I suicidi nelle carceri salgono a 50. Il capo del Dap convoca tutti per le visite a Ferragosto di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 agosto 2022 Iniziativa senza precedenti di Carlo Renoldi: “Ciascun episodio interroga le nostre coscienze”. Due detenuti morti a Monza e a Rimini. Il 24enne Mohamed era sotto “grande sorveglianza”. Uno stillicidio senza fine: giovedì sera sono morti suicida altri due detenuti. Nel carcere di Monza, Siliman Mohamed, 24 anni scarsi, avrebbe finito di scontare la sua pena ad aprile 2023; era sottoposto a misura di “grande sorveglianza” perché aveva problemi di autolesionismo. Nell’ospedale di Rimini è invece spirato dopo giorni di coma Aziz Rouam, classe 1985, marocchino, che si era impiccato il 4 agosto nella sua cella del carcere riminese. Sale così a 50 il numero dei detenuti suicida dall’inizio dell’anno. L’estate più “drammatica” di sempre. Lo sottolinea il capo del Dap, Carlo Renoldi, che ha deciso per questo di pianificare per il Ferragosto un’iniziativa senza precedenti: “Ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare. Per questo - scrive in una nota Renoldi - insieme ai miei più stretti collaboratori, al vicecapo, ai direttori generali del Dap e ai Provveditori regionali abbiamo avvertito l’esigenza di visitare degli istituti penitenziari anche nel giorno di Ferragosto. Vogliamo portare un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria e ribadire riconoscenza al personale in servizio”. E così, per la prima volta, il 15 agosto nelle carceri italiane non andranno in visita solo i Radicali e qualche parlamentare di buona volontà, ma tutti i vertici del Dap con i provveditori regionali: Renoldi visiterà la Casa circondariale femminile e la Casa di reclusione di Roma Rebibbia; a Viterbo andrà il vicecapo Carmelo Cantone; a Palermo Ucciardone si recherà il direttore generale dei Detenuti e trattamento Gianfranco De Gesu, mentre a Messina ci sarà il direttore del Personale e risorse Massimo Parisi; Pietro Buffa, a capo della Formazione e provveditore per la Lombardia, sarà invece a Genova Marassi, e così via, in molti altri istituti del Paese. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, accompagnerà invece il sindaco di Firenze, Dario Nardella, a visitare la Casa circondariale di Sollicciano, definita ieri da David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, “un carcere non degno di un Paese occidentale”. “Da quando sono diventato vicepresidente del Csm - ha aggiunto Ermini che sarà con loro il 15 agosto - mi sono sempre lamentato del fatto che il Parlamento della legislatura precedente non aveva portato a conclusione la riforma dell’ordinamento penitenziario: è un grave vulnus per il nostro Paese, perché la civiltà di un Paese si misura anche dalle sue carceri”. Ne è convinta naturalmente anche Daniela De Robert, numero due dell’ufficio del Garante nazionale dei detenuti, che considera la decisione di Renoldi “un segnale davvero importante”. Per lenire un po’ quel senso di abbandono di cui stanno soffrendo agenti e detenuti. E il pensiero non può che andare alle ultime due assurde morti: “Forse - riflette De Robert - quei due giovani fragili avrebbero avuto bisogno di un’attenzione diversa”. Altri due suicidi in 24 ore: uno a Monza e l’altro a Rimini di Francesco De Felice Il Dubbio, 12 agosto 2022 Il capo del Dap, Carlo Renoldi, e gli altri vertici dell’amministrazione penitenziaria nel giorno di Ferragosto saranno in visita in molti istituti tra i quali l’Ucciadone e il Pagliarelli di Palermo, Poggioreale a Napoli, Santa Maria Capua Vetere e Rebibbia. L’ultimo suicidio, speriamo, è di ieri mattina presto nel carcere di Monza. Il pomeriggio prima un altro detenuto si era tolto la vita a Rimini. Ormai sembra una escalation inarrestabile che interessa tutti gli istituti penitenziari italiani. In Campania se sono registrati tre in soli cinque giorni. L’ultimo martedì a Secondigliano, dove si è impiccato, nella sua cella Dardou Gardon, detenuto algerino di 33 anni condannato per rapina. In Campania, evidenziano i garanti della Campania e di Napoli, Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, è “il terzo suicidio in soli cinque giorni; la morte di martedì a Secondigliano si somma a quelle di un detenuto di Arienzo e di un detenuto di Poggioreale”. I due garanti chiedono che “le parole messe nero su bianco nell’ultima circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per prevenire gli eventi suicidari diventino buone prassi negli istituti di pena” e invitano il Capo del Dipartimento e il ministro della Giustizia “a visitare le carceri del circondario napoletano, Poggioreale in primis, l’Istituto più sovraffollato d’Italia, e a partecipare ad una tavola rotonda con magistrati di sorveglianza, Amministrazione penitenziaria, Garanti regionali e territoriali e Terzo settore”. Sono 51 le persone che si sono tolte la vita da gennaio - Con queste ultime morti è salita a 51 la triste statistica dei suicidi dall’inizio dell’anno, basti pensare che l’anno scorso, nello stesso periodo, erano a 32 e furono 55 alla fine del 2021. Il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti, racconta come da dieci anni a questa parte i suicidi avvenuti tra il mese di gennaio e quello di giugno siano stati un minimo di 19 e un massimo di 27. Solo nel 2010 e nel 2011 si era arrivati rispettivamente con 33 e 34 suicidi. L’associazione Antigone, nel suo ultimo rapporto, aveva lanciato l’allarme: un tasso di sovraffollamento al 112%, troppo caldo, troppi problemi invisibili e irrisolti, come quelli legati allo stato di salute mentale di chi finisce in cella e che oltre a scontare una pena avrebbe diritto a cure sanitarie specifiche, oltre alla violenza e all’esasperazione dietro le sbarre sono una miscela esplosiva. Lo stesso garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, nel corso della sua ultima relazione in Parlamento, aveva descritto la situazione e sollecitato degli interventi. Antigone fa anche il confronto con quanto accade fuori dagli istituti di pena: con 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti, l’Italia è in generale considerato un Paese con un tasso di suicidi basso, uno tra i più bassi a livello europeo. Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, l’Italia si colloca invece al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. A fine 2021, tale tasso era pari a 10,6 suicidi ogni 10.000 persone detenute. Gennarino De Fazio (Uilpa): “L’ultima circolare del Dap non serve quasi a nulla” - Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, la circolare a firma del Capo del Dap, Carlo Renoldi, di pochi giorni fa è “di per sé condivisibile nei principi e negli obiettivi. Crediamo, peraltro, rappresenti il massimo che si potesse fare a livello amministrativo. Tuttavia, a nostro avviso, non serve quasi a nulla per le stesse ragioni già accennate. Da tempo diciamo che la grave emergenza penitenziaria, connotata pure da sovraffollamento detentivo, non è affrontabile, se non marginalmente, per via amministrativa, ma che servono interventi legislativi investendo le risorse necessarie. Sarebbero stati indispensabili un decreto-legge per affrontare le urgenze e, parallelamente, una legge delega per le riforme strutturali. Adesso non rimane che attendere il prossimo esecutivo, sperando che si dimostri all’altezza delle attese, senza sottovalutare che in autunno l’eventuale recrudescenza dei contagi da Covid-19 e possibili tensioni sociali si andrebbero a sommare alle pesantissime criticità preesistenti e potrebbero innescare nuove proteste e disordini generalizzati. Speriamo di sbagliarci”. I vertici del Dap a Ferragosto in visita nelle carceri - Ieri si è fatto sentire anche il capo del Dap, Carlo Renoldi, con una nota del ministero della Giustizia: “L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi: ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare. Per questo, insieme ai miei più stretti collaboratori, al Vice Capo, ai Direttori generali del Dap e ai Provveditori regionali abbiamo avvertito l’esigenza di visitare degli istituti penitenziari anche nel giorno di Ferragosto. Vogliamo portare un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria e ribadire riconoscenza al personale in servizio”. Il capo del Dap lunedì, dopo aver partecipato al tradizionale Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica, visiterà la Casa circondariale femminile e la Casa di reclusione di Roma Rebibbia. Gli altri vertici dell’Amministrazione saranno a Viterbo, Palermo Ucciardone, Genova Marassi, Lecce, Taranto, Palermo Pagliarelli, Terni, Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Modena, Ancona, Pesaro, Aosta, Udine, Oristano e Ariano Irpino. E sempre il 15 agosto il vicepresidente del Csm, David Ermini, e il sindaco di Firenze, Dario Nardella visiteranno il carcere di Sollicciano insieme al Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Senza educatori, assistenti sociali, psicologi e altre professionalità la Circolare anti-suicidi del Dap è inutile di Enrico Sbriglia* Il Dubbio, 12 agosto 2022 Avrei preferito astenermi dal commentare, ma come cittadino, che però è stato anche operatore penitenziario, innanzi la frotta di suicidi di persone detenute che in questa torrida estate, ancor più che in quelle precedenti, sta caratterizzando le nostre carceri in ambito Ue, non riesco a voltare il volto altrove, perché altrimenti mi sentirei pavido, canaglia. Leggo, basito, l’ennesima recente circolare dell’ovvio, afferente il drammatico e antico problema dei suicidi in carcere (eventi, in verità, che non poche volte hanno visto morire gli stessi lavoratori del Dap, colleghe e colleghi...), il quale, proprio per la sua ormai acclarata cronicità, dovrebbe indurre serissime riflessioni sul ‘ sistema’ ibrido dell’esecuzione penale in Italia, soprattutto sulla sua incapacità di convincere e vincere le resistenze ‘ aziendali’ del mondo della Sanità, forse anche perché il primo, in fondo, non appare meritevole di fiducia, perché da anni insolvente su una infinità di questioni come la Cedu ci ricorda, al punto che ormai si è trasformato esso stesso, per la serialità dei non provvedimenti attuati, violando le stesse riforme penitenziarie, in ‘delinquente professionale ad honorem’... È, però, stupefacente osservare come, semmai, gli stessi figuranti del dramma che viviamo da anni vogliano, adesso, tradurlo in commedia. Già tanto tempo fa, allorquando ero un invisibile direttore di un carcere di una città di frontiera, costretto prima di altri a confrontarmi con i fenomeni dell’immigrazione e il suo lucroso mercato, tenuto a governare torme dolenti di esseri umani che fuggivano da guerre interetniche e carestie, e dove la pazzia violenta veniva cancellata con il tratto di penna, sulla falsariga dei manicomi civili che rispondevano, evidentemente, ad altre non meno facili tematiche di disagio, i fautori del passaggio della medicina penitenziaria al sistema sanitario nazionale e delle regioni impiegavano slogan d’effetto e demagogia buona per i salotti, mentre io, con i miei uomini e le mie donne sul fronte carcerario, continuavo purtroppo a vedere soffrire i soggetti psichiatrici, troppi. Contestavo, al riguardo, l’irragionevolezza di non caratterizzare, con risorse specialistiche, proprie e di ruolo, quel personale penitenziario sanitario ormai logorato, che invece si metteva sulla graticola, addebitando a esso il peggio del mondo e il peccato originale. Provavo a spiegare, forse perché ancora memore di ricordi universitari di economia politica, che, come sempre, per tentare di risolvere quelle criticità sociali esplosive, occorreva ‘soltanto’ assicurare un serio conferimento verso il sistema carcerario, e ‘ a regime’, di risorse umane e strumentali. Lo stesso indimenticabile Nicolò Amato, nonostante provenisse da una esperienza di Procuratore della Repubblica, aveva intuito il cuore del problema suicidario, e non a parole, affrontandolo con richieste rivolte al governo dell’epoca a muso duro e con azioni amministrative concrete, anche di ‘ ripopolamento’ del personale penitenziario, nel mentre sosteneva la grande riforma democratica del Corpo della Polizia Penitenziaria. Lui, con le sue fondamentali circolari ed i relativi programmi, aveva perfettamente indicato le ‘linee guida’, anzi, impartito ‘gli ordini’... Insomma, l’Amm.ne delle carceri non nasce oggi e sarebbe da chiedere a tanti, in primo luogo a quanti scrivono sul ‘ sublime penitenziario’ libri di sociologia di raccatto, e che ci abbuffano di chiacchiere, cosa realmente hanno fatto e come si sono posti di traverso negli anni successivi, contestando le decisioni politiche, allorquando si falcidiavano gli organici d’emblée, soprattutto quelli dei Direttori Penitenziari, e non si rafforzavano, “subito’, i ruoli degli educatori, degli assistenti sociali, dei ragionieri, costituendo anche quello degli psicologi, compensati ad ore, come per le donne delle pulizie, e di altre indispensabili professionalità, d’assegnare ad ogni singolo istituto, sottolineo “ad ogni singolo istituto”. Come si può scrivere un ordine, perché le circolari tali sono, senza che si venga avvertiti che, in assenza di risorse, si stia sciupando carta e si rischi di demotivare ulteriormente il personale già stanco? Perché i Sacerdoti del Tempio non mostrano alla ministra, Marta Cartabia e al capo del Dap, Carlo Renoldi, le pressocché uguali disposizioni, seppure con qualche variante semantica, degli anni precedenti, inducendo a ritenere che prima ci fosse il deserto, così rischiando di porli contro il personale che apparentemente tace? Nel frattempo, aggiorniamo l’abaco delle morti annunciate, dove anche un bicchiere d’acqua potabile in un carcere può apparire un miraggio. Sì, ma tanto tra non molto verranno le piogge che trascineranno tutto. *Penitenziarista Forse un Decreto urgente per decongestionare le nostre carceri sarebbe stato più utile della Circolare Dap di Franco Insardà Il Dubbio, 12 agosto 2022 La settimana scorsa il Dap ha annunciato la messa a punto di nuove Linee guida che puntano a rafforzare il carattere permanente delle attività di prevenzione, con una task force multidisciplinari con il compito di monitorare e valutare le situazioni a rischio. Basterà? Il bel volto di Donatella ha scosso le coscienze, così come le parole del magistrato di sorveglianza che, con coraggio, ha accusato il sistema penitenziario per il suicidio della giovane a Verona. Ma dietro quel volto c’è la sofferenza di tanti uomini e donne che quotidianamente lottano nelle carceri per sopravvivere. Molti non ce la fanno e si tolgono la vita. Le statistiche di quest’anno sono impietose e quelle di queste ultime settimane sono drammatiche. Fotografano una situazione che sembra non trovare una via d’uscita. La settimana scorsa il Dap ha annunciato la messa a punto di nuove Linee guida che puntano a rafforzare il carattere permanente delle attività di prevenzione, con una task force multidisciplinari con il compito di monitorare e valutare le situazioni a rischio. Basterà? Dalle pagine di questo giornale quotidianamente seguiamo, segnaliamo, raccogliamo le denunce del Garante nazionale dei detenuti, di quelli regionali e locali, di associazioni, avvocati, famiglie e sindacati della Polizia penitenziaria che chiedono da tempo a gran voce un intervento urgente per evitare questa strage silenziosa, ma non per questo meno tragica. In attesa della riforma del processo penale, nella quale non sono stati recepiti i punti indicati dalla commissione Ruotolo, sollecitano un decreto che preveda misure deflattive e un aumento degli organici. Marta Cartabia, già da presidente della Corte costituzionale, aveva espresso opinioni molto chiare sul sovraffollamento e sul disagio della popolazione carceraria. Posizione ribadita da ministra della Giustizia quando all’inizio dell’anno disse: “Da gennaio il carcere sarà la mia priorità”. Ed ancora in commissione Giustizia, illustrando la riforma precisò: “La certezza della pena non è la certezza del carcere”. E aggiunse che la detenzione in carcere “per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere invocata come extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere”. Concetto riaffermato in un question time alla fine di giugno di quest’anno: “L’attuazione della delega per la riforma del processo penale, ha una parte importante che riguarda la sostituzione delle pene detentivi brevi, dove per brevi si intende fino a 4 anni. Si prevede la sostituzione con semilibertà, detenzione domiciliare, pena pecuniaria. Le pene fino a 4 anni riguardano circa il 30 per cento della popolazione carceraria”. Purtroppo si tratta di un film già visto. Ai tempi della riforma Orlando, quando mancava il via libera ai decreti legislativi per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni si dimise e tutto si vanificò. Il governo Conte uno approvò la riforma snaturandola dei contenuti decisivi. Ma anche con il governo Conte due non ci fu alcun cambiamento. Tutto rimase immutato e la pandemia, fu la scintilla che fece letteralmente scoppiare delle carceri italiane, tanto da provocare delle rivolte senza precedenti con tanto di morti e pestaggi. Come nel più classico gioco dell’oca siamo al punto di partenza: la situazione nelle carceri è esplosiva, si registrano suicidi quasi quotidianamente e si pensa alla riforma, quando basterebbe un decreto: se non è urgenza questa. Chi sono i Giudici di sorveglianza e cosa fanno i veri “eroi” della giustizia italiana di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 agosto 2022 Siamo a cinquanta, otto suicidi nei primi undici giorni di agosto. L’emergenza carcere andrebbe trattata come quella del contagio da Covid, per non trasformare gli istituti di pena, che sono già pattumiere, in lazzaretti, luoghi dove si va solo a morire. Altro che rieducazione! E l’interrogativo è ormai uno stanco ritornello: perché l’Italia, paese di eroi e di santi, non può essere come la Svezia, dove negli scorsi anni molte carceri sono state chiuse per carenza di detenuti? O come la Norvegia, dove l’80% delle pene è alternativo alla privazione della libertà? Ci vorrebbe proprio un grande piano di giustizia sociale che parta dal carcere. Che sappia cogliere le occasioni delle due grandi ondate di calore di questo agosto, quella del meteo e l’altra della politica e delle elezioni anticipate. Che sappia trasformare l’emergenza di questi 49 suicidi in una corsa ai ripari almeno quanto lo fu, all’inizio del 2020, l’allarme per l’epidemia da Covid. Quando, a dispetto di quel che andava dicendo il procuratore Gratteri (“le carceri sono il luogo più sicuro”), ci fu una vera mobilitazione per lo svuotamento di luoghi che sono già patogeni in tempi normali, e figuriamoci con un’epidemia in corso. Ma, mentre nessuno esitava a chiamare “eroi” i medici e tutto il personale sanitario in lotta contro il virus assassino, in pochi si sono accorti di un’altra forma di eroismo, quella dei giudici di sorveglianza. Erano stati loro per primi, e prima ancora che il governo e il procuratore generale si rendessero conto della strage che era già sulle porte delle carceri, a destare scandalo con i loro provvedimenti di alternativa alla prigione. Si, furono “scandalosi”, quei giudici e quei tribunali di sorveglianza. E lo pagarono caro, con dileggi, insulti e richieste di interventi disciplinari nei loro confronti. Tanto che un giorno tre di loro furono costrette a chiedere al Csm una pratica a tutela. Agirono a mani nude, prima ancora che l’ineffabile ministro Bonafede facesse il proprio dovere con i decreti “Cura Italia” e “Ristori”, per mandare a casa almeno tutti coloro che avevano ancora da scontare meno di 18 mesi di pena. Non proprio tutti, a dire il vero, perché quelli del 4 bis ne erano esclusi, proprio come coloro che avessero avuto un procedimento disciplinare, che in genere erano gli stranieri e i poveri. Ma i giudici e i tribunali di sorveglianza avevano tenuto duro sui principi costituzionali. E li avevano applicati a tutti, indistintamente. E poi, seguendo anche la decisione della Consulta che aveva esteso la possibilità di permessi premio anche ai condannati al cosiddetto ergastolo ostativo, avevano interpretato in modo diverso il concetto di “pericolosità sociale”. Senza lasciarsi intimidire dalla forsennata campagna di stampa sulle scarcerazioni facili di boss e delinquenti abituali. Lì era anche saltata la testa del direttore del Dap Francesco Basentini, per la famosa circolare, sollecitata proprio dagli interventi dei giudici, per la concessione di provvedimenti di sospensione della pena per le persone anziane e malate. Il capo del Dap perse il posto, Bonafede fu messo alla gogna e i giudici esposti a processi popolari in cui venivano chiamati con nome e cognome come “amici dei mafiosi”. La Repubblica, peggio ancora del Fatto quotidiano, strillava che tre o quattrocento boss erano in libertà, quando in realtà, tra sospensioni della pena e detenzioni domiciliari, non più di tre usciti dalle mura carcerarie erano detenuti per reati connessi alla mafia. Ma la primavera del diritto e della salute durò poco. Decreti e circolari furono presto ritirati e nell’ottobre i detenuti in carcere erano già passati da 52.800 54.800, duemila in più. Nessuno era scappato, tutti si erano fatti ri-arrestare, docili come agnellini. Ma i problemi sono rimasti. È facile dire “sovraffollamento”, senza domandarsi come nasce. Perché basterebbe sommare quel quarto di detenuti in attesa di giudizio che poi verrà assolta a quell’altro quarto che è fatto di soggetti fragili, cioè tossicodipendenti, anziani, malati (soprattutto psichici), portatori di handicap, per ridurre in modo considerevole l’affollamento. E salvare molte vite. Che senso aveva il carcere per Donatella? Crediamo che i giudici abbiamo fatto tutto il possibile per lei, anche se il dottor Vincenzo Semeraro ha ripetuto con angoscia “So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più”. No, dottor Semeraro, probabilmente lei ha fatto tutto quello che le competeva. Ma Donatella non doveva stare in prigione, proprio come l’anoressico Francesco. Ma che cosa si può fare, adesso? Certo, possiamo continuare a denunciare che ci sono tutte le carenze di personale, in particolare di psicologi e psichiatri, soggetti fondamentali per il trattamento dei detenuti. E mancano 18.000 agenti, come denunciano da tempo i sindacati, e lo hanno ripetuto ancora ieri, dopo i due suicidi a ridosso della circolare del Dap dell’8 agosto. Ma, ironizza Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa polizia penitenziaria, che pure quella circolare condivide nei contenuti, “mentre il medico studia, il paziente muore”. Che cosa fare dunque nell’immediato? Prima di tutto quel che abbiamo già detto e ripetuto, lasciare grande spazio all’affettività, con ampliamento di possibilità di visite e telefonate con i parenti. Poi quel che aveva raccomandato l’ex procuratore generale Salvi ai suoi colleghi pm e gip: meno ricorso alla custodia cautelare in carcere. E poi un appello ai tribunali e ai giudici di sorveglianza: siate ancora “scandalosi”, come ai tempi dell’epidemia. Perché 49 suicidi in poco più di sette mesi sono uno scandalo. Siate voi dunque i primi protagonisti di questo grande piano di giustizia sociale che parta dal carcere. Non possiamo aspettarcelo dalla politica. Soprattutto in questo momento. Un’agenda politica sul carcere nel nome della dignità di Giustino Di Domenico Città Nuova, 12 agosto 2022 Il numero elevato dei suicidi in carcere conferma il quadro preoccupante degli istituti penitenziari riportato nel rapporto di Antigone di fine luglio. I numeri che dettano l’agenda di una riforma necessaria in Italia nel nome della dignità umana. Il suicidio in carcere di Donatella, una giovane donna di 27 anni, ha squarciato in parte il silenzio sulle condizioni degli istituti di reclusione in Italia che resta uno dei problemi irrisolti del nostro Paese. A fare notizia non è solo il numero elevato dei suicidi che avvengono in carcere (47 dall’inizio dell’anno) ma il sincero dispiacere espresso da Vincenzo Semeraro, giudice di sorveglianza di Verona, molto attento e attivo nell’accompagnare e lenire le condizioni di detenzione delle persone in stato di detenzione. Chi opera con coscienza in questi ambiti, separati rigidamente dalla vita ordinaria, è capace di raccontare storie, speranze e drammi che restituiscono un volto a vicende comuni, fatte di errori pagati a caro prezzo nei gangli di istituzioni che necessitano una radicale riforma. Non è un tema che attira voti soprattutto in un clima elettorale pieno di “agende” che parlano di altre priorità. Come ha fatto notare l’associazione Antigone nel suo rapporto di metà anno, la caduta anticipata del governo Draghi “ha portato ad un’interruzione del percorso di riforma che era stato iniziato, anche grazie al lavoro della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario guidata dal professor Marco Ruotolo”. Ad ogni modo proprio l’ultimo report reso noto a fine luglio dall’associazione Antigone, attiva fin dal 1991 “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, permette di individuare alcune emergenze che il nuovo esecutivo non può ignorare. A fine giugno risultavano 54.841 persone recluse esposte ad un tasso di sovraffollamento effettivo del 112%, contro il 92% della media europea, sensibilmente peggiore in Lombardia (148,5%) e con casi abnormi come quello del carcere di Latina che registra il 190% di sovraffollamento. Condizioni insopportabili, sensibilmente peggiorate in questa estate caldissima dove alcuni istituti, come quello di Santa Maria Capua Venere, non hanno l’accesso all’acqua potabile ma garantiscono una dotazione giornaliera di 4 litri a detenuto. “Per combattere il gran caldo - afferma Antigone - il Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria, con una recente circolare, ha autorizzato l’acquisto dei ventilatori nel sopravvitto” ma a spese degli stessi detenuti con evidenti disparità dei più poveri. Il 34,8% dei detenuti è in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti. Tale percentuale, quadi doppia di quella esistente in Europa, è al centro del dibattito sulla riforma della normativa specifica ma il dato che fa più pensare riguarda il fatto che circa 20 mila detenuti devono scontare un residuo di pena inferiore a 3 anni e quindi poterebbero accedere a misure alternative al carcere. Il 29% di coloro che sono in carcere devono ancora avere una condanna definitiva, il 15% sono in attesa del primo giudizio. Sono questi solo alcuni dati indicativi del dossier di 30 pagine redatto da Antigone e dal quale emerge, come al solito, le condizioni disagevoli, perché sotto organico, di agenti di polizia penitenziaria, educatori e addetti all’area amministrativa. “A fronte della media nazionale di 80,5 detenuti per educatore, ci sono casi limite di istituti che presentano un rapporto ancora più sproporzionato: ad esempio, nell’istituto penitenziario di Napoli Poggioreale ci sono 221 detenuti per un educatore, a Sulmona 208 e a Velletri 201”. Allo stesso tempo ci sono anche casi anomali di istituti senza direttori e quelli in cui “il numero degli agenti presenti è più alto di quello dei ristretti”. Il 13% dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave ma l’assistenza è carente sotto questo aspetto con il conseguente abuso di psicofarmaci e l’innalzamento dei casi di suicidio. Colpisce la narrazione di un caso emblematico presente nel rapporto, quello di G.T. “un giovane ragazzo di 21 anni che secondo il Tribunale di Milano in carcere non doveva stare. Detenuto a San Vittore dall’agosto del 2021 per il furto di un cellulare, nel mese di ottobre il giudice aveva disposto il suo trasferimento in Rems (Residenza per le misure di sicurezza) in quanto una perizia psichiatrica dimostrava la sua incompatibilità con il regime carcerario, a causa di un disturbo borderline della personalità. Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, G. T. si è tolto la vita. Nelle settimane precedenti ci aveva già provato altre due volte”. Commentando infine gli ultimi casi di suicidio in carcere, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, chiede che sia allargato il diritto dei detenuti alle telefonate verso l’esterno (attualmente il regolamento prevede una telefonata a settimana per soli dieci minuti). “Una telefonata a una persona vicina, amata può salvare la vita - afferma Gonnella- Una telefonata di questo tipo non può che essere estemporanea; avviene quando la mente è occupata da pensieri tragici, di morte. Oggi sono consentite poche telefonate programmate in orari prestabiliti. Alle donne e agli uomini in carcere non devono essere tagliati i legami, i ponti con l’esterno. È inumano, nonché in netto contrasto con una idea di pena che deve tendere al reinserimento dei condannati”. L’opinione pubblica è giustamente preoccupata dall’impunità esibita dagli esponenti della malavita organizzata e dai casi scandalosi di autori di delitti efferati che escono dal carcere prima del tempo grazie all’assistenza di abili avvocati. Bisogna, allo stesso tempo, tener sempre presente che chi vive condizioni di estrema precarietà e sofferenza in carcere è proprio quella parte di umanità che non ha reti e risorse per potersi difendere efficacemente anche in casi di evidenti ingiustizie accentuate dalle carenze di un sistema penitenziario che offre lo specchio autentico del livello di dignità di un Paese. Dai suicidi alle riforme, un’agenda necessaria per le elezioni di Maurizio Crippa Il Foglio, 12 agosto 2022 Gli ultimi due suicidi in carcere portano da gennaio a oggi a quota 50 un elenco tragico e soprattutto incivile. Pochi giorni fa il Dap ha emanato una circola dal titolo “Prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Il momento più grave è sempre l’estate, ma questa torrida estate di campagna elettorale è peggio delle altre. Anche perché carceri e suicidi non fanno notizia, e non interessano nulla alla politica. La storia di Donatella Hodo, la giovane suicidatasi a Verona per cui il magistrato di sorveglianza ha chiesto scusa, mettendo sotto accusa la logica stessa del sistema di detenzione, ha bucato l’indifferenza, ma non certo per la sua particolarità. È invece tipicità. Ma basterebbe ricordare l’ostilità di molti partiti (populisti/ giustizialisti) ma anche la freddezza di quelli che a parole si definiscono garantisti nei confronti dei pur limitati tentativi di riforma della ministra Cartabia a dimostrare quanto questa emergenza sia fuori agenda. Ma il punto non è solamente quello dei suicidi e delle condizioni degli istituti di pena italiani. Il disinteresse (o l’interesse che tutto rimanda come è) per il mal funzionamento della giustizia a tutti i livelli (la riforma della giustizia tributaria è passata solo ora: in zona Cesarini e a governo dimissionario) è una delle pecche più evidenti e dannose del nostro sistema politico. Non sorprende pertanto che non solo il sistema carcerario (secondo dati aggiornati, un terzo dei detenuti dovrebbe essere trasferito in strutture di cura o di recupero), ma la giustizia in quanto tale siano fuori dai programmi elettorali. Quasi che nella famosa agenda Draghi, la giustizia non fosse invece centrale. Nel programma del centrodestra, un capitolo di poche righe sulla giustizia c’è. Ma è generico e sembra un copia-incolla di istanze di elezioni fa: separazione delle carriere, riforma del Csm, riduzione dei tempi dei processi e la semplificazione delle procedure. Cose che, in qualche caso, le riforme Cartabia hanno realizzato: ma non proprio per lo strenuo impegno del centrodestra. La giustizia, una su cui il Pd cerca di incipriarsi, per nascondere la sua vasta componente giustizialista, non è nemmeno menzionata negli high light che guidano la campagna elettorale dem. La nascita del Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi porterà, con buona probabilità, a una maggiore attenzione, per la sensibilità personale dei leader e perché l’area cui fanno riferimento è invece la più sensibile al tema, assieme ai radicali di +Europa. È quel mondo “lib-dem”, ma anche cattolico, che in questi anni ha provato a resistere e a quelli che il professor Putinati, nell’articolo in questa pagina, chiama “fenomeni di panpenalizzazione”. E ancor peggio, “inutili inasprimenti sanzionatori, demagogicamente orientati a una parte dell’elettorato”. I temi per riempire una necessaria agenda della giustizia sono noti da anni. Sarebbe uno scandalo che nessuno li prendesse sul serio, in vista del 25 settembre. Ferragosto, visite in carcere per i vertici del Dap di Marco Belli gnewsonline.it, 12 agosto 2022 “L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi: ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare. Per questo, insieme ai miei più stretti collaboratori, al Vice Capo, ai Direttori generali del Dap e ai Provveditori regionali abbiamo avvertito l’esigenza di visitare degli istituti penitenziari anche nel giorno di Ferragosto. Vogliamo portare un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria e ribadire riconoscenza al personale in servizio”. Così il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi, che lunedì 15 agosto, dopo aver partecipato al tradizionale Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica, visiterà la Casa circondariale femminile e la Casa di reclusione di Roma Rebibbia. Nell’istituto di Viterbo si recherà il Vice Capo Carmelo Cantone, anche in rappresentanza del Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise. A Palermo Ucciardone e Messina saranno presenti, rispettivamente, i direttori generali dei Detenuti e Trattamento Gianfranco De Gesu e del Personale e Risorse Massimo Parisi; Pietro Buffa, direttore generale della Formazione e provveditore per la Lombardia, sarà invece a Genova Marassi. Il provveditore per la Puglia e la Basilicata Giuseppe Martone sarà nell’istituto penitenziario di Lecce, in quello di Taranto andrà il provveditore per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta Rita Russo. Nella Casa circondariale di Palermo Pagliarelli si recherà il provveditore per la Sicilia Cinzia Calandrino, a Terni il provveditore per la Toscana e l’Umbria Pierpaolo D’andria. Quello per la Campania Lucia Castellano visiterà gli istituti di Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere, mentre per l’Emilia Romagna e le Marche due dirigenti delegati dal Provveditore Gloria Manzelli saranno, rispettivamente, negli istituti di Bologna e Modena e di Ancona e Pesaro. La Casa circondariale di Aosta sarà visitata dal Provveditore del Triveneto Maria Milano Franco D’Aragona, che a sua volta ha delegato un funzionario del Prap a recarsi nell’istituto di Udine; analogamente, il Provveditore per la Sardegna Maurizio Veneziano invierà un suo delegato a visitare l’istituto di Oristano. Infine il Provveditore per la Calabria Liberato Guerriero sarà nella Casa circondariale di Ariano Irpino. Gennaro Migliore: “Una politica che non si occupa dei detenuti non è vera politica” di Simona Musco Il Dubbio, 12 agosto 2022 L’ex sottosegretario alla Giustizia nei governi Renzi e Gentiloni e deputato di Italia Viva, al Dubbio assicura: “Farò di tutto affinché questo tema sia centrale in campagna elettorale”. “Una politica che ignori il tema delle carceri è una politica inconsapevole del proprio ruolo nella società”. Parola di Gennaro Migliore, ex sottosegretario alla Giustizia nei governi Renzi e Gentiloni e deputato di Italia Viva, che al Dubbio assicura: “Farò di tutto affinché questo tema sia centrale in campagna elettorale”. Ad agosto il numero di suicidi in carcere ha già superato quello del 2021. Ma la politica continua ad ignorare il carcere, tema che in campagna elettorale è sempre meglio tenere da parte per evitare di perdere voti... È la storia di sempre. Ci ritroviamo alla fine delle legislature con dei rimpianti rispetto alle modifiche che dovevano essere fatte e che non sono andate a buon fine. La situazione, per detenuti e personale della polizia penitenziaria, oggi è complicata dall’invivibilità di molti istituti penitenziari. Sono preoccupato per quello che succederà nelle prossime settimane: in una visione molto chiusa dell’istituzione carceraria, come quella che propone Fratelli d’Italia, non c’è un’idea razionale su questo mondo. Noi, come espressione della cultura liberale, democratica e di quella che io definisco certamente la migliore cultura garantista, abbiamo un altro approccio, che faremo valere in campagna elettorale: non abbiamo paura di parlare di temi anche difficili, ma che rappresentano il barometro della civiltà di un Paese. Quale potrebbe essere la ricetta per migliorare la situazione? C’è chi propone di costruire più carceri, ma questo, chiaramente, non risolve il problema... Quando si parla di edilizia carceraria, innanzitutto, vorrei parlare dell’adeguamento - e se vogliamo della civilizzazione - dell’esistente. Nonostante gli sforzi, anche importanti in alcuni casi, c’è ancora un’edilizia basata più su intenti speculativi che rieducativi. Abbiamo tutta l’intenzione di rivendicare innanzitutto gli adeguamenti dei metri quadri a disposizione, ma anche, ad esempio, delle condizioni di climatizzazione. Quelli che dicono “buttate le chiavi” dovrebbero andarci un po’ più spesso in carcere, per vedere coi propri occhi le condizioni reali di vita. I detenuti sono costretti a subire una doppia pena. E non dobbiamo dimenticare la polizia penitenziaria. Bisogna valorizzare anche le competenze di chi, in questi anni, ha rappresentato un’innovazione in termini culturali. Ci sono stati brutti episodi, però è cresciuta la consapevolezza all’interno della polizia penitenziaria di essere un corpo che svolge un lavoro centralissimo da un punto di vista democratico. Penso poi che bisognerà andare nella direzione di un utilizzo della pena detentiva davvero come ultima ipotesi. Nel corso di questi anni, però, il carcere è stato visto erroneamente come una soluzione a problemi che, talvolta, sono più di propaganda politica che di reale esigenza securitaria: sia Salvini sia Meloni hanno speculato su questo in tante occasioni. Parliamo dunque di misure alternative... La riduzione del numero delle persone in carcere è l’aspetto più importante, anche perché per molti non è necessario. A ciò si aggiunge il numero impressionante di persone che sono state detenute ingiustamente e per le quali paghiamo fior di milioni di euro di risarcimento. Privare della libertà una persona, però, non può essere monetizzabile ed è un enorme sacrificio dal punto di vista della democrazia di un Paese. Servono investimenti per le misure alternative, ma, soprattutto, un’interpretazione diversa delle norme. La Costituzione è molto chiara in materia e sostiene che la detenzione è una delle pene possibili. L’articolo 27 è tutto rivolto alla costruzione di uno spazio diverso della pena, a cui assegna una finalità rieducativa. I casi di suicidio raccontano anche di un disagio che non viene intercettato, probabilmente perché non ci sono le competenze necessarie per farlo. Come si interviene? Da quando il sistema sanitario è passato dall’amministrazione della Giustizia al sistema ordinario c’è stata più di qualche resistenza a concepire la sanità penitenziaria come un elemento centrale. I suicidi sono delle tragedie incredibili, ma non sono che la punta dell’iceberg di fenomeni di autolesionismo e depressione, che producono anche maggiori rischi per la sicurezza: non credo che in questi casi la condizione detentiva porti ad un più facile reinserimento. Ci sono degli elementi che devono essere considerati anche pragmaticamente come essenziali, anche per coloro i quali hanno più attenzione per il fronte securitario rispetto ai diritti delle persone. Sarebbe utile affidare il Dap a figure estranee alla magistratura, con adeguate competenze in materia? L’amministrazione penitenziaria dovrebbe prevedere un mix di competenze ed è chiaro che quella dei magistrati sia fondamentale su un terreno che è prioritariamente quello della giustizia penale. Considero più produttiva, però, un’esperienza che provenga dal mondo della magistratura di sorveglianza piuttosto che quella di una magistratura inquirente. Il caso di Donatella, la 27enne suicida a Verona, ha risvegliato l’interesse dell’opinione pubblica. Ci sarà uno scossone anche per la politica? Io spero che la nostra campagna elettorale si caratterizzi molto per questi temi, perché vogliamo rappresentare davvero il polo riformatore. Quello del carcere è un test e spero che se ne parli molto, con la consapevolezza che siamo di fronte ad una situazione rispetto alla quale tirarsi indietro è essere anche inconsapevoli del proprio ruolo nella società. “Ma il carcere e la giustizia non erano un’emergenza nazionale? E allora perché la politica tace?” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 agosto 2022 “Il carcere è kryptonite in fase elettorale”. Intervista al presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza: “Al momento la situazione delle nostre carceri è drammatica, le condizioni di vita all’interno sono tra le peggiori d’Europa: stamattina incontreremo il capo del Dap Carlo Renoldi”. L’Unione delle Camere Penali Italiane sta inviando in queste ore a tutti i leader di partito - Calenda, Della Vedova, Fratoianni, Letta, Meloni, Renzi, Salvini, Speranza, Tajani - una lettera in cui sono descritti “i punti irrinunciabili di una profonda, radicale riforma della giustizia penale e dell’Ordinamento Giudiziario, che il Paese non può più oltre attendere”. Nella stessa si chiede “un chiaro e franco confronto tra le forze politiche in competizione”. Insomma la giustizia sia protagonista di questa campagna elettorale. Ne parliamo con il Presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza che stamattina alle 9 incontrerà il capo del Dap Carlo Renoldi. Presidente prima di guardare al futuro, le chiedo un bilancio di quest’ultima legislatura sui temi della giustizia... Fino al Governo Draghi abbiamo vissuto la peggiore stagione giustizialista e populista della storia repubblicana. La Ministra Cartabia ha rappresentato sicuramente una boccata di ossigeno, un ritorno ai valori costituzionali. Tuttavia ha dovuto pagare conti salatissimi ad una mediazione politica imposta da una maggioranza completamente eterogenea. Quindi ereditiamo una riforma che, pur contenendo alcuni aspetti positivi, è lontana dalle esigenze improcrastinabili di una riforma profonda e radicale del processo penale e dell’Ordinamento giudiziario, quali il Paese a nostro avviso reclama. In questa campagna elettorale sembra essere scomparso il tema della giustizia. Invece voi con questa lettera chiedete ai partiti di venire allo scoperto... Tutti dicono che la giustizia, quella penale in particolare, è una emergenza cruciale del Paese, eppure in campagna elettorale si tende a stemperare, se non addirittura a sottacere questo tema. Noi chiediamo che le forze politiche escano allo scoperto e dicano con chiarezza al proprio elettorato quale idea di giustizia abbiano in testa e qual è la loro posizione rispetto ai temi che proponiamo. Il primo punto tra le vostre priorità è la separazione delle carriere, uno dei temi chiusi nei cassetti della politica... La nostra proposta di iniziativa popolare ha definitivamente sdoganato il tema e lo ha posto al centro dell’attenzione politica. Già un anno fa, all’ultimo congresso di Roma, dissi che nella prossima legislatura, quindi quella che verrà dopo il 25 settembre, questa battaglia può essere vinta. Nessuna riforma del processo penale è seriamente immaginabile se non diamo esecuzione al comando costituzionale dell’articolo 111 che un giudice terzo non per sua virtù intellettuale o culturale ma per sua collocazione ordinamentale. Rimettete al centro anche il tema della prescrizione dopo il gran pasticcio dell’improcedibilità... La soluzione adottata dell’improcedibilità in grado di appello è una soluzione che non è stata proposta da nessuna forza politica. Si è arrivata a quella soluzione a seguito della richiesta non negoziabile dei Cinque Stelle per cui doveva rimanere in piedi l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Paradossalmente il risultato ottenuto è anche il peggiore per la stessa logica dei pentastellati, a dimostrazione della qualità di questi signori e il disinteresse per i loro stessi obiettivi. A loro interessa solo ciò che si riesce a comunicare. Il ritorno alla prescrizione del reato potrebbe essere un risultato più a portata di mano, dopo un ridimensionamento del M5S in Parlamento... Sicuramente sì. Continuate a battere il tasto dei magistrati fuori ruolo. Non sarebbe più facile chiedere di aprire all’Avvocatura? No, non è questo il punto. Non si capisce perché un magistrato che ha vinto il concorso debba essere distaccato al Ministero a fare la politica della giustizia, in violazione eclatante della separazione dei poteri. È chiaro che su alcuni ruoli il Guardasigilli deve chiamare necessariamente un magistrato, penso, ad esempio all’Ufficio ispettivo. Ma questo non vuol dire occupare militarmente via Arenula. Lei parla spesso di “manine” che intervengono sui provvedimenti legati alla giustizia. Intende proprio i magistrati dell’ufficio legislativo del ministero? Non lo dico in senso complottistico. È ovvio che i magistrati su alcuni passaggi particolarmente sensibili per la magistratura italiana esprimano quel punto di vista, soprattutto in occasione di interventi ipertecnici. Inappellabilità per il pm delle sentenze di assoluzione. I partiti sarebbero in grado di farsi nemici i magistrati requirenti? Io mi auguro di sì. Questa domanda conferma la giustezza della nostra iniziativa: cari partiti diteci da subito il vostro pensiero. Auspico che la politica abbia raggiunto una piena autonomia dalla magistratura e non debba temere dunque nulla. Chiare indicazioni della Convenzione europea dei diritti dell’omo e del Patto Internazionale sui diritti civili e politici prevedono e garantiscono il diritto del condannato, non certo del pm, ad un secondo giudizio. Inoltre, il mantenimento dell’appello del pm si pone su un piano di insanabile contraddizione con il recepimento nel nostro ordinamento del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Infine vorrei far notare che la stessa Commissione Lattanzi ne aveva proposto l’abolizione. Purtroppo gli interventi riformatori in fieri non hanno inteso recepire tale indicazione. Le riporto due dati: 50 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Inoltre questo Governo non è riuscito a portare a casa nessuna minima riforma sul carcere. Sembra che politicamente non convenga investire sul carcere... Il carcere è kryptonite in fase elettorale. L’intervento riformatore che ci auguriamo venga portato avanti dovrà recuperare il prezioso lavoro svolto dagli Stati generali dell’Esecuzione penale promossi nel 2017, le cui pregnanti risoluzioni non sono state fino ad oggi recepite in specifici provvedimenti legislativi. Al momento la situazione delle nostre carceri è drammatica, le condizioni di vita all’interno sono tra le peggiori d’Europa. A tal proposito stamattina incontreremo il capo del Dap Carlo Renoldi. Voi avete intitolato il prossimo congresso di Pescara “La Giustizia dopo il populismo. Le idee e l’impegno dei penalisti italiani”. Quindi, con meno 5S in Parlamento, è finita la stagione del populismo penale? O ci sono altre forze politiche affette dal virus? Il populismo penale è stato seminato per 30 anni nel Paese, fino a sbocciare nel fenomeno Cinque Stelle. Abbiamo dato quel titolo al nostro congresso perché certamente con i Cinque Stelle al Governo abbiamo vissuto uno dei periodi più bui della nostra storia. Però il giustizialismo, non essendo nato con loro, non si potrà esaurire con la loro riduzione in Parlamento, a seguito delle prossime elezioni. Purtroppo esso è diffuso nelle forme più varie e spesso anche più insidiose all’interno delle forze politiche. Le scorie populiste continueranno ad esserci ed è contro di loro che ci siamo costituiti decenni fa. Ma tra i destinatari della vostra lettera non c’è Giuseppe Conte? Ci piace il dialogo ma non ci piace perdere tempo. I penalisti ai partiti: ecco cinque proposte per la giustizia, diteci sì o no di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 12 agosto 2022 L’Unione Camere Penali nei prossimi giorni invierà ai leader dei partiti alcune proposte per una profonda, radicale riforma della giustizia penale e dell’Ordinamento Giudiziario. I penalisti italiani auspicano che la campagna elettorale possa costituire la decisiva occasione per un chiaro e franco confronto tra le forze politiche in competizione, in modo che gli elettori possano scegliere, anche sulla base di chiare indicazioni, sulle idee di fondo di riforma della Giustizia. L’Unione delle Camere Penali Italiane nei prossimi giorni invierà ai leader dei partiti alcune proposte per una profonda, radicale riforma della giustizia penale e dell’Ordinamento Giudiziario. Si tratta di riforme indispensabili per l’affermazione di una idea liberale e conforme a Costituzione della Giustizia penale, che auspichiamo possano entrare a pieno titolo, in tutto o anche solo in parte, nei concreti impegni programmatici che ciascuna formazione politica sta per assumere con il corpo elettorale. L’elenco sarebbe in realtà assai nutrito, ma in questa fase occorre circoscrivere questa indicazione alle riforme davvero cruciali ed irrinunciabili. Le proposte articolate saranno inviate nei prossimi giorni, ma è utile anticipare sinteticamente cinque punti programmatici: 1. Separazione delle carriere, organi di governo distinti e separati tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, per dare finalmente esecuzione al comando costituzionale della terzietà del giudice con un pm autonomo e indipendente dal potere politico. 2. Separazione dei poteri, no ai magistrati fuori ruolo distaccati presso l’esecutivo, ed in particolare presso il ministero della giustizia, in nome del ripristino del fondamentale principio democratico della separazione tra poteri dello stato. Il Ministero della giustizia viene di fatto controllato o comunque fortemente condizionato dai magistrati che orientano le scelte dell’esecutivo in materia di attività legislativa e amministrativa, con evidente alterazione delle normali dinamiche istituzionali tra i poteri dello Stato. 3. Radicali interventi di riforma contro la durata irragionevole dei processi penali, ed in particolare: drastico potenziamento delle piante organiche dei magistrati e del personale amministrativo negli uffici giudiziari; forte incentivazione dei riti alternativi al dibattimento; recupero dell’istituto della prescrizione dei reati (e non del processo) quale indispensabile rimedio alla incivile gogna del “fine processo mai”. 4. Reintroduzione del divieto di appello del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione, incompatibile del fondamentale principio per il quale la sentenza di condanna è legittima solo se “al di là di ogni ragionevole dubbio”. È necessario ribadire e rafforzare il ruolo dell’appello quale imprescindibile prerogativa a disposizione dell’imputato affinché gli sia garantito il diritto ad ottenere una nuova valutazione, nel merito, della vicenda processuale che ha determinato la sua condanna per scongiurare gli ormai sempre più frequenti casi di errore giudiziario. 5. Rilancio della riforma dell’ordinamento penitenziario del 2017. I principi costituzionali impongono che sia finalmente abbandonata l’idea carcerocentrica della sanzione penale e le ostatività. Il carcere deve essere l’extrema ratio in cui siano garantite condizioni per il recupero del condannato. La custodia cautelare in carcere non può che assumere la dimensione di misura residuale, dovendosene limitare il ricorso solo alle ipotesi di gravi reati e per esigenze di cautela che non possono essere affrontate con altre modalità. *Presidente dell’Unione Camere Penali Csm, con le nuove regole penalizzati i curricula migliori di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 agosto 2022 Introdotti dei “paletti” per stabilizzare i magistrati nei ruoli direttivi: D’Amato: “I più qualificati verranno esclusi dalle più alte funzioni”. La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, recentemente approvata dal Parlamento, è sicuramente destinata a cambiare in profondità le modalità di attribuzione degli incarichi direttivi e semidirettivi da parte del Consiglio superiore della magistratura. Dopo gli scandali degli ultimi anni, l’obiettivo primario della riforma è quello di voltare pagina ed evitare che le nomine possano ancora essere condizionate da logiche di appartenenza “correntizia”. Come più volte ricordato dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, in futuro dovrà essere valorizzato il merito dei magistrati, garantendo trasparenza nelle scelte del Csm. Il Dubbio ha già raccontato nelle scorse settimane le modifiche delle procedure necessarie alla valutazione della professionalità dei magistrati e della previsione di un fascicolo necessario non solo per valutare il magistrato e le sue capacità, ma anche quando lo stesso debba essere assegnato a funzioni di direzione. È degno di nota a tal riguardo il coinvolgimento dell’avvocatura, con la possibilità per i componenti laici dei Consigli giudiziari di partecipare alla discussione finalizzata alla formulazione dei pareri proprio per la valutazione di professionalità dei magistrati. Le modifiche che interessano direttamente le toghe, invece, attengono soprattuto alla disciplina del termine di legittimazione per poter presentare domanda. Una novità che ha reso subito necessario cambiare i bandi concorsuali da parte del Csm, con la riapertura dei termini per la presentazione delle domande. L’effetto delle modifiche introdotte è stato quello di determinare un significativo restringimento della platea dei candidati alle funzioni dirigenziali più significative esistenti nella magistratura e quindi, come sottolineato dal presidente della Commissione per gli incarichi direttivi, il togato Antonio D’Amato, “con il rischio di un depauperamento per la magistratura nel suo complesso”. La legge numero 71 del 2022 ha, infatti, introdotto dei “paletti” finalizzati ad assicurare una tendenziale stabilizzazione dei magistrati cui sia stato conferito un incarico dirigenziale, prevedendo un termine minimo di permanenza nell’ufficio di provenienza. Per poter aspirare all’incarico di procuratore generale o di procuratore generale aggiunto in Cassazione, ad esempio, bisognerà aver già svolto almeno 4 anni nel precedente incarico e garantirne altri 4 prima della pensione. Con queste disposizioni, quindi, non sarebbe potuta essere nominata l’attuale pg di Milano e tanti altri magistrati oggi in posizioni apicali. “La mobilità dei dirigenti si giustifica non solo in un’ottica di salvaguardia della legittima aspirazione del magistrato alla progressione nella carriera ma anche, in un’ottica più complessiva, di salvaguardia della professionalità e delle capacità dei dirigenti degli uffici giudiziari”, ha ricordato D’Amato. In altre parole, l’attitudine direttiva del magistrato è destinata ad arricchirsi notevolmente anche grazie alle pregresse esperienze direttive e semidirettive. Una riprova se ne ha, infatti, nella normativa secondaria del Csm con la quale, nel determinare norme di “autovincolo” per la scelta del dirigente dotato di maggiore attitudine, l’organo di governo autonomo ha inteso valorizzare, tra gli indicatori specifici, proprio quelli che si richiamano alle pregresse esperienze direttive e semidirettive da parte dal candidato ed ai risultati conseguiti nello svolgimento delle predette funzioni. “L’effetto sarà puntualizza D’Amato - quello di precludere, di fatto, l’accesso alle più alte funzioni dirigenziali della magistratura ai candidati che, proprio in virtù dei molteplici incarichi progressivamente assunti nel tempo, in particolare negli ultimi anni della propria esperienza professionale, presentino il profilo curricolare più adeguato, facendo così venire meno, per le funzioni più elevate, l’apporto di quei magistrati i quali, per anzianità e per pregressi incarichi svolti, risultino più adatti e qualificati per le funzioni dirigenziali che si sono rese vacanti”. In occasione dell’approvazione del parere del Csm sulla riforma dell’ordinamento giudiziario era stato presentato sul punto un emendamento, poi non approvato, che intendeva mettere in risalto queste criticità, invitando il legislatore ad adottare una normativa che consentisse, quanto meno in un’ottica intertemporale, di scongiurare tali rischi. In questo allungamento generalizzato, un termine è però diminuito: per accedere alle funzioni di consigliere di Cassazione e di sostituto procuratore saranno richiesti da ora in avanti solo 10 anni, e non più 16, di esercizio effettivo delle funzioni di merito. Campania. La provveditrice del Prap Castellano: “Situazione al limite, serve un’azione collegiale” di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 12 agosto 2022 “Purtroppo, al momento, la situazione della Casa circondariale di Poggioreale e di quella di Santa Maria Capua Vetere è gravissima. Si sta intervenendo e si avranno risultati, ma per migliorare la condizione di queste carceri c’è bisogno di interventi collegiali”. Lucia Castellano, provveditore generale delle carceri campane dallo scorso marzo, si è recata ieri in visita presso l’istituto di Santa Maria Capua Vetere. A Ferragosto - anche per dare un segnale di vicinanza a tutta l’amministrazione carceraria di quell’istituto e agli stessi detenuti - Castellano visiterà la casa circondariale di Poggioreale. Dall’inizio dell’anno 49 detenuti si sono suicidati, numeri mai così alti e che in questi ultimi giorni si stanno aggravando ancora di più. Cosa sta succedendo? Perché così tanti detenuti si tolgono la vita? “Credo sia dovuto ad una fase, quella pandemica e post-pandemica che ha causato traumi che abbiamo vissuto tutti come società, ma che chi è recluso ne soffre maggiormente i colpi psicologici. L’estate, così come il periodo natalizio, sono sempre periodi delicatissimi per chi è in carcere”. È dovuto anche al sovraffollamento dei nostri istituti, non crede? “Le normative anticovid hanno accelerato le uscite dagli istituti penitenziari, in via generale la situazione è migliorata. Il sovraffollamento però colpisce particolarmente alcuni edifici, Poggioreale su tutti che ospita oltre 2200 detenuti. Poggioreale nasce come casa circondariale quindi per detenuti in attesa di giudizio e coloro che hanno condanne inferiori ai cinque anni, ma non sempre si riesce a rispettare questi parametri. È vero che sono aumentate le pene alternative, ma sono parallelamente aumentati anche i detenuti, questo è triste. Bisognerebbe fare di più sulle pene alternative”. La popolazione però insorge quando legge che persone che si sono macchiate di reati sono denunciate a piede libero o non fanno nemmeno un giorno di carcere. Non crede? “È vero, bisogna che anche le pene che si scontano all’esterno degli istituti penitenziari siano delle vere e proprie pene. Ma il carcere non è la soluzione a tutto”. A proposito di sovraffollamento, com’è possibile che uno dei detenuti che si sono suicidati era un paziente anoressico o, in passato, ci siamo occupati di detenuti con gravi obesità. Che senso ha lasciare in carcere persone che difficilmente potrebbero nuocere agli altri? “Tra l’altro i due casi che cita sono entrambe due persone con fine pena al 2024, quindi che avevano una pena residua abbastanza breve. Ma per rispondere a questi drammi serve un intervento collegiale. Quando un detenuto si suicida è un fallimento del nostro lavoro. Non si può pensare però che la soluzione spetti solo all’amministrazione penitenziaria, serve un aiuto della magistratura di sorveglianza, dei servizi sociali”. Se a Poggioreale la situazione è grave com’è invece a Santa Maria Capua Vetere, l’istituto che ha appena visitato? “Sono stata lì dalle 7.30 fino al tardo pomeriggio. La situazione è grave anche lì ma voglio essere ottimista”. Ad esempio per la mancanza d’acqua che affligge quell’istituto? “Siamo quasi alla conclusione dell’iter. Il Comune ha fatto l’allaccio, noi dobbiamo fare il nostro pezzettino di lavori e in autunno dovremmo risolvere definitivamente il problema. Bisognerà mettere bagni e docce nelle celle rispettando una norma che, purtroppo, è prevista dal 2000 e siamo al 2022. Ma la situazione è complessa anche per altri aspetti”. Ad esempio? “Sulla composizione dell’utenza, la maggior parte della popolazione carceraria è nel perimetro della media sicurezza, sono pochi i detenuti che sono in regime di 41 bis o che sono nel perimetro dell’alta sicurezza. Per questo il Dap ha emanato una circolare per fare ordine: il detenuto è giusto che sia nel posto coerente con la sua condizione e la sua storia. E questo è un problema particolarmente avvertito proprio a Santa Maria Capua Vetere. Un detenuto al primo reato, se non gestito correttamente, rischia di sviluppare comportamenti criminogeni peggiori di quando è entrato in regime carcerario: è la più grande sconfitta vista la finalità di recupero che dovrebbe avere la pena”. Se soffrono i detenuti, non da meno gli agenti della polizia penitenziaria sottoposti ad un enorme stress. “I poliziotti penitenziari della Campania sono sottoposti a dura prova perché la popolazione carceraria è più complessa. Ci sono tanti camorristi e bisogna vigilare affinché non entrino nelle celle droga e cellulari. I poliziotti però stanno facendo un grande percorso di rafforzamento della propria identità professionale: per questo è stato previsto l’utilizzo di psicologi e sociologi che sono con loro durante la giornata lavorativa. Serve per non lasciarli soli”. Monza. Un altro suicidio in cella, rivolta dietro le sbarre di Dario Crippa Il Giorno, 12 agosto 2022 Si è impiccato nella sua cella con l’asciugamano, alle 20.30 di mercoledì, alla casa circondariale di via Sanquirico, dove ieri è esplosa la protesta dei detenuti. Un ragazzo di 24 anni di origine tunisina, Siliman Mohamed, dietro le sbarre dal 2018, avrebbe finito di scontare la pena fra due anni: il suo è il terzo suicidio dall’inizio dell’anno nella struttura monzese, alle prese da tempo con problemi di sovraffollamento (600 i detenuti, la metà stranieri, 200 in più della capienza indicata dal Ministero) e mancanza di personale che garantisca un’assistenza. Ieri pomeriggio un’intera sezione dell’Istituto, precisamente la sesta sezione, ha fatto scoppiare una rivolta: i detenuti si sono rifiutati di rientrare e solo dopo tre ore di minacce e un passaggio con la direttrice la situazione tornava alla normalità, mentre nel frattempo scoppiavano disordini anche alla settima e all’ottava sezione. Domenico Benemia, della segreteria regionale della Uilpa polizia penitenziaria, non ha dubbi: “Lo denunciamo da tempo, è il fallimento del sistema carcerario”. Dall’inizio dell’anno, oltre ai due suicidi tra i detenuti (e uno a febbraio aveva dato fuoco al proprio materasso), non si contano le aggressioni verbali, quando non fisiche, contro gli agenti. “Noi agenti siamo preoccupati dal disinteresse verso quello che accade ogni giorno all’interno del carcere. C’è un allarme sociale che non vogliamo venga scaricato esclusivamente sulle spalle della polizia penitenziaria. Quanto accaduto di recente a quella ragazza suicidatasi a 27 anni al carcere di Montorio con le parole di sconforto pronunciate dal giudice di sorveglianza (“Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente”) è una situazione con cui ci troviamo regolarmente a venire a patti”. Per questo “continuiamo a dire che bisogna smetterla con le chiacchiere e dare segno di presenza dello Stato con provvedimenti concreti ed emergenziali che si pongano l’obiettivo di rifondare il modello d’esecuzione penale, e riorganizzare, potenziandolo, il corpo di polizia penitenziaria”. E probabilmente, “più personale permetterebbe maggiori controlli”. Senza dimenticare “la follia di delegare al carcere la gestione di persone affette da patologie psichiatriche, cosa che oltretutto comporta l’assenza di cure adeguate per loro e delle condizioni minime di sicurezza per gli operatori penitenziari. Davanti a queste persone siamo ‘disarmati’, senza protocolli operativi d’intervento viviamo in balìa del primo detenuto che decide di dare in escandescenza”. Sul fronte della polizia penitenziaria, in via Sanquirico sono in servizio 320 agenti. “Con qualche sacrificio possiamo anche dire di non essere sotto organico, ma con una sezione in più da gestire (l’ex detentivo femminile) sarebbe necessario l’arrivo di almeno altri 30 agenti”. Rimini. Tragedia in carcere: detenuto si impicca con lenzuolo giornaledirimini.com Tragedia in carcere dove un detenuto di 37 anni si è tolto la vita. L’uomo, Aziz Rouam, di nazionalità marocchina, si è impiccato con un lenzuolo mentre i suoi due compagni di cella erano usciti per l’ora d’aria. Immediatamente soccorso dagli agenti e rianimato all’interno del carcere stesso, la vittima è stata trasportata d’urgenza all’Ospedale Infermi, dove purtroppo è deceduta. Il 37 enne doveva scontare una condanna definitiva e si trovava nella casa circondariale dei Casetti dal marzo scorso; alle spalle, una lunga lista di piccoli reati. Una settimana fa aveva tentato un gesto autolesionistco che aveva allarmato la direzione del carcere. Era stato chiesto un consulto psicologico e uno specialista aveva incontrato il detenuto. Ma purtroppo tutto si è rivelato vano per far desistere l’uomo dai suoi propositi. Si tratta del quarto suicidio in carcere in Emilia Romagna dall’inizio dell’anno. Commenta Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti: “Il tragico fatto avvenuto a Rimini fa balzare la nostra regione tra quelle in cui si concentra il maggior numero di suicidi in carcere. Siamo assieme a Sicilia, Campania, Lazio e Puglia e questo deve fare riflettere tenuto conto che rispetto a queste regioni abbiamo un numero inferiore di detenuti. A livello nazionale la Lombardia ha il triste primato dei suicidi di detenuti”. E prosegue: “Dopo i precedenti casi avvenuti a Piacenza, Ravenna e Reggio ora questa notizia impone una riflessione sulla gestione delle persone fragili e che si trovavano in grande sorveglianza per avere già manifestato intenzioni suicidarie. E questa riflessione deve riguardare anche l’ambito sanitario e non soltanto quello amministrativo penitenziario”. Verona. Il suicidio di Donatella in carcere. Attacchi al giudice che ha chiesto scusa, lui: “Non mi fermo” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 12 agosto 2022 Il magistrato del Tribunale di Sorveglianza che in una lettera ha scritto di “aver fallito” preso di mira sui social ma viene difeso dai detenuti: “Non cercavo visibilità”. “Troppo comodo chiedere scusa, ma dov’era il giudice quando quella ragazza si poteva ancora salvare?”. “Dirsi dispiaciuto adesso è tutta ipocrisia...”. “Vuole solo lavarsi la coscienza”. Sarcasmo, battute sgradevoli, ma anche offese e insulti: gli immancabili “leoni da tastiera” non risparmiano con i loro attacchi sui social Vincenzo Semeraro, il giudice di Sorveglianza del Tribunale di Verona che ha avuto il coraggio e l’umiltà al tempo stesso di esprimere pubblicamente il proprio sincero mea culpa dopo il gesto estremo di Donatella Hodo, suicida la notte tra l’1 e il 2 agosto inalando del gas dal fornelletto mentre si trovava da sola in cella nel carcere veronese di Montorio. “Come giudice ma soprattutto come uomo, sento di aver fallito perché una ragazza di 27 anni di cui mi occupavo dal 2016, si è tolta la vita in carcere”, ha ammesso il giudice Semeraro, magistrato di lungo corso 63enne originario di Camerino, nel Maceratese. Ha toccato il cuore e scosso le coscienze con una lettera che è stata letta in chiesa durante i funerali di Donatella, sopraffatta dalla sua fragilità dopo anni di lotta per uscire definitivamente dal carcere e dalla dipendenza. Il giudice Semeraro e il suicidio di Donatella: “Potevo fare di più” - “Inutile dire che la sensazione che provo - ha scritto Semeraro - è quella di sgomento e dolore... So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più!”. Donatella andava e tornava dalla cella per piccoli furti legati alla droga, sognava una vita normale e una famiglia con Leonardo, il fidanzato 24enne a cui ha lasciato un’ultima dichiarazione d’amore prima di lasciarsi morire. “Se una persona reclusa in carcere si toglie la vita, significa che l’intero sistema ha fallito. Nel caso di Donatella seguivo il suo caso da sei anni. Quindi, come il sistema, anche il sottoscritto ha fallito”. Il plauso alle parole, alla modestia, al coraggio, all’umiltà del giudice Semeraro è stato unanime. Una condivisione assoluta, eccezione fatta per i soliti haters che il più delle volte si trincerano dietro l’anonimato. I detenuti difendono il magistrato: “È una persona straordinaria” - Ma i primi a difendere l’operato e soprattutto la persona del magistrato che con la sua lettera ha fatto il giro d’Italia squarciando il muro di gomma sui suicidi in carcere, sono proprio i detenuti. Basti leggere la lettera che ha scritto un gruppo di loro dopo aver letto alcuni attacchi sul web: “Il giudice Semeraro è una persona straordinaria, sensibile e molto attenta ai problemi delle persone detenute. Un Magistrato lungimirante come pochi. Fossero tutti così sono certo che avremmo meno suicidi in carcere. Noi gli siamo vicini e capire quanto stia soffrendo in questo momento ci fa sinceramente star male. Leggere certi commenti dispiace veramente perché siamo certi che il dottor Semeraro tutto questo non lo merita”. E ancora: “Informatevi, conoscete, imparate prima di giudicare, altrimenti siete esattamente come quelli che accusate di fare di tutta l’erba un fascio!!”. Un’altra ex reclusa lo difende così: “Vergognosi i commenti per partito preso, senza conoscere la persona e conoscerne l’operato. Quando il giudice Semeraro visita la Casa Circondariale di Verona Montorio ha una parola di speranza con tutte le detenute e dedica tempo a tutte. È l’unico Magistrato della Sorveglianza di Verona che visita periodicamente il carcere. Altri Magistrati dovrebbero avere il coraggio che ha avuto lui e prendere posizione”. Altro intervento a sua difesa: “Abbiamo condiviso gli anni universitari a Camerino. Vincenzo, per tutti Enzo, Semeraro era il più timido, il più preparato, si muoveva come se disturbasse, sempre gentile: gli occhi brillavano di umanità ed intelligenza. La Magistratura ha molti difetti ma nei suoi ranghi ci sono tanti esempi di umanità e di civiltà giuridica”. La risposta: “Mi attaccano sul web? Io vado avanti” - E il diretto interessato come reagisce? “Mi attaccano sul web? Io vado avanti, comunque per mia abitudine non leggo i commenti sui social...In ogni caso - replica il giudice Semeraro - se scrivono che avrei dovuto fare di più, lo penso anche io, è quello che ho scritto. Una cosa sola tengo a chiarire: con quella lettera non cercavo visibilità, è stata una questione di dignità”. E rivela: “Non riesco a togliermi dalla testa l’ultimo colloquio che abbiamo avuto, a giugno. Donatella piangeva, raccontandomi dell’errore fatto comportandosi così in comunità. Si scusava, tentava di giustificarsi. Ripeteva di voler cambiare, di desiderare una vita normale: una casa, un lavoro, una famiglia. Alla fine della nostra chiacchierata si è alzata stringendomi la mano: “Grazie sai...” mi ha detto. E io quelle parole non riesco a scordarmele”. Napoli. Lo sfogo del parroco di Poggioreale don Franco: “Il carcere è socialmente pericoloso” di Francesca Sabella Il Riformista, 12 agosto 2022 “Bisogna che qualcuno si decida ad “arrestare” il carcere perché è socialmente pericoloso. Non mi va di entrare nei meandri dei problemi della detenzione perché ormai sono sempre più convinto che sia la detenzione stessa il vero problema”. Chi parla è un uomo di Dio ed è al fianco degli uomini considerati da tutti ultimi e indegni. È Don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale, carcere nel quale si è tolto la vita un uomo due giorni fa. Con un lenzuolo stretto intorno al collo, inalando il gas che viene fuori dai fornelletti per cucinare, lasciandosi morire semplicemente… Si uccidono così gli uomini e le donne che vivono in cella, gli invisibili. Eppure, la loro anima pesa ventuno grammi, esattamente come la nostra, come quella dei liberi, come i bravi di questa società. Solo che quando muoiono loro, fanno tutti spallucce, che importa tanto era un derelitto, un rifiuto umano, uno che dopotutto stava in carcere. Appunto, accantoniamo il pensiero di ognuno di noi, lasciamo da parte ciò che pensiamo noi liberi di chi vive in cella. Soffermiamoci sul: “Stava in carcere”. Cosa significa? Significa che era sotto la diretta responsabilità dello Stato. Lo Stato dovrebbe essere il garante della vita dei detenuti e soprattutto svolgere la funzione per la quale le carceri sono state pensate: rieducare, non uccidere. L’ultimo che ha deciso di farla finita viveva recluso nel carcere di Secondigliano. Aveva solo 33 anni Dardou Gardon, di origine algerina. Si è impiccato nella solitudine della sua cella, tra l’indifferenza di tutti. Poche ore prima, nel carcere di Poggioreale, un altro detenuto si è tolto la vita: si chiamava Francesco Iovine, aveva 43 anni e soffriva di anoressia. E ancora, Sossio, 50 anni, di Frattamaggiore, ha deciso di togliersi la vita impiccandosi. Lo ha fatto mentre era in carcere ad Arienzo sei giorni fa. Sono cinque i detenuti che si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno in Campania, tre nel giro di pochi giorni ad agosto, 49 in tutta Italia. Una strage silenziosa che trova la sua sintesi più agghiacciante nelle parole del garante cittadino dei detenuti Pietro Ioia: Altro che garanti, siamo diventati becchini. “Dardou Gardon, condannato per rapina, era giunto in Campania nel 2021, nel carcere di Benevento e lì è rimasto sino a mese di maggio, quando l’Amministrazione penitenziaria l’ha trasferito a Secondigliano - spiegano i garanti dei detenuti Pietro Ioia e Samuele Ciambriello - Già nell’Istituto di Benevento aveva tentato due volte di uccidersi perché lontano dalla famiglia, che a suo dire viveva a Marsiglia e non vedeva dal suo ingresso in carcere”. Ma qualcuno si è accorto di lui? Qualcuno gli ha teso una mano? Qualcuno ha capito che prima o poi sarebbe riuscito a stringere così forte il cappio intorno al collo fino a morire? Forse sì, ma nessuno ha fatto niente per impedirlo. In carcere si muore, si muore in carcere di carcere. Ma tutto questo non sembra essere un argomento né della politica né della cosiddetta società civile. Che poi che ci avrà di civile una società che mura viva la gente, non è dato di sapere. Una politica che non si occupa dei diritti civili, della società nel suo insieme, che non si chiede perché e da dove nasce il malessere che porta migliaia di persone dietro le sbarre, è degna di questo nome? “Ogni volta che nelle carceri accadono tragedie come i suicidi si va alla ricerca delle motivazioni e sembra che questi drammi, dopo che hanno fatto notizia per un paio di giorni, svaniscono in attesa del prossimo annuncio di morte per carcere - racconta Don Franco - Ci siamo abituati a fare statistiche dei suicidi nelle carceri, qualcuno si indigna sulle percentuali elevate ma anche l’indignazione passa col tempo che scorre portando via con sé le vittime di cui il “carnefice” cambia nome a ogni suicidio: depressione, attacco di panico, paura di affrontare la vita, problemi psichiatrici regressi e così via. Ma in realtà il colpevole ha sempre e solo un nome: il sistema carcerario, un sistema che è contro l’uomo e che fa male a chi lo subisce per condanna e alla società che è ingannata perché questo sistema non risponde alla giusta domanda di sicurezza di cui i cittadini hanno diritto”. E mentre noi scriviamo, parliamo, urliamo, in un carcere a pochi passi da noi qualcuno vive il suo inferno silenziosamente, invocando e cercando la morte… “Purtroppo i carcerati sono vite di serie B come i migranti, i senza fissa dimora. Anche loro fanno notizia quando muoiono in mare, per il freddo, o come i carcerati per suicidio. Scusatemi la crudezza delle parole - conclude Don Franco - ma fanno notizia e suscitano indignazione allo stesso modo e con la stessa intensità dei cani abbandonati in estate o degli animali negli allevamenti intensivi”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Tensione nel carcere: “Detenuti in rivolta, devastata sezione” di Rossella Grasso Il Riformista, 12 agosto 2022 La scorsa notte nel Carcere di Santa Maria Capua Vertere la tensione sarebbe arrivata alle stelle. A denunciare l’accaduto è Emilio Fattorello, Segretario nazionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) che ha raccontato che “un corposo numero di detenuti ha tentato di aggredire e linciare un altro ristretto, straniero e con problemi psichiatrici, e si sono introdotti nel terzo piano del Reparto Tevere, distruggendo tutto quello che trovavano”. “I detenuti si sono scagliati anche contro i poliziotti penitenziari - continua la nota - lanciando loro contro bottiglie con dentro ghiaccio che, lanciate dalle finestre, hanno lesionato anche la carrozzeria di alcune auto di servizio”. “Nonostante la presenza sul posto dei magistrati, la rivolta è proseguita e le conseguenze sono state devastanti - sottolinea il segretario - Cosa ancora più grave, che il Sappe denuncia da tempo, è l’inadeguatezza organizzativa ed operativa del Comandante di Reparto: pensate che, nonostante le disposizioni dicono che debba essere garantita la presenza in alternanza al direttore, sono assenti entrambi!”. “Ormai si tratta di una sezione inagibile sotto ogni profilo, chiediamo un sopralluogo tecnico da parte del Prap e una visita ispettiva da parte dell’Asl per valutare l’idoneità del terzo piano della Sezione Tevere, sotto il profilo dell’igiene e della sicurezza dei luoghi di lavoro”, spiega Fattorello. Per Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, “i gravi episodi avvenuti nel carcere sammaritano, che non hanno avuto un tragico epilogo grazie all’attenzione ed alla prontezza del personale di Polizia penitenziaria, riporta drammaticamente d’attualità la grave situazione penitenziaria”. Capece ricorda che proprio poche settimane fa “il Sappe aveva dichiarato lo stato di agitazione e la sospensione delle relazioni sindacali con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Ministero della Giustizia per l’assenza di provvedimenti che contrastino le continue violenze in carcere e le aggressioni alle donne e agli uomini in divisa. Riteniamo che la grave situazione in cui versano le carceri italiane imponga un’inversione di marcia da parte del vertice politico e amministrativo del Ministero della Giustizia e più in generale del governo. Il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria poco e nulla hanno fatto per porre soluzione alle troppe problematiche che caratterizzano la quotidianità professionale dei poliziotti penitenziari: ma non si può continuare a tergiversare! Non si perda altro prezioso tempo nel non mettere in atto immediate strategie di contrasto del disagio che vivono gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria è irresponsabile”. Per gli agenti della penitenziaria la situazione nel carcere di Santa Maria è dunque particolarmente difficile. “Ho saputo di questo episodio dalla nota del Sappe. Certo è che d’estate la tensione in carcere sale fisiologicamente - ha detto Emanuela Belcuore, garante dei detenuti di Caserta, raggiunta al telefono dal Riformista - Il carcere di Santa Maria soffre sempre degli atavici problemi legati all’acqua, la discarica a pochi passi, il caldo. Problematiche che d’estate si acuiscono sempre di più. Il Tevere sembra che stia diventando un reparto sempre più caldo. C’è da dire che dal 6 aprile 2020 c’è una grossa difficoltà di gestione da parte delle istituzioni, di comunicazione tra detenuti e agenti. A questo si aggiunge che le attività trattamentali sono sospese per le ferie estive. Faccio appello alle associazioni a cercare di andare il più possibile in carcere. Non abbandoniamo i detenuti”. Teramo. Ferragosto, nelle celle senza dignità. I detenuti chiedono speranza, gli agenti aspettano rinforzi certastampa.it, 12 agosto 2022 È un viaggio di dignità negata per lo spazio di vita ridotto alle dimensioni di un letto a castello, da un lato, ed umanità condivisa, dall’altro, tra detenuti che si autotassano per comprare un congelatore da usare tutti insieme in sezione. Una grande famiglia in una struttura dove d’inverno si muore dal freddo e d’estate manca l’ossigeno. È la sintesi del “Ferragosto in carcere” che i Radicali hanno effettuato oggi nel penitenziario teramano di Castrogno a Teramo. E non a caso il tour dei Radicali nelle carceri d’Italia parte proprio dalla città di Marco Pannella, idolatrato da alcuni detenuti con tanto di foto incorniciata in cella, coccolata come quella che ritrae Maradona nelle celle dei detenuti dell’Alta Sicurezza. Passano gli anni, si ripetono i “Ferragosto in Carcere” (iniziativa ideata proprio da Pannella) ma i numeri non migliorano, anzi. Lo rivela la delegazione capitanata da Ariberto Grifoni e composta da Gabriella Antonacci Luigi Flagelli, Jacopo Di Michele e l’avvocato Tommaso Navarra. A Castrogno non dovrebbero esserci più di 255 detenuti: ce ne sono 423, di cui 381 uomini e 42 donne (ricordiamo che Castrogno ha l’unica sezione femminile d’Abruzzo). 321 i detenuti comuni, 102 nell’Alta sicurezza, 298 sono definitivi, 64 sono in attesa di giudizio, 37 appellanti e 24 ricorrenti. Vivono in celle di due metri: pensate di dovervi fare il caffè e cucinare qualcosa sfiorando il vostro water e il lavandino da cui esce soltanto acqua fredda (per l’acqua calda bisogna attendere di poter fare una doccia). Estate e inverno, nulla cambia. Pensate che - ha riferito la delegazione - d’inverno i detenuti si spostano con le coperte addosso visto che in carcere il riscaldamento funziona due ore al mattino, due il pomeriggio e due la sera. Ma il problema è proprio strutturale di un penitenziario vecchio, progettato con spazi che dovevano soddisfare la capienza massima dei 255 detenuti e invece. Il dato paradossale, più volte denunciato dalle sigle sindacali di categoria, è che nonostante i detenuti siano oltre 400 il numero degli agenti di polizia penitenziaria resta sempre parametrato sulla capienza regolamentare: sono in servizio 168 agenti a fronte di una pianta organica di 216. Anche i presidi medico-sanitari sono parametrati su quella capienza: ci lavorano 22 specialisti. 12 infermieri, 6 medici e 1 medico H24. Sembrano sufficienti e invece non lo sono, tenendo anche conto delle fragilità presenti tra i detenuti, basti pensare ai malati psichiatrici, agli oncologici e i disabili. Già, i disabili. Come può un detenuto costretto su una sedia a rotelle a vivere in una cella così piccola? Gli spazi di socialità, minimi, ci sono. Un tavolo da ping pong, un biliardino vetusto. Finalmente c’è il tappetino sintetico sul campo da calcio ma se la palestra maschile è tornata in funzione, quella femminile è sempre chiusa. E le detenute chiedono di poter avere agenti donne con cui potersi anche confidare, da donna a donna. La detenuta più giovane ha solo 22 anni ed è entrata a Castrogno a inizio agosto. “Il sistema dovrebbe interrogarsi sul perché sia accaduto...” reclama l’avvocato Navarra, evidenziando come sia il momento di fare rete col territorio. Il riferimento, ad esempio, è alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Teramo che potrebbe collaborare ed interagire con il personale del penitenziario per ideare iniziative a sostegno della formazione dei detenuti. Una volta, a Castrogno, c’era lo “scrivano” che si occupava di redigere, per conto dei detenuti analfabeti o di lingua diversa dall’italiano, le richieste, le istanze etc. Ora chi lo fa? E il 45% dei detenuti sono stranieri. “Ci è arrivato un grande ringraziamento da parte dei detenuti verso gli agenti di polizia penitenziaria e ci hanno chiesto di tornare, perché queste visite rappresentano l’unico modo per loro di comunicare con l’esterno e far conoscere le loro condizioni” ha concluso la delegazione dei Radicali entrata in carcere stamane, lanciando un monito alla Politica affinché assuma decisioni contingenti e urgenti sul sistema carcerario che così com’è continuerà ad essere percepito esclusivamente solo come un costo ed un fallimento, quando invece da lì dentro, nelle giuste condizioni e con i più idonei strumenti, si può far scrivere una storia di vita diversa... soprattutto lontana dal crimine, una volta fuori. Catanzaro. In carcere poche educatrici, nessuna speranza di Francesco Iacopino e Dario Gareri* Il Riformista, 12 agosto 2022 Pubblichiamo la prima delle tre puntate di un reportage che racconta la visita nell’istituto di pena calabrese fatta insieme alla Camera penale. “Visitare i carcerati” non è solo un’opera di misericordia, è un viaggio della speranza da infondere nei luoghi dove rischiano di prevalere sfiducia e rassegnazione. In questa estate dei suicidi che tra luglio e agosto hanno raggiunto numeri mai visti, Nessuno tocchi Caino ha fatto visite negli istituti di pena calabresi e pugliesi. Altre visite saranno effettuate nelle prossime settimane. Questa è la prima di tre parti di un reportage dal carcere di Catanzaro che abbiamo visitato insieme alla Camera penale il 18 luglio scorso. Catanzaro è la parte che ben descrive il tutto di una realtà, quella carceraria, che a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire sempre più appare fuori dal tempo e fuori dal mondo. Il nostro viaggio nella “realtà parallela” del carcere inizia in un caldo mattino di luglio. Dopo i controlli di rito, accompagnati dal Direttore e dal Comandante, con Rita, Sergio ed Elisabetta ci accingiamo a visitare le sezioni che compongono l’affollato istituto penitenziario del capoluogo calabrese, intitolato all’Agente reggino Ugo Alberto Caridi. All’ingresso, accanto alla statua della Vergine, è presente una tomba in pietra molto curata, con la foto di Whisky, cagnolino dal pelo fulvo che ha svolto il ruolo di mascotte dell’Istituto, prima di congedarsi dalla vita. Nel tunnel che ci catapulterà nella monotona e soffocante quotidianità dei detenuti, ci concediamo una breve e piacevole sosta in cucina. Saggiamo una gustosissima granita al caffè preparata dal team di cuochi - tutti ristretti - guidato da F.V., ergastolano “ostativo”. Con i suoi “Dolci cReati”, F. cerca ogni giorno di riscattare un passato ingombrante e difficile, che a 19 anni lo ha costretto a caricarsi sulle spalle, troppo presto, il peso di una vita che non aveva scelto e di scelte che non era in grado di rifiutare, né aveva la maturità di affrontare. Dopo circa 30 anni di soggiorno in carcere e un percorso serio e “sudato” di risocializzazione, meriterebbe quel minimo di credito fiduciario che lo Stato è disposto ad accordare a chi porta cicatrici profonde come le sue. Non è l’unico, in sosta a Catanzaro, che ha creduto nella possibilità di un riscatto intramurario. Ma da queste parti, come capiremo più avanti, di permessi premio è vietato parlare. Su oltre 200 detenuti “ostativi” non se ne conta neppure uno, ci diranno mezz’oretta dopo, nella litania delle “lamentele”, i detenuti dell’AS1. Proseguendo il percorso guidato, ci vengono incontro le poche educatrici in organico. Avvertono il bisogno di denunciare la totale paralisi della loro attività e, soprattutto, di trovare qualcuno disposto ad ascoltare il loro disperato grido di aiuto, evidentemente troppo spesso infranto sui muri sordi dell’indifferenza. In fondo, a quanti interessa sul serio la (ri)educazione dei carcerati? Su una popolazione di circa 700 detenuti, in pianta organica si registrano appena 9 educatori. Di fatto, operano in tre. Uno ogni 230. Anche un profano intuisce che in queste condizioni è impossibile progettare un trattamento risocializzante. È già un miracolo se si riescono a evadere le mansioni urgenti e basiche. Sono eroiche. Hanno persino deciso di rinunciare alle ferie per evitare che in una realtà già pesantemente rallentata da una burocrazia esasperante e pletorica, il loro meritato riposo possa rendere ancora più pachidermica la inceppata macchina istituzionale. È fin troppo chiaro che lo Stato, almeno qui, ha rinunciato alla propria opera di reinserimento sociale dei detenuti. Come se il risultato della “partita trattamentale” non producesse effetti fuori dal recinto di giuoco. Un finto risparmio. Che solo una ostinata cecità e una colpevole indifferenza possono calcolare. Se si perde la sfida del “trattamento”, concependo il carcere come discarica sociale, si differisce il “conto” solo al check-out. E si paga due volte. Perché chi è abbandonato alla sua solitudine, ci insegnano la storia e la statistica, quando uscirà, non solo sarà più esposto alla recidiva e, quindi, a commettere nuovi reati (con inevitabile costo individuale e sociale) ma si ripresenterà, con elevata probabilità, al check-in di un nuovo istituto di pena (con ulteriore costo umano ed economico, visto che lo Stato spende 140 euro al giorno a detenuto), alimentando brutalmente il circuito vizioso. Giungiamo, finalmente, all’ultimo piano, e inizia il nostro giro. Siamo al vertice dell’Alta Sicurezza, la cosiddetta AS1, nella sezione del “fine pena mai” dedicata agli ergastolani e ai detenuti ritenuti più pericolosi, dagli ex 41bis ai promotori delle associazioni criminali. Qui non esiste la “pena di morte”, ma si conosce bene il significato della “morte per pena”. Non è possibile sintetizzare le successive 5 ore di intensi colloqui, affrontati attraversando anche la “AS3” e la Media Sicurezza (“MS”), ma alcune disfunzioni sono emerse in modo prorompente. *Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro Viterbo. Ferragosto, visite Dap in carcere. C’è anche Mammagialla viterbonews24.it, 12 agosto 2022 A Ferragosto visite in carcere del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap): tra le strutture interessate c’è anche il carcere di Viterbo. “L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi: ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare. Per questo, insieme ai miei più stretti collaboratori, al vice capo, ai direttori generali del Dap e ai provveditori regionali abbiamo avvertito l’esigenza di visitare degli istituti penitenziari anche nel giorno di Ferragosto. Vogliamo portare un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria e ribadire riconoscenza al personale in servizio”. A parlare il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, che lunedì 15 agosto, dopo aver partecipato al tradizionale Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica, visiterà la Casa circondariale femminile e la Casa di reclusione di Roma Rebibbia. Nell’istituto di Viterbo si recherà il vice capo Carmelo Cantone, anche in rappresentanza del Provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise. Oltre a Mammagialla coinvolte le strutture penitenziarie di Palermo Ucciardone, Messina, Genova Marassi, Lecce, Taranto, Palermo Pagliarelli, Terni, Napoli Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Modena, Ancona, Pesaro, Aosta, Udine, Oristano, Ariano Irpino. Intanto, nei giorni scorsi il garante dei detenuti del Lazio ha diffuso gli ultimi dati relativi al sovraffollamento carcerario. Alla data del 31 luglio nel carcere di Viterbo risultavano presenti 527 detenuti, rispetto a 404 posti effettivamente disponibili, con un tasso di affollamento pari al 130%. Una percentuale superiore a quella italiana (108) e a quella regionale (122). Nel Lazio il tasso di sovraffollamento più alto secondo sempre la rilevazione del Garante, si registra a Latina (189%). A seguire Roma Regina Coeli (163%) e Civitavecchia (144%). “L’aumento della popolazione detenuta nei mesi estivi, quando c’è il massimo utilizzo di permessi premio è indice del rischio che in autunno si arrivi a livelli di sovraffollamento precedenti alla pandemia”, ha detto il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, commentando i dati. “Speriamo che possa esserci una rinnovata attenzione ai problemi del carcere, in queste settimane segnato anche da numerosi casi di morte e di suicidi”, ha concluso Anastasìa, il quale rileva che nel Lazio ci sono stati sei suicidi dall’inizio dell’anno, di cui due in tempi più recenti (a Frosinone e a Rebibbia femminile) e cinque morti per altre cause, di cui gli ultimi due a Viterbo e al reparto penitenziario del Pertini. La madre di Federico Negri: “Aiutate mio figlio incarcerato in India, non è un criminale” di Carlotta Rocci La Repubblica, 12 agosto 2022 Silvana Orsini racconta la storia del figlio, arrestato per non aver pagato 40 euro di tassa per attraversare il confine con il Nepal: “L’ultimo contatto con lui più di un mese fa, mi disse che voleva tornare a casa”. “Una mamma si preoccupa sempre di mille cose. Quando Federico è partito due anni e mezzo fa c’erano i primi focolai Covid in Cina, quello mi angosciava, non l’ipotesi che venisse arrestato per una tassa non pagata, 40 euro, una sciocchezza”. Silvana Orsini è la mamma di Federico Negri, 28 anni, di Pozzolo Formigaro. Il 5 luglio è stato fermato dalla polizia di Solauli nell’Uttar Pradesh, dopo aver superato un ponte che segna il confine tra Nepal e India senza pagare la tassa di soggiorno. Rischia fino a otto anni di carcere per ingresso illegale nel paese. Il giudice, martedì, gli ha negato la libertà su cauzione. Assistita dall’avvocato Claudio Falleti la famiglia lancia un appello alla Farnesina per ottenere la liberazione del ragazzo. Il ministero degli Esteri ha risposto con una nota in cui assicura “massima attenzione” sulla vicenda. Nel piccolo paese dell’Alessandrino dove vivono Silvana, il marito Guido e la sorella Ilaria, consigliera comunale, tutti aspettano il suo ritorno. “Questo deve essere un caso urgente anche per un Governo dimissionario. La Farnesina deve intervenire immediatamente”, è l’appello del sindaco Domenico Miloscio. Quando ha sentito suo figlio l’ultima volta? “Il giorno del suo arresto, credo di averlo chiamato poco prima perché mi ha spiegato che stava lasciando il Nepal, che entrava in India, stava per tornare in Italia. Mi ha detto: mamma, torno a casa ho voglia di tornare da te. Poi, da quel giorno, il silenzio. L’ho cercato più volte ma il telefono era sempre staccato. Poteva succedere, a volte non aveva campo, ma appena poteva richiamava e invece questa volta non lo ha fatto perché non poteva”. Come ha saputo dell’arresto? “Quattro giorni dopo quella telefonata si è presentato a casa il maresciallo dei carabinieri del paese. La prima cosa che mi ha detto è stata che mio figlio stava bene, ma poi mi ha spiegato la situazione. Ci siamo rivolti subito all’avvocato Falleti. Pensavamo che sarebbe stato solo questione di giorni e invece è passato un mese”. Attraversa il ponte senza pagare la tassa in India, italiano rischia 8 anni di prigione Cosa pensa sia successo? “Non so cosa pensare, ma Federico non è un criminale, non merita il carcere. Probabilmente aveva in tasca i soldi per pagare quella tassa e anche la cauzione se glielo avessero concesso. Non so se possa c’entrare la politica tesa tra Nepal e India o addirittura la guerra tra Russia e Ucraina. Ma mio figlio non è un terrorista. Si è sempre mantenuto lavorando all’estero”. Viaggia spesso? “È la sua vita. Ama conoscere posti nuovi. È stato via un anno quattro anni fa. Ha viaggiato in 14 località tra Cambogia, dove vorrebbe trasferirsi, Thailandia e Laos. Ha fatto il baby-sitter, il contadino, il cuoco l’imbianchino. Si guadagna lavorando i soldi per viaggiare. Ogni tanto torna, poi riparte. Conosco la sua voglia di libertà fin da piccolino quando non ne voleva sapere di stare nel box o sul passeggino. Ripenso a quel Federico bambino e muoio a pensare come debba sentirsi in una cella. Chiedo che si faccia tutto il necessario per liberarlo”. Cosa la preoccupa di più in questo momento? “Non sento Federico da un mese. Mi dicono che sta bene, ma vorrei che me lo dicesse lui come quando l’anno scorso ha scoperto di avere la febbre in Nepal e temeva fosse Covid. Sentire la sua voce farebbe meno paura. E mi spaventa la possibilità che questa situazione possa durare mesi, magari incagliarsi in qualche caso diplomatico o addirittura politico. Mio figlio è un ragazzo perbene, deve tornare a casa”. Egitto. Cure mediche negate e torture: da una prigione egiziana il racconto dell’orrore di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2022 Il 30 luglio Ahmed Samir Santawy, lo studente egiziano dell’Università centrale europea di Vienna, è tornato in libertà a seguito di una grazia presidenziale: dopo un anno e mezzo di carcere, uno sciopero della fame di un mese, due processi e altrettante condanne per il solito reato fasullo di “diffusione di notizie false”. Negli ultimi giorni sono emersi dalla prigione di massima sicurezza di Tora, la più famigerata d’Egitto, dettagli su cosa ha rischiato Santawy una decina di giorni prima della scarcerazione e sulle rappresaglie ordinate contro un compagno di prigionia che aveva cercato di aiutarlo. A Tora, a luglio, c’è un nuovo focolaio di Covid-19. Nel reparto di Santawy vengono spruzzate quantità industriali di cloro per disinfettare corridoi e celle. Lo studente di Vienna, che già presenta sintomi di contagio in una cella d’isolamento di due metri per due metri e mezzo, mostra i primi segni di soffocamento. A Tora non esiste una procedura di pronto intervento in caso di emergenze sanitarie. Ne hanno fatto le spese in molti, come Shady Habash, direttore dei video del cantante in esilio Ramy Essam. Shady Habash, Procura egiziana: “Il regista 22enne è morto dopo aver bevuto per sbaglio un sorso di alcol disinfettante” La cella di Santawy viene aperta solo un’ora dopo e il detenuto, non prima di aver avuto una discussione col direttore della prigione al termine della quale sviene, riceve finalmente i soccorsi. Durante quei 60 minuti un prigioniero si prodiga per richiamare l’attenzione e sollecitare le cure mediche. È Ahmed Douma, che sta scontando il nono di 15 anni di carcere cui è stato condannato per reati di opinione. Dopo Alaa Abd el-Fattah è il più famoso prigioniero di coscienza egiziano. Quando Santawy viene portato via, scatta la rappresaglia: Douma viene ammanettato, insultato, aggredito e torturato da uno dei funzionari della prigione, Ahmed Zain, nel suo ufficio. La direzione di Tora, ovviamente, ha rifiutato di aprire un’inchiesta sul diniego di cure mediche a Santawy e sul pestaggio di Douma. *Portavoce di Amnesty International Italia Afghanistan. Ritorno a Herat un anno dopo l’arrivo dei talebani di Francesca Borri La Repubblica, 12 agosto 2022 A un anno dal ritiro americano, nella “Firenze afghana” un tempo tanto amata dagli hippie si cerca di sopravvivere: chi rovista tra i rifiuti, chi si vende un rene. “Ma se hai voglia di una cosa veramente afghana, compra questa”, mi dice il rigattiere, tra elmetti e altri cimeli britannici. E mi passa una Lonely Planet. 1973. L’Hippie Trail. Il viaggio in India degli europei. La Lonely Planet è nata così. Entrando da est, dall’Iran, Herat era la prima tappa. E ancora oggi è tutta luci, colori. Vita. Herat è la meno afghana delle città afghane - è quello che l’Afghanistan sarebbe stato senza le sue mille guerre. E però, il primo bambino che incroci non ha libri, nello zaino, ma plastica. Non sta tornando da scuola. Sta frugando nella spazzatura. Perché la guerra, qui, non è affatto finita. Quando gli americani sono arrivati, nel 2001, era alla fame un afghano su tre. Quando sono andati via, un anno fa, un afghano su due. E ora, con le sanzioni contro i talebani, il 95 percento della popolazione è in povertà. Ora è alla fame un afghano su uno. La guerra ha solo cambiato armi. Pensiamo all’Afghanistan, e pensiamo a un medioevo di violenza e miseria. Ma la via a fianco della Jami Masjid, la Moschea del Venerdì, un capolavoro di architettura che scintilla al sole di blu e verde, racconta un’altra storia. Sono tutti antiquari. E dentro, è tutto afghano. “La nostra rovina sono stati gli stranieri”, dice Riza Habibi, lucidando una teiera. E per stranieri, intende i sovietici: l’invasione del 1979. “L’Afghanistan era magnifico. E soprattutto Herat, una delle oasi più belle della via della Seta. E poi la Firenze del nostro Rinascimento. Herat è sempre stata un crocevia di artisti. E artiste”, dice. Ha intorno argenti, tappeti, perle. E due bottiglie ingiallite: l’Afghanistan è famoso per l’uva. E un tempo, era famoso per il vino. “Gli islamisti vogliono il ritorno alle tradizioni. Alle origini. Ma chi decide quando tutto è iniziato”, dice, mentre il figlio tira fuori un rubab, una specie di liuto, e chiude la porta, e comincia a suonare: ora è proibito. Potrebbe essere arrestato. Nelle vecchie Polaroid, le ragazze sorridono in shorts al bar dell’hotel Behzad. “Era proprio lì”, dice Mahdi Sakhi, 61 anni, indicandomi un semaforo. “Si ballava fino all’alba”, dice, mentre suo figlio, che ha 19 anni, mi guarda curioso: non ha mai incontrato un occidentale che non sia un militare. Ha le stampelle: è saltato su una mina. Quelle inesplose sono circa dieci milioni. Sparse ovunque da una guerra voluta dopo l’11 settembre per trovare Bin Laden. Che alla fine è stato ucciso in Pakistan, però, per un attentato opera di cittadini dell’Arabia Saudita: due Paesi che sono tra i più stretti alleati degli Stati Uniti. La Nato è questa, vista da qui. Per ogni suo caduto c’è un nome, una foto. Un ritaglio di cronaca. Mentre dei morti afghani non è rimasto neppure un numero. Non sono mai stati contati. Il Pardees, invece, l’altro hotel molto frequentato, esiste ancora. Ma adesso, è la municipalità di Herat. E al cancello, sventola la bandiera dei talebani. Nessuno aveva previsto la fuga del presidente Ashraf Ghani. Neppure loro, probabilmente: sono tornati al potere all’improvviso e, a un anno da quel 15 agosto, non sembrano avere le idee chiare. Le scuole femminili, per esempio, sono chiuse. Ma persino Suhail Shaheen, il portavoce, la cui famiglia è a Doha, ha due figlie al liceo. Come sarà il governo? Si avranno elezioni? Un parlamento? Come funzioneranno i tribunali? E l’economia? Per ora si va avanti a decreti. Ed è tutto provvisorio. Il compito di spiegare cosa sia questo Emirato che ha sostituito la Repubblica è stato affidato agli ulema, gli esperti di Islam. Ma quando si sono infine riuniti, a giugno, si sono limitati a dire che l’Afghanistan ha il diritto di vivere in modo afghano. E domandarsi, e domandare, se i talebani siano diversi da vent’anni fa non ha molto senso: l’età media qui è 18,4 anni. “Ma c’è un risultato intanto che riconosciamo tutti: la sicurezza”, dice Gholam Karimi, che vende frutta all’angolo del Pardees. “Per te non è molto, magari. Ma i bambini hanno visto Herat per la prima volta: vivevamo barricati in casa”, dice. E in effetti, colpisce: molti girano con Google Maps. E prima ancora che al castello, ora, o al bazar, o a un altro dei 780 siti con cui Herat è diventata patrimonio Unesco dell’umanità, si scattano un selfie davanti a un’anonima casa in cemento: la casa di Ismail Khan. Uno dei signori della guerra alleati degli americani. Herat era il suo feudo. I talebani l’hanno spedito all’estero. Anche il teatro in cui si andava per Shakespeare è stato demolito. Ma cinque anni fa. “Perché la pressione qui è soprattutto sociale”, mi dice uno degli attori, ora tassista. “Herat è sempre stata una città aperta. Ma oggi tutto l’Afghanistan è più conservatore: e i talebani sono il suo specchio. Non hanno né introdotto né imposto il burqa. Fuori da Kabul, è la norma. E anzi: le donne non stanno in burqa, stanno in casa e basta”, dice. La comunità internazionale ha molto contestato ai talebani l’obbligo di hijab. Gli afghani meno. “O meglio: è stato contestato, sì. Ma perché l’hijab non è un problema. Si occupassero piuttosto dell’economia. Tutte hanno l’hijab”. Sospira. “Magari fosse solo questione di talebani”. Perché più che i talebani, o chiunque altro, contano i mashran. Gli anziani. In realtà, l’hijab non è un obbligo, è una raccomandazione. “Ma è proprio questo. Non capisci mai cosa è consentito e cosa no. Senza regole precise, tutto sta alla discrezionalità di chi ti ferma. E quindi, finisci per autocensurarti”, mi dicono due ventiseienni in nero fino alle caviglie e tacco dodici al Fifty-Fifty, il fast food che serve il migliore hamburger di Herat ? dove un tempo si serviva il migliore Kabuli: riso e carne, il piatto tipico afghano. I ragazzi sono a sinistra, le ragazze a destra. Divisi da un muro. E così il parco vicino. Nelle Polaroid, sono tutti in calesse. Ora si entra non solo separati, ma a giorni alterni. “E tutto questo non è Islam”, dicono. “Qui conosciamo tutti il Corano. Siamo tutti musulmani. Sono i talebani, forse, a non conoscerlo. A confondere i musulmani con i pashtun e i loro usi”. I talebani sono tutti pashtun. Mentre è pashtun solo il 42 percento degli afghani. “E ora, di te, risponde tuo padre. Non tu. Per questo non stiamo tutte in piazza a protestare”, dicono. “Non siamo più nemmeno libere di essere arrestate”. Nessuno, comunque, ha nostalgia degli americani. Né degli italiani. Herat era sotto il nostro controllo. E tra progetti civili e militari, qui abbiamo speso 46 milioni di euro. “Ma guardati intorno”, mi dice Zalmay Safa, il responsabile dei Beni culturali. “Ma una città così, ha bisogno di Ong che scavino pozzi? E poi che importa cosa avete costruito? Parliamo prima di cosa avete distrutto”, dice. Anche perché per un dollaro speso, dice, nove sono stati rubati o sprecati. E legge la lista delle iniziative italiane che ho recuperato online. “La centrale delle ambulanze, sì, è attiva. Il 102. Ma il minareto, no. Non è mai stato restaurato. L’aeroporto non è mai stato ampliato. La ferrovia da qui all’Iran, no. Non c’è. La strada... Ma non è finita. Perché sta nella lista?”, dice. “Non va da nessuna parte”. Per lo sviluppo dell’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno speso 143 miliardi di dollari. Più del Piano Marshall. Ma per cose come nove capre da cachemire per il rilancio del tessile. Costate sei milioni di dollari. E nessuno neppure sa dove siano. Nell’officina Volkswagen in cui si veniva a riparare i furgoncini T1 oggi c’è il banco alimentare di Aseel. Una start-up che vende artigianato afghano in tutto il mondo. Ma ora, la comunità internazionale ha bloccato le riserve della Banca Centrale e così l’intero sistema bancario: e l’intera economia. “Sono ferme anche le Western Union: siamo come in trappola. Anche se nessuno ha votato per i talebani. Anzi. I talebani sono al potere per via degli accordi di Doha del 2020. Voluti dagli americani”, dice Khaled Riaz, 21 anni, uno dei volontari. “E insistete a chiamarla crisi umanitaria”, dice. “Questa crisi è tutta politica”. Cinquant’anni dopo gli hippie, a Herat si viene ancora. Ma per comprarsi un rene. Fuori dal centro la città, via via, si sgretola. Letteralmente. Dalle case in marmo si passa alle case in pietra, e poi a quelle in cemento, e a quelle in mattoni, e a quelle di fango. E poi ai resti delle case di fango. Fino a Shenshayba. In cui più che in Afghanistan, ti senti in un documentario di storia. Un nugolo di bambini scalzi e stracciati ci si affolla intorno, sperando che siano arrivati i talebani: che sia arrivato il pane. Abitano 44 famiglie, qui. E in quaranta si sono già venduti un rene. Per 2.600 dollari. Al Loqman Hakmin, il centro trapianti di Farid Ahmad Ejaz, un medico che si è specializzato a Bari e ancora vorrebbe che l’Europa gli finanziasse un centro oncologico a Kabul, mi prega di chiedere donazioni ai lettori: è stato arrestato per traffico illegale di organi, e rilasciato su cauzione. “Adesso ho dolori ovunque”, mi dice Ali, 19 anni. Quello a cui è andata peggio. “Mi sono venduto la vita”, dice. Non è mai stato più visitato. Per pagarsi le cure, ora, mendica per strada. Di noi stranieri dice solo: “Non volevate che i nostri reni”.