Comunicato sulla drammatica situazione nelle carceri di Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova Ristretti Orizzonti, 13 agosto 2022 Il Coordinamento Carcere Due Palazzi di Padova (v. in calce realtà che aderiscono) esprime profonda preoccupazione per la situazione delle carceri italiane. Il numero impressionante e in continuo aumento di suicidi (uno anche nella Casa di Reclusione di Padova pochi giorni fa) è uno dei sintomi del disagio in cui vive la popolazione detenuta, un disagio profondo, aggravato da due anni e mezzo di pandemia: ricordiamo che il Covid ha interrotto/ridotto i contatti con i familiari, interrotto per lunghi mesi le attività scolastiche, culturali, sportive, insomma le relazioni umane. In questi giorni voci autorevoli si sono levate per chiedere interventi concreti e immediati per alleviare la sofferenza e l’angoscia in particolare di quella parte della popolazione detenuta più fragile e priva di speranze per il futuro. Il coordinamento aderisce all’appello ‘Una telefonata ti può salvare la vita’ rivolto da don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla Ministra Cartabia e al Capo del DAP Carlo Renoldi affinché sia concesso il telefono nelle celle, come già avviene in altri paesi dell’Europa. Registriamo tra i detenuti anche una profonda delusione per la mancata approvazione della liberazione anticipata come “compensazione” per la doppia sofferenza vissuta durante la pandemia. Chiediamo: - liberalizzazione delle telefonate, come possibilità di ritrovare nei legami famigliari la forza di andare avanti nei momenti della disperazione - liberazione anticipata speciale per Covid Come operatori, a titolo diverso attivi nelle carceri, pensiamo che oggi sia assolutamente necessario dare risposte concrete, e subito. Per far rinascere la speranza. Coordinamento Carcere Due Palazzi - Granello di Senape/Ristretti Orizzonti - Giotto Cooperativa Sociale - WorkCrossing Cooperativa Sociale - Associazione Amici della Giotto - AltraCittà Cooperativa Sociale -Coristi per caso - Solidalia Cooperativa Sociale - Volontà di Sapere Cooperativa Sociale - Sportello Giuridico e di Segretariato Sociale - Pallalpiede - TeatroCarcere - Scuola Edile -Antigone Padova - Commissione Carcere Camera Penale di Padova - Insegnanti scuole in carcere Quei suicidi spie delle carceri fuorilegge di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 agosto 2022 Dall’inizio dell’anno 51 detenuti si sono uccisi in cella, non solo la ragazza di Verona. E questo è solo un segnale delle irregolarità che spesso rendono invivibili i penitenziari. Sessantamila italiani che si sono uccisi in un anno: fantascienza? Eppure accadrebbe se la proporzione di chi si sta togliendo la vita in carcere (10,6%) si replicasse nella popolazione in libertà (suicida 16 volte meno). Da quando a Verona è morta Donatella, la 27enne detenuta il cui suicidio ha spinto il suo giudice di sorveglianza a interrogarsi sul fallimento proprio e del sistema, già altre tre persone si sono tolte la vita: 51 da inizio anno, quasi già quanto le 54 dell’intero 2021 accomunate da disagi psichiatrici, dipendenze (1 detenuto su 3 ma solo tre carceri hanno programmi mirati), e sovraffollamento medio al 120% ma con picchi locali anche al 150%. Ecco perché, sotto l’intermittente commozione per l’eccezione statistica dei suicidi, stride l’ipocrisia del tollerare invece l’ordinaria eccezione alla legalità in carcere, quale registrata dalle visite dei Radicali e dell’associazione Antigone in 85 istituti: 5 minuti e 20 secondi alla settimana in media di servizio psichiatrico per detenuto, psicologi per 10 minuti e mezzo settimanali a cranio, quasi 6 celle su 10 senza docce (benché una norma le imponga dal 2000), quasi un terzo senza i minimi 3 metri quadrati calpestabili, carceri non allacciate alla rete idrica che suppliscono con 4 litri potabili a detenuto, 10 minuti alla settimana di telefonate ammesse dal regolamento del 1975. Ancora non cambiato (introducendo i telefoni in cella anche in chiave anti-suicidi) da una politica che, per calcolo di dividendo nelle urne o per paura di pedaggio elettorale, lascia sul binario morto pure le più complessive riforme proposte in questi anni dalle commissioni Giostra e Ruotolo. E tace agli elettori quanto intanto questa fuorilegge fabbrica-carcere nemmeno riesca a consegnare la supposta merce-sicurezza al consumatore-collettività, se 62 detenuti su 100 sono già alla seconda carcerazione e 18 persino alla quinta o più. “Gridiamo l’emergenza delle carceri. Adesso qualcuno ci ascolti” di Viviana Daloiso Avvenire, 13 agosto 2022 L’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi: “Serve subito il coraggio di andare oltre la burocrazia e riportare l’umanità nei nostri istituti”. L’appello sulle telefonate. La sofferenza si mescola al senso di impotenza. Perché l’abisso che si apre dietro le sbarre lo conosce bene don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri. E provare a colmarlo è impossibile persino per chi “come i miei confratelli fa di tutto per portare conforto ai detenuti”. Allora bisogna “gridare, mandare messaggi forti”, come ha fatto il cappellano di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi, che nei giorni scorsi ha rivolto un video-appello direttamente alla ministra Cartabia perché siano installati dei telefoni fissi nelle celle (Vedi sotto il video postato su Youtube dal quotidiano La Prealpina). Sono giorni durissimi per chi vive quotidianamente nei penitenziari del nostro Paese: l’emergenza suicidi, il sovraffollamento e il caldo eccezionale di queste settimane hanno fatto salire la tensione alle stelle. “Serve capire una volta per tutte che negli istituti vivono persone spesso fragilissime - spiega don Grimaldi. Il senso di abbandono aggrava le loro condizioni. Il fenomeno dei suicidi, che quest’anno sta facendo registrare numeri allarmanti, è un problema con cui ci confrontiamo da tanto tempo ormai e che non è stato affrontato”. Cosa sta succedendo? Conosciamo e parliamo da sempre delle fragilità strutturali del sistema penitenziario: le nostre carceri sono un mondo diversificato, abbiamo strutture attrezzate dove ci sono tante attività, dove le direzioni operano a stretto contatto con la società esterna favorendo la nascita e la moltiplicazione di progetti e percorsi grazie a cui il detenuto si sente seguito. Ma ci sono anche molte strutture dove nulla di tutto questo avviene e i detenuti sono abbandonati. I cappellani in tutto questo fanno quello che possono, spesso è già tantissimo: le attività spirituali che vengono proposte quasi sempre diventano i momenti di dialogo e di confronto altrimenti assenti. Le persone recluse si nutrono di conforto, di tenerezza. Una mano sulla spalla aiuta ad alleviare la sofferenza, può curare la fragilità che senza sfogo porta a scelte anche drammatiche. Questa è la nostra difficile missione: la portano avanti 250 cappellani, aiutati da qualche suora e qualche diacono, a volte supportati dalla polizia penitenziaria che segnala casi particolari, consentendo di creare ponti con la famiglia fuori per esempio. Ma non può bastare. Che cosa si può fare subito, senza ambire a una riforma del sistema che è lontanissima dal poter essere messa in campo, per cambiare le cose? Il cappellano di Busto Arsizio ha chiesto telefoni nelle celle, perché “una telefonata può salvare una vita”... Faccio mio il grido di don David Maria Riboldi, condivido in pieno il suo appello, anche se purtroppo persino per installare dei semplici telefoni servirebbe un tempo che non abbiamo quando ci troviamo nel pieno di un’emergenza come questa. Noi però dobbiamo gridare questa emergenza, dobbiamo esigere ascolto e risposte: potrebbe subito, adesso, essere quella di permettere più telefonate, di allungare i tempi delle conversazioni con le famiglie. Ci sono detenuti che possono parlare con una sorella, una moglie, o una madre appena 10 minuti. Quando ci sono dei momenti di fragilità, quando a casa succede qualcosa, di bello o di brutto, come un lutto per esempio, queste persone devono avere la possibilità di stare di più a contatto coi familiari. Serve il coraggio di andare oltre la burocrazia, perché la burocrazia sta uccidendo la speranza nelle nostre carceri. E serve umanizzare gli istituti: dobbiamo difendere la dignità delle persone, anche se hanno sbagliato. Ma c’è anche altro da fare. Per esempio? Una programmazione delle attività: le direzioni sanno perfettamente che tra luglio e agosto, quando iniziano le ferie e gli organici si riducono ancora di più e quando anche dall’esterno arrivano meno persone, negli istituti si avverte un senso di vuoto. È in questi due mesi che bisogna far sì che la vita non si spenga in carcere: so di un campo scout che s’è svolto dentro a un istituto minorile, di attività ricreative e laboratori, di spettacoli. Sono l’esempio concreto che l’emergenza può essere prevista, che si può arrivare prima. Che effetto le ha fatto la vicenda del suicidio di Donatella, a Verona, e del giudice di sorveglianza che ha chiesto scusa per non aver potuto fare niente per fermarla? Vedo in questo gesto il coraggio di cui parlavo poco fa. Un giudice di sorveglianza che chiede scusa riporta l’umanità e l’umiltà in carcere, può essere la molla che fa scattare la reazione generale nel sistema che serve, adesso più che mai. Suicidi in carcere, l’Ucpi al Dap: “Tavoli permanenti con i soggetti interessati” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 agosto 2022 Ieri si è svolto l’incontro tra il Capo del Dap, Carlo Renoldi, e una delegazione dell’Unione Camere Penali, composta dall’avvocato Carmelo Occhiuto e dai responsabili dell’Osservatorio Carcere, Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro. L’incontro, al quale ha partecipato anche il vicecapo del Dap Carmelo Cantone, era stato richiesto dopo i numerosi suicidi avvenuti in questi giorni negli istituti di pena. Una nota dell’Ucpi ha fatto sapere che il confronto è stato “lungo e sereno sulle problematiche che, da tempo, affliggono l’esecuzione penale e verso le quali la Ministra Cartabia ha sempre mostrato una particolare sensibilità ed interesse”. In merito ai suicidi i penalisti “hanno sollecitato l’incremento delle visite e delle telefonate con i familiari e una maggiore integrazione dei detenuti con la vita stessa del carcere per limitare la sensazione di abbandono”. Quanto alla recente circolare del Dap, inviata alle direzioni degli istituti per i numerosi suicidi, “pur apprezzandone il contenuto”, i penalisti hanno evidenziato “l’inapplicabilità per assoluta mancanza di figure professionali specifiche, quali gli stessi direttori, gli psicologi e gli educatori”. L’Ucpi ha poi richiesto l’istituzione di un tavolo permanente nazionale presso il Dap e presso i provveditorati regionali, a cui parteciperanno i rappresentanti dei soggetti direttamente interessati alla detenzione: magistratura, amministrazione penitenziaria, avvocatura, garanti. I tavoli consentiranno di rilevare immediatamente problematiche di carattere generale e individuale, favorendo il necessario e rapido intervento. I tavoli regionali avranno il compito, con interlocuzioni immediate e con riunioni periodiche, di verificare e monitorare la situazione nel Distretto, con particolare riferimento a criticità generali e individuali, che potranno essere segnalate al tavolo permanente nazionale. È stata inoltre “ricordata l’importanza della partecipazione dell’Avvocatura, che ha un contatto diretto con i detenuti e i loro familiari”. Renoldi ha ritenuto “la proposta molto interessante e la stessa sarà esaminata a partire dal mese di settembre, al rientro di tutti i direttori generali del dipartimento”. Intanto alla lettera inviata a tutti i leader di partito sempre dall’Ucpi con l’elenco dei punti essenziali per una riforma della giustizia non più rinviabile hanno risposto al momento solo dal Terzo Polo. Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione: “Nel nostro programma c’è ben chiara la separazione delle carriere dei magistrati. E molto altro. Chi mi conosce lo sa”. A lui si è aggiunta la deputata di Italia Viva Lucia Annibali: “La separazione delle carriere e quella tra i poteri dello Stato, la ragionevole durata dei processi, il divieto di appello dei pm contro le sentenze di assoluzione, il superamento dell’idea carcerocentrica della sanzione penale e delle ostatività, la custodia cautelare come misura realmente eccezionale, sono tematiche centrali per l’obiettivo di una giustizia penale liberale e per un giusto processo”. “Non ho nulla di cui scusarmi per il suicidio di Donatella” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 agosto 2022 Parla Andrea Mirenda, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Verona a cui era affidata Donatella Hodo, la ventiseienne di origine albanese suicidatasi nel carcere di Montorio questa settimana inalando il gas di una bomboletta. “Io non ho nulla, ma veramente nulla, di cui scusarmi. Ho fatto tutto quello che in questi casi andava fatto”. A dirlo è Andrea Mirenda, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Verona a cui era affidata Donatella Hodo, la ventiseienne di origine albanese suicidatasi nel carcere di Montorio questa settimana inalando il gas di una bomboletta. La triste fine di Donatella è balzata agli onori delle cronache non per il fatto in sé, in quanto - purtroppo - i suicidi dei detenuti continuano a essere all’ordine del giorno, ma per una lettera di scuse da parte dell’attuale facente funzione dell’ufficio di sorveglianza di Verona, il giudice Vincenzo Semeraro. Nella lettera, letta durante i funerali della giovane ragazza, il dottor Semeraro si era scusato pubblicamente per quanto accaduto, affermando che avrebbe “potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto”. Parole che, ovviamente, avevano avuto una coda polemica, facendo finire sul banco degli imputati tutto il personale penitenziario e il sistema di sorveglianza nel suo complesso. In alcune interviste all’indomani della tragedia, il padre e il fidanzato avevano poi dichiarato che Donatella era stata “lasciata sola” in carcere, annunciando quindi di voler denunciare gli eventuali responsabili. Dottor Mirenda, si sente responsabile di questa morte? C’era qualcosa che si sarebbe potuto fare e non è stato fatto? Guardi, quando qualcuno in carcere decide di togliersi la vita è sempre un dramma che scuote le nostre coscienze. Ci sarebbe bisogno da parte di tutti di rispetto, di silenzio, e soprattutto di evitare strumentalizzazioni di alcun tipo. Fatta questa premessa, che ritengo doverosa, nel caso di Donatella è stato fatto tutto quanto era possibile. Donatella aveva un passato molto complicato, dall’età di 21 anni entrava ed usciva dal carcere in particolare per reati legati agli stupefacenti e contro il patrimonio. Sì. La ragazza stava scontando una condanna definitiva presso una comunità di recupero per soggetti con questo genere di problemi. Il 22 maggio scorso, però, aveva deciso autonomamente di lasciare la comunità ed era tornata in carcere. Cosa è successo allora? Appena ritornata in carcere, il direttore, conoscendo bene i suoi problemi, l’aveva subito ammessa al lavoro interno, la produzione di marmellate e prodotti simili. Ed è un fatto molto raro. Perché? Come sanno tutti coloro che si occupano di esecuzione della pena, è molto difficile che a colui il quale è stata revocata una misura alternativa alla detenzione venga poi concesso di poter subito lavorare in carcere. Una concessione che, invece, era stata fatta dal direttore proprio per la sensibilità che aveva nei confronti di Donatella e dei suoi problemi personali. Non è stata mai lasciata sola? Assolutamente no. E gli è stato subito consentito di avere dei colloqui con il suo fidanzato. E con il difensore? Io ho avuto rapporti costanti con l’avvocato Simone Bergamini. E lo dico senza tema di smentita. Nonostante quello che era successo, l’abbandono della comunità da parte di Donatella, stavamo lavorando per un nuovo affidamento terapeutico, da porre in essere appena superati i limiti previsti dall’articolo 58 quater dell’ordinamento penitenziario. Sinceramente non so proprio cosa altro bisognasse fare. La lettera del suo collega ha fatto discutere... Io ritengo che si sia trattato di una lettera dal valore sentimentale e affettuoso che però non può assolutamente mettere in discussione la qualità professionale e umana del trattamento che è stato assicurato a Donatella in questi mesi. Si sente amareggiato? Non si aspettava tutte queste polemiche? Un po’ sono amareggiato, certo. Però vorrei farmi portavoce di tutti coloro che lavorano ogni giorno, e fra mille difficoltà, in carcere: dal direttore fino agli agenti della polizia penitenziaria, chiamati “guardie” in maniera sprezzante dal fidanzato di Donatella. Ecco, ci vorrebbe un po’ più di rispetto, evitando di lasciarsi andare a facili polemiche senza neppure conoscere i fatti realmente accaduti. La magistratura tunisina indaga sui morti della rivolta nel carcere di Modena di Manuela D’Alessandro agi.it, 13 agosto 2022 L’avvocato delle famiglie di due tunisini tra i 9 deceduti nella città emiliana nel marzo 2020 racconta all’Agi la loro ricerca della verità. Anche la magistratura tunisina, come quella italiana, indaga sui 9 morti durante e subito dopo la rivolta nel carcere di Modena tra l’8 e il 9 marzo del 2020. L’Agi ha contattato Hazem Ksouri, avvocato tunisino e attivista internazionale per i diritti umani, che ha presentato una denuncia agli inquirenti del suo Paese per conto dei familiari di Lofti Ben Mesmia e Hafedh Chouchane. In Tunisia c’è interesse sulla vicenda - “Queste famiglie che hanno perso tutto con la morte dei loro figli ora hanno soltanto un obbiettivo: la verità. Noi vogliamo che siano valutate le responsabilità del direttore del carcere di Modena sulla base della legge tunisina che prevede che chi abbia commesso reati fuori del territorio tunisino, sia in qualità di mandante o complice, può essere perseguito e giudicato dai tribunali tunisini se la vittima è di nazionalità tunisina”. Per attuare questa norma, occorre, spiega, una denuncia da parte degli eredi che lui assiste in questa vicenda. “I media tunisini hanno riportato con interesse la notizia di questi dossier, e la radio IFM, quella più seguita nel mio Paese, ne ha parlato - prosegue. Penso che questo fascicolo sia un vero banco di prova nei rapporti tra la Tunisia e l’Italia sul tema del rispetto dei diritti umani. Io ritengo che ci siano delle responsabilità su questi decessi per violazioni delle convenzioni internazionali sui diritti. Vogliamo contribuire ad aiutare le magistrature dei Paesi nella ricerca della verità. Noi come avvocati, la società civile e gli Stati devono svelare questi crimini”. Lofti Ben Mesmia aveva 40 anni è stato l’ultimo a morire nel carcere di Sant’Anna. “Sua moglie Najeth Ben Salah - si legge nel libro ‘Morti in una città silente’ di Sara Manzoli - non riesce a credere che suo marito se ne sia andato per overdose. È sicura che lo abbiano ucciso”. Hafedh Chouchane aveva 36 anni e avrebbe finito di scontare la pena poche settimane dopo la sua morte ed è stato il primo a perdere la vita. Il suo legale, Luca Sebastiani, dice che “aveva già una proposta di lavoro per quando sarebbe uscito”. A che punto sono le inchieste italiane - In Italia ci sono diverse inchieste in corso a Modena e in altre città per chiarire come morirono i detenuti in rivolta dopo avere saputo che, per contenere il contagio del Covid, sarebbero state imposte delle restrizioni per le visite dei familiari. Sebastiani e l’associazione Antigone hanno presentato un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo dopo che a Modena è stata archiviata l’inchiesta su Chouchane sulla cui morte per overdose non ci sarebbero responsabilità. È in corso un’altra indagine in cui vengono ipotizzati i reati di tortura e lesioni aggravate a carico di cinque agenti della polizia penitenziaria ai danni di sette reclusi. Chouchane era stato seppellito a Ganaceto, nella campagna modenese e la sua salma è stata riesumata e portata in Tunisia per volontà della madre all’inizio di luglio grazie anche alla colletta del ‘Comitato Verità e Giustizia per i morti del Sant’Anna’. “Vogliamo consegnare i colpevoli alla giustizia e garantire i diritti delle famiglie delle vittime e stimolare la riforma del sistema carcerario nel pieno rispetto dei diritti umani” auspica Ksouri. Rieducare con lo sport, per non morire di carcere di Alessandro Imperiali rivistacontrasti.it, 13 agosto 2022 Un pallone per fuggire, almeno metaforicamente. A inizio agosto si è tolta la vita in carcere, inalando gas, Donatella Hodo: si tratta del quarantanovesimo suicidio all’interno di una prigione dall’inizio dell’anno. Ciò significa che dal primo gennaio ad oggi, su 54mila detenuti, ben 49 hanno deciso di togliersi la vita. Venti volte di più rispetto a quanto accade fuori dalle mura detentive. Un dato inquietante che mostra come il sistema carcerario italiano sia fallimentare, non tanto nelle intenzioni quanto nella pratica. Ma cosa c’entra lo sport in questo discorso, direte voi? Beh forse più di quanto si creda, almeno all’interno di quel percorso di rieducazione che dovrebbero garantire i penitenziari. Un mese fa, all’interno della sala conferenze dello Stadio Olimpico, è stato proposto un protocollo d’intesa per promuovere le attività sportive nelle carceri intitolato “Rieducare. Lo sport come strumento di dialogo”: gli obiettivi sono il riscatto sociale e il reinserimento dei detenuti. Un progetto che partirà in via sperimentale nelle strutture penitenziarie di Lazio e Abruzzo, e che ha come traguardo la realizzazione di 100 progetti di attività sportiva negli istituti penitenziari e interventi per realizzare almeno 50 spazi ricreativo/sportivi in carcere. Servirà davvero? In proposito abbiamo voluto interrogarci sulle falle di un sistema che si propone di riabilitare e reinserire in società, ma che nei fatti non riesce a tenere fede al suo proponimento. E che spesso quando vince, è proprio grazie allo sport. Nel momento in cui una persona infrange la legge, naturalmente, è giusto che paghi. Ma certezza della pena e necessità di giustizia non significa essere autorizzati a umiliare la dignità umana o a giustificare l’abuso di potere. Perché, per quanto possa non piacere, l’articolo 27 della Costituzione italiana è molto chiaro sulla funzione del carcere: “[…] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo Stato insomma non fa l’aguzzino. Lo Stato ha la missione di rieducare anche il peggiore dei criminali, magari di dargli una seconda possibilità e punirlo ancora più severamente qualora dovesse sbagliare nuovamente. Però, stando ai dati, si tratta di un progetto fallito. Le cause sono svariate: innanzitutto il tasso di sovraffollamento non aiuta a creare un clima pacifico. Se si passa dal 105 al 120%, e se dal 2016 al 2019 gli atti di autolesionismo crescono del 31,9% e i tentati suicidi del 49,5%, significa che c’è un problema molto grave. Quindi la mancanza di personale addetto alla rieducazione (il rapporto tra personale specializzato e detenuti è di 1 a 76) e un budget risibile stanziato per lo scopo di rieducare (6,8 mln di euro, ossia 0,35 centesimi di media al giorno per ogni detenuto). Senza starci a dilungare troppo insomma, la giustizia e le carceri in Italia hanno dei problemi enormi e strutturali che di certo progetti come quello menzionato all’inizio, promosso da Dap, Sport e Salute e la Fondazione Nicola Irti, non possono risolvere. Allo stesso tempo, però, esistono dei casi virtuosi in cui la dignità umana e lo sport vanno a braccetto. A Roma ad esempio esiste la squadra di calcio “Nazionale Rebibbia”: nata nel 2009, non è formata solamente da carcerati ma da un misto tra detenuti, agenti di polizia e volontari. La scelta di creare una squadra eterogenea è l’aspetto fondamentale che fa credere, almeno in questo caso, che la volontà di reinserire in società non sia semplicemente uno slogan. Almeno in campo si è tutti uguali. Oppure, la bella realtà della Polisportiva Pallalpiede, nata dall’impegno dell’Associazione Nairi Onlus e della Polisportiva San Precario. Niente tifosi e un campo delimitato da mura alte oltre 10 metri per evitare sorprese (la squadra per ovvi motivi gioca solo in casa), e giusto qualche volontario o agente a monitorare la situazione. Una realtà nata 7 anni fa nel carcere “Due Palazzi” di Padova. Panchina lunga, neanche a dirlo visto che tra scarcerazioni, permessi e colloqui con il magistrato il rischio di ritrovarsi senza giocatori è più di una semplice possibilità; inoltre tutti i giocatori, prima di essere tesserati, devono firmare un codice etico. Un torneo di Terza Categoria vinto nel 2019, la conquista per più anni della Coppa Disciplina ma soprattutto l’essere stati in grado di abbattere tensioni e barriere. Grazie a un pallone. Senza dimenticare anche l’Atletico Diritti, nato nel 2014 dall’Associazione Antigone e il Progetto Diritti con il patrocinio dell’Università Roma Tre. Una polisportiva che si compone di una squadra di calcio maschile, una di pallacanestro, una di cricket e una di calcio a 5 femminile. Tutte iscritte a tornei federali ufficiali ad eccezione della squadra di calcio a 5 femminile che, giocando nel carcere di Rebibbia ed essendo composta esclusivamente da detenute, non ha a disposizione un campo rispondente alle norme FIGC. È per questo che, ben coscienti dei valori che lo sport può essere in grado di trasmettere, ci auguriamo che venga sempre più inserito in determinati contesti. Innanzitutto perché, stando ai dati dell’Associazione Antigone, solamente il 44,8% degli istituti ha un accesso settimanale in palestra e solo il 40,6% garantisce un accesso a un campo sportivo. E questo ha delle conseguenze: ozio e inattività. Una permanenza in carcere di questo tipo ha effetti molto pesanti sia sul fisico che sulla psiche dei detenuti: tensioni emotive che sfociano in risse, o peggio, e più facilità di ammalarsi andando a gravare anche sul sistema sanitario. Infine, il lato più importante: quello umano. Perciò rieducare è il titolo dell’iniziativa promossa da Fondazione Irti e Sport e Salute. Si comincino questi e altri progetti, che hanno come base fondante la dignità umana proprio con lo sport. Di esempi virtuosi ne abbiamo citati solo alcuni ma tanti altri sono in grado di guidare al senso di comunità, di rispetto dell’altro e soprattutto all’idea che fuori dal carcere qualcosa di meglio della vita che li ha portati dentro quelle quattro mura ci sia davvero. Perché, se è vero come scrive Dostoevskij che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, è necessario dare la possibilità a chi si trova in un penitenziario (per errori che qui nessuno vuole stare a giustificare) di fuggire metaforicamente, almeno per qualche ora alla settimana. Perché questo significa comportarsi da Stato. Perché, a prescindere dalle colpe e dalle responsabilità che una persona può avere, garantire bisogni e diritti - e non far diventare la pena una ritorsione sociale - significa mostrare cosa vuol dire essere dalla parte della cosiddetta “civiltà”. Le prime promesse della politica per la giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 13 agosto 2022 La campagna elettorale per il voto politico del 25 settembre sta cominciando e i partiti hanno iniziato a presentare i loro programmi in tema di politica. A mano a mano che usciranno, li analizzeremo insieme. Per ora, il centrodestra ha inserito la giustizia tra i 15 punti programmatici, che prevedono una nuova riforma del Csm e la separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti. Di questo ho parlato con l’ex magistrato, Carlo Nordio, che è uno dei punti di riferimento sul tema per la galassia di centrodestra. Anche il Terzo Polo con Matteo Renzi ha detto che la riforma Cartabia non è stata soddisfacente e va ripensata. “La riforma della Giustizia deve partire da due punti semplici: il primo è che i magistrati bravi possono far carriera anche se non iscritti a nessuna corrente. Il secondo punto è che se un magistrato che non è bravo sbaglia, paga”. Anche il segretario delle Camere penali, Giandomenico Caiazza, ha fatto sapere di aver inviato ai leader dei partiti alcune proposte “per una profonda, radicale riforma della giustizia penale e dell’ordinamento giudiziario”. Anche l’Organismo congressuale forense con il coordinatore Sergio Paparo ha scritto una lettera aperta ai partiti, chiedendo più coraggio in materia di giustizia. Suicidi in carcere: le linee guida del Dap - Dopo gli oltre 50 suicidi in carcere registrati nel solo 2022, il Dap ha varato delle linee guida per un intervento continuo, “in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Il capo del Dap, Carlo Renoldi, le ha trasmesse ai Provveditori e ai direttori degli istituti. Nella nota del ministero si legge che saranno gli staff multidisciplinari - composti da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - a svolgere in ogni istituto l’analisi congiunta delle situazioni a rischio. L’obiettivo è quello di individuare dei protocolli operativi in grado di far emergere i cosiddetti “eventi sentinella”, quei fatti o quelle specifiche circostanze indicative della condizione di marcato disagio della persona detenuta che “possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia Penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti” ed essere rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. Nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale. Ferragosto in carcere - Il Dap intraprende anche un’altra iniziativa: per la prima volta i vertici saranno in visita in una ventina di istituti penitenziari (tra gli altri l’Ucciardone, Poggioreale, il Marassi,il carcere di Santa Maria Capua Vetere) anche il giorno di Ferragosto. “L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi: ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare” ha dichiarato il capo del Dap Carlo Renoldi. Lo stesso farà, come tutti gli anni, il partito radicale, che ha cominciato l’11 agosto le visite per verificare le condizioni dei detenuti e proseguirà sino al 17 agosto. Giustizia tributaria - La riforma del processo tributario è stato approvato definitivamente. Il ministero della Giustizia e quello dell’Economia scrivono che “è una riforma a lungo attesa importante per le esigenze di cittadini e imprese e per rispettare le scadenze del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Si è “puntato sulla riforma dell’ordinamento degli organi speciali di Giustizia tributaria e sull’introduzione di istituti processuali volti non solo a deflazionare il contenzioso esistente ma anche a incentivare l’uniformità dei giudizi in materie analoghe”. Equo compenso: rinviato - Il ddl sull’equo compenso è stato rinviato nella sua calendarizzazione al Senato: la data fissata è il 6 settembre e sarà corsa contro il tempo per approvarlo entro la fine della legislatura. Il sottosegretario Francesco Paolo Sisto ha assicurato che tutto avverrà come previsto, ma i timori dei professionisti sono sempre maggiori. La mancata approvazione del testo, voluto dai professionisti e in particolare dall’avvocatura, sarebbe “la vittoria dei contraenti forti, anche nella pubblica amministrazione, che continuano a volere corrispondere ai propri professionisti compensi inaccettabilmente esigui”, ha detto Sergio Paparo, coordinatore di Ocf. Giustizia, centrodestra diviso tra garantismo e “manette facili” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 agosto 2022 Difficile, in prospettiva, una coabitazione serena tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, che hanno sensibilità diverse sul tema. “Riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del Csm - Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama - Riforma del diritto penale: razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell’economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali”: sono questi i tre punti previsti dal programma di centrodestra per riformare la giustizia “secondo Costituzione” nella prossima legislatura. “Il centrodestra - ha spiegato il deputato di Forza Italia e sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto - ha messo in campo un programma autenticamente liberale, volto a fare del cittadino il punto di riferimento dell’intero sistema Paese. Un obiettivo che ispira anche le nostre proposte sulla giustizia, che si nutrono della cultura garantista di Forza Italia e muovono da un richiamo vero, di sostanza, alla centralità della Costituzione”. “L’ulteriore semplificazione e velocizzazione del processo penale e di quello civile - ha aggiunto -, la digitalizzazione e un intervento più incisivo sull’ordinamento giudiziario, unitamente ad una particolare attenzione alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono i cardini di quell’attività riformista che il centrodestra compirà una volta al governo. Questo, nella consapevolezza che dalla qualità della giustizia dipende il livello di civiltà del Paese e il suo sviluppo economico”. A leggere il programma e a sentire Sisto parrebbe un buon piano quello pensato dal centrodestra per la giustizia. Ma ci sono un paio di “però” da sollevare. Il primo: si parla di separazione delle carriere, obiettivo invocato ad alta voce dall’Unione delle Camere penali e posto come loro primo punto per una riforma della giustizia non più rinviabile. Tuttavia ci si può fidare, soprattutto di Silvio Berlusconi? Come non ricordare quel 18 maggio 2000, quando ci fu la cerimonia di consegna da parte dell’Unione Camere penali di Roma della “Toga Rossa” proprio al leader di Forza Italia per “la sciagurata ma efficace campagna astensionistica per sabotare i referendum sulla giustizia” promossi, tra gli altri, dal Partito Radicale, tra i quali c’era proprio quello sulla separazione delle carriere? Berlusconi non si fece neanche trovare e mandò avanti l’allora suo portavoce Paolo Bonaiuti a ritirare il “premio”. Promise che avrebbe fatto la riforma in Parlamento ma sappiamo come è andata a finire. Il secondo: vien da pensare che l’espressione “garanzia” della “effettività” della pena sia stata elaborata e scritta da Lega e Fratelli d’Italia, garantisti sul processo e giustizialisti sull’esecuzione penale, come da loro ammissione, o meglio confessione. Ricordiamo che Giorgia Meloni è prima firmataria di una proposta di legge costituzionale per modificare l’articolo 27 della Costituzione (al terzo comma aggiungere: “La legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”). Dunque il programma del centrodestra “secondo Costituzione” a quale carta fa riferimento? All’attuale o a quella eventualmente riscritta nei loro desiderata? Tornando all’esecuzione penale, non esistendo pene scontate virtualmente, la scelta è tra dentro o fuori il carcere. Quel proposito sta a significare che non verrà dato spazio alle misure alternative al carcere e/o si contrasterà quella parte di riforma del processo penale che prevede di irrogarle direttamente dal giudice di cognizione per condanne sotto i 4 anni? Vuol dire far cadere ogni speranza - letterale - di una legge conforme alla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo? Se davvero Forza Italia ha abbandonato il suo garantismo classista in materia di carcere, lo scenario appena ipotizzato probabilmente non condurrà ad una coabitazione serena tra le varie forze che compongono il centrodestra. Per quanto concerne gli altri punti dell’accordo quadro: sulla ragionevole durata del processo, fonti della coalizione ci dicono che al momento non è possibile dare una risposta all’Unione delle Camere penali in merito al ripristino della prescrizione sostanziale, come superamento dell’improcedibilità. Ribadiscono che quello è un programma di massima, i cui punti specifici andranno declinati e dettagliati una volta capita la composizione del Parlamento. Pertanto nessun approfondimento ci è stato dato neanche per quanto concerne la riforma del Csm, se non che bisognerà lasciarsi alle spalle la mediazione politica che ha forgiato le riforme dell’attuale ministro Marta Cartabia e puntare a riforme più incisive, sempre ovviamente nei margini della delega della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che scade a giugno 2023. “Più taser per tutti”: il nuovo slogan del centrodestra di Gianluca Di Feo La Repubblica, 13 agosto 2022 Il lancio di pietre sulle auto trasforma la discussa “pistola elettrica” in un tema elettorale. Salvini: merito nostro. Il sottosegretario. Molteni: diamolo alla polizia locale contro risse e movida. Il video con l’impiego del Taser per fermare l’uomo che ha lanciato sassi sulle vetture, ferendo tre persone tra cui una deputata leghista, e bloccando l’Autostrada del Sole, ha resto la “pistola elettrica” protagonista della campagna elettorale. Subito il centrodestra l’ha eletta a simbolo di una rinnovata “voglia di sicurezza”, chiedendo di distribuirla a tutte le forze di polizia, inclusa quella locale. Il primo è stato Matteo Salvini, che ha postato online il filmato con il titolo sarcastico “Risorsa lancia sassi in autostrada”: un riferimento alla nazionalità egiziana del protagonista dell’episodio, chiaramente con problemi psichici. “Quindici veicoli colpiti - ha scritto Salvini - decine di persone coinvolte e un treno ad alta velocità costretto a fermarsi. Complimenti agli uomini e alle donne in divisa che hanno fermato il folle anche con l’utilizzo del Taser. Solidarietà alle persone coinvolte, un abbraccio a una mamma della Lega rimasta ferita dai vetri in frantumi”. E ha sottolineato che il Taser è uno “strumento fortemente voluto quando ero al ministero dell’Interno che funziona e ha dimostrato ancora una volta che le proposte della Lega sono serie e di buonsenso”. Fabrizio Cecchetti, coordinatore della Lega, e l’assessore lombardo Riccardo De Corato si sono uniti al coro: “Non mi capacito per quale motivo - ha aggiunto De Corato - non sia ancora stato fornito alla Polizia Penitenziaria, da tempo in ginocchio per le continue rivolte dei detenuti”. “Siamo orgogliosi - ha detto il sottosegretario leghista agli Interni Nicola Molteni - di aver dotato le forze dell’ordine di questo strumento e sempre più convinti della necessità di estenderne le dotazioni alle specialità della Polizia, alla Polizia penitenziaria e alle polizie locali”. Pure Edmondo Cirielli, deputato di Fdi, ha chiesto di dare le pistole elettriche alle guardie carcerarie mentre Manuela Poletti, referente leghista di Perugia, vuole assegnarlo ai vigili urbani. Il taser è uno strumento al centro di un dibattito internazionale. L’arma spara due piccoli dardi collegati a cavi che trasmettono una scossa paralizzante a una distanza di circa dieci metri. Molti studi scientifici sostengono che l’effetto possa essere letale, soprattutto quando viene utilizzato contro soggetti con problemi cardiaci: una diagnosi che gli agenti alle prese con un’emergenza non sono in grado di formulare. Nel 2018 negli Stati Uniti 49 persone sarebbero morte a causa dell’impiego della “pistola elettrica”, spingendo molte amministrazioni a rivedere le regole di ingaggio. Ma negli Usa la diffusione è capillare, così come nelle polizie statali tedesche e in quelle britanniche dove - prima degli anni del terrorismo jihadista - compensava l’assenza di armi da fuoco. In Italia la sperimentazione è stata iniziata dall’allora ministro dell’Interno Salvini durante il primo governo Conte: fu però il premier durante l’esecutivo Pd-M5S a deciderne nel gennaio 2020 l’adozione come arma di ordinanza per le forze dell’ordine. Nel luglio dello stesso anno la ministra Luciana Lamorgese bloccò tutto, sulla base di una serie di prove balistiche che contestavano l’efficienza del dispositivo. Infine lo scorso marzo, con il governo Draghi, la stessa Lamorgese ne ha disposto l’impiego in diciotto città. La cronaca ci mostra un uso sempre più frequente, quasi sempre nei confronti di soggetti in condizioni alterate, a causa dell’alcol o di droghe o perché con problemi psichiatrici. Molti sono immigrati. Ma - e questo è il problema del taser - proprio queste persone sono spesso quelle più fragili, a cui la scossa potrebbe causare traumi irreversibili: se possibile, si chiede a carabinieri e polizia di utilizzare la “pistola elettrica” solo in presenza di un’ambulanza. Finora le regole di ingaggio hanno evitato incidenti. Lo slogan del centrodestra adesso però è “taser per tutti”, persino per contrastare la movida e le risse. Lo ha dichiarato proprio il sottosegretario Molteni: “A maggior ragione nel periodo estivo, con l’incremento dei flussi turistici, il controllo del territorio è strategico per contrastare fenomeni di allarme sociale come la malamovida e le risse. In questo senso, siamo orgogliosi di aver dotato le forze dell’ordine di uno strumento in più a tutela dell’incolumità degli operatori stessi e dei cittadini”. “Di giustizia si può morire. Perciò mi candido” di Umberto De Giovannangeli IL Riformista, 13 agosto 2022 Intervista a Ilaria Cucchi. La morte di Stefano come spartiacque, la nuova vita con Fabio Anselmo, il dolore, le battaglie vinte e quelle ancora da combattere: “Prevale l’idea del carcere come discarica sociale” Ilaria Cucchi, cosa l’ha spinta ad accettare di candidarsi con Sinistra Italiana-Verdi? Nicola Fratoianni. Si, è stato proprio lui a convincermi. La sua onestà e trasparenza nel chiedermi di aiutarlo a portare avanti valori nei quali io credo fermamente. Io non sono una politica anche se la politica, mio malgrado, sono stata costretta a farla sul campo. Quando l’arresto e l’uccisione di Stefano si sono abbattuti sulla mia famiglia hanno travolto la mia vita perfetta di giovane donna medio borghese, madre di due figli (Giulia di pochi mesi), con tante certezze, dall’alto delle proprie convinzioni conservatrici filo centro destra. Il tema dei diritti umani mi era estraneo. Ancor di più quello del carcere. Si, ne sentivo parlare, ma ritenevo che non mi riguardassero o potessero riguardarmi. Erano fuori dal mio mondo. Una vita fa... Sì, quanta acqua è passata sotto i ponti da quel 15 ottobre del 2009! Meglio sarebbe dire quanto sangue! Quando vidi il cadavere di Stefano all’obitorio tutto quel mondo ovattato e perfetto in cui avevo vissuto è stato spazzato via in un ciclone di dolore e rabbia fortissimi. Devastanti. Contattai subito Fabio Anselmo che avevo visto in TV difendere nell’aula del Tribunale di Ferrara la famiglia Aldrovandi per l’uccisione di Federico. Pensi che in realtà credevo che fosse accaduto a Roma. Attraverso Fabio conobbi la madre di Federico, Patrizia Moretti e tante altre famiglie che stavano vivendo o avevano vissuto la mia stessa tragedia. Entrai in un mondo diverso, nel quale indifferenza e cinismo si coniugavano con il dolore e la rabbia delle persone coinvolte. Iniziai a frequentare le aule dei loro processi ancor prima del mio e poi insieme al mio. Imparai a conoscere il volto diverso dello Stato. Inutile essere ipocriti. Era ostile ed arrogante nel voler negare ostinatamente l’evidenza delle tragedie frutto degli sbagli dei suoi servitori - come amiamo definirli anche quando ciò non fanno - nascondendo prove e depistando. Non ho avuto tempo di pensare. Mi sono ritrovata in una dimensione del tutto nuova dove facevo fatica a riconoscere quella donna che ero prima. 16 gradi di giudizio e 160 udienze. Il carcere e l’aula dei Tribunali sono diventati la mia casa. Ho imparato una lezione spietata: di indifferenza e cinismo si può morire. Stefano mi ha lasciato in eredità tutto questo. Ecco perché ho accettato la proposta di Fratoianni. Tra i “leoni da tastiera”, e non solo, monta l’accusa di voler sfruttare la morte di Stefano, suo fratello. Quanta misoginia c’è in questa infamia? “Sorella di...”, “moglie di...”... Tantissima misoginia. Non è stato facile e non lo è tuttora sopportare la violenza degli haters. I “grandi Leoni da tastiera”. Fanno male perché mi colpiscono proprio in quanto donna. Perché una donna non può alzare la testa contro la violenza in genere ma, soprattutto, quando questa le viene inflitta da appartenenti alle istituzioni. Parlo di violenza verbale, condita con fake news, che può persino evolversi in una dimensione fisica. Quando io e Fabio siamo riusciti, dopo sette anni di sconfitte nei processi sbagliati, a far riaprire letteralmente il caso di mio fratello, gli attacchi degli haters si sono fatti sempre più intensi e cruenti. Non mi perdonavano “il successo” giudiziario e mediatico. Misoginia? Eccome! Pensi che sono arrivati a prendersela anche con mia madre spingendo a ferirla nella sua dimensione più nobile ed intima: quella del parto, vilipesa perché il suo frutto è stato Stefano Cucchi, usando espressioni tanto crudeli quanto grevi. Talvolta persino “dotte”. Pensi che uno hater, medico di professione, è stato condannato dal Tribunale di Ferrara per aver scritto sui social, nella pagina Facebook di Stefano Paoloni (segretario del Sap) pesanti offese nei nostri riguardi. Si è spinto, dall’alto del suo bagaglio culturale, ad evocare addirittura una favola di Esopo. Così si è rivolto a me: “questa è una mitomane pronta a tutto… la morte di suo fratello si è rivelata essere una gallina dalle uova d’oro per lei e per la sua famiglia!!!”. Ma non sempre la Magistratura ci protegge. Pensi che questa condanna è avvenuta nonostante la fiera opposizione della Procura della Repubblica che prima aveva tentato di far archiviare il procedimento e poi aveva chiesto l’assoluzione dell’hater! Non solo ma il Procuratore in persona ha pure proposto ricorso contro la sentenza sostenendo che quelle espressioni fossero frutto “dell’esercizio del legittimo diritto di critica”. Avevo denunciato pubblicamente il fatto che tanti haters operassero attraverso profili appartenenti alle forze dell’ordine e che questo non fosse accettabile. Pensi che qualcuno di loro mi chiese scusa e qualcun altro pagò anche un risarcimento. Lo stesso medico in questione aveva mostrato il proposito di farlo ma, grazie alla strenua difesa del Procuratore, evidentemente particolarmente sensibile alle mie vicende processuali, ora siamo ancora a processo. Gli haters sono oramai miei costanti compagni di vita. Li querelo ma spesso mi imbatto in indagini svogliate ed inefficienti. Oppure i magistrati che legittimano i loro attacchi. Io e Fabio vogliamo redigere una raccolta casistica. I temi della giustizia sembrano essere usciti fuori dal dibattito politico. Eppure di mala giustizia si continua a soffrire e a morire. I suicidi in carcere non fanno più notizia, come le condizioni di vita dei detenuti. Per non parlare dei processi senza fine. Che Paese è quello che chiude gli occhi di fronte a tutto ciò? Di Giustizia si può morire. Io lo so bene. Mio fratello è stato portato davanti ad un Giudice ed un Pubblico Ministero e, aggiungo, ad un avvocato, poche ore dopo il violentissimo pestaggio che aveva subito ad opera di due carabinieri che lo avevano arrestato. Stava malissimo. Lo dice la sua voce che ho ascoltato dalla registrazione dell’udienza. Aveva due fratture vertebrali ed il volto gonfio e pieno di lividi. Nessuno ha visto o notato nulla. Solo la segretaria d’udienza ha testimoniato raccontando di essersi accorta delle sue condizioni ma che, in fondo, era abituata a veder portare in udienza “gli arrestati della notte” in quello stato. I temi della giustizia sono fuori dal dibattito politico, è vero. Questo è un altro motivo per il quale ho accettato la candidatura. Quando se ne parla si fa riferimento a “facili” riforme e lo si fa con spot ad effetto che tendano ad ottenere consensi “disinformati” che in realtà sono lontanissimi dai problemi reali che affliggono la Giustizia. Il cittadino ne diventa consapevole solo quando ci sbatte la faccia. Il populismo, purtroppo, si è impadronito anche di questo delicatissimo ambito. Entra sempre più spesso nelle aule giudiziarie. Fabio dice che la Giustizia è appannaggio soltanto di coloro che hanno risorse economiche importanti. Come dargli torto? Io lo so molto bene. Si guardi solo come è stato trattato mio fratello all’udienza di convalida del suo arresto. E, viceversa, quello che ho dovuto fare io per restituire dignità alla sua vita negata in modo così spietato. Fabio mi dice che, spesso, in Tribunale si processano i reati e non gli imputati. Anche di questo ho esperienza diretta. Mi fa sorridere perché, ogni volta che sente parlare di riforma della Giustizia si agita e si arrabbia. Vogliamo poi parlare delle condizioni in cui si trovano le nostre carceri? Il problema che ciò non interessa nessuno perché oramai prevale nell’opinione comune la figura del carcere come discarica sociale dove rinchiudere non solo i “delinquenti” ma anche chi possa disturbare il senso comune in quanto non normo conformato. Provo tanta amarezza perché è stato necessario che mi uccidessero un fratello per capire tutto questo. Altri non devono commettere i miei stessi errori. Abbiamo molto da lavorare sulla consapevolezza sociale di questi temi fondamentali per uno vero Stato civile e democratico. Cosa teme di più di una destra che i sondaggi danno con il vento elettorale in poppa? Voglio essere sincera e diretta. La maggior parte delle aggressioni verbali che ho dovuto subire e sopportare provengono proprio da quegli schieramenti; simpatizzanti, militanti ma anche, addirittura, dagli stessi esponenti politici, finanche Parlamentari o politici con responsabilità di governo. Esprimono su questi temi una cultura lontanissima alla mia, che sento fondata sulla sopraffazione del potere sul cittadino che vi si rapporti o che ne abbia soltanto bisogno. E ciò in modo direttamente proporzionale alla vulnerabilità sociale di questi. Voglio pensare positivo e cioè che, alla fine, abbaino e non mordano. Ma dobbiamo vincere noi. Metà degli italiani è indecisa se recarsi ai seggi elettorali il 25 settembre; una parte di questa metà si dice “disgustata” dalla politica. Un sentimento diffuso soprattutto tra i giovani. Come se lo spiega e perché le tante e i tanti disillusi, disgustati, dovrebbero votare e votare a sinistra? Ha presente la Canzone “destra-sinistra”di Giorgio Gaber? La trovo geniale e di straordinaria attualità. La politica è sempre più lontana dalle necessità, sempre più drammaticamente contingenti e stringenti, dei cittadini. Il solo nome “politica” è percepito come un disvalore sinonimo di affari e malaffari. Potere fine a se stesso. Troppi programmi mai mantenuti. Troppi slogan roboanti e del tutto improbabili. Nel deserto dei concreti risultati ottenuti si sono abbattute le tempeste della pandemia ed ora della guerra. Il tenore di questa breve campagna elettorale, tutta incentrata sul chi litiga ed insulta chi, non aiuta di certo. Nel mio piccolo sono veramente in tantissimi coloro che mi ringraziamo per essermi messa in gioco. Dicono che altrimenti non avrebbero votato. In politica lei porta la sua storia, il suo impegno civile, il suo dolore. Cosa si sente di dire a quanti hanno vissuto esperienze simili alle sue e che attendono ancora di avere giustizia? Di continuare a crederci. Di non smettere mai di lottare. Di non lasciare mai prevalere la rabbia e la frustrazione che io conosco molto bene. Certo, è facile dire tutto questo quando io ce l’ho fatta. Ma non ho fatto tutto da sola. Se non avessi avuto affianco a me tantissime persone e, aggiungo, la gente comune che si è riconosciuta proprio nelle mie sconfitte e nella mia frustrazione ma anche nella mia resistenza. Albamonte: “Nel prossimo Csm il rinnovamento delle toghe va tradotto in pratica” di Giulia Merlo Il Domani, 13 agosto 2022 Parla il segretario di Area: “Alcuni candidati sfruttano il marchio di indipendenti, ma hanno alle spalle rapporti storici sia con gruppi associativi che ex capo-correnti. Trovo che sia scorretto”. Difende il procuratore generale Salvi dagli attacchi per la gestione del disciplinare, “fondati su argomentazioni strumentali e in alcuni passaggi ho letto anche un carattere ritorsivo. Salvi ha utilizzato con prudenza lo strumento disciplinare, proprio per come è concepito per legge” Il 18 e 19 settembre i quasi novemila magistrati voteranno per eleggere il nuovo Csm: i candidati sono 87 e la legge elettorale appena approvata rende imprevedibile il risultato. Eugenio Albamonte, segretario di Area ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, analizza il contesto in cui si svolgono queste elezioni e le aspettative per il prossimo Consiglio dopo gli scandali della consiliatura in via di conclusione. La nuova legge elettorale ha condizionato la strategia elettorale del gruppo di Area? Per statuto, Area esprime i suoi candidati attraverso un percorso di selezione nelle assemblee territoriali e poi con le primarie, introdotte sulla base della precedente legge elettorale di tipo maggioritario su un collegio unico nazionale. In questi mesi la procedura si è complicata, perché il perimetro dei due collegi per i magistrati requirenti e i quattro per i giudicanti è stato comunicato solo all’ultimo mentre il processo di selezione dei candidati era già cominciato. Questo ci ha costretti a procedere a fari spenti. La legge incentiva anche le candidature indipendenti, è un bene o un male per il sistema? La pluralità di candidati è una ricchezza per la magistratura e un modo per recuperare la centralità degli elettori. Tuttavia, spiace vedere che qualcuno sta sfruttando scorrettamente l’etichetta di indipendente. Cosa intende? Alcuni candidati sfruttano il marchio di indipendenti, ma hanno alle spalle rapporti storici sia con gruppi associativi che ex capo-correnti. Trovo che sia scorretto partecipare alla corsa elettorale come indipendente, puntando sul fatto che i colleghi non ricordino il passato e la provenienza associativa. Questa legge elettorale ha introdotto molti meccanismi nuovi ed è presentata come un modo per arginare il ruolo dei gruppi associativi. È così? Sostenere che questa sia una legge contro le correnti è una falsificazione della realtà. Il motivo è semplice: si tratta di una legge prevalentemente maggioritaria, che per antonomasia favorisce i gruppi organizzati e non certamente forme di rappresentanza dal basso. La politica che ha voluto far passare questa legge come uno strumento per combattere le correnti o non ha capito che cosa ha approvato, oppure mentiva. Tutto come prima, quindi? Io dissento dall’assunto iniziale. L’obiettivo di privare i gruppi associativi dalla possibilità di partecipare alla vita della magistratura è sbagliato. Si sarebbe dovuto costruire un nuovo sistema in cui, insieme ai gruppi, potessero contribuire anche altre forme di aggregazione. Per farlo, però, il modo corretto sarebbe stato quello di tornare a una legge elettorale di tipo proporzionale. Per la prima volta da anni, Magistratura democratica non si presenta insieme ad Area, di cui pure è una componente fondante. Come mai? Mi lascerei alle spalle la discussione sulle ragioni di questa scelta da parte di Md, anche perchè non le ho capite. Io penso al futuro e credo che Area e Md continuino a condividere i valori di fondo, come la necessità di una magistratura orizzontale e motivata da una funzione sociale e l’obiettivo del recupero di credibilità del Csm. Se questi temi rimangono centrali per entrambi i gruppi, abbiamo ottime possibilità di ritrovarci insieme in Consiglio. Con quali linee programmatiche si presentano i candidati di Area? Nella riforma dell’ordinamento giudiziario ci sono alcuni temi che saranno oggetto del nostro impegno al Consiglio. La riforma dell’ordinamento giudiziario è caratterizzata da una forte spinta alla gerarchizzazione negli uffici, che ora tocca anche gli uffici giudicanti e non solo quelli requirenti, e questo va contrastato. Lo stesso vale per la creazione di un sistema burocratico che si fonda sulla mera produzione numerica di provvedimenti, senza attenzione vera per la qualità della giurisdizione. Dobbiamo riportare al centro il concetto che per dare risposte ai diritti dei cittadini serve un tempo di meditazione, perché una decisione sbagliata non promuove giustizia. Infine, ci opponiamo alla spinta data alle sanzioni disciplinari, con l’introduzione di nuove fattispecie che riguardano il pm, chiaramente finalizzate a ridurre la capacità del magistrato requirente di svolgere la sua attività in modo sereno. Gli eletti togati, in ogni caso, rimarranno in carica fino alla nomina dei laici da parte del nuovo parlamento. Ancora una volta la politica incide sulla magistratura? Dal punto di vista della funzionalità non è un problema: l’attuale Csm rimane insediato e agisce in regime di prorogatio. C’è tuttavia una questione politica assolutamente deleteria: il ritardo nell’indicazione dei laici coincide, infatti, con la necessità della politica di redistribuire alcune posizione, sulla base dei nuovi rapporti di forza che usciranno dalle elezioni. Questo tradisce l’idea che la politica ha della rappresentanza laica al Csm: una cinghia di trasmissione tra i nominati e i partiti che li indicano e il Consiglio considerato come il buen retiro di politici che hanno perso altre poltrone. La stupisce? Rilevo che in questo modo non si va da nessuna parte nel rinnovamento delle dinamiche consiliari. Il parlamento dovrebbe nominare giuristi e avvocati insigni, che si siano distinti per qualità culturali e non per orientamento politico. Il fatto di ritardare l’indicazione dei laici in funzione delle nuove dinamiche parlamentari mostra in modo univoco l’intenzione delle forze politiche di utilizzare questa componente del Csm in modo improprio. Non è certo un modo per ridurre la tensione tra magistratura e politica. Questo sarà il Csm post-scandali giudiziari, dall’hotel Champagne alla loggia Ungheria. Quanto continua a incidere questo passato recente? Gli scandali passati sono ben presenti nella mente di tutti, candidati ed elettori. Ciascuno di noi ha fatto le sue valutazioni sul perché di quelle vicende e su come fare per evitare che in futuro si ripetano. Gli elettori voteranno le persone che risulteranno affidabili, ma l’obiettivo di tutti deve essere quello di restituire al Consiglio la funzionalità, in modo trasparente e senza condizionamenti derivanti da dinamiche di appartenenza o di clientela. I gruppi associativi sono cambiati, negli ultimi due anni? Chi più, chi meno, per decisione convinta o costretti dalla necessita di rinnovare, i gruppi hanno fatto quello che potevano. Oggi andiamo incontro a un Consiglio di svolta e dobbiamo tradurre in azione quotidiana i buoni propositi di rinnovamento che ci siamo ripetuti tra noi. Attenzione, però, a non sottovalutare ciò che è successo: gli scandali hanno rappresentato un certo modo di gestire il potere al Csm da parte non solo dei gruppi associativi ma soprattutto di alcuni notabili. Il sistema si saldava sull’esistenza di una offerta di clientela, ma anche su una domanda da dentro il corpo della magistratura. Bisogna di mostrare che questo è stato superato. A questo proposito, ci sono state molte critiche alla gestione del disciplinare da parte del Csm uscente, accusato di aver proceduto troppo poco... E’ presto per fare un bilancio perché molte vicende sono ancora pendenti, basti pensare a quella di Cosimo Ferri. Sono stato colpito dagli attacchi ricevuti dal procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi, per tutta la durata del suo mandato come promotore dell’attività disciplinare. Gli attacchi sono arrivati sia dai giornali che da alcuni segmenti della magistratura e mi hanno lasciato fortemente perplesso. Perché? Li ho trovati fondati su argomentazioni strumentali e in alcuni passaggi ho letto anche un carattere ritorsivo. Salvi ha utilizzato con prudenza lo strumento disciplinare, proprio per come è concepito per legge, e non mi sembra che si sia risparmiato o abbia utilizzato logiche di protezione nei confronti di qualcuno. Questi attacchi sono stati un danno ingiusto sia per il diretto interessato che per la categoria, perché hanno fatto apparire la magistratura come un frullatore impazzito. A non fare bene sono anche stati i continui annullamenti delle nomine del Csm ai vertici degli uffici giudiziari da parte dei giudici amministrativi. Cosa sta succedendo? Si è creata una dinamica particolare e deleteria: quando le pronunce del Csm vengono impugnate al Tar e magari annullate, questo viene utilizzato dalla stampa e dalla politica come argomento per sostenere l’esistenza di chissà quale mercimonio. Invece sono dinamiche che non per forza si intersecano l’una con l’altra. Anzi, le dico di più: mi è spesso capitato di assistere a casi in cui le decisioni di annullamento del Tar e del Consiglio di Stato hanno permesso l’insediamento in ruoli di vertice magistrati di minor valore ma legati a dinamiche correntizie, che il Csm aveva provato a evitare. Questo per dire che è una falsità l’idea che il giudice amministrativo sani le storture della magistratura ordinaria. Ritiene che il potere discrezionale del Csm sia stato progressivamente messo in discussione in via giurisprudenziale? Assisto al fatto che è in atto una dinamica per cui il controllo del giudice amministrativo non si limita alla legittimità, come dovrebbe. In alcuni casi, i giudici amministrativi stanno facendo i giudici di merito, sostituendo la loro personale scelta di valore rispetto ai candidati da nominare, sostituendosi al potere discrezionale del Consiglio. Questo è un errore giuridico, che spoglia il Csm delle sue competenze costituzionalmente previste. Dietro le inchieste più scottanti. Il vizio dell’indifferenza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 agosto 2022 Nel 2008 un ragazzo è rimasto ucciso in un incidente. Molti hanno visto, nessuno si è fatto vivo. Neppure per raccontare ai genitori gli ultimi istanti di vita del figlio. Ora il padre scrive una lettera che è come un grido. Questa è la lettera aperta scritta il 31 luglio 2022 da Biagio Ciaramella. “Oggi ricorre l’anniversario della morte di nostro figlio, un evento doloroso, straziante, che ha cambiato la nostra vita per sempre e ci ha condannati all’ergastolo del dolore. Noi genitori siamo morti insieme a lui quel 31 luglio, il nostro cuore si è spezzato e in tutto questo tempo ci siamo trascinati a vivere una vita non-vita. Non c’è consolazione per una mamma e per un papà che perdono la propria creatura, i ricordi e il dolore per la sua tragica scomparsa sono sempre presenti e ci attanagliano l’anima. Nostro figlio, Luigi Ciaramella, aveva 19 anni quando ha perso la vita a causa di un omicidio stradale, all’epoca definito omicidio colposo. Sappiamo che in quel triste mattino si sono fermate sul posto alcune persone che hanno assistito all’incidente, hanno visto chi ha spostato Luigi e anche un trattore uscire da un viottolo di campagna. Nessuno, però, ha mai voluto parlare con noi”. “Siamo molto amareggiati, poiché tutti sapevano ma nessuno parlava, non c’erano testimoni, nulla. Noi non abbiamo mai chiesto a nessuno di testimoniare al processo di mio figlio, ma almeno avremmo voluto che ci dicessero se quella mattina Luigi aveva chiesto della mamma, dei genitori, se avesse chiesto l’aiuto di qualcuno. Purtroppo abbiamo trovato solo indifferenza da parte di tutti. Non tanto per l’incidente, ma per quello che non hanno fatto: cioè tranquillizzare la famiglia e raccontare quello che era accaduto quella mattina. La conseguenza per noi è stata che abbiamo dovuto combattere per la verità, scontrandoci anche con l’indifferenza delle istituzioni”. “Ancora oggi, dopo tanti anni, stiamo affrontando un processo, non abbiamo ancora avuto giustizia, ma non ci arrendiamo. Non abbiamo voluto una causa civile e un eventuale risarcimento, ma chiediamo giustizia per il nostro unico figlio che non c’è più. Non vogliamo i soldi sporchi di sangue, ci disprezzeremmo da soli. Vogliamo giustizia, e lotteremo contro l’indifferenza di tutti”. L’indifferenza di tutti, è questa la chiave. Un’indifferenza che dura da 14 anni. È la stessa indifferenza che ha fatto morire di stenti Diana Pifferi, la bimba di 18 mesi rimasta per 6 giorni in casa da sola. E ha lasciato che fosse massacrato in strada Alika Ogorchukwu, di 39 anni. Tremila pagine mettono la parola fine all’inganno della trattativa stato-mafia di Enrico Deaglio Il Domani, 13 agosto 2022 C’è una sola cosa buona nelle motivazioni della sentenza della Corte di Assise d’Appello di Palermo depositata alcuni giorni fa. Non è la lunghezza intesa come una prova di serietà (tremila pagine!), non è il tempo che hanno impiegato a scriverla i giudici Angelo Pellino e il suo a latere Vittorio Anania (un anno dal verdetto), il segno dello scrupolo. No, perché quelle tremila pagine più spagnolesche che manzoniane sono pagine che sorvolano, tacciono, sfottono, ammiccano, ma hanno un solo grande merito: hanno scritto il capitolo finale di una vicenda trentennale che, a mio parere, ha coperto di vergogna la magistratura italiana. Dieci anni fa, scrissi che quello che stava succedendo sui cadaveri di Falcone e Borsellino era uno scempio, di cui forse gli stessi magistrati non si rendevano conto. Adesso, calcherei la mano sulla seconda parte della frase. È comunque per me quasi un dovere commentare l’atto finale (e grazie a Domani che mi ospita). In una sola estate, in mezzo all’Europa, nel 1992, dopo dieci anni in cui la Sicilia si era trasformata in un “narcostato” che scalava con successo il potere economico e finanziario italiano, vennero uccisi con azioni di guerra i due giudici investigatori che “sapevano troppo” e l’anno dopo in Italia scoppiarono bombe che tutti interpretarono come preludio di un colpo di stato. Una situazione così, dopo la fine della guerra, si era verificata solo in Irlanda del Nord vent’anni prima ed era in evoluzione tragica nei Balcani. Il governo italiano reagì imponendo il carcere duro ai mafiosi e mandando l’esercito in Sicilia. Le indagini vennero stranamente affidate, con poteri speciali, a un oscuro e molto losco commissario di polizia, Arnaldo La Barbera, dotato di grandi fondi dai servizi segreti, che fin dall’inizio organizzò il “depistaggio del secolo”, come ormai viene apertamente chiamato: tutta la sua indagine - che durò grottescamente quasi vent’anni - dipendeva dalla procura di Caltanissetta, che risultò essere completamente asservita ai voleri del commissario La Barbera. La “trattativa” - La Procura di Palermo entra in scena nel 2012, quando comunica di avere convinto a collaborare un pesce grosso: Massimo Ciancimino, l’erede della fortuna del padre, il famoso don Vito, che fu notoriamente il braccio politico della mafia corleonese. Massimo è stato testimone diretto degli incontri tra suo padre e due ufficiali dei carabinieri, il colonnello Mario Mori, vecchia volpe dei servizi, e il giovane capitano Giuseppe De Donno, brillante operativo che, su consiglio di Falcone, ha svolto una seria inchiesta sugli affari della mafia, affari che coinvolgono le principali aziende italiane. I carabinieri e don Vito si incontrano a Roma, subito dopo la strage di Capaci: di che cosa parlano? Di arrestare Riina, considerato l’artefice di tutto. Naturalmente don Vito chiede qualcosa in cambio e lì comincia “la trattativa”. La procura di Palermo è eccitatissima e comincia ad elaborare una sua teoria molto, molto audace: l’ignobile trattativa prevede anche che si uccida Borsellino, che essendo persona specchiata, rifiuterebbe un simile baratto. E questo prontamente avviene, la strage di via D’Amelio. Superato questo ostacolo “la trattativa” si infittisce e trova dei referenti politici importanti: il ministro della giustizia Giovanni Conso, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a fare da mallevadore è l’ex ministro dell’Agircoltura, il democristiano Calogero Mannino, a “coprire” l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino. Anni di paranoia - Tutto si sarebbe rivelato una paranoia assoluta, ma forse in quegli anni eravamo tutti un bel po’ paranoici. Stiamo parlando del 2012, Berlusconi è caduto nella vergogna, governa Mario Monti, ma la procura di Palermo, a corto di argomenti, decide di mettere sotto controllo il telefono dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, 80 anni. Lo sospettano di aver avuto un ruolo nell’oscena trattativa. Lo seguono per mesi e mesi e Mancino, che è un facondo napoletano, chiacchiera su differenti sei telefoni di tutto, ma niente che possa far gola alla procura… fino a quando saltano fuori quattro telefonate con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione delle feste natalizie. Secondo la procura di Palermo, quelle telefonate - la cui pubblicità è naturalmente illegale - provano che il presidente “ha qualcosa da nascondere”. E parte una delle campagne più folli che l’Italia abbia mai visto: il presidente viene praticamente considerato un colluso con la mafia, al corrente della verità, a capo di quello “stato-mafia” o “mafia-stato” che è stato il mandante dell’omicidio Borsellino. Antonio Di Pietro urla che lui firmerebbe subito un mandato di cattura, Beppe Grillo chiede l’impeachment, il pm Antonio Ingroia, in nome della difesa della Costituzione, forma un suo partito politico, i guru del populismo giudiziario, Marco Travaglio e Michele Santoro, si agitano e fomentano, Sabina Guzzanti recita, Barbara Spinelli si interroga, Salvatore Borsellino abbraccia Massimo Ciancimino, Fedez, che a quel tempo era vicino ai grillini, canta “Caro Napolitano, te lo dico con il cuore/ o vai a testimoniare o passi il testimone”. E davvero qui c’è da chiedersi chi ha plagiato l’altro, chi ha tratto giovamento dall’andazzo, o chi sia stato trascinato dall’ingnuità. Ma l’ingenuità, come ci dicono la letteratura e il cinema, esiste solo nei personaggi secondari. L’unico che fin dall’inizio, con coraggio, prese posizione di fronte a questa barbarie giudiziaria fu il professor Giovanni Fiandaca, sui cui studi giuridici si erano peraltro formati i pm palermitani, che fin dall’inizio sentenziò: “Il processo cosiddetto trattativa è una boiata pazzesca”. Fu accusato di ogni. Questo succedeva dieci anni fa, all’epoca in cui nacquero degli eroi mediatici, in primis il pm Nino Di Matteo che addirittura camminava per Palermo scortato da volontari venuti dal Veneto profondo, e il cui nome sventolava dia balconi di decine di municipi della città governate dai grillini, Roma per prima. Quello che non funzionava era però l’inchiesta: faceva acqua da tutte le parti, basata sul niente. Nel 2015 venne assolto il vecchio Dc Calogero Mannino, nel 2018 l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino. Napolitano (e con lui l’Italia) però subì l’umiliazione di essere interrogato al Quirinale dai famosi pm di Palermo. Gli chiesero: “Ha mai saputo qualcosa della trattativa?”; Napolitano rispose: “No” e i pm alzarono i tacchi; ma non hanno ancora rinunciato: la registrazione di quelle telefonate esiste, circola. Trent’anni di impostura - Per farla breve, nella rete restarono i carabinieri Mori e Di Donno, il povero (si fa per dire) Massimo Ciancimino a cui venne suggerito di fare il nome del capo della polizia (lo fece maldestramente e fu condannato per calunnia), e l’ex senatore Dell’Utri: condannati in primo grado e assolti (come era largamente prevedibile) in appello. Quello di cui discutiamo ora è il riassunto di un’impostura durata trent’anni; sì perché a questa mostruosità di processo della procura di Palermo, occorre aggiungere la mostruosità parallela del depistaggio le indagini condotte dalla procura di Caltanissetta. Trent’anni di impostura, nella vita di un paese, non sono pochi. Il sipario - Ma, venendo al dunque. Confesso di non aver letto tutte le tremila pagine, ma credo di essermi fatta un’idea, con l’aiuto di Google Search. Il giudice Angelo Pellino (che è una delle persone più rispettate e riservate nel palazzo di giustizia di Palermo), ha distrutto, nelle sue motivazioni, la paranoia della procura di Palermo, ma ha usato la mano molto leggera nel giudicare i suoi colleghi. Sì, Mori e De Donno presero “un’improvvida iniziativa” quando contattarono don Vito Ciancimino, ma lo fecero a fin di bene, per salvare il paese da altre stragi; e nessuno, nello Stato, lo sapeva. E vabbè. Certo, l’arresto di Riina fu una messa in scena, una sorta di circonvenzione di incapace nei confronti del popolo italiano. E vabbè, capita. Sì, certo, i ponti d’oro concessi a Provenzano, quindici anni di libertà, si potevano evitare, come pure quell’idea che don Vito Ciancimino fosse la mafia buona con cui ci si poteva alleare, ma, insomma, si balla con le ragazze che ci stanno. In effetti, il suicidio in carcere di tale Nino Gioè, l’uomo dei servizi che ha gestito la strage di Capaci, risulta essere piuttosto strano; in effetti, Dell’Utri aveva rapporti con i boss, ma non ne parlò a Berlusconi, e così via. Poteva la magistratura fare di più? Chissà. Cali il sipario, non ci sono più spettatori in sala. Non ci saranno repliche, l’argomento ha annoiato tutti. E così, per la prima volta da decenni, in una campagna elettorale, l’impegno alla ricerca della verità, non compare più. Forse è meglio così. Il detenuto al 41-bis può laurearsi in cella, ma non ascoltare musica su cd di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 13 agosto 2022 O meglio prima gli è stato detto no, poi sì. Ma contro il via libera ha fatto ricorso in Cassazione il Ministero della giustizia e adesso dovrà riesaminare il caso il Tribunale di sorveglianza di Roma. Nel carcere di Mammagialla, dove è rinchiuso dal 1996 in regime di carcere duro, il boss della sacra corona unita Antonio Vitale, 54 anni, detto il “marocchino”, entrato con la terza media, si è diplomato per poi iscriversi a giurisprudenza. Sì ai libri, ma gli è stato vietato dal tribunale di sorveglianza di Viterbo di ascoltare cd musicali, anche se col marchio Siae, nella cella del reparto 41 bis dove è detenuto. Il boss ha però fatto reclamo e lo scorso 23 settembre è arrivato il via libera ai compact disk del tribunale di sorveglianza di Roma. Lo scorso primo aprile, infine, sulla querelle è intervenuta la cassazione che ha accolto il ricorso presentato nel frattempo dal ministero della giustizia, annullando l’ordinanza di dieci mesi fa e rinviando il caso al tribunale di sorveglianza di Roma per un nuovo giudizio. Prima no, poi sì, ora “ni”: per sapere se può ascoltare musica su cd, il boss deve aspettare. Le motivazioni sono state pubblicate il 20 luglio. Lettori cd in cella solo per studio o lavoro - In generale, l’uso dei lettori cd è limitato alle sole ragioni di lavoro e di studio, previa autorizzazione concessa dal direttore d’istituto. Per i reparti dei detenuti in regime di carcere duro la materia è ulteriormente e appositamente disciplinata, nel senso dell’esclusiva ammissione della fruizione dei televisori e degli apparecchi radiofonici forniti dall’amministrazione, vietandosi quella di personal computer e consentendosi, inoltre, per le sole esigenze di consultazione di materiale giudiziario ovvero di studio - e comunque per il tempo strettamente necessario - l’utilizzo di lettori digitali. Sentire musica “normalità quotidiana” - Il ricorso del ministero della giustizia, per la corte suprema, va accolto “tenuto conto che, come ricordato dall’amministrazione ricorrente, le norme di ordinamento penitenziario fanno espresso riferimento all’impiego dei suddetti dispositivi per sole esigenze di lavoro e di studio, ovvero per la consultazione di materiale giudiziario” anche se “la possibilità di ascoltare musica per mezzo dei cd rientra, a pieno titolo, nel contesto di quei ‘piccoli gesti di normalità quotidiana’ che la corte costituzionale ascrive ai legittimi ambiti di libertà residua del soggetto detenuto”. “L’interesse del detenuto - però - pur qualificato sotto il profilo trattamentale, deve essere infatti bilanciato con le esigenze di controllo dell’amministrazione penitenziaria, particolarmente avvertite proprio nei casi in cui, come quello in esame, il soggetto sia sottoposto a regime penitenziario differenziato”. Compact disk a rischio “contenuti illeciti” - “L’eventuale autorizzazione all’acquisto del lettore e dei cd musicali, da parte della direzione d’istituto, dovrebbe assicurare la piena salvaguardia di così pregnanti esigenze di sicurezza, ben potendo tali strumenti essere oggetto di manipolazione, a fine di introduzione in istituto di contenuti illeciti”. “Il contrassegno Siae, il cui rilascio è funzionale ad assicurare il mero rispetto della normativa sul diritto d’autore, non offre alcuna particolare garanzia riguardante il contenuto dell’opera d’ingegno cui è apposto, sicché la sua esistenza non assume un ruolo vicario dei dovuti controlli, da esercitare sui singoli cd introdotti in istituto e, a monte, sul relativo dispositivo di lettura”. Vanno evitate manomissioni - “Centrale resta l’obiettivo di inibire flussi comunicativi illeciti tra il detenuto e l’organizzazione criminale di provenienza. In vista del raggiungimento dell’obiettivo, rileva la possibilità di procedere, sul piano tecnico, alla messa in sicurezza dei predetti dispositivi al fine di evitare manomissioni, nonché la facilità e prontezza di accesso ai relativi contenuti digitali”. “Va dunque ribadita la necessità che il tribunale, prima di riconoscere il diritto del detenuto ad utilizzare cd ad uso ricreativo, verifichi se tale impiego, pur in assoluto non precluso dalla normativa vigente, possa nondimeno comportare inesigibili adempimenti da parte dell’amministrazione penitenziaria in relazione agli indispensabili interventi su dispostivi e supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione di istituto, di non autorizzarne l’ingresso nei reparti ove vige il regime penitenziario differenziato”. No se impossibile messa in sicurezza - “È legittimo il provvedimento dell’amministrazione penitenziaria di diniego di autorizzazione all’acquisto ed alla detenzione di compact disk musicali e dei relativi lettori digitali, qualora, per l’incidenza sull’organizzazione della vita dell’istituto, in termini di impiego di risorse umane e materiali, non sia possibile assicurare la messa in sicurezza di detti dispositivi e supporti”. “Il tribunale di sorveglianza nella specie non si è attenuto a tale principio, poiché, autorizzando l’acquisto e la detenzione dei compact disk musicali, si è limitato a prescrivere la loro messa in sicurezza, senza verificare l’incidenza di tale attività sull’organizzazione”. Migranti, Corte Ue: atti violenti non giustificano la revoca dell’accoglienza Avvenire, 13 agosto 2022 Il parere era stato richiesto dal Consiglio di Stato sul caso di un senegalese espulso dal piano di accoglienza per aver aggredito un addetto di Trenitalia. “Garantire la dignità”. Non è mai revocabile il programma di accoglienza per un migrante richiedente protezione internazionale anche se responsabile di reati e atti violenti dato che privare un immigrato delle condizioni di accoglienza “costituisce sempre una sanzione sproporzionata, perché lesiva della dignità umana”. Lo afferma la Corte di Giustizia Europea, con sede in Lussemburgo, emettendo un parere sul caso di un senegalese 30enne espulso dal piano di accoglienza con provvedimento della prefettura di Firenze riguardo a un fatto del 2019, quando aggredì un addetto di Trenitalia in una stazione mentre cercava di salire su un treno senza biglietto. Della vicenda riporta Il Tirreno spiegando che, in parallelo alla denuncia e al procedimento penale, tuttora aperto a carico dell’uomo, lo stesso immigrato impugnò l’atto della prefettura al Tar della Toscana, che gli dette ragione. L’avvocatura dello Stato però fece ricorso al Consiglio di Stato, che prima di pronunciarsi ha dovuto chiedere un parere alla Corte di Giustizia della Ue. L’1 agosto scorso la Corte in Lussemburgo ha emesso il suo parere stabilendo che revocare il piano - che comporta l’erogazione di vitto, alloggio, sussidio per le spese giornaliere e vestiario - a un migrante, pur se sia stato autore di atti violenti e gravi, costituisce una lesione della sua dignità. I giudici europei fanno riferimento alla direttiva sui migranti numero 33 del 2013 per la quale “gli Stati membri dell’Unione assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti” e evidenziano invece che la legge italiana, col “decreto accoglienza” del 2015, “è in contrasto con la normativa europea perché tra le sanzioni per i migranti violenti comprende, appunto, la possibilità di revoca delle condizioni materiali di accoglienza” e il migrante così colpito rimane senza alloggio, cibo, vestiti e sussidio privandolo di un “tenore di vita dignitoso”. Rimini. Detenuto si uccide, la denuncia: “La sezione andava chiusa” di Adriano Cespi corriereromagna.it, 13 agosto 2022 Lontani da tutto e da tutti. Dagli affetti, dal calore della propria famiglia. Rinchiusi in pochi metri quadri per giorni, settimane, mesi, anni. Portandosi dietro anche fragilità piscologiche gravi. Un mondo sospeso quello dei carcerati. Che scorre tra quattro mura e una grata di ferro. È il mondo “di dentro”. Visto da chi, per proprie responsabilità, si ritrova improvvisamente privato della libertà. Molti reggono, aspettando il giorno del fine pena. Altri no. E la fanno finita. Suicidandosi. Come il 37enne marocchino, impiccatosi, mercoledì scorso, nella sua cella ai Casetti. Una persona mentalmente debole, aveva già dato segni di squilibrio attraverso gesti di autolesionismo, e seguita da uno psicologo, che lascia moglie e figli: era entrato in carcere a marzo (solo piccoli reati nel suo curriculum). L’ultima visita fatta - Non nasconde l’amarezza Ivan Innocenti, consigliere generale del Partito Radicale, da sempre vicino alle problematiche dei detenuti e promotore di diversi sopralluoghi ai Casetti. “L’ultimo risale a fine anno scorso - racconta Innocenti -, quando visitai il carcere insieme al presidente della Camera Penale di Rimini, Alessandro Sarti, al sindaco, Jamil Sadegholvaad, al vicesindaco, Chiara Bellucci, e al presidente del Consiglio Comunale, Giulia Corazzi. Tutti constatammo quanto fosse degradata e irrispettosa dei diritti elementari della persona, la prima sezione del carcere. Prima sezione, dove peraltro era rinchiuso il detenuto suicidatosi, che, secondo una relazione redatta dalla Camera penale di Rimini il 19 agosto del 2021, ancora prima del nostro sopralluogo di fine anno, era “da chiusura immediata, con 37 detenuti per 23 posti letto previsti”. Continua l’esponente radicale: “Nel documento della Camera penale, inoltre, venivano illustrate anche tutte le criticità della struttura, dal sovraffollamento alle condizioni degradanti e insane per i detenuti presenti”. La struttura e le carenze - Ecco quindi cosa denunciava la Camera penale di Rimini già nella sua relazione dell’agosto 2021: “Le celle, che possono contenere fino 6 posti letto, 3 letti a castello, hanno un separato angolo cottura all’interno del quale è posizionato, senza alcuna porta di separazione, anche il water. In sostanza - continua la relazione - la cucina è nello stesso angusto spazio in cui i detenuti defecano. Le docce sono comuni, in un locale fatiscente e consunto, e 3 delle 5 docce presenti risultano guaste e non funzionanti. Viene, poi, segnalata la continua presenza di scarafaggi e l’unico frigorifero presente nel corridoio della sezione è in condizioni di funzionamento precario”. Una condizione di fatiscenza chiara a tutti, dunque. “Anche all’Ausl - sottolinea Innocenti -: che, dopo un’ispezione effettuata il 24 novembre 2021, un mese prima della nostra, quella del 31 dicembre insieme a sindaco e vice sindaco, certificava: “Sono state riscontrate condizioni igieniche molto scadenti, con rischio sanitario per i detenuti. Le criticità si ritengono non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione”. Non solo detenuti - aggiunge Innocenti - anche il personale penitenziario soffre questa situazione. Per questo il 15 agosto insieme ad una delegazione del Partito Radicale mi recherò di nuovo ai Casetti. Nel frattempo, però, sollecito la chiusura e ristrutturazione della prima sezione e anche della sezione transessuali, chiedo l’istituzione del Consiglio di aiuto sociale previsto dall’ordinamento penitenziario e in carico al presidente del Tribunale e un’ordinanza del sindaco di Rimini con azioni del Comune finalizzate a fare pressioni per risolvere la grave situazione umanitaria rappresentata dalle condizioni di detenzione della prima sezione, infine - chiosa Innocenti - invito il Comune a nominare il Garante delle persone private della libertà, che manca da oltre tre anni, e a rinnovare la convenzione per l’esecuzione delle pene alternative al carcere”. Rimini. Per Ferragosto il Partito Radicale in visita ispettiva al carcere di Ivan Innocenti Ristretti Orizzonti, 13 agosto 2022 Già il 24 novembre scorso il dottor Franco Borgognoni, dopo l’ispezione sanitaria dell’Ausl Romagna definiva le condizioni della prima sezione del carcere di Rimini “molto scadenti, con rischio sanitario per i detenuti. Le criticità si ritengono non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione”. È la stessa sezione dove era recluso il tunisino Aziz Rouam morto suicida il 10 agosto 2022, pochi giorni fa: ufficialmente il 50° detenuto che “evade” in questo modo. Non sarà, purtroppo, certo l’ultimo. La conferma tragica che si tratta di una “sezione a rischio sanitario” fisico e psicologico. Questa situazione di incivile degrado e violazione del diritto costituzionale e umano si protrae ormai da lungo tempo. È un intollerabile buco nero presente sul territorio e nella civiltà della città di Rimini che dovrebbe vedere tutti, cittadini e istituzioni, ribellarsi e operare per una immediata soluzione. Nello stesso territorio in cui milioni di persone ogni anno vengono a svagarsi e divertirsi in modo spensierato si compie un grave attentato alla dignità dell’uomo. Descrivo la situazione degli ultimi mesi a partire dall’iniziativa del ferragosto in carcere del 2021; mi soffermo solo sulle questioni più rilevanti. Il 19 agosto 2021 una delegazione del Partito Radicale e della Camera Penale di Rimini si reca in visita al carcere cittadino. La situazione che si presenta nella prima sezione è critica: ambienti ammalorati, docce in comune non funzionanti, grande sovraffollamento. La relazione della Camera Penale di Rimini dopo la visita riporta: “All’esito della visita, si segnala un sovraffollamento delle sezioni 1^ e 2^, dovuto alla riorganizzazione conseguente all’emergenza sanitaria. La prima sezione, inoltre, come già denunciato da anni, sarebbe da chiusura immediata. Ci riferiscono che i fondi per la ristrutturazione sarebbero già pervenuti ma i lavori sono bloccati a causa dell’emergenza sanitaria in atto. I detenuti presenti sono 37 per 23 posti letto previsti. In ogni caso, i detenuti vivono in condizioni degradanti. La condizione della struttura risulta ammalorata e insana e denota un degrado molto avanzato delle celle di detenzione e degli impianti. Le celle, che possono contenere fino 6 posti letto (3 letti a castello), hanno un separato angolo cottura all’interno del quale è posizionato, senza alcuna porta di separazione, anche il water. In sostanza, la cucina è nello stesso angusto spazio in cui i detenuti defecano. Le docce sono comuni, in un locale fatiscente e consunto, e 3 delle 5 docce presenti risultano guaste e non funzionanti. Viene segnalata la continua presenza di scarafaggi e l’unico frigorifero presente nel corridoio della sezione è in condizioni di funzionamento precario”. La successiva ispezione dell’Ausl Romagna certifica le condizioni della prima sezione e rileva ufficialmente in tutta la sua chiarezza la grave situazione in cui vivono i detenuti. È di fine agosto 2021 la notizia di uno scongiurato e comunque grave episodio di tentato suicidio di un detenuto 21enne tunisino trovato in fin di vita e fortunosamente salvato. È del 31 dicembre 2021 la visita del componente del Consiglio Generale del Partito Radicale Ivan Innocenti, del Sindaco di Rimini Jamil Sadegholvaad, del Presidente della Camera Penale di Rimini Alessandro Sarti, del Vicesindaco Chiara Bellucci, del Presidente del Consiglio Comunale Giulia Corazzi. Agli amministrati abbiamo proposto alcune azioni su cui agire e collaborare: -Istituzione del Consiglio di Aiuto Sociale previsto dall’ordinamento penitenziario e in carico al Presidente del Tribunale; -Ordinanza sindacale e azioni finalizzate a sollecitare soluzioni per la grave situazione umanitaria presente sul territorio del Comune di Rimini con richiesta di chiusura e ristrutturazione della 1^ sezione; -Copertura della vacanza della figura del Garante delle Persone private della libertà, vacante da oltre tre anni; -Rinnovare da parte del Comune di Rimini la convenzione per l’esecuzione delle pene alternative. Ad oggi nulla risulta riguardo ai punti proposti. A inizio anno si è verifica la restrizione della sezione 1^ causa Covid, rifiuto dei detenuti a rientrare dall’ora d’aria per manifestare il disagio. Anche il personale manifesta disagio nell’operare in struttura e c’è chi è in malattia causa stress da lavoro. Per queste urgenze ho ritenuto opportuno informare a febbraio 2022 e richiedere una visita alla Casa Circondariale di Rimini del Garante regionale dei detenuti Emilia Romagna Dott. Roberto Cavaliere. Visita prevista per aprile 2022 che mi risulta mai effettuata. Il primo agosto incontro i dirigenti dell’Ausl Romagna incaricati delle ispezioni sanitarie periodiche, la Dott.ssa Elizabeth Bakken, il Dott. Paolo Romano e altri responsabili dell’ufficio Igiene Ambientale di Rimini. Ho così occasione di fare alcune osservazioni: riguardano il dato presenze e il sovraffollamento. Risulta che invece di utilizzare il dato del ministero che indica la capienza regolamentare in 112 posti gli ispettori utilizzino un dato che viene dalla Direzione del carcere e indica nel 2019 in 183 i posti. Le ispezioni poi dal 2020 sono cambiate: in precedenza riportavano analisi puntuali delle presenze e tabelle che rilevavano i detenuti per cella e per capienza cella. Oggi invece viene fornito semplicemente il dato di non sovraffollato o meno. Succede che il carcere risulti con capienza regolamentare anche quando le presenze eccedono il dato ministeriale, non registrando pertanto la realtà e sottovalutando la situazione di afflizione a cui i detenuti sono sottoposti. Lunedì 15 agosto 2022 una delegazione del Partito Radicale composta da Aldo Brunelli, Ivan Innocenti e Valter Vecellio sarà in visita al carcere di Rimini. Sarà una visita molto difficile sotto l’aspetto umano. In questo ultimo anno sono stati fatti diversi passi per portare alla consapevolezza delle istituzioni e dei cittadini la gravità della situazione riminese. Attività che non è stata in grado di prevenire tragici epiloghi. Politicamente restano ancora tutte irrisolte le questioni sollevate e inattuate le soluzioni praticabili e proposte. Napoli. Il dramma di Francesco Iovino: perché stava in cella in queste condizioni? di Andrea Aversa Il Riformista, 13 agosto 2022 Le sue condizioni di salute erano incompatibili con il regime detentivo. Francesco Iovino, 42 anni, non è stato soltanto il quinto suicidio dell’anno avvenuto tra le mura di un carcere campano. Iovino era una persona. Un essere umano che ha lasciato moglie e figlie. Eppure, nonostante l’evidenza delle relazioni mediche e del parere favorevole del magistrato di sorveglianza, il 42enne in cella ci è morto. Pesava poco più di 40 chili. Sono tanti gli aspetti poco chiari di questa tragedia. Una vicenda dai tanti interrogativi ai quali lo Stato dovrà dare una risposta. “Mio fratello era malato - ha raccontato a Il Riformista Mario Iovino - qualcuno dovrà spiegarci il perché era recluso insieme agli altri detenuti”. Ed ecco la prima domanda: ma Iovino non era recluso nel reparto del Servizio Sanitario Integrale (SAI)? I parenti hanno segnalato il contrario. Ieri mattina i familiari di Francesco sono andati al Secondo Policlinico di Napoli. Lì è stata fatta l’autopsia sulla salma del defunto. “Ufficialmente, anche se siamo in attesa dell’esito dei test tossicologici, la morte è avvenuta per asfissia - ha spiegato l’avvocato Carmine d’Aniello - Però sul corpo non sono stati riscontrati segni che potessero far pensare ad uno strangolamento o all’impiccagione”. E c’è dell’altro: “Iovino aveva dei forti traumi con dei punti di sutura, alla testa e dallo zigomo all’occhio - ha affermato d’Aniello - si presume che sia stato picchiato in cella”. È stato proprio il fratello di Francesco a denunciare le possibili violenze subite dalla vittima in carcere: “Massimo, un altro nostro fratello - ha detto Mario Iovino - ha sentito telefonicamente Francesco cinque giorni prima della sua morte. Lui si lamentava del fatto che gli altri detenuti lo pestassero. E dal responso dell’esame autoptico sembra che di recente possa aver avuto dei pugni al volto”. Francesco Iovino è stato dichiarato invalido civile e gli è stato dato l’accompagnamento. Le perizie mediche hanno confermato che soffrisse di anoressia mentale, bulimia, disturbi di personalità e depressione. Pare che già in passato avesse cercato di togliersi la vita tagliandosi le vene. A novembre scorso ha fatto il suo ingresso nel carcere di Poggioreale perché la sua pena, nel frattempo scontata ai domiciliari tranne che per una parentesi presso il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, era diventata definitiva. Detenuto per piccoli reati, nel 2024 sarebbe stato un uomo libero. “Mio fratello in carcere non doveva proprio entrarci - ha osservato Mario Iovino - Oltre alle patologie pregresse, rifiutava la nutrizione ed era alimentato con dei sondini che spesso e volentieri si staccava da solo”. “Si muoveva sopra una sedia a rotelle e pare facesse abuso di oppioidi e benzodiazepine - ha dichiarato d’Aniello - Non riesco a spiegarmi il perché dallo scorso giugno fosse recluso nel reparto “Milano” invece che in quello ospedaliero San Paolo”. Già perché? E soprattutto, considerato che il 42enne era stato affidato a un piantone, che fine avrebbe fatto quest’ultimo quando Iovino sarebbe stato percosso? Dov’erano le persone predisposte al controllo e che dovevano vigilare sulle condizioni di Francesco? “Non ci fermeremo finché non avremo la verità. Mio fratello e tutti noi vogliamo giustizia”, ha detto Mario Iovino. Una giustizia che però in carcere diventa indifferenza, degrado, violenza e morte. “A luglio c’è stata un’udienza per la scarcerazione - ha spiegato l’avvocato d’Aniello - Avevamo anche trovato una casa di cura che avrebbe ospitato Iovino. Il magistrato di sorveglianza aveva dato la sua disponibilità nel dare i domiciliari. Lo avevo comunicato a Francesco la scorsa settimana. Insomma a fine mese sarebbe uscito, perché suicidarsi?”. Magari Francesco era stanco delle violenze che avrebbe subito quotidianamente, chiuso in una cella con altri 5-6 detenuti. “L’amministrazione del carcere non ha neanche informato la famiglia del decesso di Iovino - ha concluso d’Aniello - Ho ricevuto io una telefonata da Poggioreale. Lo scorso lunedì, erano circa le 12.45, quando mi hanno comunicato della morte di Francesco”. “Il carcere è un luogo di tortura - ha affermato Pietro Ioia, Garante per i diritti dei detenuti della città metropolitana di Napoli - Ad agosto il tempo diventa infinito e sospeso: niente attività, nessuna corrispondenza, pochi colloqui e mancanza di personale. Chissà perché i detenuti decidono di togliersi la vita prima di tornare in libertà. Forse hanno paura di affrontare ciò che li aspetta fuori”. Bisognerebbe chiederlo alle istituzioni, quelle che rendendo le celle come tombe, hanno dimenticato l’articolo 27 della Costituzione e mortificato lo Stato di Diritto. Bologna. Un bimbo di due anni alla Dozza. “Non doveva succedere più” di Chiara Pazzaglia Avvenire, 13 agosto 2022 Il piccolo si trova nell’istituto assieme alla sua mamma da oltre un mese: l’hanno sistemato nello spazio del nido. Le proteste. Il più giovane detenuto del carcere della Dozza di Bologna ha due armi e mezzo. E, ovviamente, non ha commesso alcun reato. Paga le colpe di sua mamma, condannata in via definitiva da circa un mese, per aver reiterato un reato che aveva già commesso. Si tratta di un caso più unico che raro a Bologna, negli ultimi tempi: infatti, di solito, le detenute con figli trascorrono in carcere pochi giorni, per poi ottenere di scontare la pena al proprio domicilio o in case famiglia protette (che non sono però presenti in città). Nel caso di questa detenuta non è ancora stato possibile trovare un’alternativa, ma Antonio Ianniello, da poche settimane confermato dal Consiglio comunale nel ruolo di Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, assicura che si sta lavorando per trovare una soluzione, il prima possibile. “È in atto un interessamento per l’accoglienza in una realtà del privato sociale”, annuncia. Il bambino, tuttavia, non è in cella. Circa un anno fa, infatti, alla Dozza è stato inaugurato, non senza strascichi polemici, il nido in carcere. È questa la realtà che sta conoscendo il piccolo detenuto: uno spazio adibito a cameretta, con un piccolo giardino esterno, da condividere con la mamma. Iarmiello auspica “una pronta approvazione anche da parte del Senato della Legge Siani, già approvata a maggio dalla Camera”: questa mira proprio ad evitare che le madri con bambini sotto i sei armi finiscano in cella. Non si tratta propriamente di una novità assoluta: già una norma del 2011 sanciva il ricorso alle case famiglia protette. Tuttavia, non prevedeva oneri per lo Stato, ma solo per gli Enti locali. In sostanza, dal 2011 ne sono state realizzate solo due, a Milano e a Roma. La nuova proposta di legge abbatte questo vincolo ai finanziamenti, ma “la Regione Emilia- Romagna sta già lavorando per individuare soluzioni adatte, utilizzando la rete di servizi esistenti”, conferma il Garante. Tenere i figli con sé, in realtà, non è un obbligo per le detenute, ma spesso le loro situazioni familiari non consentono alternative: “In ogni caso, non è possibile che un bambino cresca in carcere, che conosca solo divise e sbarre, che non frequenti altri bimbi, in anni cruciali per la sua crescita” chiosa Nicola D’Amore, agente di polizia penitenziaria e sindacalista del Sinappe Emilia-Romagna, che ha sollevato il caso e a cui è difficile dare torto. “Il nido creato l’anno scorso è un’ottima risorsa, altrimenti, seppure in un reparto a sé, il bambino sarebbe ora in una cella” spiega. Tuttavia, è il primo caso di permanenza così prolungata: “Notiamo nel piccolo una familiarità con la routine del carcere che nessun bimbo dovrebbe avere e che rattrista molto. Per questo abbiamo sollevato il caso, affinché al più presto venga trasferito con la mamma in un Istituto a custodia attenuata per le detenute madri, o venga individuata una misura alternativa” dice D’Amore. D’altra parte, “la legge ora consente la permanenza dei bambini in carcere con le madri, dunque, anche in questo caso, è stata semplicemente applicata” osserva l’avvocata Silvia Furfaro, presidente dell’Associazione “L’altro Diritto”, che opera nelle carceri da oltre 15 anni, in Toscana e a Bologna. “La presenza del nido è stato un buon paracadute - dice - ma resto dell’idea che l’investimento fatto per istituirlo poteva essere usato per pensare ad altre forme di accoglienza: i bambini non devono varcare la soglia del carcere”. A suo avviso in Emilia-Romagna, comunque, “ci sono la sensibilità e la volontà di implementare le case famiglia e, per questo, ho fiducia che nel più breve tempo possibile, con il supporto delle Istituzioni, degli organi giudiziali e del Terzo Settore si troveranno sempre di più soluzioni alternative alla detenzione, come in fase di realizzazione nel territorio bolognese”. Sassari. Un candeliere per Graziano Piana di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 13 agosto 2022 Nel grande cortile di Bancali la danza del cero di San Sebastiano. Commovente il ricordo del detenuto sassarese massacrato in cella. La sua foto incollata al legno levigato del candeliere. E poi via alla danza a ritmo di tamburo davanti a una schiera di occhi lucidi. Sotto il sole caldo di agosto, mentre risuonano alcuni canti in sassarese, la gente osserva in silenzio, poi applaude e si commuove. I detenuti di Bancali ricordano così quello che fino a pochi giorni fa era uno di loro. Il candeliere di San Sebastiano è tornato a ballare nel cortile del carcere e stavolta lo ha fatto soprattutto in memoria di Graziano Piana, il 51enne sassarese morto lo scorso 27 luglio poche ore dopo essere stato massacrato in cella da un altro detenuto. Per Graziano Dopo l’uccisione di Piana, tutto stava per saltare. Ma poi i detenuti ci hanno pensato su e si sono detti: “Facciamolo per Graziano”. E così ieri mattina, a Bancali, il candeliere di San Sebastiano è stato fatto ballare proprio come accadeva prima del Covid. “Questa è una iniziativa che ha 19 anni di vita - spiega Ilenia Troffa, la responsabile dell’area trattamentale di Bancali -. Rappresenta una cerniera tra il carcere e la città. A modo loro, i detenuti vogliono partecipare alla festa. E sono stati proprio loro a non volersi tirare indietro, dopo ciò che è accaduto. Lo hanno fatto in ricordo di Piana, perché anche lui, durante le sue detenzioni, partecipava a questo momento così sentito da tutti”. A portare il colorato candeliere ricostruito nel 2018 - con la rappresentazione di San Sebastiano e stavolta anche con una fotografia di Graziano Piana - sono stati i detenuti sassaresi, con il lutto al braccio, addestrati nel corso dei mesi dall’Intergremio. E ad assistere alla cerimonia e alla tradizionale danza, naturalmente, sono stati anche tutti gli altri detenuti, di ogni provenienza e religione. Ma Graziano Piana non è stato ricordato solo durante la danza del cero. Anche nel corso degli interventi, e in particolare delle benedizioni e dei saluti di chi vive il carcere, il suo nome è stato più volte pronunciato nel grande cortile della casa circondariale. Un momento di fede, preghiera e speranza che si rinnova da quasi vent’anni e che stavolta ha assunto un significato particolare, ancora più intimo. È stato l’arcivescovo Gian Franco Saba a benedire candeliere e presenti. Poi sono intervenuti la direttrice di Bancali Patrizia Incollu, il cappellano del carcere don Gaetano Galia, il sindaco Nanni Campus e la prefetta Paola Dessì, che ha assistito per la prima volta alla speciale festa dei candelieri all’interno delle mura di una casa circondariale. E poi ancora l’educatrice Rosanna Roggio, Salvatore Sanna, padre guardiano di Santa Maria, e Michael Calaresu, uno dei portatori del candeliere. Presente alla cerimonia, condotta da Umberto Graziano, anche Fabio Madau, il presidente dell’Intergremio: “È stato tutto molto commovente. Quella di Graziano Piana è stata una presenza costante”. Sicurezza, repressione e controllo al tempo dei populismi di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 13 agosto 2022 “Le pene e il carcere” di Stefano Anastasia, per Mondadori. Una possibile griglia di lettura per le idee e le proposte della campagna elettorale in corso. Il diritto penale è per sua natura un oggetto politico. Ha una sua essenza convenzionale. È il frutto di scelte politiche storicamente determinate. Non va mai dimenticato che non esistono delitti o pene naturali. Tutto è creazione artificiosa del legislatore. “La criminalità e i criminali in natura non esistono” scrive Stefano Anastasia nel suo recente libro Le pene e il carcere (Mondadori, pp. 200, euro 15). Lo spacciatore di sostanze stupefacenti è tecnicamente un criminale fino a quando non ci sarà una legge che legalizzi la produzione o il possesso delle droghe. La questione penale e penitenziaria ha a che fare con la democrazia. Non a caso il volume è inserito all’interno della collana “Lessico democratico” diretta da Manuel Anselmi. Pene, carcere, sicurezza, dignità, tortura sono tutti termini che fanno parte dello stesso campo semantico. Costituiscono altrettante parole di un vocabolario che Anastasia, con cui ho condiviso la lunga militanza in Antigone, cerca di ripulire dalla deriva populista con un’operazione di igiene linguistica, giuridica, sociologica, filosofica e culturale. A poche settimane dal voto la lettura delle pagine del libro su politica e giustizia penale al tempo dei populismi ci aiuta a decodificare i discorsi pubblici che abbiamo finora sentito, e quelli che andremo ad ascoltare, su sicurezza, immigrazione e carcere. Stefano Anastasia richiama il demo-consensualismo nel quale siamo immersi utilizzando le categorie interpretative di Luigi Ferrajoli che ci ammonisce intorno al declino della “democrazia attiva” verso forme pericolose di “democrazia passiva”. Più sicurezza, certezza della pena, repressione di polizia sono le armi facili nelle mani di chi vuole facilmente legittimare il proprio consenso popolare. I partiti hanno rinunciato ad avere una qualsivoglia funzione pedagogica. In questo modo “l’uso simbolico del diritto penale è diventato un capitale essenziale nella ricerca del consenso politico”. L’autore ci offre una griglia analitica e interpretativa degli usi populisti del diritto e della giustizia penale: gli attori (partiti o istituzioni che esplicitamente assecondano o sollecitano una domanda di punizione); i target della loro iniziativa (i nemici del popolo, cioè le élites contro cui si scagliano gli attori del populismo; anche quando i nemici sono gli immigrati la rabbia populista si rivolge contro le tecnocrazie che spingono verso la sostituzione etnica o il cosmopolitismo); gli strumenti giuridici e culturali utilizzati (che consistono nella glamourizzazione comunicativa e nella rinuncia alla statistica quale scienza utile per comprendere i fenomeni sociali e criminali); le funzioni (stabilizzazione del governo se si è al potere; prospettiva di cambiamento se si è all’opposizione). Potremmo cercare di leggere le proposte, i commenti, le interviste e i fatti dei prossimi mesi utilizzando questa griglia. Il tema della tortura è paradigmatico. Uno dei partiti che si affida alla retorica populista ha proposto nel suo programma di governo la parziale abrogazione della legge che proibisce la tortura. È questo un modo per consolidare il proprio consenso tra i cultori della sicurezza a tutti i costi e tra le oltre trecentomila persone che lavorano nelle quattro forze di Polizia presenti nel paese, senza preoccuparsi che sarebbe una violazione della legalità internazionale. D’altronde, come si legge nella parte del libro relativa alla lunga gestazione che ha portato alla legge del 2017 sulla tortura, è sempre stato particolarmente intenso il potere delle polizie nella fragile democrazia italiana. Siamo tornati dunque alla questione democratica all’interno della quale vanno affrontati tutti i nodi critici che hanno a che fare con il sistema penale. Un modello penale pienamente garantista ha un suo spazio solo in una democrazia solida e in uno Stato di diritto altrettanto forte, dove ci sia un reciproco rispetto tra tutti gli attori del sistema. Un rispetto che dovrebbe portare uomini di partito a non commentare fatti di cronaca nera nell’immediatezza degli avvenimenti. Il libro di Anastasia ci aiuta a distinguere chi si muove nel campo populista da chi, invece, prova a restarne fuori, preservando argomenti razionali di cultura giuridica. “Difendere la libertà”: Rushdie, lo scrittore che resiste al fanatismo religioso di Antonio Monda La Repubblica, 13 agosto 2022 “L’ironia tagliente, acuta e a volte anche spietata, è una delle caratteristiche che ne contraddistinguono l’intelligenza veloce e brillante, ma è evidente che l’episodio che ha cambiato per sempre la sua vita lo costringe a vivere con un alone di incertezza e preoccupazione, anche quando cerca di mostrare il contrario”. “Anche quando riesco a vivere normalmente, e la vita sembra riconquistare la propria quotidianità, con il suo alternare la speranza alla delusione e l’eccitazione alla noia, c’è un momento, ogni anno, in cui vengo rituffato violentemente nell’incubo iniziato nel 1989: ogni 14 febbraio, giorno in cui l’ayatollah Khomeini ha lanciato la fatwa su di me dopo la pubblicazione dei Versi Satanici, mi arrivano le minacce di chi vorrebbe vedermi morto. Da allora è questo il mio San Valentino”. Salman Rushdie me lo ha raccontato poche settimane fa, quando ha accompagnato la poetessa Rachel Eliza Griffiths alle Conversazioni a Capri, scherzando sul fatto di essere semplicemente il suo “plus one.” L’ironia tagliente, acuta e a volte anche spietata, è una delle caratteristiche che ne contraddistinguono l’intelligenza veloce e brillante, ma è evidente che l’episodio che ha cambiato per sempre la sua vita lo costringe a vivere con un alone di incertezza e preoccupazione, anche quando cerca di mostrare il contrario. Ha scelto di vivere in America per sentirsi più sicuro, facendo gradualmente a meno alla protezione, ritenuta ormai superflua, dopo che nel 1998 l’ayatollah Khatami aveva ritirato la fatwa. Ma poi, implacabili, sono continuati ad arrivare gli “auguri di San Valentino”, e quell’alone ha preso i contorni di un’ombra cupa, impossibile da rimuovere, specialmente quando l’ayatollah Khamenei ha dichiarato nel 2005 ancora valida la condanna a morte, e parallelamente è stata offerta una taglia di tre milioni di dollari da parte di un altro ayatollah, Hassan Sane’i. Prima dell’attentato di ieri un uomo chiamato Mustafa Mahmoud Mazeh è morto dilaniato da una bomba che avrebbe dovuto ucciderlo, diventando un martire della causa dei fondamentalisti, ed è lunga la scia di sangue generata in occasione della pubblicazione internazionale dei Versi Satanici: il traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, è stato ucciso da emissari del regime iraniano, quello norvegese, William Nygaard, venne ferito da armi da fuoco, e il traduttore italiano, Ettore Capriolo è stato accoltellato all’interno della propria casa. Negli anni in cui viveva sotto protezione in Inghilterra con lo pseudonimo di Joseph Anton, scelto come omaggio ai prediletti Conrad e Chekov, ha ricevuto infinite manifestazioni di solidarietà ma “la vita era diventata un inferno”: nell’occasione in cui mi ha detto dei biglietti di San Valentino, mi ha raccontato tuttavia come abbia vissuto come un momento di liberazione l’invito da parte degli U2 di apparire durante un loro concerto sul palco di Wembley. Era il 1995 e la sua apparizione a sorpresa venne accolta con un’ovazione interminabile che ancora adesso gli provoca un’emozione che sfiora la commozione. La decisione di trasferirsi in America è avvenuta poco dopo: conosce e depreca la violenza sempre pronta a esplodere nel grande Paese, ma sa anche che nessun luogo garantisce ugualmente la libertà di espressione sigillata in The New Colossus, la poesia di Emma Lazarus scolpita ai piedi della statua della Libertà. È l’aspetto che ama, di questo Paese, e che ha celebrato anche nei momenti più controversi e bui. In tutti questi anni, non si è mai pentito di quello che ha scritto, anzi lo ha rivendicato con orgoglio, finendo anche nella lista degli obiettivi di Al Qaeda, e per capire il suo atteggiamento, che, sono sicuro, manterrebbe anche adesso, è necessario ricordare la prima intervista che ha concesso alla Bbc, nella quale ha dichiarato “francamente avrei voluto scrivere un libro ancora più critico: sono addolorato per quello che è successo e non è vero che i Versi Satanici sia blasfemo nei confronti dell’Islam: dubito fortemente che Khomeini o chiunque altro in Iran abbia letto il libro tranne degli estratti fuori contesto”. La dichiarazione generò nuove minacce, ma lui rispose di esserne “orgoglioso, allora e sempre”, poi ha rincarato la dose dicendo a proposito dell’Islam che “leader che si comportano in tal modo non possono avere il minimo senso critico”. La difesa della libertà è diventata da allora un elemento centrale della sua vita pubblica, che lo ha visto impegnarsi come presidente del Pen e quindi schierarsi in prima fila nell’appoggio incondizionato a Charlie Hebdo, polemizzando per questo aspramente con autori quali Joyce Carol Oates, Teju Cole e Junot Diaz, critici riguardo al contenuto della rivista: “Dobbiamo essere tutti dalla loro parte per difendere l’arte della satira, che ha rappresentato sempre un elemento di forza per la libertà contro la tirannia, la disonestà e la stupidità: il totalitarismo religioso ha causato una mutazione mortale nel cuore dell’Islam, e ne vediamo le conseguenze tragiche”. È ugualmente esemplare quanto avvenne in occasione dell’uscita del film pakistano International Guerrillas, nel quale gli autori ne fanno un ritratto di malvagio nello stile dei film di James Bond, e immaginano che, con la complicità dell’esercito israeliano, sia proprio lui a mettere in crisi il Paese aprendo discoteche e casinò, fin quando non viene ucciso da alcuni eroici combattenti. L’incredibile pellicola, diretta da Jan Mohammed, ebbe un notevole successo in Pakistan, e rischiò di causare un incidente diplomatico con la Gran Bretagna, ma in quell’occasione Rushdie si oppose alla censura e rinunciò a fare causa, spiegando che censurare “questo inetto e perverso pezzo di spazzatura lo avrebbe reso popolarissimo e tutti avrebbero voluto vederlo”. Ama molto il cinema e quando ne abbiamo parlato riusciva a essere divertito dal grottesco orrore di quel film, ma poi, tornando rapidamente serio, ha concluso con un leggero alone di malinconia: “È nostro dovere difendere sempre e comunque il principio di libertà di espressione”. La traiettoria irrituale di uno “scrittore contro” di Silvia Albertazzi Il Manifesto, 13 agosto 2022 Salman Rushdie non è solo l’autore dei “Versi satanici”, ovvero uno scrittore che, per aver pubblicato un libro ritenuto blasfemo dagli integralisti islamici, si è visto comminare una condanna a morte dall’ayatollah Khomeini. Quando lo colpisce la fatwa iraniana, Rushdie ha già al suo attivo un romanzo che ha cambiato la faccia della letteratura inglese, “I figli della mezzanotte”, apparso nel 1981 e subito premiato con il prestigioso Booker Prize (sarà in seguito Best of Booker nel 1993 e nel 2008), una vicenda in cui magia e realtà si mescolano per narrare la storia dell’India indipendente attraverso le avventure di un personaggio nato il giorno dell’indipendenza indiana, proprio allo scoccare della mezzanotte e, per questo, dotato di poteri magici come tutti i bambini nati in quel momento, ma anche crudamente “ammanettato alla storia”. Una storia scritta da un punto di vista ‘altro’, soggettivo, demistificante, irrealistico e irriverente e perciò stesso sovversiva, in un linguaggio che non ha nulla a che spartire con lo standard english della letteratura canonica, ma è l’inglese dei bazaar indiani, spurio, zeppo di imprestiti da ogni sorta di lingue e dialetti, ricco di neologismi e giochi di parole. L’uso di quella che si può definire una “storiografia fantastica”, nella consapevolezza che immaginare storie è sempre e comunque un atto ideologico, è il marchio di fabbrica di tutta la produzione rushdiana: creatore di miti piuttosto che semplice romanziere, Rushdie racconterà nel 1984, in La vergogna, la storia del Pakistan sotto forma di Grand Guignol: e se I figli della mezzanotte gli era valso le ire di Indira Gandhi, nel 1984 Zia Ul-Haq, riconosciutosi in un crudele e inetto personaggio de La Vergogna, ordina 50 scudisciate a chiunque venga sorpreso a leggere il romanzo o ne possieda una copia. Nel 1988, Rushdie termina la trilogia dedicata all’Asia meridionale con un’epopea fantastica della diaspora asiatica nel Regno Unito, I versi satanici. “Scrittore contro” per antonomasia (“Ho speso tutta la mia vita come autore all’opposizione, e ho sempre compreso nel ruolo dello scrittore la funzione di antagonista dello stato”, ha scritto), nei Versi satanici ribadisce la sua convinzione che compito dello scrittore è “Nominare l’innominabile, indicare le frodi, prendere posizione, iniziare i dibattiti, scuotere il mondo e impedirgli di addormentarsi”. È quello che continuerà a fare anche durante i difficili anni successivi alla fatwa, raccontati molto tempo dopo nel memoir Joseph Anton: un decennio di lotte per la propria libertà e per l’affermazione della libertà di parola, durante il quale metaforizza la sua esperienza di cantastorie zittito da un malvagio potere nella favola Arun e il mar delle storie; scrive due romanzi, L’ultimo sospiro del Moro e La terra sotto i suoi piedi, in cui, ancora una volta, intreccia storia e storie, ancorando i fatti alla loro rappresentazione virtuale e al racconto che altri media e altre forme artistiche ne forniscono. Approdato a New York nel 2001, con Furia cerca di raccontare il presente nel suo manifestarsi e offre una visione quasi profetica della furia che, di lì a poco, si abbatterà sulla metropoli americana (il romanzo esce soltanto una quindicina di giorni prima dell’11 settembre). Seguono, dagli Stati Uniti, dove si è ormai trasferito, Shalimar il Clown, forse il miglior lavoro della sua stagione americana, in cui, tra molte storie intrecciate si trova anche quella di un funambolo che diviene terrorista; L’incantatrice di Firenze, ambientato nel Rinascimento italiano, che vede tra i personaggi anche Machiavelli; Due anni, otto mesi e ventotto notti, una fiaba ispirata dalla favolistica orientale della sua infanzia e La caduta dei Golden, ritratto parodico dell’America di Trump. Il suo ultimo romanzo, Quichotte, è un tour de force narrativo in cui al cavaliere di Cervantes si affianca Alice e il grillo parlante di Pinocchio incontra il Rinoceronte di Ionesco in un vorticoso girotondo di intertesti. Promettete, purché con giudizio di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 13 agosto 2022 È inevitabile che in campagna elettorale sia presente una certa dose di demagogia, sia da parte della destra sia da parte della sinistra. Dobbiamo sperare che qualche germoglio di razionalità sbocci persino in questa campagna elettorale. Promettere la luna ma con giudizio. È inevitabile che nelle campagne elettorali delle democrazie a suffragio universale sia presente una certa dose di demagogia. Fortunata è quella democrazia nella quale la sobrietà dei costumi e un’attitudine a pretendere dai politici razionalità da parte dell’opinione pubblica, riducono a dimensioni sopportabili il tasso di demagogia. Peraltro, democrazie così, per un insieme di ragioni, non ultimi i nuovi sistemi di comunicazione, tendono oggi a scomparire. L’Italia, comunque, non è, non è mai stata, simile alla Svizzera o alla Norvegia. Le nostre campagne elettorali ricordano quelle variopinte e pittoresche dell’America Latina. Se non fosse così non avremmo accumulato nel corso dei decenni, con il consenso o la noncuranza dell’elettorato, un così grande debito pubblico, ossia una gravosissima tassa a carico delle generazioni successive (sulla base del principio “ma chi sono questi posteri e che cosa hanno mai fatto per noi?”). Né si sarebbe perpetuata per tanta parte della nostra storia una tragedia: il fatto che, per lo più, quando si scontrano l’anima riformista e quella massimalista della sinistra è quest’ultima a prevalere (il che spiega la democrazia bloccata, l’impossibilità dell’alternanza, per tutto il periodo della Guerra fredda). O, per venire a tempi recenti, non si spiegherebbe il trionfo populista nelle elezioni del 2018. Diciamo che abbiamo alle spalle tradizioni politiche che non favoriscono sobrietà e razionalità. Prendiamo in considerazione alcune delle promesse della luna che sono già state fatte agli elettori come la flat tax, il bonus per i diciottenni o il presidenzialismo. La proposta leghista della flat tax contiene una (nascosta) razionalità. Non nel senso che tale proposta possa trovare attuazione. Solo qualche sprovveduto può crederlo. La razionalità della proposta sta altrove. Da un lato, serve alla Lega per competere con Fratelli d’Italia: “Vedete, la luna che promettiamo noi è più grande di quella che promette Meloni”. Dall’altro, serve a rassicurare gli elettori: se vinciamo noi state certi che non aumenteremo le tasse. La proposta del bonus ai diciottenni da parte del Pd è altrettanto demagogica. Ma in più si scorge in essa anche un velo di malinconia. Il bonus non serve a cambiare la condizione giovanile. Occorrerebbe altro. Soprattutto un mercato del lavoro non irrigidito da troppi vincoli, capacità di attrarre investimenti, eccetera. La nota malinconica sta nel fatto che con la proposta di finanziare il bonus agendo sulla tassa di successione dei più ricchi, il Pd ha già messo in conto che perderà le elezioni. Tanto vale - si sono detti - dare un contentino a quella parte del nostro elettorato a cui piace l’idea di tassare i ricchi a prescindere. E pazienza se ciò dà alla destra un’arma in più per dipingere il Pd come il partito delle tasse. Per inciso, è buona l’idea del Pd di migliorare lo stato del capitale umano aumentando gli stipendi ai professori nel corso della loro carriera. Peccato che la proposta sia monca. Perché dovrebbe essere accompagnata dalla promessa di cacciare quei docenti che, mettendosi sotto i piedi l’etica professionale, regalano voti e diplomi anche ai non meritevoli. Commettendo così il reato di falso in atto pubblico (reato inequivocabilmente dimostrato dai risultati dei test Invalsi). Solo la somma di questi due provvedimenti potrebbe migliorare davvero quantità e qualità del capitale umano in Italia. E perché non citare il blocco navale che viene di tanto in tanto proposto da questo o quello esponente della destra? Giudiziosamente, esso non viene esplicitamente evocato nel suo programma elettorale. Resta che questa idea ogni tanto ritorna. Ma è del tutto impraticabile. L’Onu, l’Europa, il Papa, la magistratura, tutti contro. Se vincesse le elezioni, sarebbe sensato, da parte della destra, cercare un accordo con i settori più responsabili dell’opposizione su come fronteggiare la piaga dell’immigrazione clandestina. Oltre a tutto, ciò metterebbe in difficoltà i massimalisti di sinistra. Ricordo che quando il miglior ministro dell’Interno che sia stato espresso dalla sinistra, Marco Minniti, provò a fare qualcosa, finì subito sotto il “fuoco amico” (amico si fa per dire) della sinistra medesima. Da ultimo il presidenzialismo, cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia e di Berlusconi. Il fascismo, le derive autoritarie di cui parlano i soliti noti, non c’entrano niente. La proposta non va bene per un insieme di ragioni che attengono a questioni di tecnica costituzionale (benissimo sintetizzate da Luciano Violante su Repubblica). La proposta ha senso solo se serve a lanciare un sasso in piccionaia. Archiviato, con il referendum del 2016, il progetto Renzi teso a rafforzare l’esecutivo, delle anomalie della nostra democrazia parlamentare non si discute più. Ma esse (a cominciare dal bicameralismo simmetrico: due Camere con uguali poteri) sono sempre lì. Quando si sentono i soliti cantori della “Costituzione più bella del mondo” denunciare le solite derive autoritarie, bisogna resistere al (comprensibile) impulso di plaudire alle suddette derive. Costoro usano sempre le stesse parole, si tratti di attaccare la proposta di Renzi o il presidenzialismo di Meloni. Dal loro punto di vista, sono tutte varianti della “marcia su Roma”. In modi diversi, tutte le grandi democrazie europee (eccetto l’Italia) hanno governi istituzionalmente forti. Perché solo noi dobbiamo subire la maledizione di governi deboli? Non è il presidenzialismo di Meloni che potrà risolvere il problema. Ma se consentirà, dopo le elezioni, di aprire un dialogo fra le forze politiche per trovare soluzioni istituzionali possibili e praticabili, tale proposta sarà comunque servita a qualcosa. Senza bisogno di scomodare l’hegeliana astuzia della ragione, si può forse (sommessamente) auspicare che qualche germoglio di razionalità sbocci persino in questa campagna elettorale. Nonostante il solito diluvio di spacconate. Disobbedienza civile. Pensavo fosse radicale e invece era un grillino di Marco Perduca Il Manifesto, 13 agosto 2022 Comunque si legga l’affaire Bernardini, è indubbio che siamo di fronte a quel “mutamento genetico” del ceto politico radicale (e degli iscritti) che Pannella paventava una ventina d’anni fa. Il racconto di Eleonora Martini della vicenda di Rita Bernardini m’ha fatto tornare in mente il Marco Antonio scespiriano: “Il bene sovente, rimane sepolto con le sue ossa… e sia così di Cesare. Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso. Ora io con il consenso di Bruto e degli altri, poiché Bruto è uomo d’onore, e anche gli altri, tutti, tutti uomini d’onore… vengo a parlarvi di Cesare morto”. C’era una volta un Partito che lottava per il rispetto dello Stato di Diritto perché necessario per la democrazia liberale e l’affermazione dei diritti umani. C’era una volta chi, a fronte di patenti e sistematiche violazioni delle libertà individuali da parte delle istituzioni, si assumeva la responsabilità di disobbedire leggi contro scelte che non recano danno ad altre persone o a se stessi. C’era una volta un movimento che grazie a quelle disobbedienze ha suscitato riforme nel nostro Paese e altrove. Senza la nonviolenza politica dei radicali di Marco Pannella divorzio, aborto, obiezione di coscienza alla leva, la depenalizzazione dell’uso personale delle “droghe” fino al suicidio assistito in alcune circostanze sarebbero arrivati con altri tempi. C’era una volta chi praticava il “conoscere per deliberare” a corredo di lotte libertarie. Oggi, come Giulio Cesare, non c’è più. Che alla morte di Pannella si sarebbe creato un problema enorme alla sua “area” era prevedibile (e previsto) ma in pochi si sarebbero immaginati che un “indirizzo” della Prefettura di Roma sarebbe bastato a buttare al macero decenni di disobbedienze civili. Nei giorni scorsi Bernardini, 50 anni di tessere radicali e 5 da deputata, s’è vista sostituire tra i costituenti della Fondazione Marco Pannella perché ritenuta priva dei “necessari requisiti di onorabilità” per farne parte. Il motivo? Le condanne per le sue azioni antiproibizioniste. Non esiste una norma per cui tale status renda incompatibile la fondazione di un ente del terzo settore, si tratta giusto di criteri stabiliti dalla prefettura. Se per anni si va contro la punibilità di coltivazione o uso condiviso di cannabis, possibile non avere neanche un singulto davanti a una comunicazione del prefetto che stigmatizza tali condotte? Pannella aveva decostruito Machiavelli in “i fini prefigurano in mezzi”, ne conseguirebbe che se crei un contenitore per preservare il patrimonio del disobbediente per eccellenza, per essere all’altezza del compito fonderai merito e metodo senza eseguire pedissequamente - e pare segretamente - le direttive prefettizie come un grillino qualunque, giusto? Uno degli ultimi referendum modificava la Legge Severino, no? “Chi parla di democrazia, di volontà popolare e autodecisione e non si accorge del prefetto non sa quel che si dice. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti sono una lugubre farsa nei Paesi a governo accentrato di tipo napoleonico”. Non scrive un anarchico ma chi coniò il “conoscere per deliberare” ispirando (anche) referendum, presentati 30 anni fa dalla Lista Pannella e nel 2014 dalla Lega per abolire i prefetti. Comunque si legga l’affaire Bernardini, è indubbio che siamo di fronte a quel “mutamento genetico” del ceto politico radicale (e degli iscritti) che Pannella paventava una ventina d’anni fa. “Tutti voi amaste Cesare un tempo non senza causa”, dice Marco Antonio. “Quale causa vi vieta oggi di piangerlo?”. Nessuna, tant’è vero che la Consulta nel 2019 e la non collaborazione col regime elettorale di queste ore concorrono a scongiurare che la Storia si ripeta due volte: la prima come tragedia, la seconda… “Dare corpo e anima alla Costituzione liberandoci dal lavoro povero” di Adriana Pollice Il Manifesto, 13 agosto 2022 Intervista a Aboubakar Soumahoro, candidato di Sinistra italiana ed Europa verde alle prossime politiche. “Voglio dare rappresentanza politica agli invisibilizzati. La Carta Costituzionale deve materializzarsi nel miglioramento degli esseri viventi in termini di dignità e felicità intesa come felicità collettiva”. Dopo una ventennale militanza nell’Usb, Aboubakar Soumahoro due anni fa ha dato vita alla Lega Braccianti ed è portavoce della comunità Invisibili in Movimento. Alle politiche si presenta nella lista composta dall’alleanza tra Europa Verde e Sinistra Italiana. Sui social ha spiegato i motivi per cui partecipa al voto: “Dobbiamo fare respirare nel Paese reale gli ideali della nostra Costituzione, specialmente gli articoli 1 e 3”... Bisogna dare corpo, anima, fisicità a quegli articoli. Serve un Piano nazionale per il lavoro che si occupi della prevenzione degli infortuni, un dramma e una vergogna per la nostra comunità. Un piano capace anche di creare attività lavorative sia aumentando gli impieghi salariati sia lasciando la possibilità alla creatività delle persone di aprire nuovi spazi. Soprattutto, serve il salario minimo legale, al di sotto del quale non si può e non si deve lavorare. Vogliamo parlare degli oltre 4 milioni che percepiscono una paga da fame? Spesso sono donne, sono giovani e sono lavoratori migranti. Serve un piano nazionale per la tutela delle persone e dell’ambiente, sto pensando a Taranto. Ma anche a Napoli dove la Whirlpool, ora chiusa, in quel quartiere rappresentava un presidio di resistenza contro l’illegalità. L’obiezione è che così si mina l’attività sindacale... Non sono d’accordo, non viene meno lo spazio di agibilità sindacale, che deve restare all’apice dell’azione di tutela e promozione del lavoratore. Ma non si possono chiudere gli occhi difronte a chi si spacca la schiena per un salario minimo, parlo di camerieri, rider. Non possiamo constatare un dato di fatto senza mettere in campo iniziative di prevenzione e accompagnamento, capaci di far germogliare un tessuto sociale, economico, culturale che veda il riconoscimento della dignità del lavoro e della persona. Si tratta di dipendenti, persone costrette alla partita Iva, di chi è sfruttato dalle piattaforme della gig economy, le attività di cura domestica fino a chi come Beauty è stata picchiata per aver chiesto la paga che le spettava. Eppure quello del commercio è un settore dove i contratti nazionali ci sono. Il mondo del precariato è diventato una dimensione esistenziale inghiottita dal lavoro povero. Come attuare l’articolo 3? La Costituzione non può essere un oggetto da appoggiare sul comò. L’articolo 3 è bellissimo: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana. Bisogna approvare la legge per il Reddito di esistenza, un reddito cioè non subordinato all’attività lavorativa. Solo così fermiamo lo sfruttamento e impediamo che le persone siano risucchiate nella condizione di bisogno cronico. Sono le cose che propongo da subito. Se la politica non dà una prospettiva concreta a questi temi, saremo destinati ad assistere a un divorzio sentimentale, linguistico e di contenuti tra politica e popolazione. Materializzare la speranza significa essere in grado di dare la prospettiva di pagare l’affitto, non costringere i pendolari a viaggiare in condizioni orribili. Se non ci si cala nel fango della miseria quotidiana non si capiscono le ragioni di chi dice vogliamo lavorare ma avendo un lavoro sano, che non sia espressione di sfruttamento e neppure comporti la rinuncia all’aria che respiriamo perché non rispetta l’ambiente. Ci sono filiere organizzate sullo sfruttamento degli invisibilizzati... Nessuno nasce invisibile ma sono i processi delle dinamiche economiche, politiche, culturali, sociali (inseriti in una logica olistica) che portano al non riconoscimento dell’altro, laddove l’altro rivendica diritti, dignità, tutele. Esseri viventi, ambiente, si viene invisibillizzati. Nell’agroalimentare si è andati avanti convinti che dietro al cibo non vi siano processi che partono dai semi fino alla tavola, nel mezzo ci sono contadini, braccianti, operai agricoli, autotrasportatori, facchini, cassieri, rider, cuochi, consumatori. Per dare dignità a chi opera nel settore serve la Patente del cibo, per recuperare il gusto del sapore etico. Per stabilire quanto è buona la pizza devo sapere come è stata sfornata. Sarà buona quando chi ha lavorato avrà visto riconosciuti i propri diritti. Nel titolo di Libero è stato definito “l’ivoriano”... Cosa vuol dire, cosa si sottintende? Porto sul mio corpo oltre 20 anni di lotte. Cosa vuol dire l’italiano, il napoletano, il calabrese? Cosa vuol dire il meridionale, cosa si sottintende? A questo il direttore Sallusti dovrebbe rispondere. Il mio obiettivo è essere la voce degli oppressi per l’orientamento sessuale, oppressi perché vengono da una certa area geografica. Voglio fare in modo che abbia rappresentanza politica questo mondo fatto anche dai nostri emigranti, che non hanno avuto il diritto di restare avendo avuto solo la prospettiva della fuga, bambini nati in Italia ancora senza cittadinanza. Giovani obbligati a fare stage gratuiti o a lavorare al di fuori delle loro mansioni e degli orari. Precari invisibilizzati, inclusi insegnanti, infermieri, addetti alle pulizie, disoccupati, studenti, ricercatori, giornalisti freelance e lavoratori delle consegne, della ristorazione, del turismo, dello spettacolo e arti. La Costituzione deve materializzarsi nel miglioramento degli esseri viventi in termini di dignità e felicità intesa come felicità collettiva. Stranieri meglio integrati a scuola antidoto a esclusioni e tensioni di Maurizio Ambrosini Avvenire, 13 agosto 2022 Studenti stranieri nelle scuole italiane: questa espressione già suona come una forzatura, e di certo non piacerà a gran parte dei diretti interessati. I due terzi di loro infatti sono nati in Italia, e molto probabilmente il loro percorso educativo si è svolto sempre in Italia e in lingua italiana. Che siano considerati stranieri è una scelta politica, che neppure questa volta il Parlamento ormai disciolto è riuscito a correggere. Nei fatti però la loro integrazione avanza, giacché la loro carriera scolastica assomiglia sempre di più a quella dei ragazzi con cittadinanza italiana, come mostrano i dati dell’ultimo rapporto del Ministero dell’Istruzione sull’argomento (2020-2021): chi è nato in Italia raggiunge risultati migliori, è meno esposto ad abbandoni e ritardi, frequenta più spesso i licei (circa uno studente delle superiori su tre), rispetto a chi è nato all’estero. Ancora meglio vanno le ragazze, riflettendo una tendenza generale, ma smentendo lo stereotipo della sottomissione a famiglie oppressive. Le ragazze di origine immigrata stanno costruendo il loro destino a forza di impegno nella scuola e di buoni risultati. Impossibile ignorare poi un dato più generale: mentre l’allarme invasione ritorna a infiammare la campagna elettorale, il numero degli alunni con cittadinanza straniera è in realtà per la prima volta diminuito. Nessuna sostituzione etnica alle viste. Un po’ perché malgrado le norme più restrittive dell’Europa occidentale ogni anno un certo numero d’immigrati acquisisce la sospirata cittadinanza italiana (133.000 nel 2020). Molto perché nell’ultimo decennio non sono soltanto diminuiti drasticamente i nuovi ingressi, ma pure i ricongiungimenti familiari: un’Italia economicamente stagnante ha smesso di essere attrattiva. E questa, malgrado le apparenze, non è una buona notizia. Anche le classi ad alta concentrazione di alunni di origine immigrata diminuiscono, attestandosi poco sopra il 3%. Il fenomeno dell’alta concentrazione non è positivo e va contrastato con politiche scolastiche mirate, ma prima di tutto va ricondotto alle sue effettive dimensioni. Ammesso che sia giusto parlare di scuole-ghetto, si tratta di rare eccezioni. Malgrado i miglioramenti, alcuni seri problemi rimangono. Si chiamano ritardo, abbandono, canalizzazione. Gli studenti ‘stranieri’ fanno più fatica a tenere il passo, specialmente quando hanno frequentato un tratto del percorso scolastico in altri Paesi. In parte perché vengono inseriti in classi inferiori alla loro età anagrafica, in parte perché non raggiungono risultati sufficienti, soprattutto nel primo biennio delle scuole superiori. Il ritardo scolastico spesso si traduce in abbandono precoce. In un Paese che nel complesso non brilla per la capacità di mantenere i ragazzi nel sistema educativo, gli alunni di origine immigrata classificabili come ELET (Early Leaving from Education and Training), ossia usciti senza un titolo più alto della licenza media, sono più di uno su tre. In entrambi i casi, ritardi e abbandoni, sono i maschi a denotare maggiori difficoltà. Rimane ancora molto consistente infine, malgrado i progressi, la canalizzazione nei rami meno prestigiosi dell’istruzione superiore: mentre tra gli studenti con cittadinanza italiana uno su due frequenta un liceo, tra gli studenti con cittadinanza straniera il dato si colloca poco sopra il 30%. Gli altri dopo le medie vengono in vario modo orientati verso l’istruzione tecnica e professionale. Si tratta in parte di realismo e di suggerimenti ben intenzionati, in parte di sottovalutazione delle capacità dei ragazzi e delle ragazze che provengono da famiglie straniere. La conseguenza è un precoce inquadramento in occupazioni esecutive, con poche prospettive di crescita. Non deve dunque sfuggire il significato di questi dati: nei numeri della partecipazione scolastica leggiamo l’anticipazione delle prospettive future di questa componente della nostra società. Più integrazione scolastica, più apprendimento, più successo educativo, sono l’antidoto migliore all’emarginazione e alle tensioni interetniche. Sono un investimento per loro, ma anche per noi tutti. Polonia. Il sindaco che salva chi fugge dalla guerra di Paolo Lepri Corriere della Sera, 13 agosto 2022 Rzeszów è considerata la “città dei salvatori” e il primo cittadino Konrad Fijolek una sorta di eroe, nonostante la fine dei finanziamenti da parte del proprio governo. Rzeszów, nella Polonia orientale, a circa cento chilometri dal confine, è stata chiamata dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky la “città dei salvatori”. La ragione è semplice. In marzo, subito dopo l’invasione, sono stati accolti oltre 100.000 profughi, soprattutto donne e bambini, in fuga dagli orrori di un conflitto spietato. A dirigere questa operazione umanitaria c’è un sociologo di 46 anni, non iscritto a nessun partito, eletto sindaco come indipendente nel 2021 contro il candidato della destra nazional-populista di Jaros?aw Kaczynski. Si chiama Konrad Fijolek. È uno dei tanti eroi della resistenza alla volontà di dominio del leader russo Vladimir Putin. “Abbiamo accolto tutti a braccia aperte”, dice a Der Spiegel il primo cittadino di Rzeszów, spiegando che i rifugiati sono stati sistemati in case private, negli alberghi e nelle pensioni. Secondo i dati più recenti sono 30.000 le persone rimaste (oltre il dieci per cento degli abitanti) mentre altre hanno proseguito il loro viaggio verso occidente oppure (poche) hanno attraversato nuovamente la frontiera. Tutto questo accade in una zona della Polonia, ricorda il settimanale tedesco, ritenuta una roccaforte del nazionalismo e dove sono ancora vivi i ricordi degli orrori di cui si sono resi responsabili gli ucraini nel corso della seconda guerra mondiale. “Abbiamo messo da parte la storia. E la gente ha capito - dice Fijolek - che ora gli ucraini stanno combattendo per la nostra libertà”. C’è da dire che Rzeszów non è un caso isolato. Sono oltre quattro milioni gli ucraini fuggiti in Polonia dopo l’inizio della “operazione militare speciale” decisa dal Cremlino. Circa la metà si trovano ancora nel Paese. Certo, si è spesso parlato di un “doppio standard”, come ha fatto l’inviato dell’Onu Felipe González Morales, che ha invitato le autorità di Varsavia a concedere permessi di residenza e rifugio anche ai cittadini di altre nazionalità che lavoravano o studiavano in Ucraina. Riferendosi anche alla grave emergenza dei migranti bielorussi che vengono bloccati al confine, il sindaco della “città dei salvatori” assicura che “la Polonia vuole essere un Paese più libero e più aperto nel futuro”. È molto importante che il peso finanziario dell’assistenza non gravi sulle finanze delle singole amministrazioni, visto che il programma di aiuti del governo è scaduto alla fine di giugno. Lo scenario è ulteriormente complicato dal braccio di ferro con l’Unione europea, che ha congelato i fondi destinati alla Polonia in assenza di garanzie sul rispetto dei valori dello Stato di diritto: uno scontro reso ancora più duro dalle dichiarazioni minacciose fatte in questi giorni da vari esponenti dei partiti di governo. “Se Varsavia non avesse distrutto sistematicamente le relazioni con l’Europa, molte cose - osserva Fijolek - sarebbero più semplici”. Parole chiare, che rischiano di non venire ascoltate. Venticinque anni da innocente nel carcere più duro d’America di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 agosto 2022 Cédric Dent condannato per un omicidio che non ha mai commesso. I pm nascosero le prove che lo scagionavano. Oggi è un uomo libero. La prigione di Angola in Louisiana svetta sulle rive del Mississippi in un’area di 7mila ettari, si chiama così per l’omonima piantagione di cotone in cui oltre un secolo fa si spaccavano la schiena migliaia di schiavi provenienti dal paese africano; è il carcere di massima sicurezza più grande degli Stati Uniti con 6.500 detenuti e quasi duemila dipendenti. È soprannominata l’”Alcatraz del sud” per le durissime condizioni di prigionia e perché è praticamente impossibile evadere. Probabilmente negli ultimi decenni è diventata anche più famosa di Alcatraz, è nella sua cupa e sinistra struttura di cemento che ospita il braccio della morte più popoloso d’America che hanno ambientato film celebri sulla condizione carceraria come Dead Man Walking o Il Miglio Verde. Ed è lì, nella grande città carceraria che il 47enne afroamericano Céderic Dent ha passato gli ultimi 25 anni della sua vita, accusato di un omicidio che non ha mai commesso, stritolato dalla negligenza delle autorità e dalla ferocia del sistema giudiziario americano. Da lunedì scorso Dent è un uomo libero, un giudice del tribunale di New Orleans ha infatti deciso di annullare la sua condanna e il procuratore distrettuale ha rinunciato a perseguire il caso. Dent fu vittima di un processo iniquo, viziato dal pregiudizio di alcuni giurati e dai metodi banditeschi utilizzati dai pubblici ministeri che hanno occultato tutte le prove che lo avrebbero scagionato, tra cui una testimonianza cruciale sulla descrizione dell’assassino che non corrispondeva minimamente con l’aspetto dell’imputato. Inoltre si è scoperto che il testimone chiave dell’accusa aveva cambiato più di una volta la sua versione in modo contraddittorio. Dent fu così condannato all’ergastolo per la morte di un uomo, Anthony Milton, avvenuta nel 1997 all’uscita di un supermercato di New Orleans, raggiunto da due colpi di pistola alla schiena e alla nuca esplosi da uno sconosciuto con cui avrebbe avuto una lite all’interno del supermercato. Una dinamica confusa per una ricostruzione approssimativa da parte della polizia e della procura. Peraltro il verdetto di condanna è stato pronunciato da una giuria non unanime e la non unanimità delle giurie in caso di colpevolezza è un fattore che statisticamente fa lievitare la possibilità di una sentenza sbagliata. In molti Stati ci vuole ad esempio l’unanimità per condannare un imputato, non nella Lousiana del 1997. È solo grazie alla tenacia degli avvocati dell’Innocence project, una ong che si occupa delle migliaia di errori giudiziari commessi ogni anno dai tribunali Usa, che il caso Dent è stato riaperto. Quando hanno preso in mano le carte piene di violazioni del diritto alla difesa e al giusto processo non c’ è voluto molto per far annullare la condanna. E a quel punto qualsiasi giudice di buon senso non poteva far altro che rilasciare Dent. Ci sono voluti tanti anni perché le associazioni sono letteralmente sommerse di casi e non riescono materialmente a occuparsi di tutti. Certo è che nessuno restituirà all’uomo il quarto di secolo che ha passato in prigione, tutti gli anni della sua giovinezza buttati via per lo zelo giustizialista dei procuratori e per la sciatteria con cui gli afroamericani vengono generalmente condannati a pene durissime anche in mancanza di prove e sulla base di semplici indizi. “Cedric Dent è una vittima dei fallimenti del nostro sistema giudiziario che è stato incapace di proteggere i suoi diritti di persona accusata di un crimine: c’è un dipartimento di polizia che ha fatto il minimo indispensabile per indagare su un crimine grave come un omicidio; ci sono avvocati che non avevano risorse e mezzi per indagare sul suo caso e un ufficio del procuratore distrettuale che nascondeva prove che avrebbero dovuto essere consegnate e avrebbero aiutato il signor Dent a ottenere il verdetto di non colpevolezza che meritava al processo”, spiega in un comunicato Meredith Angelson, avvocata di Innocence project che ha seguito il caso personalmente.