro homeless che, riconoscendomi come nuovo in quella via, mi ha consigliato di tenere gli occhi aperti. “Tieni stretta la valigia e abbassa lo sguardo quando passano le bande di ragazzini se vuoi rimanere tutto intero”. Le luci e il frastuono della città concedono poche ore di silenzio e di sonno; i passi che risuonano su sampietrini e porfido sembrano essere nenie minacciose; i commenti dei passanti sono lame al vetriolo. “Quello dei pestaggi è una deriva che preoccupa. In molti ci denunciano atti di violenza gratuita nei loro confronti”, confessa il coordinatore di “Avvocato di strada”: “Un signore siciliano è stato picchiato da due ragazzi e noi siamo riusciti ad assisterlo nel processo per tentato omicidio e a fargli avere un discreto risarcimento. Non ha fatto in tempo a goderselo. È morto poco dopo per le conseguenze di quelle ferite”. Brindisi. La Garante dei diritti dei detenuti incontra il presidente della provincia di Cosimo Saracino quimesagne.it, 14 agosto 2022 Consultazione preliminare e programmazione tra Enti e agenzie del territorio, in vista della visita della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale presso le strutture della Provincia di Brindisi: Casa circondariale, Cpr, Rems, Spdc. La Garante delle persone private della libertà su nomina della Provincia di Brindisi, dott.ssa Valentina Farina, nella giornata di martedì 9 agosto u.s., ha conferito con il Presidente della Provincia, Antonio Matarrelli in vista della programmazione delle proprie attività istituzionali. Nel corso dell’incontro ci si è confrontati sugli aspetti operativi da intraprendere, che dovrebbero consentire alla Garante di relazionare sulla situazione penitenziaria attuale attraverso raccolta di informazioni, mappe e dati specifici. La Garante declinerà i prossimi interventi relativi al proprio mandato, così come di seguito. Tra le priorità, spiccano le tematiche legate alle prossime visite alle strutture della Provincia di Brindisi, oltre che la necessità di garantire un accordo che assicuri una governance efficace ed efficiente, attraverso processi sinergici sul territorio che consentano di centrare gli obiettivi in capo alla Garante delle persone private della libertà. È noto come la popolazione detenuta è rappresentata da un’utenza complessa suddivisa per nazionalità con specifici bisogni di salute. Si promuoverà il principio e il rafforzamento della rete dei servizi sanitari penitenziari, al fine di garantire un modello efficiente di assistenza sanitaria territoriale per la presa in carico del paziente detenuto. Durante l’incontro è stata sviluppata una riflessione generale, che è propedeutica ad elaborare un primo report di monitoraggio sulla vita detentiva: dagli istituti penitenziari alle comunità di recupero, dai centri di prima accoglienza, ai rimpatri forzati, alle persone trattenute nei centri di identificazione e di espulsione, alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza o ai reparti per i trattamenti sanitari obbligatori detenuti degli istituti penitenziari. A fronte di questo, si prevede la costituzione di un Tavolo permanente che dovrà avvalersi dell’intervento di professionalità competenti per l’approfondimento delle materie oggetto di discussione. Un ragionamento complessivo sul sistema penitenziario, se pensiamo alla riforma del codice penale, alla riforma della legge sull’immigrazione o a quella sulla tossicodipendenza, nonché sulla Riforma Cartabia. Si è chiarito che si è di fronte a numerosi aspetti che necessitano di essere affrontati congiuntamente alle Istituzioni interessate per evitare percorsi differenziati e maggiormente condivisi. Si è programmato un incontro istituzionale con il Garante Regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, dott. Piero Rossi, nella prospettiva di rafforzare ulteriormente la funzione territoriale con quella Regionale. Larino (Cb). La street art arriva in carcere: pronto il murale realizzato dai detenuti primonumero.it, 14 agosto 2022 Un murale realizzato da 22 detenuti sta per essere svelato nel carcere di Larino. Si tratta di un’opera che rientra nelle attività extracurriculare organizzate dalle scuole presenti nell’Istituto di pena. In questo ambito, il Centro territoriale per l’educazione in età adulta ha offerto ai detenuti un laboratorio di street art, diretto dall’artista Massimiliano Vitti. “Lo spazio su cui realizzare l’opera pittorica - fanno sapere dall’Istituto frentano - è stata individuata nella facciata di un padiglione, il primo che si incontra entrando nella struttura. L’artista ha diviso il muro in 22 rettangoli, quanti sono i detenuti partecipanti al progetto. Ognuno di loro è stato invitato, nella fase iniziale del laboratorio, a confrontarsi con l’immagine più profonda di se stesso, attraverso la produzione di un ritratto interiore. Il progetto ha utilizzato la dimensione pittorica per veicolare emozioni, aumentando la consapevolezza di sé e la conoscenza degli altri. L’idea alla base del laboratorio è che l’identità del singolo partecipante concorra a creare, insieme alle altre, una grande “Oasi umana”, una figura enorme distesa sul muro, sintesi delle emozioni vissute dai singoli detenuti. Ognuno di loro ha associato il proprio nome ad uno dei 22 quadrati, dipingendo l’immagine scelta per raffigurarsi. Il risultato finale è un meraviglioso collage di colorì ed emozioni, ma per i detenuti è soprattutto l’aver condiviso con l’artista per sette giorni spazi ed idee in un lavoro autenticamente collettivo, con la consapevolezza di aver lasciato su un pezzetto di muro la parte migliore di sé”. La direzione della Casa circondariale ringrazia “la lungimiranza della Dirigente scolastica del Cpia, dottoressa Valeria Ferra, che ha consentito la realizzazione del progetto, l’insegnante Filomena Di Lisio, per aver seguito giornalmente il laboratorio, gli artisti Massimiliano Vitti e Chiara Santinelli per aver accompagnato i ragazzi nel percorso pittorico, i venti detenuti che hanno partecipato al progetto per aver accettato la sfida di confrontarsi con la parte più profonda di se utilizzando il pennello e i colori”. L’inaugurazione del murale è in programma mercoledì 17 agosto alle 12. “Senza sbarre”. L’esperienza di carcere aperto realizzata da Cosima Buccoliero di Federica Farina Left, 14 agosto 2022 Il modello della detenzione dura non porta alcun beneficio ma molti svantaggi per tutta la collettività. Per realizzare a un cambiamento culturale bisogna coinvolgere le scuole, i luoghi i cui si formeranno gli adulti di domani, racconta l’ex direttrice dell’istituto di pena di Bollate in un libro scritto con Serena Uccello. Quando penso al direttore di un carcere, l’immagine che mi viene in mente è quella di Samuel Norton nel film Le ali della libertà, un individuo che impone la sua legge sui detenuti con violenza e prevaricazione. Niente di più lontano dalla verità nel caso di Cosima Buccoliero, già vicedirettrice del carcere di Opera, direttrice del carcere di Bollate e dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano, nonché autrice, insieme a Serena Uccello, del libro Senza sbarre. Storia di un carcere aperto, edito da Einaudi. Una donna pratica ma sensibile, che ha saputo portare l’umanità tra le mura del carcere, che non crede che ci siano solo il bianco o il nero: “C’è anche il grigio, ed il bianco può diventare nero e viceversa”. Una professionista che ha voluto esserci, condividendo i problemi di coloro che sono detestati o, peggio ancora, dimenticati da tutti: i detenuti, convinta che la persona non sia il suo reato e che tutti abbiano diritto a una seconda possibilità. “Il carcere può diventare un luogo profondamente ingiusto, che spoglia l’individuo della propria identità”, ci dice l’autrice che ci spiega che se il carcere è coartazione e violenza, questa violenza si ribalterà nella società, rendendola a sua volta violenta e insicura. In questo libro viene descritto il modello di carcere a cui ha lavorato Buccoliero con i suoi collaboratori: un luogo che non vuole essere di segregazione, dove anzi le porte sono aperte per fare entrare “energia”, dove i diritti e la dignità dell’uomo devono essere garantiti in linea con quanto previsto dalla Costituzione. Quanto è stato realizzato a Bollate deve essere raccontato perché dove manca la conoscenza, sono i pregiudizi e i cliché a tenere banco. Bollate offre ai detenuti un trattamento penitenziario particolare, con stanze di detenzione aperte di giorno, celle singole (riservate soprattutto ai detenuti condannati all’ergastolo, così da rendere più umana la prospettiva del “fine pena mai”), celle da due o da quattro posti, con la possibilità graduale di ottenere libertà di movimento all’interno dell’istituto, aderire a offerte lavorative, formative e culturali. Un modello di carcere in cui non si pensa solo ai bisogni primari ma dove si punta a sfruttare bene il tempo della detenzione, lavorando perché la persona possa uscirne migliorata e pronta ad essere reinserita nella società. Nel libro si spiega chiaramente che il modello della detenzione dura non porta alcun beneficio ma molti svantaggi per tutta la collettività. Il detenuto che si trova a vivere una condizione di totale afflizione si sentirà vittima del sistema, non compirà nessun passo in avanti (ma verosimilmente moltissimi passi indietro) e una volta uscito tornerà a delinquere. Un carcere diverso determina risultati decisamente più positivi per tutti: detenuti, operatori e anche per la collettività poiché la recidiva di chi esce da un carcere come Bollate è del 20% contro l’80% della media nazionale. Inoltre, un detenuto che vede riconosciuti i propri diritti e la propria dignità sarà più propenso a compiere un’opera di rielaborazione e riflessione su quanto accaduto, su cosa lo ha portato a commettere il reato, sul danno provocato alla persona offesa e ai suoi familiari. Discorsi sensatissimi che però non riescono a squarciare la cortina di silenzio e pregiudizio che avvolge da sempre l’argomento carcere. La mancanza di conoscenza su cosa sia realmente il carcere è un grande problema, ci dice Cosima Buccoliero. I media non si interessano di quello che accade dentro quelle mura, ne parlano solo quando succede qualche fatto negativo e, allo stesso tempo, i politici, anche a livello locale, preferiscono non occuparsene. Un’altra difficoltà che porta il carcere ad essere un argomento impopolare è la difficoltà di coniugare i diritti dei detenuti con quelli delle vittime dei loro reati. Perché pensare ai diritti dei carcerati quando questi non hanno di certo rispettato quelli delle loro vittime? La Buccoliero risponde con un pensiero semplice e carico di sensibilità: forse non si è obbligati a sanare questa contraddizione, basta sapere che esiste e tener conto di una prospettiva e dell’altra. Ma lo Stato deve comportarsi come stabilito dalla Carta Costituzionale, rispettando il detenuto in quanto persona che dovrà essere reinserita nella società e, in effetti, il modello Bollate va proprio in questo senso. Viene da domandarsi cosa si può fare perché questa tipologia di carcere diventi l’unica possibile e l’autrice ci indica una strada da seguire: ripartire dalle nuove generazioni. Per arrivare a un cambiamento culturale bisogna coinvolgere le scuole, i luoghi i cui si formeranno gli adulti di domani. L’autrice ci racconta dei risultati positivi prodotti negli ultimi dieci anni dagli accordi col Ministero dell’Istruzione, dei progetti che sono stati realizzati e che hanno visto coinvolti moltissimi ragazzi. Gli studenti sono stati accolti nelle carceri, si sono confrontati con i detenuti, con la polizia penitenziaria e con gli operatori. Altre volte, sono stati i detenuti, i poliziotti e i dirigenti delle carceri ad andare nelle classi e le esperienze sono state importanti e formative. La scuola è un luogo di educazione ma anche di formazione delle nuove personalità e, ancora una volta, è chiaro come sia importante investire su di essa perché si possa costruire una società migliore, una cultura più sana, in cui il carcere possa essere visto come l’extrema ratio e possa essere percepito con una diversa sensibilità. Cancel culture: se l’Occidente terrorizzato si autocensura di Corrado Augias La Repubblica, 14 agosto 2022 Dopo l’inchiesta del “Times” su tutti i libri proibiti o sconsigliati negli atenei britannici, una riflessione sugli eccessi del politicamente corretto. E su come la fine del discorso pubblico lasci spazio solo alle sue caricature. Ha fatto bene Antonello Guerrera a segnalare prontamente (su Repubblica di ieri) da Londra il fenomeno delle letture proibite o sconsigliate nelle università inglesi. Vi figurano autori moderni e contemporanei ma anche il padre di ogni letteratura, Shakespeare nientemeno, nel cui Sogno di una notte di mezza estate si scorgerebbero segni di classismo. Non vado a controllare, è possibile che ci siano, così come è certo che nei libretti della lirica italiana compaiano pesanti riferimenti agli abietti zingari e al sangue dei negri. Il fenomeno repressivo va sotto l’etichetta “politicamente corretto”, investe uomini politici, documenti, statue, espressioni verbali, comportamenti. La sua finalità, inizialmente, era di convincere ad evitare locuzioni offensive o denigratorie. Solo un’imposizione di tipo sociale sarebbe stata in grado di farlo. Tutto è cominciato non molto tempo fa, in via approssimativa diciamo mezzo secolo, un inizio a volte ironico o autoironico all’interno dei gruppi progressisti americani, una presa in giro verso chi ostentasse una rigida osservanza dell’ortodossia di sinistra. Il fenomeno è velocemente dilagato. Sparita ogni venatura ironica, l’osservanza del linguaggio e dei comportamenti considerati corretti ha generato di rimbalzo segni sempre più forti di rigetto verso chi li violasse con il conseguente pericolo di un soffocante conformismo. Questo in sostanza raccontava Jonathan Friedman nel suo saggio Politicamente corretto (Meltemi) che ha come sottotitolo Il conformismo morale come regime. Il volume ha incontrato giudizi controversi. Friedman è un antropologo, vive da anni in Svezia. Sua moglie Kajsa Ekholm-Friedman, anch’essa antropologa, venne criticata per aver sostenuto che nei ghetti etnici delle periferie svedesi sopravvivevano usi tribali a causa dell’esclusione sociale di chi vi abita. Tesi accusata di razzismo. Il “politicamente corretto”, sostiene Friedman, è in primo luogo un problema di disciplina del linguaggio, s’è creato un clima in cui più che alla sostanza dei problemi, si bada alle parole con cui vengono espressi. Si crea in questo modo una specie di obbligo ad adeguarsi al pensiero dominante. Non è necessario l’uso della forza, basta il rischio di un’esclusione sociale. Con conseguenze pericolose, per esempio quella di ritardare la soluzione d’un problema, nel timore di una sanzione sociale per chi lo espone. Chi dicesse che i bambini dei campi nomadi sono addestrati al furto e al borseggio, rischierebbe un’accusa di razzismo a prescindere dalla verità o meno dell’accusa. Esistono problemi che è diventato difficile affrontare nel timore di non avere i termini giusti per esporli. Credo che si sia avvicinato molto al nucleo centrale di questo fenomeno Douglas Murray (autore e commentatore politico britannico) nel suo saggio La pazzia delle folle pubblicato in Italia da Neri Pozza. La sua opinione è che molta dell’attuale confusione derivi dal fatto che le grandi narrazioni, a cominciare da quelle politiche e religiose, appaiono in netto declino. Ma poiché anche la natura sociale aborre il vuoto ecco che “nel vuoto postmoderno hanno finito per infilarsi di soppiatto idee nuove con l’intento di fornire proprie spiegazioni e significati”. Il ruolo della “narrazione” (Storytelling, in inglese) cioè l’uso di corrette modalità di comunicazione prevale sulla sostanza dei problemi soprattutto negli ambienti che si definiscono “di sinistra” come se non esistessero più fenomeni sociali oggettivi ma solo “regimi di verità” generati dal linguaggio. Il che è in parte vero. Se io sono socialmente autorizzato a dare scherzosamente una pacca ad una cameriera o a una collega di lavoro, posso sentirmi autorizzato anche ad andare più in là. Se al contrario vige un divieto sociale a farlo, mi sentirò frenato prima ancora che intervenga il timore di possibili conseguenze giudiziarie. È accaduto che doverose campagne per i diritti umani, per la protezione dei più deboli, per comportamenti e linguaggio più corretti, hanno debordato dalle finalità iniziali, legittimando chi se ne ritenga depositario a definire fascista, razzista, omofobo chiunque si discosti dall’opinione prevalente. Il discorso pubblico è disseminato di trappole pronte ad esplodere sotto il malcapitato che metta un piede fuori dai sentieri battuti del senso comune. Fenomeno che si può essere tentati di liquidare con un sorriso e contiene invece un sintomo preoccupante. È la paura che porta a chiedere di abbattere le statue di Churchill o di Cristoforo Colombo, di sconsigliare la lettura di Jane Austin o di Charles Dickens. È come se le democrazie avessero messo in discussione le proprie conquiste civili e i propri ideali, le stesse radici dialettiche sulle quali la civiltà occidentale è stata costruita. Troppi cambiamenti, troppe ansie, le conseguenze politiche sono drammatiche, quelle culturali possono diventare grottesche. Come scrive Douglas Murray nel saggio citato: “Scomparse tutte le grandi narrazioni, nel discorso pubblico si sono fatte spazio le loro caricature”. La prova di maturità della nostra democrazia di Sabino Cassese Corriere della Sera, 14 agosto 2022 Punti di forza (e di debolezza). In questa campagna elettorale l’Italia torna sotto la lente europea. Qualche uscita improvvisata e improvvida nella patria della commedia dell’arte. Queste prime battute della campagna elettorale hanno spaventato molti italiani e allarmato i nostri partner europei, facendo loro temere che l’Italia possa avviarsi sulla strada delle autocrazie, con l’aggravante che vacillerebbe un socio fondatore dell’Unione, che di essa è stato sempre sostenitore. I nostri partner europei conoscono le nostre debolezze, i governi sempre transeunti, le oscillazioni dell’indirizzo politico, la scarsa capacità realizzativa dell’esecutivo. Poiché un moderno governo deve godere della fiducia non solo dei suoi cittadini, ma anche dei suoi consoci (era questo che volevano i Paesi che firmarono nel 1945 a San Francisco la Carta delle Nazioni Unite e quelli che firmarono a Roma nel 1957 il trattato della Comunità economica europea), qualche improvvida uscita durante questo caldo agosto può minare la fiducia recentemente rafforzata nell’Italia. Può essere allora utile cercare di valutare quanto sia robusta la nostra democrazia e di misurare la sua maturità. Siamo deboli quanto a partecipazione politica: l’Istat, qualche anno fa, ha calcolato che meno del 10 per cento delle persone con più di 14 anni prende parte in qualche modo alla vita politica. Questo si riflette sul numero degli iscritti ai partiti, che non superano i 700 mila. Ma altri Paesi europei non stanno meglio di noi: le iscrizioni ai partiti politici sono poche anche in Francia e nel Regno Unito (400 mila e 930 mila) e anche lì diminuiscono. Lo stesso può dirsi per la partecipazione elettorale. In Italia è diminuita di 20 punti e si attesta intorno al 73 per cento, ma è del 67 per cento nel Regno Unito e di circa il 50 per cento in Francia. Insomma, siamo messi male, ma le altre democrazie non possono vantarsi di registrare una maggiore partecipazione popolare alla politica. La forza di una democrazia è anche misurata dalla condivisione dei suoi principi da parte della classe dirigente e dalla “vigilanza democratica” esercitata dai suoi cittadini. Troppo stretti legami con la classe politica ungherese e con quella russa, nonché dichiarazioni sovraniste verso l’Unione europea, fanno dubitare molti della piena lealtà di alcune forze politiche alle regole della democrazia e ai principi delle libertà. Ma quelle forze politiche si stanno sottoponendo volontariamente all’esame, facendo dichiarazioni della cui sincerità non si deve dubitare. Tuttavia, i presidi dell’opinione pubblica sono deboli. Un sistema dei media non completamente indipendente non garantisce quel pluralismo dell’informazione sul quale il presidente Ciampi richiamò l’attenzione del Parlamento nel 2003. Rimangono legami politica-industria-media con circuiti secondari, come quello mediatico-giudiziario, che mettono in dubbio la piena indipendenza dei mezzi di formazione dell’opinione pubblica e quindi la possibilità che la sfera pubblica possa interagire vigorosamente con il potere pubblico. Intrecci di questo tipo hanno “gravi implicazioni” sulla democrazia, come osservò il presidente americano Dwight Eisenhower nel discorso di addio del 1961. Un punto di forza della democrazia italiana è, invece, il suo pluralismo istituzionale: la democrazia nazionale è affiancata e sorretta da 8 mila democrazie locali e da 20 democrazie regionali. In questo, l’Italia è seconda solo alla Germania. Anche se spesso tante voci democratiche fanno un coro stonato e anche se non riescono a trovare la via di una collaborazione orizzontale, che le rafforzerebbe, le autonomie territoriali, una volta “insigne faiblesse” del nostro Paese, ne sono oggi l’ossatura più vitale. Una chiara divisione dei compiti e una rigida separazione dei poteri sono importanti componenti di un robusto governo democratico. Qui il sistema politico-costituzionale italiano mostra tutta la sua debolezza. I governi rubano la funzione legislativa al Parlamento, il Parlamento pretende di diventare amministratore (i suoi membri aspirano ad approvare leggi autoapplicative), i giudici fanno la parte di legislatori e di amministratori, l’amministrazione, sempre sotto attacco, è sulla difensiva e non riesce a modernizzarsi. Si vede chiaramente che manca un controllore del traffico delle decisioni e che troppi flussi deliberativi si intrecciano, rallentandosi vicendevolmente. Siamo indietro, e molto lontani, agli altri Paesi europei. La concorrenza tra i poteri è lo strumento per rendere mite e legittimo l’uso del potere. Montesquieu auspicava che il potere avesse la forza di fermare il potere. In Italia, c’è una vigorosa Corte costituzionale, della cui indipendenza e prudenza non si è mai dubitato, e i cui meriti si notano meglio oggi a paragone con la Corte suprema americana, che pure era stato l’esempio imitato in Italia nel 1947. Le altre istituzioni che avrebbero potuto svolgere il ruolo di contro-poteri, o non sono riuscite ad adempiere tale compito, o non hanno voluto farlo, preferendo co-gestire. Il sistema delle libertà è una componente essenziale di una moderna democrazia: i principi democratici si sono affermati sulla base del liberalismo, di cui sono lo sviluppo storico; una “democrazia illiberale” è una contraddizione in termini. Dopo l’esperienza fascista, che le libertà ha conculcato, l’Italia ha goduto di un periodo nel quale le libertà, sia collettive che individuali, sono fiorite. Non a caso la prima parte della nostra Costituzione, quella che elenca le libertà e i diritti, è la parte più lungimirante, più apprezzata, che ha richiesto meno interventi di modifica. Ma i garanti ultimi delle libertà sono i giudici, e questi, accanto a molti meriti, hanno anche il demerito di voler svolgere troppi compiti, tralasciando quello fondamentale. Da ultimo, anche se lentamente, in Italia si è sviluppato un patriottismo costituzionale, senza il quale una Costituzione non può sopravvivere. Alimentata dalle Corti, a cominciare da quella costituzionale, la fedeltà ai principi costituzionali rappresenta lo scudo maggiore della democrazia e delle libertà. Per concludere, non abbiamo ragione di dubitare e di far dubitare della maturità della nostra democrazia. Qualche uscita improvvisata e improvvida di questi giorni sarà giustificata ricordando che l’Italia fu la patria della commedia dell’arte. Su lavoro e povertà il Pd prova a voltare pagina di Andrea Carugati Il Manifesto, 14 agosto 2022 Approvato il programma: norme contro il precariato, pensione di garanzia per i giovani. Non solo diritti civili. Nel programma del Pd approvato ieri all’unanimità dalla direzione il cambio di rotta c’è anche su lavoro e contrasto alla povertà. Il reddito di cittadinanza viene confermato (da “ricalibrare” sulle indicazioni della commissione Saraceno a favore delle famiglie più numerose). C’è anche il salario minimo sul modello proposto dal ministro del lavoro Orlando e dai sindacati. C’è anche la proposta di una “integrazione pubblica alla retribuzione” per lavoratori a basso reddito. Anche sui contratti si cambia: quelli a termine vengono drasticamente ridimensionati, sul modello della Spagna, che ha introdotto le causali fin dall’inizio e ha ridotto la durata a pochi mesi. Incentivi per i contratti a tempo indeterminato (zero contributi fino ai 35 anni), abolizione degli stage extracurricolari e l’obbligo di retribuzione per tutti gli altri. E ancora: per i giovani si propone una “pensione base” rivolta in particolare a chi ha avuto buchi contributivi. Per l’uscita, l’idea è quella di scendere a 63 anni, con un assegno ridotto, e di rendere strutturale l’ape sociale. Sul fronte del reddito, la proposta chiave è quella di una mensilità in più ogni anno, oltre a una tassazione agevolata per il secondo stipendio della famiglia. Previsto un piano casa da 500mila alloggi in dieci anni (senza consumo di suolo), trasporti e libri gratuiti per gli studenti (in base all’Isee). “Sul lavoro stiamo proponendo ricette in controtendenza rispetto al passato”, ha spiegato Orlando in direzione. “Bisogna che questo cambiamento sia percepito chiaramente, e spiegarlo bene. Possiamo dire che ci eravamo sbagliati, o che i tempi sono cambiati, ma bisogna costruire una narrazione credibile: queste novità ci possono consentire di mettere in difficoltà la destra sul tema della protezione sociale e di parre col mondo dell’astensione. Dobbiamo giocarcela bene: altrimenti rischia di essere un proiettile inesploso!”. Anche Peppe Provenzano, che ha curato il programma insieme all’economista Antonio Nicita e ad Antonio Misiani, è preoccupato del recupero del voto popolare: “Dobbiamo andare nei luoghi che non contano, dimostrare che si possono fidare di noi: se i salari sono fermi al 1990 la colpa è anche nostra, e anche nel mondo della scuola c’è ancora diffidenza verso di noi”. Sulla scuola c’è la proposta di aumentare gli stipendi degli insegnanti ai livelli europei entro il 2027 (costerà dai 6 agli 8 miliardi). “Ma non basta”, avverte Manuela Ghizzoni. “È un programma molto netto, ma ha bisogno di essere accompagnato da una battaglia politica coerente”, sintetizza Provenzano. “Dobbiamo insistere sulla stabilizzazione del lavoro”, dice Cesare Damiano che propone di inserire nel programma una modifica del Jobs act sulle indennità per chi viene ingiustamente licenziato nelle imprese più piccole: “La Consulta ha stabilito che da 3 a 6 mensilità è una cifra troppo esigua: su questo dobbiamo farci sentire, i lavoratori non ci hanno perdonato il Jobs Act”. Sui diritti civili il menù è ricco: legge Zan, matrimonio egualitario per le coppie lgbtq+, ius scholae, norme sul fine vita, legalizzazione della cannabis per autoproduzione personale. Un pacchetto pieno, che fa gioire Zan per la “fermezza” del Pd contro “il tentativo ridicolo della destra di ripulirsi dalla loro omotransfobia”. Cecilia D’Elia avverte: “Se vince la destra i diritti delle donne sono a rischio, compreso l’aborto, e anche quelli della comunità lgbt. Su questo dobbiamo essere più chiari, arrivare al cuore delle persone”. Sull’immigrazione la proposta è riscrivere la legge Bossi Fini e un netto no a chiusure dei porti e blocchi navali. Misiani invita a “non rincorrere la destra sul tema del fisco”. “Noi siamo quelli della scuola e della sanità pubbliche, e dobbiamo rivendicare la proposta di tassare lo 0,2 delle successioni, quelle dei più ricchi, per finanziare una dote per i 18 enni. Sul fronte fisco c’è anche la tassa minima globale sulle aziende multinazionali. Sull’energia la direzione è la transizione ecologica e le rinnovabili su cui è previsto un piano imponente “in grado di produrre 500mila posti di lavoro”. Ribadito il no al nucleare, sì ai rigassificatori ma solo come “soluzioni ponte” attive per pochi anni e con il coinvolgimento dei territori e compensazioni per l’impatto ambientale. Tre i pilastri del programma illustrati da Letta: sviluppo sostenibile e transizioni ecologica e digitale; lavoro, conoscenza e giustizia sociale; diritti e cittadinanza. Il tutto in una cornice di forte europeismo, con la richiesta a Bruxelles di addio all’austerità, di sostituzione del Patto di Stabilità con quello di Sostenibilità, la riforma dei Trattati con l’abolizione del diritto di veto, e una politica estera e di difesa comuni. Nel programma Letta ha fortemente voluto il capitolo “Un paese per giovani” che contiene misure per aiutare l’uscita di casa, il sostegno al mutuo e all’affitto, e una riforma dei congedi parentali (uguali per uomini e donne) per incentivare la natalità. “Per molti di noi le proposte di questo programma possono fare la differenza”, dice la segretaria dei giovani dem Caterina Cerroni: “Abbiamo l’occasione di mettere nelle vite dei ragazzi qualche certezza in più” Abou Soumahoro come Di Vittorio: quando i “cafoni” sfidano la schiavitù di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 14 agosto 2022 La sua lotta ha fatto conoscere agli italiani l’esistenza disumana dei nuovi braccianti. “Onorevoli colleghi, questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: “Un cafone in Parlamento…”. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto”. Insediandosi in Parlamento nel 1921 Giuseppe Di Vittorio da Cerignola, Puglia, diceva: “Io sono un cafone” - e a milioni i cafoni, i contadini del sud, gli Ambrogio, i Nicola, i Tonino lo amavano. Era uno di loro, bastava guardarlo, guardargli le mani. Guardo ora Aboubakar Soumahoro, per tutti Abou, che si candida in Parlamento e penso che siano cambiati i nomi dei cafoni - oggi sono Malik, Biko, Amir, Momoudou. Ma la schiavitù è la stessa, ma la dignità è la stessa. C’è stato un tempo al Sud in cui avere la schiena dritta significava lottare per la propria dignità, coltivare un sogno di uguaglianza e di diritti. Luoghi come Rosarno, San Ferdinando, come altre cittadine dello Jonio, da Bianco a Isola Capo Rizzuto, hanno vissuto occupazioni di terre, coraggio di sindacalisti, fucilate e persecuzioni, mobilitazioni di massa, bandiere rosse al vento portate a piedi, su ciucci e biciclette, municipi in fiamme, persino repubbliche proclamate per un giorno. Un anno dopo la rivolta di Rosarno del 2010 li vidi con addosso i vestiti della domenica. Per un giorno non portavano gli stivaloni di gomma, i cappellacci sformati, le mantelline impermeabili e le tute e i maglioni tarmati con cui li incroci sempre sulle strade mentre vanno verso i campi a raccogliere arance o sbucano da qualche interpoderale, o stanno assembrati sulla provinciale aspettando che un caporale li scelga per lavorare. Per un giorno avevano messo le adidas ai piedi, i pantaloni levi’s, i maglioni baciabbracci, i giubbotti dolcegabbana. Tutto rigorosamente griffato. Tutto rigorosamente falso. Tutta roba che si prende dai fratelli e dai cugini che la vendono per strada. Era un giorno importante quello, e le persone per bene sanno che ai giorni importanti bisogna presentarsi vestiti ammodo. È un segno di rispetto. E qui, di questo stiamo parlando: di rispetto. Antichi sono i loro gesti del lavoro. Le arance si raccolgono come cent’anni fa, nell’umido che intirizzisce le braccia e si smangia le ossa. Antiche le braccia da lavoro. Antico il modo in cui sfilavano per il paese con i loro cartelli. Antica la maniera in cui si incolonnavano ordinati per salire sui pullman - organizzati dai sindacati, dalle associazioni - che li avrebbero portati alla manifestazione di Reggio Calabria, in città. Quando li incontri per strada nei giorni del lavoro e li vedi camminare a piedi per andare nei campi o in bicicletta tornarsene da qualche parte e portarsi le buste della spesa attaccate al braccio o poggiate sulla testa, ti dici che un tempo le cose dovevano essere così, quando a faticare si andava a piedi o in bicicletta. Antiche sono le braccia del lavoro. È il lavoro che è antico. È la cosa più antica che c’è. È l’organizzazione della lotta che è moderna, che cambia sempre. Che chiede sempre la stessa cosa: rispetto. Perché è una cosa importante essere lavoratori. Dovrebbe esserlo. Ci vuole niente perché un incendio divampi in una distesa di ripari di fortuna quando metti su un telo di plastica con due assi di legno e poi dei cartoni tutto intorno a ripararti dal freddo - succede in tutti gli slums del mondo, a Dacca a Niamey a Manila. A San Ferdinando, Italia. Successe così a gennaio 2018, quando tra le fiamme morì Becky Moses che al campo era arrivata pochi giorni prima da Riace, perché le avevano negato il visto di asilo politico. È per quello che ti industri che magari se ci metti due lamiere quella baracca non prende fuoco e tu finisci arrostito dentro. Era il lavoretto extra di Soumaila Sacko, cioè quando non lo chiamavano a rompersi il culo in campagna per quattro soldi. Ognuno fa gli extra che può nella baraccopoli di San Ferdinando - c’è chi vende qualche bibita, c’è chi prepara panini o uno stufato. Tutta una economia, è la legge del mercato, no? Così, s’era partito a piedi, Soumaila con due suoi amici, Drame Madiheri e Madoufoune Fofana, a cercare lamiere. Nello scattio del caldo - le quattro del pomeriggio del giugno 2018. Loro intanto si portavano avanti, a vedere, scegliere, accantonare, e poi magari passava il furgone di un amico e caricavano. È una fabbrica abbandonata, l’ex Fornace. E pure sequestrata, perché ci avevano stoccato rifiuti che venivano dalla Centrale di Brindisi o da chissà dove. In attesa di bonifica. Ai proprietari non interessava neppure più. Che la smontassero tutta, pure i muri, per quel che gli importa. Alle cinque e mezza, sei del pomeriggio si sente il primo colpo di fucile - Soumaila e Drame sono sul tetto e Madoufoune sta di sotto, hanno già messo da parte tre lamiere, un buon lavoro. Non fanno in tempo a capire - che i colpi sono arrivati alle gambe e ai piedi - e a scendere di corsa che arriva il secondo sparo. Soumaila è colpito alla testa. Il corteo era piccolo - sarà un centinaio di persone. Era venuto fuori dalla baraccopoli. Dall’inferno. E loro sembravano diavoli. Cappellucci di lana, pantaloni di tuta, magliette di calcio, alcuni in canotta e scalzi. Diavoli rimpannucciati dalla Caritas. Poi, ne arrivavano altri, a piedi o in bici. Il cielo si era fatto improvvisamente velato, una cammarìa di scirocco dopo giorni di sole pieno. Si sarà stufato anche il cielo, qui, di sovrintendere le cose del mondo. Libertà libertà - gridavano gli africani. E poi - tocca uno, toccano tutti. E ancora: Soumaila, uno di noi. Ecco, se volete capire cosa sia il capitalismo 4.0 e le magnifiche sorti e progressive dell’automazione - venite qui, a San Ferdinando, a Rosarno, dove regna la schiavitù. Dove regna l’apartheid. Venite qui, è l’Alabama prima di Martin Luther King, è Johannesburg prima di Nelson Mandela, e forse riusciremo insieme a capire cosa significhi “non abbiamo da perdere che le nostre catene”. Un bracciante nero sventolava una foto di Soumaila. Io non ho paura, urlava verso le auto - ferme ora che loro si erano sdraiati per terra a un incrocio. Io non ho paura. Qui è un programma minimo di riforme. Vogliamo giustizia, gridava Abou nel megafono, nella piazzetta di San Ferdinando, intanto che si aspettava che una delegazione incontrasse il sindaco e il vicequestore. Non vogliamo ancora tendopoli. C’erano le telecamere - arrivano sempre i giornalisti, in Calabria, quando succede un fattaccio. Abou è un sindacalista di base, e qui lo rispettano tutti. Parla di lavoro e dignità, di italiani e migranti, di chi aizza la guerra tra poveri, di fratellanza. Intorno, c’erano i giovani delle associazioni che da anni si battono per condizioni migliori. Soumaila è stato assassinato, diceva Abou, e vogliamo giustizia. Non era un ladro, era in prima fila nelle lotte - gridava Abou. Questo è Abou - un lavoratore della terra che chiede rispetto e dignità per il suo popolo di lavoratori. Spero che possa entrare in Parlamento e dire: Io sono un cafone. Perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto. Ucraina. Noury (Amnesty): “Anche la guerra ha delle regole e i civili vanno sempre protetti” di Carlo Gubitosa L’Espresso, 14 agosto 2022 Il portavoce dopo le polemiche dei giorni scorsi: “L’unico obiettivo delle nostre azioni è di tutelare la popolazione dai crimini di guerra. Senza diritti vince il modello Erdogan”. Il 4 agosto scorso Amnesty International ha rilasciato un comunicato su alcuni casi di violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dell’esercito ucraino, legate all’uso di strutture come scuole e ospedali col rischio di mettere in pericolo i civili nell’area. Informazioni verificate e dello stesso tenore di precedenti rapporti dell’ONU, ma bollate come contributo alla propaganda militare del regime di Putin, anche con toni molto violenti, nonostante le persecuzioni subite in Russia dall’organizzazione. Ad aprile infatti Amnesty ha visto chiudere d’autorità i suoi uffici di Mosca proprio per aver denunciato le violazioni dei diritti umani di quel regime. Ma per il presidente ucraino Zelensky si è trattato di “un rapporto che purtroppo cerca di amnistiare lo Stato terrorista e di spostare la responsabilità dall’aggressore alla vittima”, come ha dichiarato in un videomessaggio. Abbiamo chiesto a Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International, alcune informazioni di contesto per capire meglio il processo che ha portato a questa analisi delle attività di un esercito aggredito mentre è ancora in corso la campagna militare dell’aggressore. Con quali finalità Amnesty ha rilasciato il suo comunicato? “Gli obiettivi sono almeno tre: fornire informazioni imparziali al pubblico e alla stampa sulle violazioni del diritto internazionale umanitario; pretendere dalle parti in conflitto di porre fine a tali violazioni; favorire, mettendo a disposizione le prove raccolte, le indagini della giustizia internazionale, in particolare del procuratore del Tribunale penale internazionale. Il 29 luglio abbiamo inviato le nostre conclusioni al ministero della Difesa ucraino, chiedendo commenti, lasciando cinque giorni di tempo dopo i quali avremmo diffuso la ricerca. E’ una procedura standard, che seguiamo ogni volta che esce un contenuto importante. Non abbiamo ricevuto risposta”. Come si può pensare di applicare il diritto internazionale umanitario in un contesto di totale abuso e arbitrio come una zona di guerra? “Può sembrare paradossale ma anche una guerra ha delle regole che devono essere rispettate: le prescrive il diritto internazionale umanitario, che ha come architrave le quattro Convenzioni di Ginevra. L’obbligo più chiaro è che, durante un conflitto, le popolazioni civili vanno protette. Altri obblighi riguardano il trattamento dei prigionieri di guerra, il comportamento della potenza occupante nei confronti della popolazione occupata e così via. Per quello che riguarda il comunicato stampa del 4 agosto, abbiamo rilevato, attraverso una ricerca in tre regioni dell’Ucraina, tra cui il Donbass, che la condotta militare dell’esercito ucraino ha posto a rischio la popolazione civile. In che modo? Stazionando in centri abitati, case e palazzi, scuole e ospedali e da lì a volte aprendo il fuoco. In questo modo, le forze ucraine hanno trasformato un obiettivo civile in un obiettivo militare. Questo, lo abbiamo scritto e detto ripetutamente, non fornisce alcuna giustificazione alle forze russe, che quando hanno attaccato quei bersagli hanno comunque commesso crimini di guerra, uccidendo civili. Nondimeno, le forze ucraine hanno portato avanti una tattica contraria al diritto internazionale umanitario”. Quali sono le accortezze che vengono adottate da Amnesty per marcare la distanza dalla propaganda bellica e ridurre il rischio di strumentalizzazioni? “Restare zitti per evitare strumentalizzazioni sarebbe dannoso per la nostra imparzialità e la nostra credibilità. Normalmente adottiamo una strategia di comunicazione reattiva, per prepararci a possibili reazioni ostili e alle modalità per contrastarle, anche se in questo caso, devo dirlo, questa strategia non è stata pianificata in modo ottimale, e si è arrivati alla data di pubblicazione riponendo eccessiva fiducia nel fatto che la risposta ucraina sarebbe stata diversa da quella della propaganda russa. Ovviamente, la narrazione della guerra della Russia contro l’Ucraina in Italia risente del fatto che il nostro paese è impegnato al fianco del paese aggredito, un impegno portato avanti anche attraverso forniture militari. Per questo, la narrazione ucraina (che ci ha accusato di equidistanza, confusione tra aggressore e vittima, aiuto ai terroristi russi ecc) è stata ripresa in modo pressoché integrale, anche con toni veementi e con insulti”. Vi è stato contestato il mancato coinvolgimento della sezione ucraina di Amnesty International nella stesura del comunicato, al punto che la direttrice ha presentato successivamente le sue dimissioni. Cosa ne pensi? “A fare ricerca sulle tattiche militari delle forze ucraine è stato lo stesso team che per cinque mesi aveva fatto ricerche sui crimini di guerra russi in Ucraina: un team che ha seguito le peggiori crisi (Siria, Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana tra le altre) di questo inizio di secolo. Quando si è trattato delle ricerche sui crimini di guerra russi in Ucraina, il problema dello “scavalcamento” di Amnesty Ucraina non è stato sollevato”. A suo parere questa polemica contro Amnesty rischia di alimentare la propaganda contro i diritti umani di teocrazie, regimi autoritari e stati canaglia già apertamente ostili all’operato di Amnesty? “Questa guerra sta scompaginando tutto, dando spazio a “mediatori” come Erdogan che ne approfittano per porre ricatti sui diritti umani (nel caso specifico, ai danni dei curdi) e concedendo ulteriore potere a stati autoritari che si offrono come fonti alternative di idrocarburi (Algeria, Egitto, Mozambico, stati del Golfo e così via). Russia e Cina si ripropongono come modelli di antioccidentalismo e antiamericanismo. E molta gente ci casca, come ci è cascata per oltre un decennio idolatrando Bashar el-Assad, il presidente siriano che negli anni della “guerra al terrore” collaborava con la Cia torturando i presunti terroristi che i servizi statunitensi gli portavano a casa per “interrogatori”. In tutto questo, non è tanto Amnesty International che rischia di essere schiacciata ma lo sono i temi e i movimenti per i diritti umani relativi a quei paesi. Non abbiamo mai contato sull’appoggio di poteri politici o militari per affermare i diritti umani, ma è indubbio che stanno sempre più emergendo leadership ostili al rispetto dei diritti umani. Ribadisco, Erdogan è il modello purtroppo vincente. Al comunicato che documentava le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte dell’esercito ucraino ha fatto seguito un successivo comunicato di scuse affidato alla Reuters. Qual è il senso, lo scopo e la motivazione di queste scuse? “Pur ribadendo le conclusioni della nostra ricerca, abbiamo ritenuto doveroso esprimere rammarico e dispiacere per gli stati d’animo di tante persone che, in Ucraina, hanno aiutato e accompagnato, per molti anni e non solo dal 24 febbraio, le nostre azioni in favore dei diritti umani. Comprendiamo il senso di delusione e quasi di “tradimento” che sia stato provato e vorremmo che, a mente fredda, si riconoscesse il fatto che l’unico obiettivo delle nostre azioni è di proteggere i civili ucraini dai crimini di guerra russi e, quando accade, da comportamenti delle forze ucraine che possono metterli a rischio. Vorremmo anche che si comprendesse la differenza tra un comunicato stampa di quattro pagine prodotto a quasi sei mesi dall’inizio dell’invasione russa e oltre una ventina di denunce contro le forze russe (tra cui lunghi rapporti) rese pubbliche a partire dal 24 febbraio”. Egitto. L’infinito digiuno di Alaa Abd-el Fattah in nome dei diritti umani di Paola Caridi L’Espresso, 14 agosto 2022 L’intellettuale simbolo della primavera araba, in cella dal 2019 in condizioni proibitive, ha iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato dal 2 aprile scorso. Mentre tace la comunità internazionale. Era d’estate, come di questi giorni. Otto anni fa al Cairo. Il suo atto di protesta, il suo primo sciopero della fame, lo iniziò d’agosto per poter assistere suo padre, agli ultimi giorni di vita. Alaa Abd-el Fattah, il più famoso prigioniero politico egiziano, era in cella come lo è ora. Suo padre, Ahmed Seif al Islam, il fondatore dell’avvocatura per i diritti umani del Paese, era confinato nel letto di una terapia intensiva. Lo sciopero della fame di Alaa si concluse, nel 2014, quando le autorità lo fecero uscire dal carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo, per partecipare ai funerali di sua padre, un maestro di diritto amato e rimpianto da generazioni di avvocati e di imputati. Destini che si incrociano, quelli di un padre e di un figlio. Destini che coinvolgono una intera famiglia, la più importante e stimata famiglia di dissidenti. E il padre di Alaa lo sapeva bene. Lo aveva gridato a una conferenza stampa, pochi mesi prima di morire, rivolgendosi direttamente al figlio in carcere. “Figlio mio, avrei voluto che tu ereditassi da me una società democratica che proteggesse i tuoi diritti. E invece, ti ho trasmesso la cella in cui mi avevano imprigionato e in cui ora sei tu”. In quella cella, Alaa Abd-el Fattah è da nove anni, salvo alcuni mesi di libertà su cauzione o libertà vigilata. La sua colpa, tutta politica, è di essere la figura più iconica della rivoluzione del 2011. L’informatico, il pensatore laico, l’intellettuale che ha fatto emergere nel mondo virtuale la presenza, viva e reale, di una opposizione alla trentennale autocrazia di Hosni Mubarak. Le accuse formali? Protesta non autorizzata, la prima. E poi l’ultima sentenza di ulteriori cinque anni, dello scorso dicembre. Diffusione di notizie false, la stessa accusa mossa a Patrick Zaki. Nel mezzo, una serie infinita di udienze, altre accuse, processi farsa, detenzione preventiva, arresto e detenzione del suo difensore. Nel mezzo, una vita in cella che non è vita. Dal 2019 in una cella senza materasso, e senza un orologio, un libro, una rivista, un pezzo di carta, una penna. Senza sole, senza aria, senza l’ora d’aria. Il 2 aprile scorso, Alaa decide di iniziare uno sciopero della fame a tempo indeterminato. Niente più cibo e solo acqua. Privarsi del cibo per affermare fame di diritti e attaccamento alla vita, alla dignità, allo Stato di diritto, alla legalità. Lo sciopero della fame continua, ha raggiunto ora i quattro mesi. È il doppio dello sciopero della fame dell’irlandese Bobby Sands, per fare un paragone con un gesto inciso nella memoria europea. Nel silenzio dei governi, la protesta di Alaa ha scavato il suo piccolo fiume carsico nei canali paralleli della società civile. Un digiuno della fame solidale a staffetta è in corso dalla fine di maggio in Italia. Manifestazioni si sono svolte a Londra, a Berlino, a Parigi, a New York. Tutte le associazioni dei diritti umani egiziane, e tutte le associazioni internazionali, a cominciare da Amnesty International, stigmatizzano le violazioni a cui è sottoposto Alaa Abd-el Fattah, divenuto con il suo calvario un simbolo per gli oltre sessantamila prigionieri - moltissimi dei quali in detenzione preventiva o condannati in processi farsa - che sopravvivono, o muoiono, nelle carceri egiziane, senza che neanche una flebile voce si alzi dalle cancellerie europee. Una voce, ancorché timida, si è alzata a giugno nella Camera dei Comuni, a Londra. A parlare di Alaa, la ministra degli Esteri britannica Liz Truss per informare che il governo stava lavorando “alacremente per ottenere il suo rilascio”. Perché mai il governo di Londra ha preso a cuore il caso di un prigioniero egiziano? Perché l’anno scorso Alaa Abd-el Fattah ha ottenuto la cittadinanza britannica, per via di sua madre Laila Soueif, matematica dell’università del Cairo, che nel Regno Unito aveva trascorso la sua infanzia assieme alla famiglia. L’idea, anche esplicitata, è di richiedere per Alaa un esilio “consensuale” a Londra. Neanche un passaporto forte come quello britannico è riuscito, però, a cambiare molto della situazione di Alaa. Nonostante le richieste del consolato britannico che si susseguono dal dicembre dello scorso anno, nessun diplomatico è riuscito a vedere il detenuto Alaa e a sincerarsi delle sue condizioni. Nessun medico lo ha visitato e, anzi, le autorità si sono persino spinte a negare che Alaa stia conducendo uno sciopero della fame. Eppure la famiglia è testimone del suo digiuno. “Concentrati sul prezzo politico della mia morte. Deve essere il più alto possibile”, Alaa ha per esempio detto a metà giugno a sua sorella Mona Seif. Aveva già sul corpo i segni di oltre due mesi di sciopero della fame: smagrito, molti chili persi, le mani così pallide da mostrare il blu delle vene. E le autorità egiziane hanno implicitamente confermato i loro timori di vederlo morire in cella, se in fretta, alla fine di maggio, lo hanno trasferito dall’inferno del carcere di massima sicurezza di Tora, all’istituto penitenziario di Wadi al Natroun, a un centinaio di chilometri di distanza dalla capitale. Finalmente un materasso su cui dormire dopo due anni. Finalmente mezz’ora fuori dalla cella, all’aria e sotto il sole, come se fosse una conquista. E il mondo? E la comunità internazionale? E l’Unione Europea che si oppone all’autocrate Putin e poi cerca combustibile laddove possibile, anche alla corte di altri autocrati? Silenzio. Un silenzio assordante e miope. Nel nome del realismo politico, i diritti vengono considerati marginali, un orpello da mostrare quando è necessario. C’è però una differenza profonda tra il realismo politico e la conoscenza del reale. Una differenza che, in questi ultimi anni, ci ha costretti a riconsiderare molti dei paradigmi su cui si sono fondate le relazioni internazionali e tra Stati. Ci siamo accorti, per esempio, che l’Europa ha avuto un solo, determinante fattore di stabilità: la democrazia, intesa come sistema in cui i diritti sono protetti e sono per tutti, cittadini e no. E se la democrazia è il pilastro della stabilità, non può valere solo per noi e non per gli altri. Anche quando gli altri, in questo caso, sono egiziani e per quei diritti sono disposti a farsi anni di galera. A morirci anche. “Tutto quello che ci viene chiesto è di non smettere di lottare per ciò che è giusto”, dice Alaa nel 2014, nella selezione di scritti (disponibile anche in italiano) che lo ha fatto ormai definire il Gramsci d’Egitto per la profondità del suo pensiero e della sua visione. Ironia della sorte, il 2014 è l’anno della prima guerra nel Donbass, e noi non ce ne eravamo accorti. Ironia della sorte, è l’anno in cui il regime di Bashar al Assad riprende il controllo dei cieli di Aleppo, aprendo la strada ai bombardamenti a tappeto dei caccia russi sulla città siriana culla della nostra civiltà. Ora gli occhi sono puntati su Cop27, la conferenza sul clima che il prossimo novembre si aprirà a Sharm el Sheikh. Sì, sarà l’Egitto a ospitare la conferenza, come se l’emergenza climatica non sia strettamente legata ai diritti, ambientali e prima ancora umani. Subordinare il sostegno alla conferenza al rispetto dei diritti umani da parte del regime egiziano è il gesto politico che qualifica gli Stati di diritto. Ed è qui, su questo terreno, che si gioca la credibilità e la stabilità dell’Unione Europea, che dovrebbe parlare e non, al contrario, essere silenziosa. Afasica. Opporre il proprio pensiero in modo non violento non è concesso, in un’autocrazia. Ed è anzi necessario, per un regime, espungere i corpi dalle piazze e nasconderli dietro le mura di un carcere. Renderli senza voce e invisibili. Perché una cosa senza nome non esiste. E una persona senza nome e senza storia non esiste per nessuno. “Quale sarà la mia condizione se per i vivi sarò sempre morta e per i morti rimarrò straniera?”, dice Antigone mentre la portano nella grotta in cui verrà sepolta viva e non vedrà più il sole per volere del tiranno di Tebe, il crudele Creonte. È Sofocle a raccontarcelo, in una delle tragedie più belle che il teatro greco ha regalato alla cultura mediterranea. È Sofocle a svelare, allora come oggi, le dinamiche del potere che ha sempre paura del pensiero libero. In questo tempo in cui siamo immersi nelle notizie, il silenzio su Alaa, sul suo nome e sulla sua storia, dice molto - forse tutto. Messico. Scontri in carcere, sparatorie e roghi nelle strade: narcoguerra a Ciudad Juarez di Ylenia Sina e Daniele Nalbone Il Manifesto, 14 agosto 2022 Due bande si affrontano nel penitenziario e il conflitto dilaga: 11 morti, città paralizzata, aeroporto chiuso. Un milione e mezzo di abitanti ostaggio di bande come Mexicles e Artistas Asesinos. Un messaggio di allerta diramato sui social network direttamente dai cittadini avverte: “Non uscite di casa per nessun motivo”. Per circa dieci ore la città di frontiera messicana di Ciudad Juarez è stata il teatro di un assalto da parte del gruppo criminale Los Mexicles. Il bilancio è di undici morti. Tra le vittime, i quattro membri di una troupe di Mega Radio, emittente locale, che stava registrando uno spot pubblicitario nel parcheggio all’esterno di una pizzeria dove giovedì si è verificato uno dei dodici assalti armati in diversi luoghi della città. Alcune immagini pubblicate sui social network mostrano l’esatto momento dell’attacco alla pizzeria: “Dentro c’erano solo civili. Tutte le vittime sono persone capitate lì per caso”, ci spiega Rocìo Gallegos, direttrice della Verdad Ciudad Juarez. Che qualcosa stava per accadere lo si è capito già nel primo pomeriggio, quando all’interno del penitenziario numero 3 della città è scoppiata un’apparente rissa: in realtà è stato un vero e proprio blitz premeditato, terminato con la morte di due detenuti, da parte di membri del gruppo dei Mexicles contro gli Artistas Asesinos, braccio armato legato al cartello di Sinaloa. Nel frattempo era iniziato l’attacco alla città: bombe molotov contro negozi e supermercati, benzinai e bus dati alle fiamme, colpi di arma da fuoco tra le macchine in fila nel traffico. In uno degli attacchi contro un punto vendita Oxxo sono morte due donne: una dipendente e una minorenne che era andata lì per fare domanda di lavoro. Entrambe sono rimaste vittime dell’incendio divampato nell’esercizio commerciale dopo il lancio di alcune molotov. In un altro assalto sono stati uccisi due uomini: uno di loro è stato decapitato e la testa è stata gettata a ridosso di uno dei luoghi simbolo di Ciudad Juarez, il punto panoramico del Periférico Camino Real dal quale si domina la città da un lato e il deserto dall’altro. Aveva solo 12 anni invece la nona vittima, uccisa a colpi di arma da fuoco in un negozio nella colonia Reforma, dove ha sede la procura della città. Poco dopo l’inizio delle azioni criminali sui social network sono apparsi diversi messaggi di rivendicazione firmati Fuerzas Especiales Mexicles sui quali le autorità stanno indagando, che trovano però conferma dalle testimonianze raccolte da alcuni mezzi di informazione locali all’esterno del penitenziario. Secondo i presenti, un gruppo di almeno dieci uomini “vestiti da forze dell’ordine, come quelle che presidiano il confine con gli Usa, armate con fucili”, sarebbero entrate nell’area 2 del carcere, dove sono detenuti i membri degli Artistas Asesinos, e, una volta nella mensa, avrebbero aperto il fuoco. Le autorità locali, statali e federali, riunite nel Gruppo di coordinamento per la Pace, condannando i fatti hanno parlato del tentativo da parte dei gruppi criminali di “destabilizzare e diffondere il panico tra la cittadinanza”. Dieci persone legate al gruppo dei Mexicles, tra cui un ragazzino di 16 anni, sono state arrestate in diverse operazioni che hanno visto la partecipazione dell’esercito e della guardia nazionale. Ciudad Juarez intanto è letteralmente blindata: venerdì Aeromexico ha cancellato tutti i voli per la città, il servizio di trasporto pubblico è stato ridotto al minimo ed è stata annullata la partita del massimo campionato di calcio tra Juarez e Pachuca di sabato sera. Venerdì sono anche arrivati a Ciudad Juarez seicento militari a bordo di due aerei. L’obiettivo: blindare la città per evitare che possano verificarsi nuovi attacchi. La paura: trasformarla nel teatro dell’ennesima guerra. Afghanistan. Un Paese abbandonato, nell’indifferenza dell’Occidente di Filippo Rossi L’Espresso, 14 agosto 2022 Dopo un anno di governo talebano l’economia è ferma. La povertà e la fame aumentano. Continua la discriminazione femminile. E c’è il timore che tutto possa crollare di nuovo. Sarai Shahzada, l’edificio della “borsa” di Kabul, è in fibrillazione già di primo mattino. La gente corre, urla, esce dagli uffici stracolmi. È il centro nevralgico dell’economia del paese. Zirack Abdul Rahman, il responsabile, è oberato. Si ferma un attimo per parlare: “Lo scorso 15 agosto, l’economia è collassata. Il sistema bancario era a terra, niente funzionava. Abbiamo dato una mano al nuovo governo per importare beni di prima necessità. È crudele ciò che l’occidente e gli americani hanno fatto al paese. Hanno messo a terra il popolo afghano, i commercianti, le donne, l’ambiente accademico. Questa è democrazia? Distruggere l’anima di un paese?”. Un anno è passato da quando i talebani sono tornati al potere. L’Afghanistan boccheggia, viaggiando a due velocità differenti. Kabul soffre ancora dei retaggi del cambiamento - unico centro dove alcune influenze esterne hanno cominciato a circolare - vivendo una situazione di paralisi economica e sociale e faticando ad abituarsi ai nuovi padroni. Molti talebani sono impreparati a una vita di città dopo anni passati in isolamento. Sono diffidenti. Ci vorrà tempo. Nel resto del paese, perlopiù rurale, si è sentito il collasso economico anche se non molto è cambiato rispetto a prima. Haji Zirack è sincero. E non ha torto. Oltre a un’economia debole, le sanzioni e un governo non riconosciuto, il paese ha sofferto un “brain drain” difficile da digerire. La maggior parte di coloro che avevano conoscenze e studi, sono stati portati in occidente penalizzando ancora di più la ricostruzione. Tutti si scagliano solamente contro i talebani, quando anche la comunità internazionale porta grandi responsabilità. E tutti dimenticano che sono sempre gli afghani a pagarne le conseguenze. “Cerchiamo di aiutare il governo, ma ora ci ascoltano sempre meno. Siamo frustrati ma sappiamo che cercano di lavorare per il paese, diminuendo la corruzione rispetto al governo precedente”, continua Haji Zirack. I talebani stanno cercando di porre fine al commercio illegale di oppio e di legname pregiato. Ma è difficile quando la gente ha fame ed è mercato che fa gola a molti. L’economia non gira. Tante persone hanno perso il lavoro, spesso creato da Ong occidentali, da istituzioni internazionali e dal governo precedente. E nessun nuovo posto di lavoro è stato creato. Uscire dalla dipendenza è difficile. I salari sono dimezzati per tutti e i prezzi si sono alzati. Molti non riescono ad avere abbastanza cibo, dipendendo dagli aiuti umanitari che scarseggiano. “Se prima più del 70 per cento delle entrate dipendeva dal budget occidentale, oggi per la prima volta siamo autosufficienti. Lavoriamo per essere il meno dipendenti dall’esterno. Esportiamo tanto carbone e altre risorse. Ma i 9 miliardi congelati dagli Stati Uniti devono tornare qui. Il 30 per cento non appartiene allo stato ma ai commercianti afghani. È un crimine”, commenta Abdul Rahim Habib, portavoce del Ministro dell’Economia. A Kabul, come nel resto del paese ci si sveglia allontanandosi ogni giorno di più dai ricordi della guerra, della paura, dalle esplosioni e i raid che hanno terrorizzato tutti per quasi 20 anni. Gli attentati non sono terminati, vista la presenza di gruppi dissidenti. Ma sono casi isolati, spesso sono rivendicati dallo Stato Islamico, sempre più debole. Nel nord del paese e in Panshir invece, una resistenza irrisoria è tenuta sotto controllo. Tuttavia, dopo l’uccisione del leader di Al-Qaeda al-Zawahiri - residente da tempo nel centro di Kabul - ci sono timori che tutto possa crollare di nuovo. Che una nuova guerra stia per cominciare e che ora gli Stati Uniti impongano sanzioni più dure. Molti si chiedono quale sia la vera relazione fra talebani e altri movimenti terroristici. Proprio quando l’Emirato Islamico sembra organizzarsi, riuscendo a portare quella sicurezza tanto agognata e un minimo di organizzazione statale, tutto sembra di nuovo in sospeso. Il ritorno all’attualità di Al-Qaeda ha riportato a galla non solo i fantasmi del passato ma anche i problemi interni alla leadership del paese, divisa come non mai su più aspetti. Una lotta di potere, quella fra il network Haqqani (radicali e vicini ad Al Qaeda) e il clan Durrani - meno conservatore e aperto al cambiamento - che potrebbe anche incrinare le già fragili relazioni con l’occidente. I talebani, inoltre, sono accusati a livello internazionale di non voler creare un governo inclusivo e di non rispettare i diritti umani. Con la scusa della sicurezza infatti, come dice una fonte anonima, “molte persone spariscono nel nulla, accusate di essere membri dello Stato Islamico”. Ma non è confermato. Ma il nodo più difficile da sciogliere fra chi ha imposto il proprio diktat per anni, l’occidente - volendo quasi ricattare il governo talebano e gli afghani in cambio di allentamenti delle sanzioni - e chi vuole difendere i propri valori culturali, è la questione femminile. Se le donne hanno un posto marginale nella società afghana, e fuori dalle città niente è davvero cambiato rispetto a 50 anni fa, dopo l’arrivo dei talebani, è soprattutto Kabul a sentire il contraccolpo. Molte ragazze hanno perso il posto di lavoro - sono tornate ai loro posti precedenti solo in ospedali, banche, in alcuni ministeri e le professoresse - e le adolescenti fra i 13 e i 18 anni ancora non possono tornare a scuola (anche se in alcune provincie e alcuni distretti tutto è stato riaperto). Le ragazze dai 7 ai 13 anni e le studentesse universitarie invece, sono tornate normalmente sui banchi, sebbene con regole più “consone ai valori culturali afghani e alla religione islamica, che gli afghani mettono come priorità”, come spiega il rettore dell’Università di Kabul Osama Aziz. Lo storico ateneo ha riaperto le porte a 12 mila ragazzi e 8 mila ragazze lo scorso 6 marzo. 3 giorni dedicati alle ragazze e 3 ai ragazzi. “Speriamo di ampliare gli spazi così da permettere a tutti di venire ogni giorno”, continua il rettore. È lunedì mattina. Uno dei tre giorni predisposti per le ragazze. Escono a gruppi, ridono e scherzano. Portano tutte l’Abaya, un lungo vestito nero. Sotto, i vestiti normali e tacchi. In testa un velo. Ma niente coperture aggiuntive (il burqa non è obbligatorio). Dietro le vesti nere, si cela la tristezza del cambiamento. Fra loro c’è Marzia, studentessa di farmacia: “Ero incredula quando hanno riaperto l’università, non me l’aspettavo. Ma niente è come prima. Il nero rappresenta la sofferenza. I professori non ci considerano come prima. La sera prima di riprendere gli studi mi sono chiesta cosa farò dopo se non potrò lavorare. I talebani hanno distrutto i nostri sogni”. Vicino a dove vive, nel quartiere popolare di Dasht-e-Barchi, ci accoglie in un piccolo appartamento umido e caldo. Le finestre sono velate. L’entrata è una qualsiasi. Ma all’interno, decine di ragazze entrano ed escono. In una piccola stanza, una lavagna è stata attaccata al muro. Impartisce una lezione di inglese a delle giovani ragazze. Con lei sembrano distrarsi. Marzia è molto solare, prova a tirare su il morale ma avverte: “Se i talebani ci scoprono, ci farebbero chiudere”. Marzia e sua sorella Zahra si sono assunte il compito sin dall’epoca della pandemia di istruire le ragazze. “Se non potevano studiare per motivi finanziari, ora fra il 7 e il 12 grado non possono andare a scuola del tutto. Ci bastano libri, maestre e ragazze motivate. 3 materie al giorno più 3 libri da studiare in casa. Tutto qui. Se impediranno alle ragazze di continuare a studiare, le educherò io per farle passare il concorso universitario”, continua Marzia. “Siamo forti e non riusciranno ad impedircelo”. Come quella di Marzia, centinaia di scuole informali hanno aperto in sordina. Difficile che i talebani non se ne siano accorti. Secondo alcune fonti, in alcuni casi ci sarebbe una sorta di accordo tacito. Ma è proprio questo che crea una grande contraddizione, soprattutto dopo l’apertura delle università pubbliche anche alle ragazze, il che ha dato un po’ di speranza. “È un concetto non chiaro se visto dall’esterno: il leader supremo, Amir al-Mu’minin Haibatullah Akhunzada, decide tutto attraverso un consiglio di Shuyukh, leader religiosi. In questo consiglio ci sono personalità molto conservatrici che hanno più influenza di quelle di stampo più moderno. E nessuno osa toccarli. Così consigliano Akhunzada su quello che deve imporre”, spiega il direttore di una grande università privata di Kabul. “Se la Sharia sostiene l’educazione femminile, significa che questo è un problema culturale afghano. Pensano che le ragazze nell’età adolescenziale siano facilmente manipolabili e che perderebbero i loro valori. Follia”. Ecco come nasce il caos, secondo il direttore: “Il ministro dell’Educazione superiore, per riaprire le scuole, ha ignorato il consiglio religioso. L’avrebbero bocciato. Mentre quello dell’educazione ha fatto quest’errore. Ecco perché in alcune province hanno riaperto anche alle adolescenti, perché seguono prima la Sharia e non quello che viene loro detto dal consiglio”. “L’Emirato Islamico dell’Afghanistan vuole relazioni pacifiche e amichevoli con la comunità internazionale”, è lo slogan pitturato sulla porta principale del ministero degli Esteri a Kabul. A un anno, sembra però che ci sia poco dialogo lasciando l’Afghanistan errare nell’incertezza del suo destino. Afghanistan. Diaspora o resistenza: il dilemma ai tempi dell’Emirato di Giuliano Battiston Il Manifesto, 14 agosto 2022 Ieri a Kabul pestaggi e spari di kalashnikov in aria contro la protesta delle donne: “Lavoro e libertà”. Il 15 agosto 2021 i Talebani tornavano al potere dopo 20 anni di fallimenti occidentali. I due futuri dei giovani: restare o fuggire. Le donne afghane resistono e protestano. Dopo dodici mesi di politiche discriminatorie, di apartheid di genere, di proteste e di repressione, ieri nella capitale afghana una cinquantina di donne ha manifestato per le vie di Kabul. Chiedendo “pane, lavoro e libertà”, uno slogan diventato frequente in questo primo anno di riconquista talebana dell’Afghanistan. I talebani hanno disperso la manifestazione, sparando in aria e inseguendo alcune manifestanti fin dentro i negozi in cui si erano rifugiate. In un anno molto è cambiato nel Paese. Qualcuno ha trovato rifugio all’estero, molti altri sono rimasti. Siamuddin è a Chicago da un paio di mesi e ha già trovato lavoro. Originario della provincia di Laghman, cresciuto a Jalalabad, il capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, è a Kabul che si è fatto le ossa. Prima come attivista, scrittore di libri, infaticabile costruttore di reti e relazioni, poi come funzionario di un ministero, fondatore di una scuola di inglese poi ceduta, infine come organizzatore di eventi e motivational speaker. “Ma lascia perdere: in Afghanistan non funziona questo lavoro”, gli ripetevamo con convinta insistenza. Fino a quando non lo abbiamo visto in una grande aula, nella capitale afghana. Di fronte a lui, centinaia di ragazzi e ragazze. Pronti a ripetere i suoi slogan di incoraggiamento. Pasthun nazionalista, ha sfidato i codici sociali per sposare la ragazza che amava, conosciuta all’università di Nangarhar, dove studenti e studentesse, ben prima dei Talebani, non potevano parlarsi tra di loro, pur frequentando la stessa classe. Lo scorso agosto, è riuscito a salire su uno dei voli di evacuazione dei militari statunitensi. Dopo mesi di stallo in un campo militare in attesa che le procedure venissero completate, oggi è lontano da moglie e due figli, uno dei quali nato mentre lui era via. Loro sono in Pakistan. È riuscito a farli arrivare lì dall’India, dove si era trasferito per un master. Lo scorso agosto era a Kabul per caso, per salutare i parenti. Da mesi aveva capito che i Talebani avrebbero conquistato il Paese, sbagliando solo sui tempi. Il padre e i fratelli sono rimasti a Jalalabad. Vivono in un quartiere periferico, dove hanno aperto una scuola per bambini e bambine. Gratuita. Nei mesi a “bagnomaria” nel campo militare, Siamuddin ha rischiato di deprimersi. Poi ha scritto un libro: Be your own boss. È alla ricerca di un editore. Anche Masouda cerca editori, ma in Afghanistan il panorama editoriale è molto cambiato. Soprattutto per il suo genere preferito: la satira politica e sociale. A Kabul, nel novembre 2012, al ministero dell’Informazione e della cultura abbiamo assistito al primo seminario afghano sulla satira. Partecipava anche un uomo smagrito e basso dalla faccia simpatica, Jalal Noorani, scrittore, giornalista, drammaturgo, consulente del ministero e autore de L’arte della satira, un corposo volume in lingua dari che da Orazio e Menippo arrivava al Novecento di Bergson e Bachtin, passando per il pioniere della scrittura satirica afghana, Mahmud Tarzi. La nostra copia del libro è custodita in un box metallico in una vecchia villa sgangherata di un quartiere popolare di Kabul. I libri della scrittrice Masouda sono quasi introvabili, invece. Autrice di una decina di libri, perlopiù di satira ma anche racconti, è stata per anni la direttrice di un mensile satirico, Achar Kharbuza, Melone sotto-aceto. Lo scorso maggio, quando l’abbiamo incontrata nella capitale, ci ha detto che ora scrive solo storie per bambini: “Ho perso buona parte della spinta a scrivere”. Mentre veniva all’appuntamento, è stata fermata da militanti dell’Emirato: le contestavano l’abbigliamento pur castigato. Come Masouda, anche Marziah è rimasta in Afghanistan. Non potrebbe fare altrimenti. Vive a Ghazni, lungo la strada tra Kabul e Kandahar. L’abbiamo incontrato nel novembre 2021, a pochi mesi dal ritorno dei Talebani al potere. Nello stadio della città, era appena andata in scena la “giustizia” dei barbuti: frustrate per due uomini accusati di atti sessuali illeciti. Marziah rischiava di dover lasciare l’appartamento in cui viveva. Non aveva soldi per l’affitto. Non aveva soldi per cibo e vestiti delle quattro figlie. Diceva di essere costretta a vendere la figlia più grande, 12 anni, “per curarmi e far sopravvivere le altre tre”. Quell’ipotesi è scongiurata: la notizia, giunta ai media, ha avviato una catena di solidarietà, dentro e fuori l’Afghanistan. Ma l’Emirato ha accusato di sabotaggio l’attivista di Ghazni che l’ha portata all’attenzione del pubblico. Ai nostri ultimi messaggi, non ha mai risposto. Prova a rispondere in italiano Madina: è arrivata nel nostro Paese con uno dei voli di evacuazione dell’agosto 2021. Ci siamo incontrati in un piccolo comune non lontano da Bari, lo scorso gennaio. Ha abitato per mesi in un residence, con altri 60 afghani. Perlopiù famiglie, ma anche singoli. Il giorno dell’arrivo dei Talebani a Kabul, Madina programmava di aprire un centro di empowerment per le donne, nella capitale. Parte di un progetto di un’ong italiana. Tutto saltato. Intelligente ed energica, in Puglia si è fatta presto riconoscere come “leader” di un gruppetto di ragazze della sua età, sui 20 anni. “Sono andata dal titolare della palestra qui vicino e gli ho detto: “Senta, vorremmo allenarci ma siamo appena arrivate dall’Afghanistan. Che facciamo?”. Così ci ha fatto subito un buono sconto e da allora andiamo tutti i giorni”, ci raccontava. Pochi giorni fa l’abbiamo rivista a Roma. Ha vinto una borsa di studio all’Università di RomaTre. Si dice felice, anche se non vive con la famiglia e molte amiche sono lontane, in Afghanistan. Nel paese rimane Arezo, già docente universitaria e imprenditrice. Ha una piccola azienda, unica nel suo genere. Produce assorbenti riciclabili. “Si lavano e si possono usare di nuovo”. Alle postazioni da lavoro, dietro le macchine da cucire, solo ragazze. Arezo ci ha detto di aver aperto la sua azienda poco prima del cambio di regime. Di aver riaperto i battenti, dopo qualche mese di chiusura. L’iniziativa serve ad “aiutare le donne, attraverso uno stipendio, a essere più libere. A contare di più sulle proprie capacità, a rivendicarle e ad avere un ruolo più forte in famiglia e nella società”. Pare funzioni, anche se è rivolta a solo una quindicina di donne. Con lo stipendio, una ci raccontava di potersi mantenere all’università e di riuscire a lasciare qualche risparmio in famiglia. Un’altra che, da quando portava i soldi in casa, la sua opinione era diventata improvvisamente importante: “Ora conta anche quel che dico io, prima non era così”.