Di troppe speranze deluse in carcere si muore di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 11 agosto 2022 “Fate presto” era stata quasi una preghiera insistente e pressante fatta dal Volontariato alla ministra della Giustizia a proposito delle carceri, e dell’importanza del tempo e dell’attesa aveva parlato anche il Garante nazionale nella sua relazione annuale: eppure, non si è fatto in tempo, appunto, a fare quello che si poteva e si doveva fare, dare cioè dei segnali forti, continui, chiari alle persone detenute, cercando di tradurre le speranze alimentate dalle parole della ministra in misure concrete. Ma qualcuno riesce a immaginare cosa vuol dire vivere in celle anche con un caldo asfissiante, chiusi, senza possibilità di salvezza, arrabbiati con il mondo? Sì arrabbiati, e con ragione, a meno che non pensiamo che sia lecito torturare chi ha sbagliato e sta pagando con la galera. E delusi, soprattutto delusi: perché la fine del governo Draghi ha decretato ancora una volta che il carcere non è mai una priorità, e che nessuno è davvero convinto che le carceri siano lo specchio della società, e che carceri poco umane siano il segno di una società con un deficit sempre più pesante di umanità. Qualcuno, per esempio, ricorda, qualche anno fa, lo “scandalo” che ha coinvolto la ministra Cancellieri e la detenuta Giulia Ligresti (tra l’altro, poi assolta…) quando una telefonata della allora ministra che si interessava delle condizioni della detenuta, amica di famiglia, scatenò scandalizzate reazioni del mondo politico? Noi allora dicemmo che eravamo ben contenti se la ministra vigilava sulle condizioni di detenzione, e accogliemmo con apprezzamento sincero la notizia che il DAP avrebbe istituito un servizio telefonico H24 per i famigliari e gli operatori che volevano segnalare situazioni a rischio. Solo che ci risulta che nulla di tutto questo sia più stato fatto. E ci ritroviamo sempre lì, a contare i morti, che quest’anno sono tanti, sono davvero tanti. L’8 agosto, sulla scia di tutti questi morti, è uscita una circolare, a firma del Capo del DAP, dedicata al drammatico tema dei suicidi nelle carceri, e di come prevenirli. Una circolare minuziosa, attenta, che non lascia intentato nulla per stanare il malessere e intercettare i motivi che possono provocarlo, una circolare che cerca di coinvolgere tutti, dagli operatori penitenziari a quelli sanitari, ai Garanti, ai volontari, ai magistrati, tutto il mondo che ha a che fare con la vita detentiva. Ma… ma… è una circolare che si misura molto con le situazioni a rischio, i segnali di sofferenza, i motivi di un possibile crollo psicologico, e crea infiniti strumenti di controllo e di vigilanza, però si misura poco con le condizioni di vita nelle carceri, e con quello che sta succedendo ora, in questo 2022, e che ci interroga sulle cause di questo aumento dei suicidi e su tutta questa disperazione. Che è, appunto, prima di tutto la PERDITA DELLA SPERANZA, il crollo delle aspettative: il governo, i partiti non sono riusciti a fare neppure uno straccio di liberazione anticipata, che compensasse in qualche modo la doppia sofferenza della pandemia vissuta dentro alle galere. Le Commissioni hanno lavorato, hanno prodotto proposte, tutto poi crollato, tutto inutile, tutto carta straccia. Ci sono però due piccoli elementi nuovi in questo disastro generalizzato dei suicidi nelle nostre galere: il primo è che di fronte al suicidio di una persona detenuta forse per la prima volta qualcuno delle Istituzioni ha avuto il coraggio di chiedere scusa, e di interrogarsi sulle responsabilità, anche sulle sue personali di magistrato di Sorveglianza. Si tratta di Vincenzo Semeraro, il magistrato che si occupava dell’esecuzione della pena di una giovane detenuta, che si è tolta la vita a Verona: “Se in carcere muore una ragazza di ventisette anni come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente”. E poi c’è l’appello di David Maria Riboldi, cappellano nel carcere di Busto Arsizio, semplice nella sua disarmante verità: “Mettete il telefono in ogni cella, come in altri paesi europei”, solo così si potrà salvare qualche vita. Ecco, se vogliamo davvero riuscire nell’impresa disperata di prevenire qualche suicidio, dobbiamo prima di tutto pensare a questo, a dare ad ogni detenuto la possibilità, nei momenti in cui la sofferenza morde di più, di attaccarsi al telefono e chiamare casa. È la stessa richiesta che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha avanzato il 29 luglio, a un incontro con il Capo del DAP, Carlo Renoldi, e il Vice Capo, Carmelo Cantone: e non parlateci per favore di problemi di sicurezza, niente ormai è più controllabile di un telefono. Sosteniamo insieme questa richiesta, chiediamo alla politica di fare almeno questo, parliamo chiaro come ha fatto il magistrato: il sistema sta fallendo, ha fallito con tutte queste morti, cerchiamo davvero di fermarne qualcuna. Per ultimo, ricordiamo che da circa vent’anni Ristretti Orizzonti raccoglie, nel dossier “Morire di carcere”, tutte le storie dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”. Siamo riusciti così a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici” e ridandogli la dignità della loro sofferenza. La sofferenza che arriva al gesto di togliersi la vita è difficilmente prevedibile, ma provare a riaccendere la speranza con misure che riavvicinino le persone detenute ai loro cari è una delle poche strade praticabili. FATELO IN FRETTA, per carità. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizie e direttrice di Ristretti Orizzonti Suicidi in carcere, dalle linee guida di prevenzione all’appello “Mettete i telefoni in cella” di Luca Cereda vita.it, 11 agosto 2022 In carcere ci si suicida 16 volte più che fuori. Tante le variabili del disagio e della sofferenza che hanno determinato un aumento del numero dei suicidi. Uno staff per intercettare i segnali del malessere e l’appello del cappellano del carcere di Busto Arsizio, don Riboldi: “Mettete i telefoni in cella come nel Nord Europa”. Contrastare il dramma dei suicidi in carcere, rafforzando il carattere permanente delle attività di prevenzione. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vara linee guida per un ‘intervento continuo’, attraverso il quale - si legge nella circolare - “il Dipartimento, i Provveditorati regionali e gli Istituti penitenziari siano tutti coinvolti, in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. La circolare, firmata dal capo Dap Carlo Renoldi, è stata trasmessa ai Provveditori e ai direttori degli istituti. L’obiettivo è quello di rinnovare, anche con il coinvolgimento delle Autorità sanitarie locali, gli strumenti di intervento e le modalità per prevenire tale drammatico fenomeno, che in questi mesi sta registrando un sensibile incremento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il provvedimento traccia alcune linee guida - che seguono interventi attuati in passato da parte della Direzione generale dei Detenuti e del Trattamento - individuate in una riunione dedicata al tema della prevenzione dei suicidi alla presenza del Capo Dipartimento Carlo Renoldi, del Vice Carmelo Cantone e alla quale hanno partecipato i Direttori generali del Dap, i Provveditori regionali e numerosi Direttori di istituto. Nella circolare sono definite alcune linee di intervento da implementare in ogni istituto, chiamato altresì a verificare lo stato dei Piani regionali e locali di prevenzione e la loro conformità rispetto al ‘Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti’. Saranno gli staff multidisciplinari - composti da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - a svolgere in ogni istituto l’analisi congiunta delle situazioni a rischio, al fine di individuare dei protocolli operativi in grado di far emergere i cosiddetti ‘eventi sentinella’, quei fatti o quelle specifiche circostanze indicative della condizione di marcato disagio della persona detenuta che - come si legge nella circolare - “possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia Penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti” ed essere rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. Nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico delle persone detenute. Intercettare il disagio, nasce una task force multidisciplinare - Ogni istituto dovrà verificare che lo stato dei Piani regionali e locali di prevenzione sia in linea con il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”. Prevista poi una task force multidisciplinari - composta da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - con il compito di monitorare e valutare le situazioni a rischio. Lo scopo del lavoro di equipe è quello di individuare protocolli operativi utili a far emergere gli “eventi sentinella”. All’attenzione dello staff ci saranno i fatti o delle specifiche circostanze, che possono essere la spia di un marcato disagio delle persone detenute. Segnali che “possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia Penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti” ed essere rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. Nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico dei detenuti. “Una telefonata salva la vita” - E’ l’appello, anzi, di una supplica del cappellano del carcere di Busto Arsizio, in provincia di Varese, don David Maria Riboldi, che si rivolge al ministro della Giustizia, Marta Cartabia e al capo del Dipartimento delle sedi penitenziarie, per chiedere l’uso dei cellulari nelle celle, un tema già trattato nella recente visita del presidente della Cei, il cardinale Matteo Maria Zuppi. “Nelle carceri italiane si sono tolte la vita 47 persone, in questo 2022 - spiega il cappellano - La solitudine, l’abbandono, la disperazione sono le cause. Urgono alla nostra coscienza risposte concrete. Non facili denunce, ma proposte per arginare l’oscurità, che troppo agilmente prende il sopravvento nelle persone recluse. Ministra la supplico: il telefono in cella, senza limiti di orari, era già una delle proposte della commissione Ruotolo, dello scorso dicembre. L’incidenza storica di quanto accade fa piovere su di lei una richiesta, cui certo il suo cuore non sarà sordo. Non passerà un altro Kayròs (un tempo opportuno): se non lei, chi? Se non ora, quando?”. Don David nel video postato sui social racconta di una chiamata ricevuta una sera, alle 22.30, da un recluso conosciuto al carcere di Busto Arsizio e ora detenuto in un penitenziario del Nord Europa: “Don, mi sento giù. Hai voglia di ascoltarmi un po’?”. Da qui l’appello: “Non siamo noi a decidere quando uno ha bisogno di conforto ma i ritmi stabiliti dal nostro ordinamento stabiliscono che uno passa chiamare 10 minuti a settimana, con il post Covid qualcosa di più. Altrove in Europa, forse non in tutti i circuiti di sorveglianza, hanno il telefono nelle celle, possono chiamare e si pagano le loro telefonate. Quando hanno bisogno possono usare quel telefono, quando il loro cuore è sofferente possono ascoltare qualche voce amica cui il personale di sicurezza non può supplire”. Il carcere che uccide: “Un detenuto su tre non dovrebbe essere lì” di Federica Angeli La Repubblica, 11 agosto 2022 Il suicidio della ragazza di 27 anni nella prigione di Montorio è il 49esimo da gennaio: cifre e cause del fallimento. Donatella Hodo, 27 anni, è l’ultima vittima di un sistema carcerario fermo a 46 anni fa. Il suo è il 49esimo suicidio dall’inizio dell’anno. In Italia, secondo i dati ufficiali Oms, si suicidano in media 6,7 persone l’anno ogni 100mila abitanti. Al 10 di agosto, su 54.000 detenuti, 49 si sono tolti la vita: venti volte di più rispetto alla media esterna. Un mese fa è toccato a una trentenne nel braccio femminile di Rebibbia, madre di due bambine, anche lei tossicodipendente con doppia diagnosi, sia psichiatrica che di consumi. Non ha retto, le misure alternative non sono state trovate per lei e si è suicidata in infermeria dove era ricoverata. Ai familiari di Donatella Hodo ha chiesto scusa, con una lettera, il suo magistrato di sorveglianza, Vincenzo Semeraro. “A tutti gli altri chiederà scusa mai qualcuno?”, si domanda Nicola Boscoletto della Cooperativa Giotto di Padova, una delle più impegnate per il reinserimento dei detenuti. I detenuti da trasferire - Più che le parole sono i numeri a spiegare la disumanità del sistema carcerario che sembra non avere più la sua missione iniziale ovvero, secondo un vecchio motto degli agenti di custodia del 1948, “vigilando redimere”. “A fronte dei 54mila detenuti oggi in Italia - dice Boscoletto - almeno un terzo, 18mila, avrebbe bisogno di essere trasferito in centri di recupero per tossicodipendenti o in centri psichiatrici”. E invece sono chiusi nelle celle in attesa che la loro pena scenda sotto i quattro anni. Già, funziona così. “La valutazione si basa sulla pena e sulla condotta, non sulla necessità - spiega Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma - Devi avere una pena al di sotto dei 4 anni per andare in comunità terapeutica, ed è molto raro che ciò avvenga. È un regolamento fortemente penalizzante”. Le recidive - E via con altri numeri. “Sa quante sono oggi le persone detenute che si trovano in carcere con una pena inflitta di un anno? - dichiara ancora Boscoletto - Sono 1.344. E sa quante sono quelle con una pena residua da scontare di un anno? 7.067. Il carcere è diventato una discarica indifferenziata. La recidiva reale è al 90%: chi esce delinque più di prima. In termini di costi indiretti (i soli costi diretti sono 4 miliardi) non sappiamo quanti miliardi si spendono, cifre astronomiche”. La detenzione femminile - Quanto alla detenzione femminile, anch’essa in questi giorni al centro del dibattito dopo la morte della ventisettenne a Verona, “constatiamo che l’ordinamento penitenziario - a parlare ora è Stramaccioni - risale al 1975 quando le strutture erano pensate principalmente per uomini. La detenzione femminile è il 4 per cento del totale però ci sono delle differenze: ci sono carceri solo femminili tipo Rebibbia che è il più grande d’Europa e ha una presenza media di 350 donne, e carceri misti. Molte donne che hanno commesso reati vengono da situazioni di violenza e complicatissime dal punto di vista psicologico”. I magistrati di sorveglianza - E qui la differenza la fa il magistrato di sorveglianza. Ma la verità è che ci sono un educatore e un magistrato ogni 200 detenuti, alcuni attendono 6-7 mesi per un colloquio. Quanto ai direttori di carceri ne mancano 200 su 500 totali: il concorso è stato fatto da poco e non prima della fine del 2023 entreranno in servizio. “Purtroppo i numeri sono tali per cui i detenuti diventano dei fantasmi, non ci si rende conto delle loro individualità e delle loro differenze, accade quando sono troppi e i direttori troppo pochi - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - Durante l’estate, quando il personale è in ferie, la situazione è ancora più drammatica. La verità è che il tema carcere non va trattato quando c’è un’emergenza, così come non bisogna avere paura a parlarne in campagna elettorale”. Meglio una telefonata che una manciata di voti incattiviti di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 11 agosto 2022 La campagna. Dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 48 persone. Quasi una ogni mille persone recluse. Se si fossero ammazzate dall’inizio dell’anno 60 mila italiani liberi, ovvero la stessa proporzione dei detenuti suicidati rispetto al totale della popolazione reclusa, avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione. Mio figlio si è tolto la vita”. “Mio padre si è ammazzato”. “Mia sorella si è suicidata”. Mio marito, mia moglie, mio cugino, la mia amica sono morti in carcere. “Era in galera da pochi mesi”. “Era disperata, sola”. “Stava male, aveva già tentato di ammazzarsi varie volte”. “Era all’inizio della pena”. “Avrebbe dovuto essere liberato”. “Era dentro per un avere rubato una pecora”. Ogni volta che sulla posta elettronica di Antigone o nei nostri telefoni arrivano mail o chiamate di questo tenore, ci si spezza il cuore. Chi, tra amici e familiari, resta in vita è basito, distrutto, vuole sapere quello che è accaduto. Quella del suicidio è una notizia che arriva, non di rado, a distanza di troppo tempo dall’ultima visita, dall’ultima telefonata. Una notizia che non si vorrebbe mai avere. Dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 48 persone. Quasi una ogni mille persone recluse. Se si fossero ammazzate dall’inizio dell’anno 60 mila italiani liberi, ovvero la stessa proporzione dei detenuti suicidati rispetto al totale della popolazione reclusa, avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione, anche di fronte a un governo dimissionario, anche con le elezioni alle porte e con l’obbligo di non uscire dal confine degli affari correnti. D’altronde, le emergenze ben possono essere ricondotte nei limiti di ciò che è affare corrente di cui occuparsi. È una questione etica, oltre che politica. Ha fatto bene il Dap a ricordare allo staff penitenziario tutto ciò che deve essere fatto per prevenire un atto suicidario in termini di attenzione, presa in carico multidisciplinare e sorveglianza. Siamo ad agosto, fa caldo, il personale è in ferie, le attività di formazione e intrattenimento sono sospese, la scuola è chiusa. I rapporti con l’esterno si rarefanno drammaticamente nei mesi estivi. Alla solitudine della prigione si accompagna una sensazione di abbandono, di isolamento dal mondo. Se questa è la condizione diffusa in agosto nelle carceri italiane, non c’è motivo perché si impedisca al detenuto di avere contatti personali telefonici quotidiani con i propri cari. Il nostro Regolamento penitenziario, che ricordo non è una legge, ma un atto amministrativo del governo avente fonte normativa secondaria, concede una telefonata a settimana per soli dieci minuti tendenzialmente solo ai familiari e non agli amici, e questo ha dell’incredibile. In qualche caso negli istituti sono autorizzate telefonate straordinarie da direttori disponibili. Bisogna intervenire su questa norma, adesso, subito. Una telefonata a una persona vicina, amata può salvare la vita. Una telefonata di questo tipo non può che essere estemporanea; avviene quando la mente è occupata da pensieri tragici, di morte. Oggi sono consentite poche telefonate programmate in orari prestabiliti. Alle donne e agli uomini in carcere non devono essere tagliati i legami, i ponti con l’esterno. È inumano, nonché in netto contrasto con una idea di pena che deve tendere al reinserimento dei condannati. Vanno messi i telefoni in cella dando a disposizione ai detenuti quattro/cinque numeri da comporre, con tutte le verifiche del caso. La Francia lo ha previsto nel 2018. Va data la possibilità di chiamare giornalmente le persone selezionate. Un’unica eccezione potrebbe riguardare quei detenuti per i quali sono previste precauzioni legate al reato commesso. È inutilmente vessatorio negare al detenuto la possibilità di chiamare un amico o un parente quando ne sente il bisogno (anche solo per sentire la sua voce, per chiedergli scusa, per farsi convincere a non impiccarsi alle sbarre con le lenzuola). È una forma crudele di etero-controllo delle emozioni e dei sentimenti. È qualcosa di anacronistico che rende i detenuti ancora più soli e ancora più disperati. Il governo avrebbe dovuto approvare quanto suggerito dalla Commissione per l’innovazione penitenziaria presieduta dal prof. Marco Ruotolo. Non lo ha ancora fatto. Dia un segnale, adesso, in una direzione che si chiama “dignità umana”. Tutti quelli che dicono di rispettare la vita, anche tra i futuri governanti, non si oppongano per racimolare una manciata di voti di persone incattivite. *Presidente Associazione Antigone Un suicidio ogni cinque giorni, quando carcere vuol dire disperazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 agosto 2022 Il numero di detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno sale drammaticamente a 48, soprattutto giovani. Mai così tanti. “A 24 ore dalla circolare per la “prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”, emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) lo scorso 8 agosto, si sono consumati altri due suicidi di ristretti, a distanza di poche ore l’uno dall’altro, rispettivamente, a Napoli Poggioreale e a Napoli Secondigliano. Il numero, altissimo, di coloro che hanno deciso di farla finita fra le sbarre dall’inizio dell’anno sale dunque a 49 (48 in realtà, secondo i dati ufficiali segnalati in procura, ndr). Mai come in questa circostanza l’adagio popolare per il quale mentre il medico studia il malato, in questo caso il detenuto, muore ci sembra azzeccato. E con il detenuto muore anche, un po’ alla volta, la Costituzione repubblicana, attentata da una politica inetta e ipocrita che non sa, non riesce o non vuole trovare una soluzione credibile per sollevare le sorti dell’esecuzione penale e, particolarmente, delle carceri”. L’appello accorato è di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria. L’ultimo detenuto suicida in ordine di tempo è Dardou Gardon, algerino di 33 anni, che si è impiccato nella sua cella di Secondigliano, istituto dove era arrivato un anno fa proveniente da Benevento. Lì aveva provato già due volte a togliersi la vita. Tanti, troppi, prima di lui. Quando la mattina del 4 agosto Donatela Hodo è stata ritrovata morta nella sua cella della casa circondariale di Montorio (Verona) con a fianco una bomboletta di gas, sulle prime si era pensato ad un incidente, uno dei tanti che avvengono nelle carceri quando la disperazione prende il sopravvento e il bisogno di “sballarsi” si trasforma in tragedia. Se non avessero trovato il bigliettino che Donatela, albanese di 26 anni, fragile e tossicodipendente, un passato di furti e piccole rapine, un futuro molto prossimo - appena qualche settimana - in una comunità per disintossicarsi, ha lasciato al suo amore, la sua morte non sarebbe neppure stata calcolata tra i suicidi. “Leo, amore mio, sei la cosa più bella che mi poteva accadere” ma “ho paura di tutto, di perderti, e non lo sopporterei”, ha scritto prima di morire con una calligrafia chiara su un fogliettino di carta. Francesco Iovine invece aveva 43 anni e un corpo che era arrivato a pesare un chilo per ogni anno di vita vissuta. Anoressico, con problemi psicologici gravi, detenuto per piccoli reati (fine pena 2024), si è suicidato nel reparto sanitario di Poggioreale. “Domenica pomeriggio (7 agosto, ndr), mentre soccorrevano Francesco, dal carcere hanno chiamato il 118: l’autoambulanza è arrivata dopo 40 minuti”, racconta il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Quel giorno “a Poggioreale per più di 2000 persone era presente un solo psichiatra”. A giugno Giacomo Trimarco, 21 anni, dopo due tentativi è riuscito a suicidarsi nel carcere milanese di San Vittore. Avrebbe dovuto essere curato, era in attesa di trasferimento in una Rems (le strutture sanitarie psichiatriche per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Pochi giorni prima nello stesso istituto era stata la volta di Abou El Maati, un giovane di 24 anni, cittadino italiano di famiglia egiziana. Sono solo alcuni dei 48 (o 49, dipende da come viene conteggiata la morte di Desiad Ahmeti, 28 anni, nel carcere di Salerno: il primo dell’anno in corso, o l’ultimo del 2021) detenuti morti suicida in 222 giorni: più di uno ogni cinque giorni, la maggior parte stranieri, tre le donne. “Numeri così alti non si sono mai registrati, neanche negli anni del grande sovraffollamento che portò alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo”, rileva l’associazione Antigone. In carcere, quest’anno, le persone si sono uccise 16 volte in più rispetto a quanto accade nel mondo libero, l’anno scorso erano 11 volte in più. Rinchiusi nelle celle degli istituti penitenziari italiani a fine luglio, c’erano 54.979 persone su poco più di 50 mila posti disponibili. “Nello stesso periodo dello scorso anno, i suicidi furono 34”, riferisce il Garante nazionale Mauro Palma. E ad uccidersi in carcere non sono solo i detenuti: tre agenti penitenziari dall’inizio dell’anno sono morti così. L’ultimo tentativo risale al 4 agosto, ad Augusta, dove un uomo di 52 anni, originario di Noto e residente a Siracusa, si è sparato con l’arma di ordinanza rischiando di lasciare orfani i suoi due figli. La sofferenza dei detenuti si riverbera su tutta la comunità carceraria. Tra i reclusi, “la fascia d’età in cui si sono registrati la maggior parte di questi atti - scrive ancora Antigone - è quella tra i 20 e i 30 anni. Persone giovanissime, quindi, con tutta la vita davanti a loro. Molti tra quelli che si sono suicidati erano poi appena entrati in carcere o prossimi all’uscita. Se si guarda agli istituti dove nel 2022 si sono consumati più suicidi (Roma Regina Coeli, Foggia, Milano San Vittore, Palermo Ucciardone, Monza, Napoli, Genova Marassi e Pavia), i problemi sono sempre gli stessi: cronico sovraffollamento, elevata percentuale di detenuti stranieri, di tossicodipendenti e di detenuti affetti da patologie psichiatriche, ed una carenza di personale specializzato per farsi carico di queste criticità”. Secondo Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, “oltre il 60% dei suicidi in carcere ha come vittime tossicodipendenti o detenuti con problemi psichici”. Una “strage di Stato”, la chiama Di Giacomo. Il Ministero della Giustizia non ha abbastanza dati (o non li pubblica) riguardo le morti in carcere. Sopperisce a questa mancanza il lavoro prezioso della redazione di Ristretti orizzonti che da 25 anni produce una rivista dalla casa di reclusione di Padova e un data base dettagliato per dare corpo (volti e storie) a quel numero secco e anonimo (senza nomi, date né luoghi) divulgato a fine anno dal Dap come dato dei morti e dei suicidi dietro le sbarre. “Molte di queste tragedie sfuggono al conteggio del ministero - spiegano dalla redazione di Ristretti - quando per esempio il detenuto suicida spira in ospedale, oppure quando, se si usano bombolette del gas, viene derubricato ad incidente”. Appena qualche giorno fa però Carlo Renoldi, capo del Dap da pochi mesi, ha finalmente divulgato una circolare per prevenire i suicidi. “È una circolare minuziosamente attenta a cercare un metodo per intercettare le persone a rischio - commenta Ornella Favero, direttrice di Ristretti orizzonti - Bene, ma bisogna capire perché sta succedendo proprio adesso”. Già, perché? “Si era aperta una stagione di grande speranza, dopo la tortura del lockdown da Covid - spiega - È stato un periodo davvero terribile, quello: l’isolamento estremo, la chiusura di tutte le attività interne al carcere, il divieto di vedere i familiari… E poi rivedere i figli dopo mesi e solo dietro a un vetro divisorio. Ci avevano sperato davvero, di poter avere qualche giorno di liberazione anticipata a parziale compenso di ogni giorno passato in quel modo. Ma la politica non è riuscita a fare neppure questo, la delusione è stata forte. E ora, caduto il governo, è rimasta solo la disperazione. In più in questo periodo le carceri sono un’indecenza: ci sono 40 gradi nelle celle ed è impossibile pure tenere i blindati aperti per fare un po’ di corrente. I numeri sono enormi, il personale carente”. C’è solo una cosa che un po’ scalda il cuore di Ornella Favero: “Trovo eccezionale la lettera del magistrato di sorveglianza di Verona che dopo il suicidio di Donatela si interroga e ammette di non aver fatto abbastanza”. La lettera in cui Vincenzo Semeraro, che seguiva Donatela da tanti anni scrive: “So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più! Io le volevo bene davvero. Anche noi magistrati a volte ci leghiamo di più ad alcune persone che ad altre. Non sono riuscito a fare quello che volevo ma mi impegnerò a non sbagliare ancora”. “È un esempio - dice sottovoce Favero - che dovrebbero seguire tutte le istituzioni”. La rabbia dei penalisti per le morti in carcere: che state facendo?! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 11 agosto 2022 Non si devono scaricare le responsabilità su chi è arrivato da poco al vertice del Dap. Renoldi ha anche emanato una Circolare, un gesto di buona volontà che però cozza con le condizioni disperate delle nostre celle. La Circolare si chiama “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, e già questo è singolare. Vuol dire che prima dell’arrivo del dottor Renoldi questi indirizzi non esistevano? Due giorni fa si sono svolti i funerali di Donatella, ventisette anni, suicida nel carcere di Montorio Verona, detenuta per reati legati a piccole cessioni di sostanze psicotrope. Una persona che non avrebbe dovuto stare rinchiusa. Ce ne sono tanti, e alcuni di loro non ce la fanno più, in questa estate del caldo e di una campagna elettorale da cui è esclusa la giustizia, e figuriamoci il carcere. Raccontata in numeri, Donatella era uno dei 47 che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno nelle prigioni italiane, uno dei cinque dei primi sette giorni di agosto. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è intervenuto finora solo con un’operazione di tipo progettuale e preventivo. Ma nessun provvedimento “salvavita”, cioè quello che servirebbe da subito per spezzare l’angoscia, la solitudine e i tanti problemi materiali quotidiani che producono l’insopportabilità del “malvivere” da prigionieri. Il capo del Dap Carlo Renoldi ha emanato una circolare, indirizzata a tutti i provveditori regionali e ai direttori degli istituti di pena. Un gesto di buona volontà, un progetto per il futuro. Che cozza però da subito, come è stato fatto notare da qualche operatore, con le criticità croniche delle carceri. Il problema del personale, sempre insufficiente, prima di tutto, e anche quella chimera dei corsi di specializzazione professionale di cui si parla molto nei convegni. E che poi rimangono lettera morta. La circolare si chiama “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, e già questo è singolare. Vuol dire che prima dell’arrivo del dottor Renoldi questi indirizzi non esistevano? Il documento si rivolge allo staff multidisciplinare composto in ogni istituto dal direttore, il comandante degli agenti di polizia penitenziaria, oltre al medico, l’educatore e lo psicologo. Sono questi i soggetti incaricati di esplorare le situazioni a rischio, quelli in grado di far emergere gli “eventi sentinella” del disagio per poi costruire le pratiche operative della prevenzione in ogni situazione. Cioè si spiega agli operatori non tanto quello che dovrebbero fare d’ora in avanti per capire e quindi lanciare il segnale di allarme, ma quello che avrebbero già dovuto fare. L’ovvio, insomma. E infatti insorgono gli avvocati delle Camere penali e anche l’Ordine degli psicologi, cioè tutti quei soggetti che conoscono, al contrario dei magistrati, che cosa significhi per una persona, qualunque sia stata la sua vita fino al giorno precedente, l’ingresso e poi la vita in un carcere. È indirizzata al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi e al suo vice Carmelo Cantone e firmata dal Presidente Giandomenico Caiazza e dai responsabili dell’osservatorio carceri, gli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro, la lettera con cui l’Unione delle Camere penali chiede un incontro urgente per “essere messa a conoscenza della modalità con cui viene affrontata questa emergenza, che sta rendendo ancor più la detenzione in Italia contraria alle più elementari regole della vita in un Paese civile”. Gli avvocati penalisti chiedono e si chiedono anche in che cosa consisterebbe, concretamente, questo approccio multidisciplinare al grave problema, a questo allarme drammatico. Il che ci fa tornare al punto di partenza. Tutti i dirigenti del Dap che hanno preceduto quelli di nomina recentissima, come hanno affrontato la situazione, visto che non è proprio una novità il fatto che la detenzione produca morte e autolesionismo? Per non parlare delle gravi patologie psichiatriche che hanno ormai raggiunto il 13% dell’intera popolazione carceraria, il che significa parlare di 7.000 detenuti che stanno male, anzi malissimo. Che non dovrebbero essere lì dove sono stati rinchiusi, che sono già di per sé delle “sentinelle” del disagio, e lo gridano a voce alta, prima ancora che di loro si accorga qualunque staff multidisciplinare. Dalle colonne di Avvenire, uno dei pochissimi quotidiani (insieme al Riformista e al Dubbio) che mostra sensibilità nei confronti di chi soffre, e particolarmente di chi è privato della libertà, si sente anche la voce del dottor David Lazzari, Presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, che ci informa del fatto che “i presidi sanitari nelle carceri sono sguarniti di professionisti della salute mentale”. Il che va a sommarsi alla cronica carenza di personale di ogni tipo, mentre la dirigenza del Dap esorta i provveditori a dare particolare attenzione alla formazione specifica di quegli operatori che proprio non ci sono. Non vogliamo infierire, sono questioni antiche e non sarebbe giusto scaricarne le responsabilità su chi è arrivato da poco al vertice del Dap. Ma siamo concreti. E lo diciamo anche ai giudici. Ma è possibile che a nessuno venga in mente che concedere qualche telefonata in più, qualche contatto supplementare a quelli canonici con la famiglia, un po’ di umanità, insomma, per fare qualche passo in avanti e magari salare qualche vita? Tirate fuori il naso dalle scartoffie, per favore. Per la salute mentale di tutti. “L’elemento umano non è più centrale. Il sistema-carcere sta solo mantenendo se stesso” di Federica Angeli La Repubblica, 11 agosto 2022 Il dramma dei 54mila detenuti e l’indifferenza dello Stato. Intervista a Nicola Boscoletto della Cooperativa Giotto di Padova Il magistrato di sorveglianza Vincenzo Semeraro, sulla morte di Donatella Hodo ha detto che il carcere, così com’è, sia pensato per gli uomini e non per le donne. Secondo lei è così? “Io penso che il carcere non sia a misura di uomo, come essere umano, come uomo e come donna. Per nessun essere umano così come è oggi, frutto di decenni di abbandono in cui la persona non è più al centro del principio costituzionale, enunciato e non percepito, scritto ma non rispettato. Il carcere oggi ha perso la sua missione che è quella di rieducare, riabilitare, il vecchio motto degli Agenti di Custodia, siamo negli anni successivi alla scrittura della Costituzione, era “Vigilando Redimere” dove la parola vigilare non era legata a problemi di sicurezza, ma come un papà e una mamma custodiscono, sorvegliano, vigilano sui propri figli, così era per le persone che avevano bisogno di essere riportate verso la retta via. La dignità dell’uomo era al centro, la maggioranza di chi ci lavorava ci credeva”. Quanto alle donne detenute? “Hanno modalità di risposte e problematiche personali e affettive differenti, tutti hanno un problema affettivo partiamo dalla base. Il carcere femminile è curato in maniera diversa dal maschile, in alcuni casi, ma dipende sempre da chi è il direttore, anche meglio, in molti casi ci sono sezioni femminili inserite in carceri maschili. Ma oggi questo non è il tema centrale. C’è uno scollamento tra la realtà del carcere e chi parla del carcere, e non escludo nessuno, dal ministro al capo del dipartimento, dai professori agli specialisti...sembra che la soluzione del problema sia in mano agli esperti, ma invece non è così, perché è un’altra cosa. Per rispondere alle vere necessità bisogna conoscerle fino in fondo e le conosci se le ami. Se non ami il tuo lavoro e lo scopo per cui esiste come puoi capire i problemi e pensare alle soluzioni necessarie? Ecco che se noi vogliamo veramente bene a Donatella non dobbiamo correre veloci su questa tragedia. Il dolore sincero del magistrato di sorveglianza Vincenzo Semeraro è un punto da cui poter ripartire, è la cosa più importante di questi ultimi 20 anni. Il carcere oggi non ha bisogno prima di tutto di risposte, anche perché per chi conosce veramente questo mondo sa che ci sono, ma ha bisogno di domande, di persone che si facciano delle domande vere e profonde, solo da qui si potrà ripartire”. Ha dati sulle persone che dovrebbero stare in comunità e invece sono in carcere? “I dati ci dicono che siamo fuori scala se paragonata al mondo esterno. Partiamo dai suicidi, in Italia (dati ufficiali Oms) si suicidano in media 6,7 persone anno ogni 100.000 abitanti. Al 10 di agosto, da quello che ci è dato di sapere, su 54.000 persone detenute 49 si sono tolte la vita, fate voi i conti, a fine anno arriveremo a circa 20 volte la media esterna. Su 54mila, almeno un terzo dovrebbe essere in comunità a vario titolo, ma nessuno ha investito sulle comunità di accoglienza e recupero, è una filiera, ma se non ci si investe diventa teorico dire li metto fuori. Fanno commissioni per applicare cose nuove ma non applicano quello che è previsto da decenni dall’ordinamento e dal regolamento. Oggi la cosa più importante su cui stare difronte ed interrogarci è questo gesto da gigante che il magistrato di sorveglianza ha fatto chiedendo scusa, soprattutto perché lo ha fatto col cuore. Oggi il carcere, ripeto, può ripartire solo se si prende consapevolezza di questo. Siamo difronte ad un fallimento, finché dai vertici e da tutte le posizioni di responsabilità non aumentano le persone che prendono consapevolezza del fallimento e cominciano a fare un sincero mea culpa, non se ne esce. Si riparte sempre dal riconoscimento di un errore e da qualcosa di positivo”. In base a quali parametri si stabilisce che un detenuto debba stare in carcere o in una comunità di recupero? “Bella domanda. Il problema non sono i parametri, che ci sono, ma l’applicazione. Sotto i quattro anni si potrebbe accedere, addirittura credo che per le persone con dipendenza l’invio in comunità possa avvenire sotto i sei anni. Sa quante sono oggi le persone detenute che si trovano in carcere con una pena inflitta di 1 anno? 1344. E sa quante sono quelle con una pena residua da scontare di 1 anno? 7.067. Purtroppo, ci sono persone che hanno dipendenze importanti o che hanno problemi psichiatrici, e restano lì. Il carcere è diventato una discarica indifferenziata, mandi qualsiasi roba in questa discarica umana, è da vergognarsi. Non si differenziano le problematiche delle persone e le relative soluzioni e questo nuoce prima di tutto alla società civile perché il risultato di questo porta a incrementare la insicurezza. La recidiva reale è al 90%: chi esce delinque meglio di prima. In termini di costi indiretti (i soli costi diretti sono 4 miliardi) non sappiamo quanti miliardi si spendono, cifre astronomiche. Poi ci sono le persone extracomunitarie che vengono buttate dentro a questo sistema. È un mostro incredibile quello che abbiamo generato. Il problema non è liberi tutti ma trattare adeguatamente tutti, non c’è buonismo né pietismo, chi sbaglia deve pagare, ma lui, non la società, tutta questa modalità torna come costi e come sicurezza contro la società”. Da dove si può ricominciare per recuperare anni di fallimento? “L’amministrazione penitenziaria considera una ruota di scorta il terzo settore (alla faccia del principio costituzionale della Sussidiarietà e la riforma del Terzo Settore): se oggi tutte le associazioni, i volontari, le cooperative sociali non entrassero in carcere, non ci sarebbe più nulla, oltre l’80% delle attività viene svolto dal Terzo Settore. Invece di lavorare veramente assieme siamo visti prevalentemente come degli intrusi rompipalle, una presenza ancillare da tenere distante, diamo fastidio semplicemente perché richiamiamo al senso per cui tutti ci troviamo ad operare con le persone detenute. Criticare non vuole dire ledere maestà. Il carcere è la faccia peggiore della società e se la società va male il carcere è il peggio del peggio, i detenuti sono un numero di fascicolo. Per ricominciare basterebbe quindi partire da ciò che di positivo c’è ovunque comprese le realtà del terzo settore che in questi decenni hanno supplito alla carenza dello Stato, che invece di togliere gli ostacoli crea casino. Il sistema sta mantenendo sé stesso, questa è la verità”. “Tutti si sono impegnati per Donatella, purtroppo è il sistema che non funziona” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 agosto 2022 Parla l’avvocato della ragazza che si è suicidata nella sua cella di Verona: “Tutti si sono dati da fare per Donatella. Quello che non funziona è il sistema dell’esecuzione penale nel nostro Paese. Dietro i tanti suicidi in carcere c’è una grande responsabilità della nostra classe politica”. A parlare così al Dubbio è l’avvocato del foro di Verona Simone Bergamini, legale di Donatella Hodo, la ragazza di 27 anni che si è tolta la vita inalando del gas nel carcere veronese di Montorio qualche giorno fa. Quando ha saputo che la sua assistita si era tolta la vita? L’ho saputo lunedì mattina e ho chiamato subito la direttrice del carcere. Era molto commossa anche lei. Tutti in carcere conoscevano Donatella e avevano a cuore la sua situazione. Quando l’ha vista l’ultima volta? Il venerdì precedente insieme al medico del Sert con cui stavamo pensando a un percorso alternativo al carcere, un programma terapeutico diverso. Lei, infatti, alle spalle aveva una esperienza che non era andata bene. A marzo il magistrato di sorveglianza le aveva concesso la possibilità di andare in una comunità ma aveva avuto dei problemi ad ambientarsi, come capita spesso in questi casi. Diceva che non era adatta a lei. Quindi si era allontanata da lì per poi essere trasferita nuovamente in carcere. Qual era la posizione giuridica della sua assistita? La sua posizione giuridica era mista. Aveva delle condanne definitive per reati contro il patrimonio (ricettazione e furti) sempre legati al problema della tossicodipendenza; e poi era in misura cautelare in carcere per un processo pendente per un furto degenerato in rapina. Eravamo riusciti, comunque, a coordinare il magistrato di sorveglianza e la Corte di Appello: entrambi avevano concesso gli arresti domiciliari presso la comunità. La ragazza quanto tempo in totale aveva trascorso in carcere? Io la assistevo da circa un anno. Quando si è tolta la vita aveva 27 anni ma è da quando ne aveva 21 che entrava e usciva dal carcere. Quando ha saputo del suicidio come ha pensato e provato? La prima reazione è stata quella dello sgomento. Mai e poi mai avrei pensato che potesse accadere quello che poi tragicamente si è verificato. Io ho una certa esperienza del carcere. Faccio parte dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali. Inoltre è da quindici anni che vado in carcere quasi tutti i giorni. Quando ho la sensazione che qualcosa non va - come avvenuto una settimana prima della morte di Donatella con un altro detenuto - faccio sempre la segnalazione al carcere, in modo che possano intervenire gli psicologi e tutte le altre professionalità con una certa esperienza per capire se quello che io ho avvertito possa avere un fondamento. Nel caso di Donatella? Io la vedevo almeno una volta a settimana. Pure gli operatori avevano incontri molto frequenti con lei. Credo nessuno abbia mai avuto la sensazione che potesse togliersi la vita. Anche perché la sua situazione stava evolvendo in una maniera abbastanza positiva. Se è vero che era rientrata in carcere, il direttore l’aveva subito segnalata per un progetto lavorativo in carcere che stava per partire a settembre. Si trattava del confezionamento di marmellate e sottaceti. Donatella aveva già svolto le ore di formazione, propedeutiche al nuovo lavoro. Inoltre, il Sert la assisteva costantemente, faceva colloqui con il fidanzato il quale aveva appena trovato una abitazione all’interno della quale si stava pensando di poter farle espiare la pena in misura alternativa. Il magistrato di sorveglianza, poi, ha sempre mostrato grande attenzione verso la situazione di Donatella, ma in generale nei confronti di tutti i detenuti. Quindi c’erano tutti i presupposti per un risvolto positivo, anche se non a brevissimo tempo. Allora cos’è che non ha funzionato? Probabilmente bisognerebbe investire in un personale maggiormente qualificato in grado di prevedere queste situazioni, di rintracciare queste forme di disagio sotterraneo. Se dall’inizio dell’anno ci sono stati così tanti suicidi in carcere, vuol dire che qualcosa obiettivamente non funziona. A proposito del giudice di sorveglianza Semeraro: ha detto “Ho fallito”. Che ne pensa della sua lettera? Va sempre in carcere, conosce i detenuti per nome, come dovrebbe fare qualsiasi magistrato di sorveglianza. Ha una grandissima esperienza in materia di sorveglianza e una profonda sensibilità umana verso tutti i condannati. Credo che ogni recluso vorrebbe avere il dottor Semeraro come giudice di sorveglianza. In merito al suo messaggio, posso dire che abbiamo fallito tutti. In che senso? Se una ragazza di 27 anni si toglie la vita in carcere significa che il sistema dell’esecuzione penale non funziona. Ovviamente la morte di Donatella è tragica ma occorre fare un passaggio successivo: capire perché è successo a lei e agli altri suicidi in carcere. Mi piacerebbe porre questa domanda alla nostra classe politica, visto che siamo anche in campagna elettorale. Tra le varie riforme incompiute di questo governo c’è quella del carcere. Secondo Lei esiste anche una responsabilità politica dietro i tanti suicidi che affliggono i nostri istituti di pena? Secondo me sì. Purtroppo il carcere non porta voti. Parlare di carcere non porta voti. Invece bisognerebbe investire sul carcere. Ai detenuti sono state fatte tante promesse mai mantenute. Le piccole riforme che sono state fatte avevano come premessa generale “a costo zero”. E inoltre non si comprende ancora, anche se lo dimostrano diversi studi, che scontare la pena in misura alternativa al carcere abbatte la recidiva. Quindi possiamo riassumere che in questo caso non si può puntare il dito contro nessuno per quanto tragicamente avvenuto, se non in generale verso il sistema di esecuzione penale? Sì, ha riassunto bene. Tutti si sono dati da fare con Donatella, è il sistema - ripeto - che non funziona. A tal proposito qualche giorno fa noi, come Unione Camere Penali, abbiamo chiesto un incontro con il capo del Dap, il dottor Carlo Renoldi. Auspico che avvenga quanto prima, perché il carcere ha bisogno del supporto e dell’impegno di tutti. Investire sulle carceri non è un investimento a fondo perduto ma un bene per la società che dovrà riaccogliere chi in passato ha sbagliato. “Quel giudice galantuomo che ha detto la verità...” di Francesco Damato Il Dubbio, 11 agosto 2022 Grazie a Vincenzo Semeraro, il magistrato di 63 anni che ha commosso tutta Italia per quella lettera di confessato fallimento di fronte al suicidio della giovane detenuta Donatella Hodo affidata alla sua “sorveglianza”, possiamo risparmiarci una volta tanto il richiamo storico e letterario al giudice di Berlino su cui aveva scommesso il mugnaio prussiano del 1700 per sottrarsi alle angherie dell’imperatore. Non siamo dovuti andare a Berlino, ma a Verona per trovare il nostro onestissimo giudice Semeraro. Che impastando codici e sentimenti ha restituito dignità e sacralità, direi, ad una funzione da troppo tempo esposta, per colpa di una minoranza non necessariamente ma spesso politicizzata, più alla diffidenza che alla fiducia, più alla paura che al rispetto. Il giudice Vincenzo Semeraro ha avuto il coraggio e l’umiltà al tempo stesso quasi di incolparsi, dopo il suicidio di una detenuta di ventisette anni di cui sei trascorsi in carcere sotto la sua vigilanza per garantire, fra l’altro, il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un articolo impossibile da rispettare o applicare, per quanta fatica e umanità possa metterci un giudice di sorveglianza come Semeraro, in un sistema in cui “le strutture detentive - egli ha detto in una intervista al Corriere della Sera e al Dubbio successiva alla missiva letta ai funerali di Donatella - non sono a misura di donna”. “Le detenute - ha spiegato - vanno approcciate in modo totalmente diverso, hanno un’emotività che non ha nulla a che fare con quella maschile. Vanno seguite - ha spiegato - in modo specifico e del tutto peculiare. Per Donatella ciò non è avvenuto”, semplicemente e dannatamente, pur essendo il giudice riuscito a tentarne il recupero in una comunità dalla quale la giovane era scappata, e lui fosse in procinto di affidarla ai servizi pubblici per le tossicodipendenze, con tutte le loro procedure e i loro tempi. Donatella - ha raccontato il giudice come se ne avesse di fronte la fotografia - aveva vicissitudini pesanti, come macigni. Per andare avanti si era costruita una corazza. Voleva sembrare forte, in realtà svelava una sensibilità estrema. Era fragile come un cristallo”. A proteggere il quale non sono riusciti né la famiglia né lo Stato, né il padre né il giudice, incontratisi in privato dopo i funerali. “Ci siamo abbracciati, piangevamo entrambi. Tutti e due - ha raccontato il magistrato - ci sentiamo in colpa, io come giudice, lui come genitore. Ciascuno ha detto all’altro di farsi forza. È stato toccante. Ma il momento più lacerante è stato quando il papà di Donatella mi ha ringraziato, perché sua figlia gli parlava di me come di un secondo padre. Da brividi”. Sì, da brividi. Che vorrei attraversassero anche la schiena di tanti politici pensando, ciascuno per sé o per il proprio partito in questa campagna elettorale piena, come al solito, di troppe promesse, di troppe dimenticanze e di troppe astuzie, a tutto quello che non si è fatto neppure nella legislatura appena sciolta per rendere davvero e finalmente umana la Giustizia, con la maiuscola. E per fare corrispondere i fatti alle parole della Costituzione, sia nelle carceri sia nei tribunali, dove il garantismo - vorrei ricordare andando anche oltre il dramma di Donatella - suona spesso come una parolaccia, o quasi. Il fidanzato di Donatella: “Lei abbandonata da tutti. Le scuse del giudice? Facile parlare adesso” di Laura Tedesco Corriere Veneto, 11 agosto 2022 Il fidanzato della 27enne che la settimana scorsa si è tolta la vita nel penitenziario veronese di Montorio: in cella piangeva. “Non è stato il suicidio in carcere di una drogata. Donatella, la mia Dona, era pulita da un anno. Ora che non c’è più, leggo e sento commenti al veleno. In troppi stanno dando giudizi senza sapere nulla di lei. Sono arrabbiato”. Leonardo Di Falvo è il fidanzato della 27enne che settimana scorsa, inalando del gas dal fornelletto in cella, si è tolta la vita nel penitenziario veronese di Montorio, lasciandogli un’ultima dichiarazione d’amore: “Sei la cosa più bella che mi è capitata, Leo, perdonami”. Per la prima volta dopo la tragedia, il 24enne rompe il silenzio. Perché è arrabbiato? E con chi? “Ce l’ho col mondo intero, con il sistema, il carcere, i magistrati, le guardie, la sua famiglia, i suoi amici. Ma sono inc... anche con lei, con Dona, perché doveva solo pazientare un altro po’. Presto sarebbe uscita, avevo preparato tutto per lei”. A cosa è dovuta la sua rabbia, il tuo rancore? “L’avevano lasciata sola, ero solo al suo fianco. La ascoltavo, la calmavo, le stavo vicino, le telefonavo, andavo a farle visita. Soprattutto nell’ultimo periodo dopo che l’avevano rimessa in cella perché era scappata dalla comunità, l’avevano abbandonata. Tutti tranne me”. Quando l’ha vista l’ultima volta? “La mattina del primo agosto, il suo ultimo giorno di vita perché poi nella notte se n’è andata per sempre. Con il suo gesto ha bloccato anche la mia vita. Il tempo per me si è fermato, minuto dopo minuto, ora dopo ora, continuo a chiedermi perché. Cosa le è scattato? È forse accaduto qualcosa che non so?” Come l’aveva trovata la mattina prima della tragedia? “Era la solita Dona... con i suoi alti e bassi, aveva avuto anche quel giorno i suoi soliti cinque minuti in cui era partita per la tangente, ma poi l’avevo riportata sui binari. La conoscevo da quando eravamo adolescenti, almeno da dieci anni, ero l’unico che riusciva a rassicurarla”. Come vi siete salutati? “Ci siamo detti ti amo, ci siamo baciati abbracciandoci. Uscendo le ho assicurato che le avrei telefonato e sarei tornato da lei la settimana dopo, come sempre. Non mancavo mai, avrei fatto tutto per lei, qualsiasi cosa”. Appena lei fosse stata scarcerata, sareste andati a convivere. “Ho preso una casa apposta per stare insieme, lei sognava di fare l’estetista e io le avevo trovato un primo lavoretto per quando sarebbe uscita. L’avrei aspettata per sempre, perché ha rotto così il nostro sogno? Ci eravamo promessi amore per sempre, perché ha distrutto tutto? Cos’è successo?”. Il papà di Donatella ha sporto denuncia contro il carcere. “Anch’io mi chiedo cosa sia accaduto quella notte maledetta. Qualcuno in serata l’aveva sentita piangere, sapevano quanto lei fosse fragile. Perché nessuno è andato a parlarle? Magari sarebbe bastata una parola, un consiglio, una pacca sulla spalla per farle passare la tristezza di un attimo e salvarle la vita. Invece l’hanno lasciata tutti sola, nessuno escluso”. Il giudice di Sorveglianza sente di “aver fallito”. “Devo essere franco, è facile adesso parlare. Ora tutti dicono qualcosa, ma dov’erano quando Dona poteva essere salvata? Cos’hanno fatto per aiutarla?”. Dalla piccola Diana ai suicidi in carcere, “servono servizi per la salute mentale e le dipendenze” di Chiara Ludovisi redattoresociale.it, 11 agosto 2022 Gisella Trincas (Unasam) indica il denominatore comune di alcune recenti tragedie: “Questi fatti sono il segnale che lo Stato è assente di fronte alle fragilità. La maggior parte dei detenuti ha problemi mentali, condannati per reati bagatellari. Affrontare il disagio mentale e sociale sia la priorità della prossima legislatura”. “Tante, diverse tragedie, un denominatore comune: l’incapacità dei servizi di cogliere i segnali d’allarme e prevenire le tragedie”: così Gisella Trincas, presidente di Unasam, commenta alcuni degli ultimi drammatici fatti di cronaca, dai suicidi in carcere - con numeri che aumentano ogni giorno - alla morte della piccola Diana. “Un uomo che uccide la moglie a colpi di bastone, una mamma che abbandona in casa la bambina di 18 mesi per 6 lunghi giorni fino alla sua atroce morte; e, ancora, Donatella, 27 anni, che si suicida in carcere, come altre 46 persone prima di lei, solo dall’inizio del 2022. Questi fatti tragici - continua - sono l’ennesimo segnale di una società che non sta bene, di uno stato assente sulle questioni fondamentali, che riguardano la qualità della vita, la convivenza civile, un percorso di civiltà che stenta ad andare avanti da troppo tempo”. E ricorda, Trincas: “Sono continue le denunce dalle organizzazioni della società civile, tra cui Unasam, riguardo le condizioni disumane in cui versano le carceri italiane e il fallimento della riforma carceraria. La maggior parte dei detenuti ha problemi di salute mentale e dipendenze e sta in carcere per reati bagatellari. Ma vanno denunciate anche le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli stessi agenti penitenziari. Soprattutto, va denunciata l’assenza, sul territorio, di servizi di comunità, orientati alla prevenzione e capaci di intercettare i bisogni delle persone”. È per questo, afferma Trincas, che “si interviene a tragedie avvenute: questo significa che i servizi territoriali di salute mentale e per le dipendenze, così come gli stessi servizi sociali non conoscono il territorio e i suoi bisogni e non sono in grado d’intervenire per tempo, per prevenire le tragedie. Leggi importanti che sono state emanate negli anni, ma se le confrontiamo con l’attuale organizzazione e orientamento della stragrande maggioranza dei servizi esistenti, ci renderemo conto delle gravi responsabilità di coloro che quelle leggi, quei regolamenti e quelle raccomandazioni dovevano applicare, mettendo in campo risorse umane e culturali”. Le responsabilità riguardano anche il mondo dell’informazione e della comunicazione: “Non siamo stati capaci neppure di utilizzare il servizio pubblico radiotelevisivo per campagne d’informazione e sensibilizzazione, così che tutti possano individuare i servizi da attivare sul territorio in caso di necessità - fa notare ancora Trincas - Servono quindi campagne che favoriscano la solidarietà, l’accoglienza; occorre utilizzare risorse pubbliche per le vere emergenze sociali, come la salute mentale, la povertà, le dipendenze, la disabilità. E occorre affrontare anche la questione dei luoghi della cura, che accolgono le persone che vivono un problema importante di salute e una necessità assistenziale. È anche in questi luoghi che, spesso, si consumano questi drammi. E’ di questo che le nostre istituzioni dovrebbero occuparsi: non di finanziare la guerra o le grandi opere pubbliche, che ci faranno viaggiare più velocemente. Al contrario, bisogna andare più lentamente, osservare il mondo che ci circonda, le persone che ci vivono accanto, per cogliere i segnali d’allarme e intervenire come società civile, oltre che come servizio pubblico. È necessario non lasciare sole le persone in difficoltà, affrontare il disagio sociale e mentale, ma nell’ottica del superamento del disagio stesso e non del controllo e della repressione. Sappiamo bene quali sono le gravi criticità di organizzazione dei servizi e delle risorse: come Unasam, abbiamo più volte denunciato e sollecitato, portando tali questioni anche nella Conferenza nazionale sulla salute mentale. Eppure, oggi non registriamo ancora alcun segnale concreto, che indichi una strada diversa da perseguire. E assistiamo a continue tragedie. Affrontare il disagio mentale e sociale: riteniamo che questa debba essere una priorità nell’agenda politica della campagna elettorale e della prossima legislatura”. Il dramma del caldo negli istituti, tra sovraffollamento e niente ventilatori di Silvia Mancinelli Adnkronos, 11 agosto 2022 “Che in carcere si stia al fresco è una fandonia bella e buona”. Quello che dice all’Adnkronos Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, è la perfetta sintesi del disagio che in questa estate bollente vivono detenuti e personale in servizio negli istituti d’Italia. Non si contano le note indirizzate dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ai provveditori regionali e ai direttori delle carceri che hanno ad oggetto la “tutela della salute e della vita delle persone detenute e internate” al fine di valutare la possibilità di consentire ai reclusi, tramite le imprese di mantenimento, l’acquisto di ventilatori a batteria di piccole dimensioni, certo privi di parti metalliche potenzialmente pericolose ma ugualmente funzionali. Perché in carcere, nelle celle spesso sigillate da pesanti porte blindate, non passa un filo d’aria. Perché se fa caldo in strada, dentro si muore. Ed è salito, anche se non necessariamente a causa del caldo, il numero dei decessi dietro le sbarre: dal 25 giugno ad oggi si contano 27 morti, più di uno al giorno quindi. Di questi 18 sono suicidi e 1 omicidio (nello stesso periodo del 2021 i morti erano stati 13, di cui 10 per suicidio). Non solo, perché a peggiorare una situazione di per sé non facile, c’è anche il sovraffollamento schizzato a quota 108%: in soldoni vuol dire che al 31 luglio scorso nelle carceri d’Italia sono recluse 54.979 persone a dispetto di una capienza regolare di 50.909. Questo mentre gli agenti di Polizia Penitenziaria mancano di 18mila unità e circa 9.000 durante il periodo estivo sono in ferie. Pochi poliziotti in servizio contro un numero sempre crescente di detenuti: di qui l’aumento delle aggressioni non solo contro il personale ma anche tra i reclusi stessi, gli atti di autolesionismo difficili da controllare e prevenire. E sì, anche le evasioni. Quarantasette in totale dal primo gennaio, secondo quanto apprende l’Adnkronos da fonti sindacali: 13 dagli istituti penitenziari, dagli ospedali, da visite mediche esterne, dalle aule di giustizia, 12 dei quali riarrestati, 10 da lavoro esterno, 4 dei quali riarrestati, 5 dalla semilibertà, 3 dei quali riarrestati, 17 da permesso premio, 12 dei quali riarrestati e 2 da permesso di necessità, entrambi riarrestati. Ieri l’ultima lampo dal carcere di Cuneo, da dove è fuggito Daniele Bedini, presunto assassino di Sarzana. “Il ministro della giustizia, se c’è, deve battere un colpo: si dice che il suo sia un curriculum da liberista e qui però non si è visto nessuno” incalza Ciambriello. “Nei mesi di luglio e agosto dovrebbero diminuire le attese per i colloqui e aumentare i permessi per svuotare le celle. Nelle aree passeggio non ci sono punti docce o fontanelle, in alcuni istituti le porte sono di ferro, blindate, col risultato che ogni stanza è un forno crematorio. E a Poggioreale, dove tra i reclusi ci sono un 90enne e un obeso di 250 chili, in cortile stanno a torso nudo perché il caldo è intollerabile - dice ancora all’Adnkronos il garante dei detenuti campano - E allora mi chiedo, in questi mesi di forte caldo perché i politici invece che fare come gli struzzi, non mettono in campo proposte per migliorare la vita in carcere?”. “Le carceri, così come più in generale il sistema di esecuzione penale del Paese, continuano ad essere abbandonate a se stesse e con loro i detenuti e gli stessi operatori. Ciò nel disinteresse sostanziale, se non nella grave inettitudine della politica tutta” gli fa eco Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Pp, che all’Adnkronos spiega ancora: “Le problematiche emerse con le rivolte del marzo del 2020 e i tredici morti, non sono affatto state affrontate e, anzi, si sono aggravate. Problematiche che insistono tutto l’anno, ma che in certi periodi si fanno sentire ancora di più sia per ragioni di ordine convenzionale-psicologico, come può essere l’estate tradizionalmente dedicata alle ferie e al divertimento, sia per ragioni pratiche correlate alla calura accentuata da celle sovraffollate, alle infestazioni di zanzare e di altri insetti, ma spesso anche di roditori, all’aggravata mancanza di personale di ogni profilo professionale, che fruisce di ferie e, non ultimo, talvolta, allo stesso venir meno dei colloqui per le vacanze dei familiari dei detenuti”. “Insomma - continua il sindacalista - un mix esplosivo che la Polizia penitenziaria contiene a stento. Da presidente del consiglio Mario Draghi, che durante la discussione generale sulla fiducia alla Camera dei Deputati aveva detto che non sarebbe stata trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, su questo tema ha completamente fallito ed ha tradito la nostra di fiducia. Le condizioni di coloro che vivono e operano nelle carceri, sotto il suo governo, sono continuate a peggiorare. Sarebbero stati necessari un decreto carceri per affrontare l’emergenza, fatta soprattutto di un vuoto organico della Polizia penitenziaria di 18mila unità, di sovraffollamento detentivo, di equipaggiamenti, strumentazioni e tecnologie inadeguati, nonché di disorganizzazione ancestrale, e parallelamente una legge delega per le riforme strutturali”. Giustizia rapida e certa, l’Europa ci aspetta (e spera) di Giuliano Pisapia Il Riformista, 11 agosto 2022 Con lo scioglimento delle Camere si è avuto uno stop ad alcune proposte legislative indispensabili su conflitti d’interesse, le attività di lobbying e “porte girevoli”. Come avviene ormai da tre anni la Commissione europea ha trasmesso al Parlamento europeo e alle altre istituzioni comunitarie la “Relazione sullo Stato di diritto” all’interno dell’Unione, la quale offre una “fotografia” aggiornata sugli avanzamenti, o arretramenti, compiuti dai singoli stati membri sui temi della giustizia e della tutela dei diritti individuali e collettivi. Si tratta di un nuovo strumento preventivo, e dunque non sanzionatorio, il cui obiettivo è quello di esaminare gli sviluppi, positivi o negativi, sui temi dei diritti e delle garanzie con la finalità di dare il proprio contributo per quelle riforme necessarie a garantire, in tutti i Paesi membri, una giustizia celere, giusta e garantista. La Commissione Europea sin dalle prime righe del rapporto promuove i passi in avanti del nostro Paese ritenendo positiva la concretizzazione e l’impegno a realizzare in tempi relativamente brevi ampie riforme in materia sia civile che penale. Sul fronte penale il decreto attuativo della legge 134/2021 approvato all’unanimità dal Consiglio dei Ministri il 4 agosto scorso risponde in pieno alle osservazioni che la Commissione Europea aveva inserito all’interno della “Relazione sullo Stato di diritto”. Per Bruxelles, se in sede civile la digitalizzazione del sistema giudiziario ha permesso importanti progressi, permanevano le sfide in ambito penale volte a favorire l’efficienza del sistema giudiziario, l’abbattimento degli arretrati e la durata dei procedimenti. Grazie all’opera compiuta dalla Ministro Cartabia il decreto attuativo della riforma penale, una volta terminato il vaglio delle commissioni competenti di Camera e Senato che deve avvenire entro sessanta giorni, porterà a una riduzione del 25% della durata dei processi. Anche in ambito penale un forte contributo di efficienza e efficacia volta alla riduzione dei tempi dei processi verrà dalla digitalizzazione del processo (purtroppo ancora troppo limitato), dall’estensione dei riti alternativi, dall’aumento dell’organico sia della magistratura, sia del personale amministrativo. Vi è da augurarsi che le Commissioni Giustizia di Camera e Senato si attivino immediatamente, anche in questo periodo di pausa estiva, per favorire il rispetto dei tempi di approvazione dei decreti, sperando che possa avvenire prima delle elezioni. In caso contrario sono a rischio i 21 miliardi di euro della seconda tranche del Pnrr. Tornando al decreto attuativo penale sono significativi gli interventi che hanno come obiettivo l’effettività delle pene pecuniarie - oggi riscosse per meno dell’1% - e la riforma delle sanzioni sostitutive delle pene detentive. In questa linea si inserisce l’importante cornice giuridica delineata riguardo alla giustizia riparativa che già da diverso tempo vede una sua concreta applicazione. Come dimostrato dall’esperienza maturata in altri paesi la giustizia riparativa porta a una sostanziale remissione della querela e a una riduzione della recidiva. Tra le i rilievi e le “raccomandazioni” che ci arrivano dall’Ue e che meritano di essere ricordate in quanto chiedono una celere attivazione delle nuove Camere dopo le elezioni, vi è l’introduzione di garanzie legislative tese a riformare il regime della diffamazione e la protezione del segreto professionale, tenendo conto della normativa europea relativa alla protezione dei giornalisti e al segreto professionale ponendo così fine alla sanzione carceraria. Con lo scioglimento delle Camere si è avuto uno stop, o un limitato passo in avanti, rispetto ad alcune proposte legislative indispensabili tra cui i conflitti d’interesse, le attività di lobbying e le “porte girevoli”. Il governo Draghi, sui temi della giustizia e dello stato di diritto, ha fatto molti passi in avanti e sta facendo il possibile per evitare passi indietro. Toccherà al nuovo Parlamento il compito di proseguire sulla strada indicata nella speranza di non leggere nel rapporto del prossimo anno che non ci sono stati miglioramenti o, peggio, che siamo tornati indietro. Ecco perché il Diritto è sparito dalla battaglia elettorale di Alberto Cisterna Il Riformista, 11 agosto 2022 È una campagna elettorale bislacca. La confusione che regna tra le forze politiche e la volatilità delle coalizioni - di entrambe le coalizioni, vedrete - ha messo praticamente in disparte i temi della contesa per il voto. Sarà colpa dell’estate, sarà che l’esperienza Draghi ha scompaginato l’idea stessa di premiership in un paese praticamente a corto di veri leader, ma di programmi si parla poco o nulla e un paio di settimane a settembre non sbroglieranno la matassa. Su ogni punto cruciale per la vita del paese (politica estera, energia, guerra, economia, occupazione, welfare, scuola) circola qualche slogan stantio e logoro e, mai come questa volta, il voto sarà l’equivalente di una cambiale in bianco che le forze politiche incasseranno da un elettorato sfiduciato e stanco che minaccia un astensionismo senza precedenti, al limite del collasso istituzionale. In questo vuoto assoluto di proposte e di progetti, c’è da lamentarsi anche della mancata considerazione del tema giustizia che, certo, si inserisce a buon diritto tra le emergenze del paese non foss’altro che per gli impegni assunti con il Pnrr. Qualcuno pensa che la totale esclusione della questione dall’agenda elettorale sia il frutto di una scelta calcolata in vista dell’accaparramento delle sconfinate praterie di voti a matrice giustizialista messi in libera uscita dalla liquefazione del M5s. La tesi è che in Italia spiri un forte, e soprattutto ben organizzato, sentimento giustizialista che, in genere, spinge per partecipazione al voto, e tutti i partiti sarebbero alla caccia di quei consensi che non intendono inimicarsi con improvvide polemiche sul garantismo. Può essere. Può essere che alla base di questo silenzio pre-voto sui temi della giustizia stiano prevalendo tattiche attendiste e gattopardesche da parte di tutte le forze politiche. Il fatto che il silenzio regni sovrano anche tra le fila del M5s che quella visione del pianeta giustizia hanno ampiamente propagandato e alimentato, pone - tuttavia - un primo dubbio. C’è da chiedersi: se esiste, come probabilmente esiste, una parte dell’elettorato sensibile alle istanze coercitive e giustizialiste, come mai il partito che ne ha fatto per anni una bandiera non l’agita in vista del voto? E, ancora, perché mai - per converso - le fazioni garantiste tacciono, a urne quasi aperte, su vicende come quelle dell’Eni a Milano o del processo Trattativa a Palermo o sulla Loggia Ungheria o sull’affaire Palamara che pur sarebbero argomenti facilmente commestibili in una campagna elettorale da combattere voto per voto? Si possono tentare un paio di risposte. Quanto avvenuto negli ultimi due anni in Italia e nel mondo ha probabilmente posto le basi per una profonda revisione del patto costituzionale su cui si fonda la coesione sociale e politica del paese. La nazione scricchiola in più punti ed è del tutto evidente che le regole di funzionamento delle istituzioni non sono in grado di ridurre la forbice delle disparità, di ampliare il range delle opportunità per i meno abbienti, di assicurare una equa distribuzione delle risorse. Il fatto stesso che, nei momenti di vera crisi (2011-2021) si sia dovuto far ricorso a risorse estranee alla politica (Monti-Draghi) per mettere in sicurezza il paese è il segno evidente che alle regole costituzionali occorre por mano con estrema urgenza. In questo complesso scenario di mutamenti la giustizia ha, inevitabilmente, un ruolo marginale, vicario, subalterno. Le riforme Cartabia sono il massimo che ci si poteva attendere sino a quando una nuova Repubblica non verrà ridisegnata o la vecchia sarà sensibilmente revisionata. Solo quando si saranno tracciati i nuovi assetti dello Stato sarà effettivamente possibile aver chiari i contorni entro cui inserire il tassello giustizia e immaginarne sostanziali modifiche. Per ora è il tempo dei pannicelli caldi e del silenzio, quasi imbarazzato. La politica percepisce che non è il momento di occuparsi di processi e di magistrati o di avvocati, e che bisogna rinviare il tutto a un tempo futuro, in un orizzonte ancora incerto e nebuloso in cui occorre navigare a vista e oltre il quale nessuno ha mai tracciato una rotta. Occorrerà sopportare per qualche tempo ancora una giustizia acciaccata e inefficiente, come si deve tollerare una scuola, una sanità, una burocrazia, un fisco, un’economia, un’ecologia malferme e scricchiolanti. Quando le caselle prenderanno il loro posto lo scenario sarà più chiaro. Per ora ci si deve accontentare di una novità non di poco momento della campagna elettorale 2022 che vede compattarsi, da una parte, sotto lo slogan della cosiddetta “agenda Draghi” coloro che ritengono irreversibile la novità impressa da quell’esperienza in cui il merito è condizione indefettibile per il consenso e, dall’altra, quanti ripropongono il meccanismo tradizionale dell’esperienza democratica secondo cui è il migliore colui che prende più voti. Il paese sceglierà liberamente a chi affidarsi, ma è chiaro che di processi e forche e garanzie interessi a tutti molto poco di questi tempi e per i molti a venire, forse. “Il Csm deve diventare la casa dei magistrati e non delle correnti...” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 agosto 2022 “Il Csm è la casa dei magistrati e non delle correnti”. Giuseppe Cioffi, giudice penale del Tribunale di Napoli Nord, sintetizza così il suo punto di vista sull’organo di autogoverno della magistratura per il quale concorre in qualità di indipendente. In magistratura dal 1986, Cioffi, dopo una esperienza come avvocato, si è occupato prevalentemente di criminalità - soprattutto di stampo camorristico - e di tutela ambientale. “Un’esperienza molto importante - dice al Dubbio - dalla quale nel 2002 è derivata la chiamata dalla presidenza del Tribunale di Napoli a presiedere un collegio apposito, formato per la celebrazione di alcuni processi di camorra con tanti imputati detenuti. Dopo alcuni anni in Commissione parlamentare bicamerale antimafia prima, dove mi sono occupato dell’analisi socio-giudiziaria dell’epica stragista della mafia e le implicazioni di politici e uomini delle istituzioni, ed ecomafia dopo, sono stato destinato al Tribunale di Napoli Nord”. Dottor Cioffi, la sua candidatura al Csm come indipendente è un segnale chiaro di rinnovamento? Se oltre la quota dei ‘ garantiti’ e di quelli usciti da cosiddette primarie, che hanno potuto avviare in anticipo l’attività di presentazione, arriverà un buon numero di indipendenti, esperti e capaci, il tasso di qualità della vita consiliare si eleverà a tutto vantaggio della intera categoria. Potrà tornare a crescere la fiducia sincera dei tanti rimasti in assordante silenzio, seppur fortemente sconfortati da mancate risposte e provvedimenti a dir poco discutibili. In questa direzione la mia candidatura deve essere intesa come una opportunità e un supporto a linee programmatiche da tempo condivise. Per un Csm dai metodi lineari e coerenti, e tempi rapidi e certi. Cosa l’ha spinta a candidarsi? La normativa recentissima in tema di candidatura al Consiglio superiore della magistratura ha aperto la possibilità di proposte fuori dagli schemi usuali. Dopo aver letto alcuni miei scritti di circa vent’anni anni fa di forte attualità, il confronto con tanti bravissimi giudici del mio Tribunale, mi sono detto che dovevo mettere a disposizione dei colleghi, soprattutto i più giovani, la mia esperienza e la mia attitudine alla responsabilità in un momento in cui la necessità di un cambio di passo è così fortemente avvertita, sebbene poco dichiarata. Sicuramente, posso dire che nella compagine dei candidati, tutti validi e brillanti colleghi, la motivazione ad orientare il consenso alla mia proposta può venire dal considerare la mia ormai lunga e verificabile storia di indifferenza al carrierismo e al correntismo e alle logiche di appartenenza. A ciò si aggiunga la mia propensione alla analisi delle criticità ed attenzione ai problemi dei piccoli uffici. Voglio, però, anche aggiungere un’altra cosa. Dica pure… Ho riattivato la mia passione e inclinazione alla partecipazione associativa nel 2015, vincendo le elezioni a presidente della sottosezione Anm Napoli Nord. Ovviamente, correndo senza appoggio o sostegno di alcuna corrente. Il suo impegno in un contesto impegnativo come quello del Tribunale di Napoli Nord intende accendere anche i riflettori sulla giustizia nei “territori di frontiera”? Sicuramente la conoscenza e la vissuta esperienza sin dalla nascita del Tribunale di Napoli Nord, in uno degli uffici più importanti e complicati del panorama nazionale, è stimolo particolare e tensione mirata a occuparsi delle sedi giudiziarie di cosiddetta frontiera con la competenza maturata nella Pretura mandamentale più grande d’Italia, fuori dalle sedi principali, il cui territorio è ricompreso nel circondario del Tribunale di Napoli Nord. Uffici di frontiera in cui, come ho verificato nel mio, hanno operato e lavorano magistrati motivatissimi e molto impegnati a rendere un servizio giustizia pur tra molteplici difficoltà. Il compito del Consiglio superiore della magistratura sul punto dovrà essere quello di destinare nuove risorse e rivedere gli organici. Lei fa appello ai “magistrati delusi e sensibili alla dignità della professione”. Delusi prima di tutto dal correntismo che tanto peso ha avuto nel Csm? Proprio così. Come ho avuto modo di dire più volte, rivolgo l’appello al voto indipendente e indifferente a quei tantissimi magistrati insoddisfatti e delusi dalla deriva correntizia ovvero dalla degenerazione dei gruppi organizzati che hanno disperso un patrimonio di valori e senso del confronto. Dopo quanto accaduto negli ultimi due anni, con i relativi scandali, si potrà scrivere una nuova pagina per la magistratura? La speranza e anzi il dovere di riabilitare l’istituzione magistratura e, soprattutto, i tantissimi che vi operano con dedizione, capacità e impegno, passa proprio dalla realizzazione di una nuova formazione del Csm. La presenza di indipendenti esperti garantisce trasparenza, celerità nelle procedure, soprattutto quelle in ambito disciplinare, e può rappresentare una occasione per i colleghi espressi dalle formazioni tradizionali di azione più libera da vincoli di appartenenza. Occorre perseguire una sostanziale depoliticizzazione e decorrentizzazione delle decisioni in materia di incarichi di vario genere con ripristino di criteri più obiettivi, si pensi all’anzianità meritevole, e minor invadenza nell’area del lavoro specifico. Come si potrebbe raggiungere questo obiettivo? Si può fare con circolari su prassi e attribuzione di poteri ai dirigenti, per assicurare e ripristinare una relazione di fiducia con i magistrati alle prese con il quotidiano. Personalmente, poi, dedicherei una ulteriore attenzione al capitolo della gestione delle risorse economiche del Consiglio superiore della magistratura e della Scuola superiore della magistratura, con una più oculata destinazione dei fondi e contenimento dei costi. “Hanno diritto a mangiare le stesse cose degli altri detenuti”: accolti i ricorsi di due boss al 41 bis di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 11 agosto 2022 Due sentenze della Cassazione danno ragione a Leandro Greco del clan di Ciaculli e a Vincenzo Graziano dell’Acquasanta: “No a regole solo vessatorie e a discriminazioni tra reclusi, devono avere tutti la possibilità di acquistare gli stessi generi alimentari e di cucinare quando vogliono”. Chi è al 41 bis ha diritto ad acquistare gli stessi cibi di tutti gli altri detenuti: non devono esserci discriminazioni e distinzioni che possano finire per avere “un carattere sostanzialmente vessatorio”. Neppure negli orari di cottura degli alimenti. A stabilirlo, con due diverse sentenze che costituiscono un precedente importante, è la prima sezione della Cassazione, presieduta da Adriano Iasillo, che ha rigettato i ricorsi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, accogliendo invece le richieste di due mafiosi, Leandro Greco del clan di Ciaculli, nonché nipote di Michele, il “papa” di Cosa nostra, e di Vincenzo Graziano, della famiglia dell’Acquasanta. Il ricorso dei mafiosi - La Suprema Corte ha così confermato le decisioni del magistrato di Sorveglianza di Spoleto, ai quali i due detenuti si erano rivolti nel 2019, e poi del tribunale di Sorveglianza di Perugia. L’oggetto del ricorso di Greco e Graziano riguardava da un lato il mancato inserimento di alcuni prodotti nella lista dei generi alimentari acquistabili dai reclusi al 41 bis (il così detto “modello 72”), e dall’altro le limitazioni imposte dal carcere in relazione agli orari in cui è possibile cucinare. Su questo secondo punto i giudici hanno dato parzialmente ragione al Dap (annullando con rinvio soltanto su questo aspetto) perché l’amministrazione del penitenziario può effettivamente, per ragioni organizzative, stabilire delle fasce orarie precise, ma - ancora una volta, avverte la Cassazione - devono valere per tutti i detenuti. La decisione della Consulta: “Nessuna disparità tra reclusi” - La Cassazione riprende quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nel 2018, quando il divieto di cuocere cibi in certi orari era stato ritenuto una “limitazione contraria al senso di umanità della pena e una deroga ingiustificata all’ordinario regime carcerario”. Una disposizione “dalla valenza meramente e ulteriormente afflittiva”. I detenuti al 41 bis devono quindi essere assimilati, sotto l’aspetto dell’alimentazione, a tutti gli altri e “in assenza di ragioni di sicurezza per un trattamento diverso, non trova alcuna giustificazione una restrizione dell’orario in cui i detenuti possono dedicarsi alla cottura dei cibi”. Inoltre, “la mancata omologazione dei generi alimentari presenti nel modello 72”, per la Consulta, configurava “una ingiustificata disparità di trattamento con la sottoposizione dei soggetti” al 41 bis “a un trattamento ulteriormente afflittivo privo di qualunque giustificazione, trattandosi di beni non di lusso”. La difesa del Dap: “Evitare che chi è al 41 bis imponga il suo carisma” - Una lettura alla quale il Dap ha replicato sostenendo che non ci sarebbe alcuna limitazione dei diritti soggettivi con le restrizioni previste dal “modello 72”, visto che nuovi cibi erano stati introdotti e che altri se ne potevano aggiungere a fronte di una richiesta “generalizzata da parte della popolazione ristretta”. Comunque la finalità delle limitazioni è quella di “impedire che il detenuto al 41 bis possa acquistare in carcere quantità e qualità di cibi tali da dimostrare e/o imporre il suo carisma, o spessore criminale, al resto della popolazione carceraria”. La Cassazione: “Evitare regole vessatorie e ingiustificate” - La Cassazione però sottolinea che si tratta invece proprio di diritti soggettivi perché la cottura dei cibi e l’acquisto di generi alimentari, “trattandosi di profili che sono direttamente pertinenti al diritto di alimentarsi e che, come tali, hanno immediata incidenza anche sul diritto alla salute”. Ma, per quanto riguarda gli orari per cucinare “deve condividersi - si legge nei provvedimenti della Cassazione - il rilievo dell’amministrazione ricorrente secondo cui la regolamentazione degli orari relativi alla cottura dei cibi abbia inciso essenzialmente sulle modalità di esercizio del diritto, affidate alla discrezionalità dell’amministrazione, in funzione delle esigenze di ordine e disciplina interni”. Tuttavia - e da qui l’annullamento con rinvio - va chiarito se gli orari non celino “in realtà una differenziazione del regime penitenziario del tutto ingiustificata” tra detenuti al 41 bis e gli altri e “tale da assumere, in concreto, un carattere sostanzialmente vessatorio”. Il divieto di cottura dei cibi in determinate fasce orarie “è legittimo a condizione che riguardi tutti i detenuti e non solo quelli al 41 bis”, dice la Suprema Corte. “I detenuti devono poter acquistare tutti gli stessi alimenti” - Sui generi alimentari che è possibile acquistare, la Cassazione scrive invece che la “previsione di una lista dei prodotti più contenuta (per chi è al 41 bis, ndr) rispetto a quella destinata ai detenuti ordinari - per il rischio che nelle sezioni differenziate si possano manifestare posizioni affermative di uno status di potere, da parte dei detenuti più facoltosi, non sia affatto fondata ma, al contrario, appaia inutile e immotivatamente vessatoria rispetto alle ordinarie regole”, anche perché “il detenuto è allocato in cella singola e al massimo può scambiare i prodotti alimentari acquistati con i componenti del proprio gruppo di socialità e, pertanto, sono da escludere eventuali manifestazioni di supremazia o carisma criminale paventate dall’amministrazione, anche perché gli alimenti contemplati al sopravvitto in genere non sono prodotti di lusso, né particolarmente costosi”. E la possibilità di acquistare beni di lusso è comunque esclusa per tutti i detenuti. Lazio. Quanti detenuti definitivi hanno avuto un colloquio con il proprio magistrato di sorveglianza? di Vincenzo Comi* Il Dubbio, 11 agosto 2022 I magistrati del Tribunale di sorveglianza di Roma leggeranno l’intervista sul Dubbio di oggi (ieri ndr) di Vincenzo Semeraro? Semeraro è il giudice di Sorveglianza del Tribunale di Verona che ha scritto una lettera diffusa ai funerali di Donatella Hodo, giovane suicida nel carcere femminile di Verona. Il magistrato interpreta la funzione del giudice di sorveglianza secondo l’ordinamento penitenziario vigente. E ha il coraggio di esprimere pubblicamente le sue idee e i sentimenti di chi esercita una delle funzioni più importanti riconosciute da uno stato democratico. Per Semeraro: “Quando sei magistrato dell’Esecuzione e gestisci le varie vicende carcerarie e detentive, non hai a che fare solo con un detenuto ma innanzitutto con una persona. Uomini, donne con storie diverse. Non vanno trattati come numeri, come pedine di un ingranaggio, ma come individui differenti l’uno dall’altro. Sono persone, certo recluse in cella, ma pur sempre persone”. C’è una premessa a monte delle dichiarazioni di Semeraro. Il magistrato di sorveglianza deve incontrare e conoscere il detenuto attraverso colloqui in carcere. Si può esercitare la funzione se si assolve a questo compito certamente impegnativo e a volte defaticante, ma pur sempre uno degli aspetti più importanti della funzione. Nel Lazio quanti detenuti definitivi hanno avuto un colloquio con il proprio magistrato di sorveglianza? Quanti dei magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Roma si recano periodicamente a colloquio con i propri detenuti? Quanti magistrati potrebbero rispondere con le stesse frasi di Semeraro sul rapporto con il detenuto? Dice Semeraro “Forse l’ultima volta che sono andato a farle visita nel penitenziario, lo scorso giugno, avrei potuto dirle due parole in più? Perché, nonostante la conoscessi da quando aveva 21 anni, non ho captato che il malessere era divenuto per lei così profondo?”. La realtà è che manca totalmente questo rapporto tra magistrato e detenuto e questo pregiudica il percorso trattamentale, l’accesso alle misure extramurarie e i tempi di decisione delle istanze. Dice Semeraro: Ogni volta che una persona detenuta in carcere si toglie la vita, significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io ero parte del sistema visto che seguivo il suo caso da sei anni”. Speriamo che il dibattito faccia comprendere ai magistrati laziali l’importanza degli incontri con i detenuti per il progresso trattamentale e il loro reinserimento sociale. E speriamo di non ascoltare in futuro nelle pubbliche assemblee giudiziarie che i magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Roma non si recano a fare visita ai detenuti negli istituti per mancanza di... autisti addetti. *Presidente Camera Penale di Roma Rimini e Monza. Due detenuti si sono impiccati nelle ultime 24 ore, da inizio agosto 8 suicidi Ristretti Orizzonti, 11 agosto 2022 Sliman Mohamed, 24 anni, è morto stanotte nel carcere di Monza. Sarebbe uscito ad aprile 2023. Nel carcere di Rimini ieri si è ucciso un altro detenuto, del quale non abbiamo i dati anagrafici. Informazioni fornite dal Garante nazionale dei detenuti Napoli. Voleva avvicinarsi alla famiglia ma lo hanno allontanato di più: così si è ucciso Dardou di Rossella Grasso Il Riformista, 11 agosto 2022 Aveva solo 33 anni Dardou, di origine algerina, detenuto nel carcere di Secondigliano di Napoli. La sua è l’ennesima storia di disperazione e marginalità che lo hanno portato a compiere il gesto estremo. Dardou nel pomeriggio del 9 agosto ha stretto il lenzuolo intorno al collo e si è lasciato cadere mentre era nella sua cella. Inutili sono stati i soccorsi da parte del compagno di cella che si è presto accorto di quello che stava succedendo e ha sciolto il nodo del lenzuolo attorno al suo collo. Inutile il pronto intervento degli agenti che hanno tentato di salvargli la vita. Inutili sono stati i soccorsi del 118 arrivati a stretto giro. Per Dardou non c’era già più niente da fare. Poche ore prima, nel carcere di Poggioreale, a pochi chilometri da Secondigliano, un altro detenuto si è tolto la vita: si chiamava Francesco Iovine, aveva 43 anni e soffriva di anoressia. Sono 5 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno in Campania, 3 nel giro di pochi giorni ad agosto, 49 in tutta Italia. Una strage silenziosa e agghiacciante. Un agosto tremendo che è lo specchio della disumanità delle carceri e del totale fallimento del suo scopo rieducativo. Dardou il 7 agosto ha compiuto 33 anni. Era stato arrestato a Milano il 7 agosto 2018. Il 5 agosto 2023 sarebbe terminata la sua pena. A dare notizia di questo ennesimo suicidio in carcere il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello e il garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia, che subito sono corsi a Secondigliano. Dardou aveva origini algerine e la sua famiglia viveva a Marsiglia. Aveva anche una figlia probabilmente una bambina vista la giovane età del padre. Ha girato tante carceri per poi arrivare a quello di Benevento. Se ne stava sempre solo e in disparte. Parlava poco e male l’italiano, non faceva colloqui con la famiglia che era troppo lontana e per loro era impossibile venire in Italia per vederlo. Dal suo ingresso in carcere non aveva avuto mai colloqui e non aveva nemmeno notizie della figlia. Un uomo solo al mondo rinchiuso in una gabbia in cui era ancora più solo. L’inferno in terra. Il garante Ciambriello racconta che dal carcere di Benevento aveva più volte chiesto il trasferimento in un altro carcere della Liguria o del Piemonte per potersi avvicinare alla famiglia che con un treno avrebbe potuto raggiungerlo più agevolmente. Già in passato aveva tentato il suicidio per ben 3 volte nel giro di pochi giorni. Il 5 maggio scorso Ciambriello aveva scritto a Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e a Gianfranco De Gesu, Direttore Ufficio Detenuti e Trattamento Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per segnalare la grande sofferenza del 33enne con cui era spesso in contatto. Durante l’ultimo tentativo di suicidio Ciambriello aveva parlato al telefono con Dardou, lo aveva calmato. Ma pochi giorni dopo lui aveva minacciato di buttarsi da un piano alto dell’Istituto. “Mi sono confrontato con il Direttore del carcere di Benevento, che è favorevole a tale trasferimento - scriveva Ciambriello nella lettera - anche perché si tratta di un detenuto con fine pena il 5 agosto 2023. Vi chiedo di considerare, quanto prima possibile, tale richiesta”. La risposta arrivava il 18 maggio fredda e netta: “In data 6 maggio il competente Ufficio di questa Direzione Generale ha invitato la Direzione della Casa Circondariale di Benevento a comunicare al detenuto il mancato accoglimento delle sue istanze di trasferimento per mancanza di motivazioni”. Gli comunicavano anche la novità: il 7 maggio si sarebbe dovuto trasferire nel carcere di Secondigliano “per esigenze di istituto”. Dunque Dardou che voleva essere avvicinato a casa si è ritrovato in un blindato che invece lo portava ancora più lontano. Chissà con quanta disperazione deve aver appreso la notizia. Tutto questo per scontare una pena di appena 5 anni. Pietro Ioia racconta che il detenuto era ben seguito a Secondigliano perché non stava bene. “Lo avevano messo nella sezione migliore dell’Istituto, quella con le celle aperte proprio perché così stesse meglio. Il 2 agosto aveva avuto la sua ultima visita psichiatrica. Ma la sua sofferenza ha prevalso. Questa è una sconfitta per tutti. Un omicidio istituzionale”. “Noi più che garanti siamo diventati becchini - dicono Ioia e Ciambriello - Ormai corriamo in carcere più per i morti che per i vivi. In pochi giorni già 3 suicidi. Non dovrebbe succedere in un paese civile. Chiediamo che il capo del Dap e la Ministra Cartabia vengano qui nelle nostre carceri della Campania. Questa è un’emergenza nazionale”. “Quella di Dardou è una storia di disperazione - continua Ciambriello - Il carcere è come una condanna a morte per chi è completamente solo o ha partenti lontani. Lo Stato in ogni caso dovrebbe evitare che succeda che qualcuno decide di morire. È come un omicidio questo”. “La cosa più inquietante è che già quando uno entra in carcere diventa un numero - conclude Ciambriello - Quando muore scompare completamente dagli archivi. Non solo in carcere le persone diventano un numero ma poi scompaiono pure”. È questa l’”umanità” del carcere che non tutela i diritti di persone, esseri umani, che sono di carne, ossa e anima. Padova. Inchiesta sulla sanità al Due Palazzi dopo l’esposto di quaranta detenuti di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 11 agosto 2022 “Cure in ritardo, patologie gestite superficialmente e morti che potevano essere evitate”: è la denuncia dei carcerati. “Celeri e approfondite indagini” sul sistema sanitario all’interno della casa di reclusione Due Palazzi. È quanto i detenuti del terzo blocco lato B, chiedono in un esposto arrivato dritto dritto alla Procura della Repubblica di Padova. I firmatari sono quaranta reclusi che pretendono chiarezza su un tema che sembra molto ostico all’interno del sistema carcerario. Un esposto che non è caduto nel nulla. La Procura ha aperto un’indagine per vederci chiaro su quanto succederebbe dietro alle sbarre della casa di reclusione, per capire se realmente ci siano dei problemi dovuti a ritardi di cure, visite, diagnosi, come sostengono i detenuti. Se effettivamente esista questa noncuranza della salute di chi è in carcere, tanto che alcune situazioni, dicono sempre i detenuti, si sarebbero aggravate a tal punto da portare alla morte come esito finale. Il pubblico ministero che si sta occupando dell’inchiesta ha aperto un fascicolo, per ora senza alcuna ipotesi di reato e dunque senza indagati. Tecnicamente si tratta di un “modello 45” che consente di svolgere una serie di accertamenti. “In data 23 novembre 2021 alle ore 23 circa è venuto a mancare il nostro compagno Ayari Hassen affetto da gravi patologie quali diabete mellito, cardiopatia ischemica cronica e altre correlate alle due di cui sopra, quindi assolutamente incompatibile con il regime carcerario”, scrivono i detenuti nell’esposto. “Lo stesso, presumibilmente colpito da infarto, non ha avuto la forza e la possibilità di chiedere aiuto, di premere il pulsante di emergenza. Il signor Hassen era da solo in stanza, senza piantone come nel caso de quo previsto per legge”. La morte del detenuto di origini tunisine di appena 45 anni, sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo. È a questo punto che i detenuti si sono mossi. Prima si sono arrabbiati, poi indignati. Hanno parlato tra di loro, si sono messi insieme e in quaranta hanno firmato l’esposto giunto in Procura. Eppure di lettere, sia di persone recluse al Due Palazzi, che di parenti delle stesse, pare ne arrivino continuamente ai magistrati di sorveglianza e al garante dei diritti della persona. Missive che parlano di come al Due Palazzi stare male sia peggio di un incubo. La prima questione che viene toccata è il fatto che spesso in carcere ci sono persone che hanno patologie che dovrebbero essere incompatibili con il regime carcerario. Ma non solo. I detenuti lamentano il fatto che troppo spesso le cure arrivino in ritardo, i problemi di salute vengano sottovalutati, le visite vengano fissate a distanza di mesi. E non è facile, sostengono, non poter fare niente, essere costretti ad accettare che qualcuno si occupi in modo “superficiale” di problemi di salute anche gravi, che li riguardano in prima persona. In fondo la civiltà di un Paese si vede anche da come questo tratta i suoi detenuti. Un paio di giorni fa è arrivata la lettera alla direzione del nostro giornale, nella stessa busta con la copia dell’esposto. A parlare sono ancora una volta i carcerati. La volontà far emergere un problema, quello della salute dietro alle sbarre, che avrebbe già una “lista delle prossime vittime”. Ci sarebbe un 63enne giunto da sei mesi al Due Palazzi per cui “il lassismo sanitario potrebbe aver causato un tumore prostatico”, un 50enne con serie patologie che “lamentava quotidianamente problemi di salute e che il sistema sanitario credeva fossero dovuti a un colpo d’aria”, e invece: “si trattava di un’emorragia interna. Ricoverato d’urgenza è stato salvato per miracolo”. Un altro 60enne con “numerose patologie tra le quali il diabete mellito di tipo 2”, sarebbe stato sottoposto a visita diabetologica “solo dopo circa sei mesi dal suo ingresso in carcere, tenuto per tutto il tempo con valori glicemici elevatissimi che gli stanno provocando problemi al sistema nervoso centrale”. Sono solo alcuni esempi che i detenuti elencano fornendo nome e cognome dei compagni che, a loro avviso, corrono dei rischi dal punto di vista della salute. “Tutti nelle mani dello Stato e nessuno si chiede per quale ragione il sistema sanitario non riesca a salvar e loro la vita”. Napoli. Carceri: il dramma del caldo negli istituti: sovraffollamento e niente ventilatori di Raffaele Sardo La Repubblica, 11 agosto 2022 Detenuti a torso nudo in cortile, suicidi mai tanto alti dal 25 giugno a oggi. A Poggioreale anche un novantenne e un obeso di 250 chili. “Che in carcere si stia al fresco è una fandonia bella e buona”. Quello che dice Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, è la perfetta sintesi del disagio che in questa estate bollente vivono detenuti e personale in servizio negli istituti d’Italia. Non si contano le note indirizzate dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ai provveditori regionali e ai direttori delle carceri che hanno ad oggetto la “tutela della salute e della vita delle persone detenute e internate” al fine di valutare la possibilità di consentire ai reclusi, tramite le imprese di mantenimento, l’acquisto di ventilatori a batteria di piccole dimensioni, certo privi di parti metalliche potenzialmente pericolose ma ugualmente funzionali. Perché in carcere, nelle celle spesso sigillate da pesanti porte blindate, non passa un filo d’aria. Perché se fa caldo in strada, dentro si muore. Ed è salito, anche se non necessariamente a causa del caldo, il numero dei decessi dietro le sbarre: dal 25 giugno a oggi si contano 27 morti, più di uno al giorno quindi. Di questi 18 sono suicidi e 1 omicidio (nello stesso periodo del 2021 i morti erano stati 13, di cui 10 per suicidio). Non solo, perché a peggiorare una situazione di per sé non facile, c’è anche il sovraffollamento schizzato a quota 108%: in soldoni vuol dire che al 31 luglio scorso nelle carceri d’Italia sono recluse 54.979 persone a dispetto di una capienza regolare di 50.909. Questo mentre gli agenti di Polizia Penitenziaria mancano di 18mila unità e circa 9.000 durante il periodo estivo sono in ferie. Pochi poliziotti in servizio contro un numero sempre crescente di detenuti: di qui l’aumento delle aggressioni non solo contro il personale ma anche tra i reclusi stessi, gli atti di autolesionismo difficili da controllare e prevenire. E sì, anche le evasioni. Quarantasette in totale dal primo gennaio, secondo quanto apprende l’Adnkronos da fonti sindacali: 13 dagli istituti penitenziari, dagli ospedali, da visite mediche esterne, dalle aule di giustizia, 12 dei quali riarrestati, 10 da lavoro esterno, 4 dei quali riarrestati, 5 dalla semilibertà, 3 dei quali riarrestati, 17 da permesso premio, 12 dei quali riarrestati e 2 da permesso di necessità, entrambi riarrestati. Ieri l’ultima lampo dal carcere di Cuneo, da dove è fuggito Daniele Bedini, presunto assassino di Sarzana. “Il ministro della giustizia, se c’è, deve battere un colpo: si dice che il suo sia un curriculum da liberista e qui però non si è visto nessuno” incalza Ciambriello. “Nei mesi di luglio e agosto dovrebbero diminuire le attese per i colloqui e aumentare i permessi per svuotare le celle. Nelle aree passeggio non ci sono punti docce o fontanelle, in alcuni istituti le porte sono di ferro, blindate, col risultato che ogni stanza è un forno crematorio. E a Poggioreale, dove tra i reclusi ci sono un 90enne e un obeso di 250 chili, in cortile stanno a torso nudo perché il caldo è intollerabile - dice ancora il garante dei detenuti campano - E allora mi chiedo, in questi mesi di forte caldo perché i politici invece che fare come gli struzzi, non mettono in campo proposte per migliorare la vita in carcere?”. “Le carceri, così come più in generale il sistema di esecuzione penale del Paese, continuano ad essere abbandonate a se stesse e con loro i detenuti e gli stessi operatori. Ciò nel disinteresse sostanziale, se non nella grave inettitudine della politica tutta” gli fa eco Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Pp, che spiega ancora: “Le problematiche emerse con le rivolte del marzo del 2020 e i tredici morti, non sono affatto state affrontate e, anzi, si sono aggravate. Problematiche che insistono tutto l’anno, ma che in certi periodi si fanno sentire ancora di più sia per ragioni di ordine convenzionale-psicologico, come può essere l’estate tradizionalmente dedicata alle ferie e al divertimento, sia per ragioni pratiche correlate alla calura accentuata da celle sovraffollate, alle infestazioni di zanzare e di altri insetti, ma spesso anche di roditori, all’aggravata mancanza di personale di ogni profilo professionale, che fruisce di ferie e, non ultimo, talvolta, allo stesso venir meno dei colloqui per le vacanze dei familiari dei detenuti”. “Insomma - continua il sindacalista - un mix esplosivo che la Polizia penitenziaria contiene a stento. Da presidente del consiglio Mario Draghi, che durante la discussione generale sulla fiducia alla Camera dei Deputati aveva detto che non sarebbe stata trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, su questo tema ha completamente fallito ed ha tradito la nostra di fiducia. Le condizioni di coloro che vivono e operano nelle carceri, sotto il suo governo, sono continuate a peggiorare. Sarebbero stati necessari un decreto carceri per affrontare l’emergenza, fatta soprattutto di un vuoto organico della Polizia penitenziaria di 18mila unità, di sovraffollamento detentivo, di equipaggiamenti, strumentazioni e tecnologie inadeguati, nonché di disorganizzazione ancestrale, e parallelamente una legge delega per le riforme strutturali”. Napoli. A Poggioreale 2 psicologi per oltre 2mila detenuti, dietro le sbarre addio umanità di Viviana Lanza Il Riformista, 11 agosto 2022 Cinque psicologi sulla carta, due quelli in servizio (che talvolta si alternano). Diciannove educatori sulla carta, nove quelli effettivamente presenti. Facciamo questi due esempi per indicare la voragine negli organici, e di conseguenza nella gestione, del sistema penitenziario. Sono esempi che fotografano la situazione nel carcere di Poggioreale denunciata dal garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. Due psicologi in un carcere che conta più di duemila reclusi. “Come fanno a incontrare i detenuti? È umanamente impossibile”, osserva il garante sottolineando la grande sproporzione tra popolazione detenuta e personale dedito all’assistenza e alla guida dei detenuti. “Chi deve assumere queste figure professionali? Perché non lo fa? - aggiunge Ciambriello, sollevando spunti di riflessione. Vi sembra normale che in un carcere con duemila detenuti ci siano solo due psicologi e nove educatori? Con chi parlano i detenuti?”, conclude evidenziando che l’unica presenza in carcere è quella dell’agente di turno nei vari padiglioni. Un agente che si ritrova a fare, a seconda delle esigenze del momento, il medico, lo psicologo, il cappellano, il mediatore culturale. E facendolo male ovviamente, perché non ne ha la formazione, senza colmare i vuoti che ci sono all’interno del sistema penitenziario e che con il tempo si acuiscono fino a diventare voragini. Il sistema carcere frana sotto l’indifferenza della politica, il populismo giustizialista degli ultimi decenni, sotto i mancati interventi, le carenze e le disfunzioni, i ritardi e il mancato tempismo, l’assenza di progetti e più spesso di iniziative. Questo continua a essere il carcere che punisce più severamente i “poveri cristi”, il carcere della condanna preventiva, il carcere dove finiscono i presunti innocenti in attesa di processi che durano anni, il carcere dove rinchiudere gran parte di quelli di cui la società non riesce ad occuparsi, quelli di cui non riesce ad averne cura o che non riesce ad assistere (tossicodipendenti, senza fissa dimora, extracomunitari, giovani delle periferie degradate, affiliati di camorra, malati psichici). Ad oggi in Campania ci sono 6.660 detenuti, 2.168 dei quali sono reclusi a Poggioreale. Su questa popolazione detenuta una percentuale tutt’altro che rivelante (1,122 reclusi) riguarda i detenuti in attesa di giudizio, il popolo dei sospesi alle lungaggini processuali. Quasi tutti sono lasciati soli nelle celle, senza aiuti ma nemmeno senza alcuna finalità rieducativa della pena. Colpa di croniche carenze, di problemi mai risolti: basti pensare che nelle varie carceri della Campania ci vorrebbero 105 educatori ma ce ne sono solo 70, mancano medici di reparto, mancano figure sociali, mancano psicologi. Rossano. Antigone: “Un istituto diviso tra problematiche e potenzialità inespresse” Corriere della Calabria, 11 agosto 2022 Gli osservatori hanno rilevato il sovraffollamento delle celle, le scarse attività lavorative ed i rapporti pressoché nulli con le istituzioni locali. Dal 1998 l’Associazione Antigone è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i quasi 200 Istituti penitenziari italiani. Originariamente ogni due anni, ma dal 2007 ogni anno, Antigone redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, che è strumento di conoscenza per chiunque si avvicini alla realtà carceraria: media, studenti, esperti, forze politiche. Sono oltre 90 le osservatrici e gli osservatori di Antigone autorizzati a entrare nelle carceri con prerogative paragonabili a quelle dei parlamentari. Alcuni possono farlo in tutto il territorio nazionale, altri solo nella loro regione di provenienza. Questa mattina gli osservatori sono stati in visita nella Casa di Reclusione di Rossano e questo è il loro rapporto. Ubicazione e struttura - “L’istituto è territorialmente in una zona ibrida, non pienamente extra urbano, ma comunque neanche urbano. Ad ogni modo difficilmente raggiungibile e totalmente scollegato dalle linee del trasporto pubblico. Dunque, chi vi si deve recare, può fare affidamento solo su mezzi propri o utilizzare dei taxi. All’interno la struttura è in buone condizioni e il clima detentivo è parso sereno. Molti reparti e spazi comuni sono stati ristrutturati di recente e tutte le celle hanno bagni in spazi separati e docce nella camera detentiva”. Il sovraffollamento - “Una problematica riguarda senza dubbio il numero di detenuti per cella. In alcune sezioni ce ne sono anche 5 o 6. Questo - riferiscono gli osservatori di Antigone - al netto del fatto che in tutto l’istituto vige il regime delle celle chiuse e dunque i detenuti possono uscire dalla stanza detentiva solo per 4 ore al giorno, comporta difficoltà nella vita comune, aggravate dal caldo estivo che per questo istituto, collocato a poche centinaia di metri in linea d’aria dal mare, è particolarmente sentito. In alcune celle, inoltre, il limite minimo dei 3 mq - al netto dei letti e del mobilio - è fortemente a rischio e non in tutte le celle è detto che sia rispettato. Di questo fatto è consapevole anche la direzione dell’istituto che ci ha anticipato di aver richiesto il trasferimento di alcuni detenuti proprio per fare spazio nelle sezioni. Cosa particolare questa della mancanza di spazio nelle celle anche per il fatto che questi numeri si registrano nonostante i detenuti presenti (291) siano più o meno in linea con i posti regolamentari (285)”. Le attività lavorative - “Altra grande problematicità - prosegue il rapporto dell’associazione sil carcere di Rossano - riguarda le opportunità lavorative. Per una casa di reclusione, con detenuti praticamente tutti con condanna definitiva e pene piuttosto lunghe, il lavoro dovrebbe essere uno degli strumenti principali che caratterizzano il percorso di rieducazione. Invece le opportunità sono molto limitate. Per quanto riguarda chi lavora per l’amministrazione penitenziaria, oltretutto, spesso il numero di ore lavorate non corrispondono a quelle retribuite. Ciò a causa della mancanza di fondi per pagare le mercedi. I detenuti alle dipendenze di un datore di lavoro esterno sono invece solo cinque. Quattro lavorano per un’azienda di ceramica e uno per una falegnameria. In questo dato c’è tutta la difficoltà che il carcere incontra nell’integrarsi con il territorio circostante. Le istituzioni sono spesso assenti. Non esistono corsi di formazione finanziati dalla regione, non vengono fornite borse per lavori socialmente utili e non si incentivano le aziende che decidono di spostare parte della propria attività all’interno del carcere, neanche fornendo un supporto in termini di acquisti dei materiali prodotti. Questo vale ad esempio per la falegnameria che potrebbe fornire suppellettili o mobili sia per alcune realtà territoriali, ma anche ad altre carceri, potendo così assumere ulteriore personale tra le persone recluse. In questa situazione gli imprenditori fanno fatica e la demoralizzazione può portare ad abbandonare questa esperienza, nonostante la disponibilità dimostrate dal personale che lavora nell’istituto”. I rapporti con il carcere e l’istruzione - “Ma non solo le istituzioni mancano nel rapporto con il carcere. Anche il volontariato è quasi del tutto assente. Sono solo sei infatti le persone autorizzate ad entrare nella Casa di Reclusione per svolgere alcune attività. Un numero estremamente basso. L’unico legame vero - prosegue il rapporto di Antigone - è quello che si sta costruendo con l’Università di Cosenza che ha aperto da alcuni anni un polo universitario nel carcere, dove attualmente risultano iscritti 15 detenuti (un numero in crescita costante). A livello di istruzione va segnalato che gli istituti superiori che operano nel carcere, alberghiero e Itis, dal prossimo anno scolastico chiuderanno i corsi di primo grado (primo e secondo superiore) a fronte di un taglio dei fondi ministeriali. Questo toglierà l’opportunità a diversi detenuti di iscriversi e arrivare ad ottenere un diploma di istruzione superiore”. L’ufficio del magistrato di sorveglianza - “Ultima nota segnalata come problematica riguarda l’ufficio del magistrato di sorveglianza. Il rapporto con il quale ci viene segnalato da più parti come non ottimale, sia per la scarsa presenza nell’istituto, che lo scarso dialogo con tutte le parti in causa, nonché i presunti ritardi nelle risposte alle istanze e la gestione delle istanze stesse. La sensazione - concludono gli osservatori - è che la Casa di Reclusione di Rossano sia un istituto con grandi potenzialità che restano inespresse. Opportunità che anche un rinnovato interesse delle istituzioni locali potrebbero rimettere a regime facendo diventare il carcere un pezzo di città, produttivo per la città stessa”. Strage dei senza dimora, un morto ogni giorno dall’inizio dell’anno di Luca Liverani Avvenire, 11 agosto 2022 Denuncia della Fiopsd: gli homeless non muoiono solo di freddo, ma in tutte le stagioni. Caritas: uno scandalo, va usato il patrimonio immobiliare pubblico. Sant’Egidio: tutti possiamo salvare una vita. Un morto ogni giorno dall’inizio dell’anno. Dal 1° gennaio a oggi in Italia 224 persone senza dimora hanno perso la vita in 223 giorni. Diverse le cause, sempre uguale il luogo: la strada. Tragedie che trovano qualche riga nelle cronache solo d’inverno, quando si attribuisce alle temperature rigide il motivo del decesso. Ma i numeri dicono che non c’è differenza tra bella e brutta stagione: a maggio-giugno 61 morti, a gennaio-febbraio 57. Non esiste l’emergenza freddo, o caldo, esiste l’emergenza strada. I dati dell’ultima rilevazione della Fiopsd, la Federazione degli organismi per le persone senza dimora, sfatano dunque un solido luogo comune, per ribadire che la durezza della vita senza un tetto abbrutisce e uccide tutto l’anno. Fiopsd ricorda che le sue rilevazioni “non pretendono di avere carattere di scientificità”, ma i dati parziali del 2022 preannunciano - con 224 morti in otto mesi appunto - un anno ben peggiore dei precedenti: nel 2021 erano stati 246, e 208 nel 2020. Il primo morto di quest’anno, il 3 gennaio, è stato Giuseppe Gargiulo, 47 anni, che si è spento per un malore a Piana di Sorrento (Na). L’ultimo - per ora - l’8 agosto è Hamed Mustafe, somalo di soli 22 anni, investito ad Ancona da un’auto. Gli homeless dunque muoiono tutti i mesi e per le cause più diverse: nelle ultime quattro stagioni 79 sono deceduti d’inverno, 53 in primavera, altri 53 in estate e 60 in autunno. Secondo la Fiopsd “il 60% dei decessi è per incidente, violenza, suicidio, e il 40% per motivi di salute”. Chi muore per strada è nel 92% dei casi maschio, due volte su tre straniero, età media 49 anni. Varie le cause di morte, ma tutte legate all’emarginazione più dura: 73 per malore, 20 investite, 19 per violenza, 16 da overdose, 14 per annegamento, 14 da ipotermia, 12 i suicidi. “Chiunque di noi viva una situazione di difficoltà fisica o psicologica - dice Michele Ferraris, responsabile comunicazione della Fiopsd - a casa troverà un rifugio in cui riprendersi. Chi vive in strada è a rischio: è solo e vedrà acuirsi il suo problema. Chi ha patologie cardiocircolatorie d’estate rischia l’infarto, un’influenza d’inverno può degenerare in polmonite”. Dormitori e ostelli servono, ma non bastano: “Vanno lasciati al mattino e i gli ospiti passano la giornata inseguendo orari e luoghi in tutta la città dove trovare pasti, docce, vestiti. Il pubblico deve impegnarsi in progetti seri per la casa. Di soldi ne arriveranno, anche col Pnrr, vanno usati in progetti non assistenzialistici, creando reti di comunità tra pubblico e privato. Come l’housing first, che abbiamo avviato dal 2014”. Cioè case per tre o quattro persone aiutate da volontari a riconquistare l’autonomia: “Quasi il 90% di successo a due anni dall’avvio”. Le persone coinvolte sono 1.013 in 74 progetti, costo a persona di 26 euro al giorno. Per Giustino Trincia, direttore della Caritas diocesana di Roma, “è uno scandalo che si ripete da anni e va affrontato impiegando il vasto patrimonio pubblico abitativo inutilizzato”. I dormitori “sono risposte per la prima accoglienza, ma non ci si può vivere per mesi o anni, va recuperata un’autonomia di vita”. I progetti di housing first “sono una goccia nell’oceano, senza la disponibilità di un adeguato patrimonio immobiliare restano esperienze pilota”. Il volontariato ha un ruolo ineludibile, su cui però Trincia ha idee chiare: “Si smetta di pensare che il volontariato possa sostituire le responsabilità della politica e delle amministrazioni. Non deve fare supplenza, né fornire alibi. Sono problemi sistemici che chiedono un concorso di sforzi, in direzione di una vera sussidiarietà orizzontale”. “D’inverno col freddo c’è più attenzione mediatica al problema, ma le morti delle persone che vivono per strada sono costanti tutto l’anno. La bella stagione purtroppo non risolve questo dramma”, afferma Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio, uno dei responsabili del servizio ai senza dimora. “I dati dicono che le vittime sono in maggioranza stranieri. Va ripensata una strategia di protezione di queste persone che hanno un accesso ridotto ai servizi socio-sanitari, per mancanza di documenti o di residenza”. L’altro è un appello a tutti alla vigilanza: “A volte per salvare una vita basta un po’ di attenzione, una bottiglia di acqua fresca, una telefonata al 112. L’attenzione di chi resta nelle città deserte di questi giorni - avverte D’Angelo - può essere risolutiva. L’estate per certi versi è peggio dell’inverno: molti servizi chiudono e diventa ancora più difficile mangiare e lavarsi”. È vero che gli studenti poveri sono i più bocciati? Ecco cosa ci dicono i dati skuola.net, 11 agosto 2022 Sei sei ricco o di buona (culturalmente parlando) famiglia, hai meno probabilità di essere bocciato. Al contrario se la tua famiglia è povera (in solido o culturalmente), hai più probabilità di essere bocciato e, infine, di abbandonare la scuola prima di raggiungere il diploma di Maturità. Questo si legge tra le righe - ma non troppo - dei dati diffusi dal Ministero dell’Istruzione sugli esiti degli scrutini dell’ultimo anno scolastico. Ci sono tanti indicatori che si potrebbero citare a sostegno di questa regola, che come tutti gli enunciati di questo tipo ammette eccezioni. L’autore lo fa presente a titolo di avvertimento per i leoni da tastiera o per gli inguaribili romantici innamorati dell’idea di una scuola pubblica motore primo di quell’ascensore sociale che oggi funziona poco e male. A partire dalle elementari o primarie come si chiamano al giorno d’oggi. Qui la bocciatura praticamente non esiste e attiene a casi limite: i migliori e peggiori pascono insieme serenamente. Ma già si cominciano a vedere gli effetti del reddito familiare: nei test INVALSI al termine del ciclo scolastico, gli studenti di Sicilia, Sardegna, Campania e Calabria sono quelli che portano a casa i risultati peggiori in italiano, matematica e lingua inglese. Posizionandosi ben al di sotto della media nazionale. Le stesse regioni, guarda un po’, occupano anche le ultime posizioni nella classifica regionale del PIL pro capite, insieme a Molise e Puglia che da un punto di vista di risultati alle prove INVALSI se la passano un po’ meglio. Alle medie, oggi note come secondarie di primo grado, ritorna l’antica pratica della bocciatura per gli studenti meno talentuosi o più latitanti, in termini di frequenza scolastica. Qui la pazienza del sistema inizia a finire e circa l’1,5% degli studenti viene bocciato: gli alunni che restano indietro cominciano ad essere respinti nonché etichettati attraverso un giudizio finale di non ammissione all’anno successivo. Ma la vera “mattanza” inizia alle secondarie di secondo grado: a giugno il 6,2% degli studenti delle superiori è stato bocciato, percentuale che sale addirittura all’8,1% se consideriamo il primo anno del ciclo. Praticamente finite le scuole medie, termina anche la clemenza e si inizia a fare sul serio. Soprattutto con i più deboli, quelli che, non sostenuti da un contesto familiare e sociale sufficientemente robusto, tendono a mollare gli studi senza conseguire un diploma o una qualifica professionale. Se andiamo a guardare bene le tabelle del Ministero, la bocciatura colpisce principalmente gli studenti delle regioni e degli indirizzi di studio in cui è più alto il tasso di dispersione scolastica, come gli istituti professionali e alcune regioni del Sud Italia. Infatti i più alti tassi di bocciatura, in assoluto, si registrano negli istituti professionali di Sardegna (15,5%), Campania (14,7%) e Calabria (13,5%). Collegare la frequenza degli istituti tecnici e professionali al censo delle famiglie di origine può sembrare un discorso classista. Ma i dati per fortuna sono abbastanza scevri da queste considerazioni. L’ultimo rapporto Alma Diploma, relativo ai diplomati 2021, parla chiaro: ai licei c’è maggiore probabilità di trovare studenti provenienti da famiglie con livelli più elevati di istruzione e reddito, ai professionali avviene l’esatto contrario. Basta guardare (si invita a farlo, pagina 8 e 9) e si scopre che al liceo il 41,3% dei diplomati ha almeno un genitore laureato e il 30,5% proviene da una classe sociale elevata. Ai professionali i diplomati di tale rango familiare sono rispettivamente il 9,8% e il 10,9%. Ai tecnici va leggermente meglio in termini di mix sociale e culturale, ma non troppo. Di nuovo la bocciatura, e più in generale le scarse performance scolastiche, entrano in correlazione con il contesto familiare di origine. Infatti, tornando agli esiti degli scrutini 2022, il citato dato del 6,2% di studenti bocciati alle superiori si articola come segue: 3,4% ai licei, 8,9% ai tecnici e 10,9% ai professionali. Insomma ai professionali si boccia tre volte di più che ai licei, che nell’immaginario collettivo dovrebbero essere gli indirizzi di studio più selettivi. Se due indizi non fanno una prova, tre sicuramente ci si avvicinano. Infatti anche l’INVALSI, che quando sottopone uno studente ad una prova gli pone anche delle domande sul contesto familiare d’origine, certifica purtroppo queste disuguaglianze. Nell’ultimo rapporto rapporto si legge testualmente che “La scuola non riesce a ridurre lo svantaggio medio nei risultati degli studenti provenienti da famiglie in cui il titolo di studio più alto posseduto è la licenza media rispetto a quelle in cui almeno un genitore è laureato”. E rincara la dose: “Anche considerando solo il 2022, gli allievi eccellenti sono presenti con una percentuale più che doppia tra i ragazzi provenienti da famiglie più avvantaggiate rispetto a quelle meno favorite e di quasi dieci volte tanto rispetto a quelle di cui non abbiamo informazioni circa il background”. E stesso dicasi per la dispersione implicita, ovvero quegli studenti che prendono il diploma ma in realtà hanno competenze di base da terza media: “In termini di punti percentuali la dispersione implicita è più che doppia per gli allievi che provengono da famiglie meno avvantaggiate e quasi quadrupla per gli allievi di cui non sono disponibili i dati di background”. Insomma urge chiamare un tecnico, ma di quelli bravi, per riparare quell’ascensore sociale di cui la scuola dovrebbe essere promotrice. Perché purtroppo oggi è sempre più vera questa affermazione: se sei bravo e vai bene a scuola, è molto merito della tua famiglia e poco della tua scuola. Hong Kong. Il deserto dei diritti umani: la storia dell’avvocata Chow Hang-tung di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 agosto 2022 Chow Hang-tung, dapprima attivista per i diritti dei lavoratori e poi avvocata per i diritti umani di Hong Kong, è in carcere dal settembre 2021. La sua storia è emblematica del deserto dei diritti umani che è diventata Hong Kong, soprattutto dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale: una legge scritta da Pechino ed entrata in vigore il 30 giugno 2021 per rendere Hong Kong somigliante alla Cina continentale, dove il livello di tolleranza per il dissenso pacifico è pari a zero. Oltre ad aver difeso attivisti e dissidenti, Chow Hang-tung ha militato a lungo nell’Alleanza di Hong Kong a sostegno dei movimenti democratici patriottici della Cina (conosciuta più semplicemente come “l’Alleanza”), che per tre decenni, ogni 4 giugno, ha organizzato la più grande commemorazione al mondo del massacro di Tienanmen del giugno 1989. Fino al 2019, decine e talvolta centinaia di migliaia di persone si sono unite in una veglia a lume di candela nel Parco Victoria di Hong Kong per ricordare le vittime di quel massacro. Poi, con la scusa del Covid-19, la veglia è stata vietata. L’8 settembre scorso Chow Hang-tung e tre ex dirigenti dell’Alleanza, Simon Leung Kam-wai, Tang Ngok-kwan e Chan Dor-wai, sono stati arrestati per non aver fornito, come chiesto dalle autorità, dettagliate informazioni sui soci e sullo staff dell’Alleanza e sulle organizzazioni sue partner. Un altro esponente dell’Alleanza, Tsui Hon-kwong, è stato arrestato due giorni dopo. A seguito dell’avvio dei procedimenti giudiziari contro i suoi dirigenti e delle crescenti pressioni da parte del governo, l’Alleanza si è sciolta il 25 settembre 2021. Chow Hang-tung è accusata di “incitamento alla sovversione”, ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale. Se condannata, rischia fino a 10 anni di carcere. Nell’ambito della sua campagna globale “Proteggo la protesta”, per proteggere il diritto di protesta pacifica sotto attacco in decine di stati, Amnesty International ha lanciato un appello per chiedere il ritiro di tutte le accuse contro Chow Hang-tung e la sua immediata scarcerazione.