Di troppe speranze deluse in carcere si muore di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 10 agosto 2022 “Fate presto” era stata quasi una preghiera insistente e pressante fatta dal Volontariato alla ministra della Giustizia a proposito delle carceri, e dell’importanza del tempo e dell’attesa aveva parlato anche il Garante nazionale nella sua relazione annuale: eppure, non si è fatto in tempo, appunto, a fare quello che si poteva e si doveva fare, dare cioè dei segnali forti, continui, chiari alle persone detenute, cercando di tradurre le speranze alimentate dalle parole della ministra in misure concrete. Ma qualcuno riesce a immaginare cosa vuol dire vivere in celle anche con un caldo asfissiante, chiusi, senza possibilità di salvezza, arrabbiati con il mondo? Sì arrabbiati, e con ragione, a meno che non pensiamo che sia lecito torturare chi ha sbagliato e sta pagando con la galera. E delusi, soprattutto delusi: perché la fine del governo Draghi ha decretato ancora una volta che il carcere non è mai una priorità, e che nessuno è davvero convinto che le carceri siano lo specchio della società, e che carceri poco umane siano il segno di una società con un deficit sempre più pesante di umanità. Qualcuno, per esempio, ricorda, qualche anno fa, lo “scandalo” che ha coinvolto la ministra Cancellieri e la detenuta Giulia Ligresti (tra l’altro, poi assolta…) quando una telefonata della allora ministra che si interessava delle condizioni della detenuta, amica di famiglia, scatenò scandalizzate reazioni del mondo politico? Noi allora dicemmo che eravamo ben contenti se la ministra vigilava sulle condizioni di detenzione, e accogliemmo con apprezzamento sincero la notizia che il DAP avrebbe istituito un servizio telefonico H24 per i famigliari e gli operatori che volevano segnalare situazioni a rischio. Solo che ci risulta che nulla di tutto questo sia più stato fatto. E ci ritroviamo sempre lì, a contare i morti, che quest’anno sono tanti, sono davvero tanti. L’8 agosto, sulla scia di tutti questi morti, è uscita una circolare, a firma del Capo del DAP, dedicata al drammatico tema dei suicidi nelle carceri, e di come prevenirli. Una circolare minuziosa, attenta, che non lascia intentato nulla per stanare il malessere e intercettare i motivi che possono provocarlo, una circolare che cerca di coinvolgere tutti, dagli operatori penitenziari a quelli sanitari, ai Garanti, ai volontari, ai magistrati, tutto il mondo che ha a che fare con la vita detentiva. Ma… ma… è una circolare che si misura molto con le situazioni a rischio, i segnali di sofferenza, i motivi di un possibile crollo psicologico, e crea infiniti strumenti di controllo e di vigilanza, però si misura poco con le condizioni di vita nelle carceri, e con quello che sta succedendo ora, in questo 2022, e che ci interroga sulle cause di questo aumento dei suicidi e su tutta questa disperazione. Che è, appunto, prima di tutto la PERDITA DELLA SPERANZA, il crollo delle aspettative: il governo, i partiti non sono riusciti a fare neppure uno straccio di liberazione anticipata, che compensasse in qualche modo la doppia sofferenza della pandemia vissuta dentro alle galere. Le Commissioni hanno lavorato, hanno prodotto proposte, tutto poi crollato, tutto inutile, tutto carta straccia. Ci sono però due piccoli elementi nuovi in questo disastro generalizzato dei suicidi nelle nostre galere: il primo è che di fronte al suicidio di una persona detenuta forse per la prima volta qualcuno delle Istituzioni ha avuto il coraggio di chiedere scusa, e di interrogarsi sulle responsabilità, anche sulle sue personali di magistrato di Sorveglianza. Si tratta di Vincenzo Semeraro, il magistrato che si occupava dell’esecuzione della pena di una giovane detenuta, che si è tolta la vita a Verona: “Se in carcere muore una ragazza di ventisette anni come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente”. E poi c’è l’appello di David Maria Riboldi, cappellano nel carcere di Busto Arsizio, semplice nella sua disarmante verità: “Mettete il telefono in ogni cella, come in altri paesi europei”, solo così si potrà salvare qualche vita. Ecco, se vogliamo davvero riuscire nell’impresa disperata di prevenire qualche suicidio, dobbiamo prima di tutto pensare a questo, a dare ad ogni detenuto la possibilità, nei momenti in cui la sofferenza morde di più, di attaccarsi al telefono e chiamare casa. È la stessa richiesta che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha avanzato il 29 luglio, a un incontro con il Capo del DAP, Carlo Renoldi, e il Vice Capo, Carmelo Cantone: e non parlateci per favore di problemi di sicurezza, niente ormai è più controllabile di un telefono. Sosteniamo insieme questa richiesta, chiediamo alla politica di fare almeno questo, parliamo chiaro come ha fatto il magistrato: il sistema sta fallendo, ha fallito con tutte queste morti, cerchiamo davvero di fermarne qualcuna. Per ultimo, ricordiamo che da circa vent’anni Ristretti Orizzonti raccoglie, nel dossier “Morire di carcere”, tutte le storie dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”. Siamo riusciti così a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici” e ridandogli la dignità della loro sofferenza. La sofferenza che arriva al gesto di togliersi la vita è difficilmente prevedibile, ma provare a riaccendere la speranza con misure che riavvicinino le persone detenute ai loro cari è una delle poche strade praticabili. FATELO IN FRETTA, per carità. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizie e direttrice di Ristretti Orizzonti Suicidi in carcere, dalle linee guida di prevenzione all’appello “Mettete i telefoni in cella” di Luca Cereda vita.it, 10 agosto 2022 In carcere ci si suicida 16 volte più che fuori. Tante le variabili del disagio e della sofferenza che hanno determinato un aumento del numero dei suicidi. Uno staff per intercettare i segnali del malessere e l’appello del cappellano del carcere di Busto Arsizio, don Riboldi: “Mettete i telefoni in cella come nel Nord Europa”. Contrastare il dramma dei suicidi in carcere, rafforzando il carattere permanente delle attività di prevenzione. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria vara linee guida per un ‘intervento continuo’, attraverso il quale - si legge nella circolare - “il Dipartimento, i Provveditorati regionali e gli Istituti penitenziari siano tutti coinvolti, in una prospettiva di rete, per la prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. La circolare, firmata dal capo Dap Carlo Renoldi, è stata trasmessa ai Provveditori e ai direttori degli istituti. L’obiettivo è quello di rinnovare, anche con il coinvolgimento delle Autorità sanitarie locali, gli strumenti di intervento e le modalità per prevenire tale drammatico fenomeno, che in questi mesi sta registrando un sensibile incremento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il provvedimento traccia alcune linee guida - che seguono interventi attuati in passato da parte della Direzione generale dei Detenuti e del Trattamento - individuate in una riunione dedicata al tema della prevenzione dei suicidi alla presenza del Capo Dipartimento Carlo Renoldi, del Vice Carmelo Cantone e alla quale hanno partecipato i Direttori generali del Dap, i Provveditori regionali e numerosi Direttori di istituto. Nella circolare sono definite alcune linee di intervento da implementare in ogni istituto, chiamato altresì a verificare lo stato dei Piani regionali e locali di prevenzione e la loro conformità rispetto al ‘Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti’. Saranno gli staff multidisciplinari - composti da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - a svolgere in ogni istituto l’analisi congiunta delle situazioni a rischio, al fine di individuare dei protocolli operativi in grado di far emergere i cosiddetti ‘eventi sentinella’, quei fatti o quelle specifiche circostanze indicative della condizione di marcato disagio della persona detenuta che - come si legge nella circolare - “possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia Penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti” ed essere rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. Nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico delle persone detenute. Ogni istituto dovrà verificare che lo stato dei Piani regionali e locali di prevenzione sia in linea con il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”. Prevista poi una task force multidisciplinari - composta da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo - con il compito di monitorare e valutare le situazioni a rischio. Lo scopo del lavoro di equipe è quello di individuare protocolli operativi utili a far emergere gli “eventi sentinella”. All’attenzione dello staff ci saranno i fatti o delle specifiche circostanze, che possono essere la spia di un marcato disagio delle persone detenute. Segnali che “possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia Penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti” ed essere rivelatori del rischio di un successivo possibile gesto estremo. Nella circolare, il Capo del Dap invita i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico dei detenuti. E’ l’appello, anzi, di una supplica del cappellano del carcere di Busto Arsizio, in provincia di Varese, don David Maria Riboldi, che si rivolge al ministro della Giustizia, Marta Cartabia e al capo del Dipartimento delle sedi penitenziarie, per chiedere l’uso dei cellulari nelle celle, un tema già trattato nella recente visita del presidente della Cei, il cardinale Matteo Maria Zuppi. “Nelle carceri italiane si sono tolte la vita 47 persone, in questo 2022 - spiega il cappellano - La solitudine, l’abbandono, la disperazione sono le cause. Urgono alla nostra coscienza risposte concrete. Non facili denunce, ma proposte per arginare l’oscurità, che troppo agilmente prende il sopravvento nelle persone recluse. Ministra la supplico: il telefono in cella, senza limiti di orari, era già una delle proposte della commissione Ruotolo, dello scorso dicembre. L’incidenza storica di quanto accade fa piovere su di lei una richiesta, cui certo il suo cuore non sarà sordo. Non passerà un altro Kayròs (un tempo opportuno): se non lei, chi? Se non ora, quando?”. Don David nel video postato sui social racconta di una chiamata ricevuta una sera, alle 22.30, da un recluso conosciuto al carcere di Busto Arsizio e ora detenuto in un penitenziario del Nord Europa: “Don, mi sento giù. Hai voglia di ascoltarmi un po’?”. Da qui l’appello: “Non siamo noi a decidere quando uno ha bisogno di conforto ma i ritmi stabiliti dal nostro ordinamento stabiliscono che uno passa chiamare 10 minuti a settimana, con il post Covid qualcosa di più. Altrove in Europa, forse non in tutti i circuiti di sorveglianza, hanno il telefono nelle celle, possono chiamare e si pagano le loro telefonate. Quando hanno bisogno possono usare quel telefono, quando il loro cuore è sofferente possono ascoltare qualche voce amica cui il personale di sicurezza non può supplire”. Allarme suicidi in carcere. Antigone: “Aumentare le telefonate per i detenuti, 10 minuti non bastano” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 10 agosto 2022 L’appello a Draghi e Cartabia: “Modificate il regolamento”. Via Arenula lavora a una circolare per estendere le comunicazioni come nelle fasi acute del Covid: “Per cambiare il regolamento serve accordo politico”. Stramaccioni (Garante detenuti Roma): “Pochissimi educatori, in estate aumenta il disagio”. Quarantasette persone si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno. Un numero drammatico, che racchiude storie di solitudine, di dipendenza da sostanze stupefacenti, di difficoltà. Un numero in crescita nell’ultimo periodo - nella scorsa settimana si sono tolte la vita 5 persone - che non si riesce ad arginare. Nessuno ha la soluzione in tasca, ma l’associazione Antigone, che da anni si occupa dei diritti dei detenuti, ha fatto una proposta al premier Draghi e alla ministra della Giustizia Cartabia, da sempre molto attenta alle carceri. I volontari dell’associazione chiedono che sia ampliato il diritto dei detenuti a usare il telefono. Perché, spiegano nella campagna social, “una telefonata allunga la vita”. Per fare ciò bisognerebbe modificare il regolamento penitenziario del 2000, che contiene una norma assolutamente non più al passo con i tempi, risalente al 1975. Secondo questa regola ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Immaginate di essere completamente isolati dal mondo esterno, al caldo, in spazi ristretti, con pochissime attività di rieducazione e poter sentire vostra madre, i vostri figli, il vostro partner solo una volta a settimana per una manciata di minuti: è una sofferenza indicibile, che accresce la solitudine e l’emarginazione. “La nostra legislazione - spiega ad Huffpost Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - è tra le più arretrate in Europa su questo fronte. Davanti a un numero di suicidi impressionante, crediamo che si possa intervenire almeno garantendo un numero maggiore di telefonate a settimana. In un momento di solitudine, di fatica, quando si pensa al suicidio, una voce cara può essere una voce di dissuasione e consolazione. Avere un legame telefonico immediato con i propri parenti, soprattutto in un momento come l’estate, che è il peggiore per il carcere perché mancano gli educatori e i volontari, può essere d’aiuto La tecnologia per farlo c’è, basta intervenire sulla norma, che peraltro non ha bisogno di tutti i passaggi di una legge”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ieri ha diffuso una circolare in cui chiede allo staff delle carceri, in particolare alle figure come gli educatori e gli psicologi, di stare attento agli eventi sentinella. A quegli episodi che, cioè, possono essere spia di un malessere che porta al suicidio: “Un segnale importante”, dice Gonnella, che però spera in una modifica del regolamento penitenziario che possa incrementare le comunicazioni dei detenuti con la famiglia. Perché l’attenzione degli educatori, è la sensazione, non basta. “Soprattutto in estate - dice ad HuffPost Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma - il rapporto tra educatori e detenuti è quasi uno a duecento, in alcune strutture. Tantissimi reclusi incontrano per la prima volta gli educatori sei, addirittura dieci, mesi dopo l’ingresso in carcere. Questo accresce l’isolamento di chi già è solo. Con il caldo, poi, aumenta il disagio”. La pandemia, continua la garante, ha peggiorato le cose: “Ancora in molti penitenziari non sono riprese le attività di volontariato, né quelle con gli educatori. Il sovraffollamento, però, sembra stia tornando ai livelli pre-Covid”. L’incremento delle telefonate, gli operatori sono concordi, potrebbe alleviare la sofferenza dei detenuti. Ma come procedere per arrivare a queste concessioni? Secondo Antigone, come anticipato, basterebbe fare una modifica del regolamento: un atto non avente forza di legge che, quindi, non dovrebbe passare per il Parlamento e dovrebbe avere vita facile. Fonti di via Arenula spiegano ad HuffPost, però, che per questa operazione ci vorrebbe un decreto del presidente della Repubblica. Si tratta di un atto che può essere assimilato ai regolamenti, certo, ma presuppone una forma di accordo politico. Che, fanno trapelare dal ministero della Giustizia, in questo momento è estremamente difficile da raggiungere. Non sarebbe una strada impraticabile, in sostanza, ma non è detto che il tentativo andrebbe a buon fine. Prima dello scioglimento delle Camere, i dirigenti del Dap avevano in mente di intervenire sul regolamento, ma adesso l’esecutivo è in carica solo per gli affari correnti la strada è molto più stretta. E allora da via Arenula stanno valutando un’altra opzione: quella di estendere, e confermare, le misure che erano state prese durante la pandemia. Allo studio degli uffici del ministero c’è una circolare - un atto quindi che non deve superare gli scogli dell’accordo politico - per fare in modo che quelle misure introdotte con il Covid, come le videochiamate e un’intensificazione delle comunicazioni, possano essere ancora mantenute. Perché, è il ragionamento che si fa e che la ministra Cartabia ha fatto più volte, la pandemia ancora non è finita. E siccome quelle innovazioni avevano portato buoni frutti, vanno riproposte e conservate. Almeno per il momento. Su quello che potrà accadere dopo il 25 settembre, con un governo che - se i sondaggi non sbagliano - potrebbe avere sensibilità molto diverse sul tema, c’è un grande punto interrogativo. E qualche addetto ai lavori confessa che non vuole neanche pensarci. Le scuse del giudice e il fallimento delle carceri di Alessandra Ziniti La Repubblica, 10 agosto 2022 Se un giudice dice “ho fallito, il sistema ha fallito”, senza aver paura di piangere pubblicamente lacrime sincere sulla bara di una ragazza di 27 anni morta suicida in cella inalando il gas del fornelletto su cui cucinava, c’è da fermarsi. Per la verità avremmo dovuto già fermarci da tempo a riflettere sulle troppe vite (quasi tutte di giovani detenuti per reati di poco conto) inghiottite dall’enorme buco nero delle carceri italiane, ma neanche i numeri impressionanti, 47 nel 2022, infrangono il muro dell’indifferenza generale. E allora dobbiamo dire grazie al giudice del tribunale di sorveglianza di Verona Vincenzo Semeraro per la lettera inviata ai familiari di Donatella. Si conoscevano da sei anni il giudice e la “detenuta”, sei anni di piccoli reati e ricadute in quella Caienna che è il mondo della droga. Sei anni in cui - scrive il giudice - “avevo lavorato con lei e per lei in tante occasioni”. Il carcere, la comunità, di nuovo il carcere. Una lunga teoria di “interventi” in cui le istituzioni non sono riuscite a trovare un vero spazio per il recupero. L’impotenza del giudice è l’impotenza della società: “So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più”. Per Donatella, come per Francesco che era diventato anoressico e pesava 43 chili domenica quando si è tolto la vita nel carcere di Poggioreale, uno psichiatra per 2.000 detenuti. E negli altri istituti di pena la situazione, inimmaginabile per chi sta fuori, non è diversa: solitudine estrema nelle celle inzeppate di letti a castello, condizioni di vita indecorose, diritti calpestati a tal punto che l’associazione Antigone, la paladina dei detenuti, ha ritirato fuori un vecchio spot pubblicitario per rivolgere al governo una richiesta talmente minima da farci arrossire tutti: “Una telefonata allunga la vita. Una telefonata, in un momento di disperazione, di tristezza, di voglia di farla finita, può allungare la vita”. Ecco, la riforma penitenziaria potrebbe partire da qui. La lettera del giudice: “Quel suicidio è anche colpa mia…” di Simona Musco Il Dubbio, 10 agosto 2022 Le parole di Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona, al funerale della giovane morta suicida in carcere. “Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente…”. Le parole di Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona, suonano come un monito e, insieme, un’autocritica lucida. La sua lettera, letta ad alta voce da un’amica di Donatella, ha rotto il silenzio della chiesa di Castel d’Azzano, dove lunedì è stato celebrato il funerale della 27enne, morta suicida in carcere lo scorso 2 agosto. Il suo nome è uno dei tanti sulla triste lista che, ormai, viene aggiornata ogni giorno. Nomi che non fanno notizia, generalmente. Ma la storia di Donatella, sintetizzata da una straziante lettera d’addio indirizzata al fidanzato Leo, ha squarciato il velo, mettendo a nudo le storture di un sistema che la politica tende a ignorare, salvo invocare regole più rigide, più dure. Regole che vogliono i detenuti solo come numeri e non come persone, con storie e fragilità. Un sistema non piace nemmeno a chi ci vive dentro per mestiere. “So che avrei potuto fare di più per lei - ha scritto il magistrato che l’ha seguita negli ultimi sei anni -, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più”. Semeraro, in Veneto dal 2009, ha conosciuto Donatella nel 2016, quando la giovane ha iniziato ad entrare ed uscire dal carcere per via dei suoi problemi di tossicodipendenza. Una storia personale molto difficile, la sua, “per ragioni privatissime”, spiega al Dubbio il magistrato, che non riesce ad accettare che questa storia sia finita così. “Facendo questo tipo di lavoro si hanno ovviamente contatti con i detenuti, contatti che devono essere molto frequenti: per mestiere io devo godere della fiducia dei detenuti e devo avere fiducia in loro, dovendo decidere se concedere benefici o misure alternative. Ed è quasi inevitabile che a qualche detenuto ci si affezioni di più”, racconta. Negli ultimi 13 anni Semeraro ha sempre avuto a che fare con detenute donne, prima nel carcere di Venezia e ora a Verona. “Quello di Donatella era un caso che avevo preso particolarmente a cuore, perché nell’arco di sei anni l’ho vista finire in carcere più volte. Aveva un carattere particolare: era fragile come un cristallo di Boemia e al tempo stesso aveva paura di mostrare agli altri questa sua fragilità. Per questo si era costruita intorno una corazza e il suo carattere, al primo approccio, poteva risultare particolarmente difficile - racconta -. Io ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie, forse anche di più, per riuscire a conquistare la sua fiducia e ad avere fiducia in lei. All’inizio dell’anno l’ho inviata in comunità, un esperimento che, purtroppo, è finito male, perché forse lì non ha trovato l’ambiente adatto per lei”. Da quella comunità, infatti, Donatella è scappata, motivo per cui è finita di nuovo in carcere, dove si è tolta la vita. “Credo davvero a ciò che ho scritto in quella lettera - aggiunge Semeraro: quando si muore così vuol dire che il sistema dell’esecuzione penale, così come è concepito in Italia, ha fallito. E tra i primi soggetti che hanno fallito io metto me stesso”. Ma cosa poteva fare di più un singolo magistrato? “Non lo so. So che avrei potuto. Magari parlandoci 10 minuti in più, magari dicendole due parole di conforto in più o tenendola mezz’ora di più a colloquio quando veniva da me. Non lo so, credo che avrei potuto fare mille cose. Ed è vero, è il sistema che ha fallito, io però sono un ingranaggio del sistema”, aggiunge. In Italia, però, c’è una certa difficoltà a guardare l’esecuzione della pena in un’ottica costituzionalmente orientata. E così il carcere diventa un non-luogo, un posto in cui i diritti, spesso, vengono sospesi e il fine rieducativo della pena messo in soffitta. E se ciò è vero normalmente, quando a finire in carcere è una donna i problemi raddoppiano. “Il carcere come istituzione è pensato per gli uomini - sottolinea Semeraro -, perché è un’istituzione che ha come scopo primario quello di contenere la violenza e l’aggressività, che sono caratteristiche tipicamente maschili. Un carcere che dia modo alla emozionalità, caratteristica tipicamente femminile, di esprimersi, in Italia non c’è. Trattare la detenuta come se fosse un detenuto è un errore marchiano. Poi i risultati sono questi”. Ma più in generale, a non convincere il magistrato è la filosofia del “chiuderli dentro e buttare la chiave”. “Tutto ciò è sicuramente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, che non parla di pena, ma di pene. È chiaro che il legislatore del 1948 non poteva pensare alle misure alternative alla detenzione, forse erano troppo in là da venire - aggiunge - però già da allora non si pensava alla reclusione o all’arresto come unica forma di esecuzione della pena. E questo è molto importante. Ora, al di là del fine costituzionale della pena, fingiamo che le misure alternative non esistano e che la pena vada scontata interamente in carcere. Chi paga? Noi tutti, con le tasse. Ma se il condannato, anziché stare in carcere, sta in misura detentiva, ai domiciliari o meglio ancora in affidamento in prova al servizio sociale e lavora, guadagna e paga le tasse, c’è una ricaduta migliore per la società tutta. Basterebbe riflettere su questo, al di là dell’adesione ai principi della rieducazione, che sono fondamentali”. Principi più volte ribaditi dalla Corte costituzionale, che non più tardi di due o tre anni fa, ha riconosciuto che la pena ha una natura polifunzionale. “C’è l’aspetto preventivo, quello retributivo - aggiunge -, ma quello rieducativo non può mai mancare e deve essere prevalente su tutti gli altri”. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: la piaga della tossicodipendenza in carcere, problema che la politica aveva iniziato ad affrontare con gli istituti a custodia attenuata per i tossicodipendenti, salvo poi far finire tutto in un nulla di fatto. “La questione è stata ripresa in mano con i tavoli della riforma penitenziaria, che però hanno sortito poco, perché il governo gialloverde ha fermato le riforme prospettate - spiega Semeraro. Pochissimo di ciò che era previsto è stato tradotto in legge. E non dobbiamo nasconderci: la droga in carcere purtroppo circola, soprattutto grazie ai detenuti che - più o meno direttamente - sono legati alle organizzazioni criminali e che si avvalgono dei più deboli per lo spaccio”. Di fronte a questi problemi si invocano, in genere, pene più severe. Ma tutto questo “non servirebbe a nulla”, spiega il magistrato. “Andrebbero colpite le organizzazioni criminali - conclude -, soprattutto con le confische, che consentono di disarticolare l’organizzazione. Ma se dopo la confisca i beni e i patrimoni rimangono sotto sequestro senza essere utilizzati con uno scopo sociale, chi vince non è lo Stato, ma l’organizzazione criminale”. Donatella e gli altri suicidi in carcere. Il giudice Semeraro: “Ecco perché ho chiesto scusa” di Viviana Daloiso Avvenire, 10 agosto 2022 Il magistrato Vincenzo Semeraro, otto anni passati nell’Ufficio di sorveglianza di Venezia e dall’aprile del 2017 in quello di Verona, parla dell’ultimo incontro con la giovane detenuta e del fallimento del sistema. L’orologio torna indietro a una mattina di giugno. Ufficio del tribunale di sorveglianza di Verona, il sole caldissimo entra dalla finestra, da una parte del tavolo c’è una ragazza con la testa tra le mani, che parla, parla; dall’altra il giudice, attento, preoccupato. Lei si chiama Donatella: ha 27 anni e da quando ne ha 21 entra ed esce dal carcere. Una vita divorata dalla dipendenza, poi dall’illegalità. Lui, invece, è Vincenzo Semeraro: magistrato di lungo corso, otto anni passati nell’Ufficio di sorveglianza di Venezia, dall’aprile del 2017 in quello di Verona. Dove Donatella, la prima volta, era entrata già allora. Tra il colloquio di giugno scorso e lunedì, quando nella chiesa parrocchiale di Castel d’Azzano della giovane sono state celebrate le esequie, c’è l’abisso dei suicidi in carcere che sta sconvolgendo il nostro Paese, senza che nessuno di chi dovrebbe intervenire per fermarli se ne accorga, o quasi. Perché Donatella si è uccisa, settimana scorsa, nella sua cella di Verona: la quinta vittima in sette giorni, nell’estate più calda e più difficile anche per la storia penitenziaria italiana. È proprio dal suo caso che Avvenire ha preso spunto per tornare ad accendere i riflettori sull’emergenza: Donatella, prima di togliersi la vita, aveva scritto un messaggio straziante al suo fidanzato, “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere, ma ho paura di tutto”. Di non farcela, o forse di non riuscire ad affrontare di nuovo il carcere, di tornare a rubare una volta uscita per comprarsi la droga di cui non riusciva a fare a meno. Sono queste le ragioni che, nel deserto relazionale dei penitenziari (sovraffollati, spesso fatiscenti, privi di organici e di professionisti in grado di farsi carico del disagio sempre più diffuso), spingono tanti detenuti a fare come lei. Già 47 in questo 2022. E sono il cruccio del giudice Semeraro, che ai funerali di Donatella ha voluto fosse letto anche un suo messaggio di scuse: “So che avrei potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto”. Giudice, perché questo messaggio? Perché conoscevo Donatella da sei anni. E come spesso accade, quando segui da vicino i casi drammatici dei ragazzi e delle ragazze che finiscono in carcere per problemi di dipendenza, finisci con l’affezionarti a loro come se fossero dei figli. In carcere c’è un’umanità sterminata e le loro storie si assomigliano: sono fragili, fragilissimi, spesso provengono da famiglie altrettanto fragili. Entrano ed escono dal carcere di continuo. Nel caso di Donatella, il problema era il suo rifiuto ostinato a entrare in una comunità di recupero: ho sempre provato a convincerla, non ci sono riuscito. La verità è che è molto più facile entrare in carcere che in una comunità... Che cosa intende dire? A un tossicodipendente in carcere viene fornito il metadone, punto. Poi si può stare anche seduti tutto il giorno in branda a guardare la tv. In comunità ti devi mettere in discussione in un percorso di ricostruzione personale e in relazione con altri. Donatella non voleva farlo. Poi qualcosa è cambiato. Quando? A gennaio scorso mi chiese un colloquio e mi disse che era determinata a cambiar vita. A marzo la inviai in una comunità, ma già a maggio la misura venne revocata. Mi chiamarono dicendo che si comportava male. Questo mi lasciò contrariato: io lavoro con diverse comunità, l’ultima mi ha chiamato mezz’ora fa, il giovane che gli ho inviato è già stato trovato in possesso di anfetamina due volte eppure non hanno nessuna intenzione di perdere le speranze con lui, vogliono proseguire il percorso. Nel caso di Donatella le cose sono andate diversamente: dobbiamo naturalmente confrontarci con la diversità dei servizi che operano sul territorio, nel suo caso si sono arresi. O forse non è stato capito il suo carattere, a tratti oltremodo scontroso e problematico: per me, che la conoscevo, si trattava di una corazza con cui tentava di proteggere la sua enorme fragilità. Perché sente di non aver fatto abbastanza per lei? Non riesco a togliermi dalla testa l’ultimo colloquio che abbiamo avuto, a giugno. Lei piangeva, raccontandomi dell’errore fatto comportandosi così in comunità. Si scusava, tentava di giustificarsi. Ripeteva di voler cambiare, di desiderare una vita normale: una casa, un lavoro, una famiglia. Mentre la sentivo parlare pensavo che sono le stesse aspirazioni che hanno tutti i giovani alla sua età, mentre quelli tossicodipendenti continuiamo a considerarli diversi. Alla fine della nostra chiacchierata si è alzata stringendomi la mano: “Grazie sai...” mi ha detto. E quelle parole non riesco a scordarmele. Se le avessi parlato dieci minuti in più, se avessi trovato altre parole per confortarla, se avessi tentato un’altra strada forse le cose non sarebbero finite così. Con la mia lettera, consegnata ai suoi familiari, ho voluto far sentire la mia voce, che credo debba essere quella di tutto il sistema: perché se una giovane donna di 27 anni si uccide in carcere è tutto il sistema penitenziario che ha fallito. Io mi metto in prima linea, ma ci riguarda tutti. Che cosa non sta funzionando nelle carceri, a suo avviso? Quali sono le ragioni di questo fallimento? Il carcere, innanzitutto, non è un luogo per donne. È pensato e costruito come un luogo di contenimento per la violenza e l’aggressività fisica, che sono tipicamente maschili. Non c’è spazio per l’emozionalità e l’affettività che caratterizzano i percorsi femminili. Ma nel caso dei suicidi in generale entrano in gioco anche altre problematicità: c’è il nodo dei percorsi di riabilitazione e riscatto che vanno offerti attraverso il lavoro, ancora troppo a macchia di leopardo. Io che sono stato tanti anni a Venezia, ho visto l’eccellenza della Giudecca coi suoi progetti innovativi nella sezione femminile: il laboratorio sartoriale da cui escono gli abiti di scena per la Fenice o quelli per la Marina militare, la lavanderia e la sartoria da cui passano le tovaglie e i tessuti dei migliori ristoranti della città, l’orto biologico con cui si confezionano i kit di cortesia per gli alberghi a 5 stelle. Nel carcere di Verona c’è solo una cooperativa attiva sul fronte dei progetti di reinserimento: si fa carico di 5 o 6 detenute sulle 40 in media che vi transitano durante un anno. E poi c’è la questione annosa dei rapporti con le aziende sanitarie locali e coi Serd: anche in questo caso, qui a Verona, scontiamo qualche difficoltà nel coordinarci. Ha parlato con la famiglia di Donatella? Suo padre è stato nel mio ufficio stamattina. Mi ha ringraziato. È un uomo distrutto, anche lui aveva tentato in tutti i modi di aiutare sua figlia. Abbiamo condiviso i rispettivi rimpianti. Io me lo porterò dietro per tutta la vita. Mi consola il pensiero delle tante ragazze che invece ce la fanno: alcune sono passate da questo ufficio, oggi sono fuori. Non c’è solo male. Il giudice chiede scusa: “Il carcere non è un posto per le donne” di Enrico Ferro La Repubblica, 10 agosto 2022 Intervista al magistrato di sorveglianza, che doveva occuparsi del recupero di Donatella Hodo: “Potevo fare di più. Gli istituti penitenziari sono strutturati per gli uomini, per contenerne la violenza, ma le detenute hanno bisogno di altro”. Togliersi la vita in carcere a 27 anni, dopo un lungo corpo a corpo con la tossicodipendenza. Il viso delicato di Donatella Hodo cela l’abisso da cui non è mai riuscita a riemergere. Ma la sua parabola è il dramma di tutti, anche del magistrato che doveva occuparsi del suo recupero. Il giudice Vincenzo Semeraro, 63 anni, marchigiano, in Veneto dal 2009, per una volta mette da parte il Codice penale. Prende carta e penna e scrive una lettera con il cuore, che viene letta durante il funerale. “Scusami Donatella, con la tua morte ho fallito anche io”. Dottor Semeraro, sono parole pesanti le sue. Come mai dice di aver fallito anche lei? “Perché quando una ragazza di 27 anni muore in carcere significa che tutto il sistema ha fallito. La magistratura di sorveglianza è un ingranaggio fondamentale, quindi io ora mi porto dentro un bel peso”. Lei conosceva bene Donatella? “Certo. L’avevo vista entrare in carcere a 21 anni, per furti e altri reati minori. Aveva una storia di dipendenza già pesante, con una vicenda personale drammatica per tanti motivi. Quella situazione mi aveva colpito. Aveva una personalità fragilissima ma nascondeva questa fragilità dietro una corazza. Aveva un carattere che poteva sembrare ostico, irritante. Ma non era così. Bisognava lavorarci a fondo, dedicarci tempo e pazienza”. Realisticamente lei cosa avrebbe potuto fare di più? “Non lo so precisamente cosa, ma so che si poteva fare di più: magari tenerla una mezz’ora in più quando veniva ai colloqui, o forse due parole di conforto in più. Dovevo forse impuntarmi e pretendere che provasse ancora ad andare in comunità. Mi vengono da fare tante ipotesi ma non so se tutto questo poi sarebbe servito”. Ma questa ragazza c’era mai stata in comunità? “Sì, l’avevo consigliata di fare domanda. Lo scorso mese di marzo era riuscita a entrare in una di queste strutture convertendo la pena ma a maggio era già in carcere di nuovo”. Come mai? Cos’era successo? “Quando in giugno tornai in istituto, lei chiese di vedermi e mi raccontò una storia di dissapori con gli operatori di quella comunità. Aveva infranto delle regole e loro si erano irrigiditi. Di fronte a quel muro alzato quasi subito, lei decise di scappare, salvo poi essere riarrestata di lì a poco. Dopo 16 anni come magistrato di sorveglianza posso dire che il primo periodo di ingresso in comunità è delicato e difficile. Per un tossicodipendente significa mettersi davanti a uno specchio e iniziare a lavorare sui problemi”. In 16 anni avrà visto tante storie come quella di Donatela. Perché questa l’ha toccata al punto da scrivere una lettera di scuse? “Lavorare con i detenuti significa parlare con loro, conoscerli. Ci sono casi che prendono di più e casi che prendono di meno. E non parlo di casi come di semplici fascicoli. Queste sono persone, vite. Donatella era innamorata di Leo, il suo fidanzato. Sperava tanto di uscire per ritrovarlo. Altre detenute che mi ero preso a cuore hanno cambiato vita e sono state reinserite nella società. Con lei non ci sono riuscito e questo mi fa soffrire”. La sua lettera può essere interpretata anche come una forte critica al sistema carcerario. Non crede? “Io penso che il carcere, così com’è, sia pensato per gli uomini e non per le donne. Perché tende a contenere la violenza e l’aggressività, che sono caratteristiche tipiche dell’uomo. Un penitenziario su misura per le donne dovrebbe esplorare di più l’ambito emotivo ma in Italia non c’è qualcosa del genere. Qui sì le donne sono parificate agli uomini, ma è un errore marchiano. La donna in carcere è un soggetto doppiamente debole: necessiterebbe di una tutela maggiore”. Donatella, esposto contro il carcere. Il giudice: mi chiedo se l’ho capita di Laura Tedesco Corriere Veneto, 10 agosto 2022 Verona, ragazza morta suicida: il genitore fa denuncia. Il magistrato e la lettera: “Era fragile”. Perché il dramma di Donatella che si è tolta la vita in cella durante la notte di martedì scorso, è stato scoperto soltanto il mattino dopo, quando non si è presentata a fare colazione con le altre detenute nel carcere veronese di Montorio? Come mai nessuno si è accorto per tempo che si era lasciata morire inalando il gas dal fornelletto, se non ore dopo, quando il corpo della 27enne raggomitolata nel letto risultava ormai freddo, “in rigor mortis”? Attanagliato da questi interrogativi che non gli danno pace da quando, una settimana fa, ha perso quella figlia che “sembrava forte ma in realtà era fragilissima” e che stava lottando con tutte le sue forze per uscire definitivamente dalla dipendenza e lasciare una volta per tutte il carcere, ieri mattina il papà di Donatella, Nevruz Hodo, si è presentato negli uffici della polizia giudiziaria di Verona. Lo ha fatto per sporgere denuncia nei confronti del carcere scaligero: il genitore, in particolare, chiede alla magistratura di accertare se sia stato fatto tutto il possibile per scongiurare la tragica fine della figlia. Vuole che sia fatta chiarezza sui quei drammatici eventi: quella notte sono stati effettuati oppure no i necessari controlli? La figlia poteva forse essere trovata e salvata in tempo? Una denuncia, quella presentata nelle scorse ore dal padre della 27enne, che a questo punto verrà inglobata nell’inchiesta già in corso sotto il coordinamento della pm Maria Beatrice Zanotti. È stata anche effettuata l’autopsia: dai risultati che verranno depositati dai medici legali potranno arrivare altri decisivi tasselli per ricostruire con certezza i fatti. Ieri è stato un giorno doppiamente importante per il signor Hodo, che ha anche incontrato privatamente quel giudice veronese di Sorveglianza Vincenzo Semeraro che, con la sua lettera in cui ha ammesso di “sentire di aver fallito” per la morte della 27enne, ha toccato i cuori durante la cerimonia di lunedì pomeriggio per l’ultimo saluto a Donatella. “Ho voluto scrivere le parole che sono state lette dall’altare durante il funerale e ho voluto anche abbracciare oggi (ieri, ndr) il signor Hodo perché quanto accaduto mi ha scosso profondamente, come magistrato ma soprattutto come persona - spiega il giudice Semeraro - Conoscevo Donatella da sei anni, era impossibile restare indifferenti alla sua storia. Il caso mi è stato sottoposto per la prima volta quando lei era 21enne, aveva una vicenda durissima alle spalle, le tante vicissitudini l’avevano indotta a crearsi una corazza per proteggersi. Era arduo entrare in comunicazione con lei, si fingeva forte e inaccessibile, in realtà mi sono col tempo reso conto che era più fragile di un cristallo”. Donatella si era messa nei guai con la giustizia dopo alcuni furti di poco conto commessi per la droga: negli ultimi anni entrava e usciva da Montorio in continuazione, per lei era in arrivo a breve una misura alternativa che le avrebbe consentito di tornare dal fidanzato Leo con un affidamento terapeutico al Sert per affrancarsi una volta per tutte dalla dipendenza. “Ci stavo lavorando personalmente - rivela il giudice Semeraro. Già a marzo le avevo fatto ottenere il trasferimento in comunità, ma poi lei si era allontanata e l’avevano riportata in carcere. Ora stavo facendo in modo di trovare una soluzione diversa dal penitenziario. La cella non era il posto per lei, aveva bisogno di sostegno soprattutto psicologico, ma il carcere non è pensato per le donne, per la loro emotività, la loro sensibilità, la loro fragilità. Abbracciando il papà di Donatella, prima, ci siamo detti entrambi sconfitti dalla sua morte: abbiamo tutti e due enormi sensi di colpa. Potevamo fare di più, parlarle di più? Starle più vicini? L’abbiamo capita fino in fondo?”. “Ho abbracciato il giudice di mia figlia, è stato più padre di me” di Laura Tedesco Corriere del Veneto, 10 agosto 2022 Le lacrime che nessuno dei due è riuscito a trattenere, l’abbraccio che pareva non finire mai tra un papà che ha perso una settimana fa la figlia 27enne suicida in cella, e il magistrato di Sorveglianza che dal 2016 seguiva personalmente il caso. Il papà di Donatella Nevruz Hodo e il giudice scaligero Vincenzo Semeraro si sono visti ieri in forma privata. Signor Hodo, com’è andato il vostro incontro? “Io e il giudice piangevamo tutti e due. Ci sentiamo sconfitti e perdenti, ci siamo chiesti perdono. Avevo i brividi, la mia Donatella mi parlava sempre di questo magistrato come di un secondo padre, diceva che era l’unico ad aver preso a cuore la sua situazione. All’inizio nessuno trovava la forza di parlare, solo lacrime”. Il giudice Semeraro nella lettera letta ai funerali di sua figlia ha scritto che “sente di aver fallito”... “Ecco, quando ci siamo visti ho proprio voluto dire al magistrato che non deve sentirsi in colpa, perché Donatella mi raccontava sempre l’impegno che lui ci metteva nel seguire la sua vicenda. Questo giudice seguiva il caso di mia figlia con vera dedizione, le faceva visita in carcere, cercava soluzioni. Certe volte ho avuto la sensazione che la seguisse di più lui di me. Lei me lo descriveva come un secondo padre”. Perché lei si sente in colpa? “L’ho detto prima anche al giudice Semeraro: lui non ha fallito perché ha fatto il massimo, sono io che probabilmente ho fallito come genitore. Potevo fare di più? Forse ho sbagliato a rimproverarla quando era scappata dalla comunità? Le avevo parlato in modo rigido perché aveva sbagliato ad allontanarsi da quella struttura, però l’avevo fatto per il suo bene”. Cosa le ha detto il giudice? “Mi ha detto che non devo sentirmi in colpa, eppure io mi sto dilaniando nel dubbio. Dove ho sbagliato? In che cosa? Mai comunque mi sarei aspettato che la mia Dona facesse una cosa simile, mai”. Sua figlia lottava con tutte le sue forze per uscire dalla droga... “Soltanto Donatella sa cosa ho fatto io per lei negli ultimi dieci anni, volevo a ogni costo aiutarla a uscire dalla dipendenza. L’ho accompagnata dappertutto, anche in vari centri specializzati fuori dall’Italia per guarire dalla droga, tutte strutture private a pagamento, avrei fatto qualsiasi cosa per salvare mia figlia dalla micidiale eroina, ho provato qualunque tentativo”. Donatella collaborava? Voleva davvero disintossicarsi? “L’ho portato due volte in Spagna, poi in Croazia e in Belgio, lei stessa trovava le terapie private tramite internet. Certo che aveva intenzione di uscire dal tunnel. Non mi sono mai pentito di averla aiutata e accompagnata in questa durissima battaglia, volevo che uscisse prima possibile da quella maledetta droga. Salvarla era diventata la mia ragione di vita”. Per questo si sente sconfitto come genitore? “Ora che l’ho persa per sempre, sento che la mia vita senza Dona non vale più niente, sono io che ho fallito, non il giudice”. In che modo? “Quando lei mi chiedeva una mano non ho mai detto di no, l’ho sempre aiutata per qualsiasi cosa. L’avrei fatto anche stavolta, perché non mi ha cercato? Forse dovevo cercarla io? Io sono sempre stato a sua disposizione per aiutarla. Qualche volta mi faceva arrabbiare, ma io volevo soltanto che Dona stesse bene, lo desideravo più della mia stessa vita”. Insieme avete vissuto anche momenti drammatici... “Quante volte ho trovato mia figlia a Verona sdraiata per terra quasi morta dall’eroina appena assunta, uscivo in strada di notte a cercarla, giravo finché non la trovavo, poi la accompagnavo al pronto soccorso e me la riportavo a casa. La riaccoglievo ogni volta, sempre”. Era anche scappata di casa... “Una volta Dona è sparita per due anni, era fuggita in Spagna e io non ho mai smesso di cercarla, non mi davo pace. Proprio quando stavo perdendo le speranze per sempre, un giorno l’ho trovata in Spagna in condizioni paurose. Pesava solo 24 chili, era uno scheletro... me la sono caricata e riportata a casa, l’ho accudita per tre mesi senza mai lasciarla finché si era ripresa. Purtroppo poi ci è ricascata di nuovo, anche allora non ho mai smesso di starle accanto, soccorrerla”. Adesso chiede giustizia... “Su mia figlia non ho sbagliato solo io. Tutto il sistema ha fallito, e secondo me anche i controlli in carcere non sono stati adeguati. Per questo ho sporto denuncia, mia figlia purtroppo non tornerà però merita verità e giustizia”. La rabbia dei penalisti per le morti in carcere: che state facendo?! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 10 agosto 2022 Non si devono scaricare le responsabilità su chi è arrivato da poco al vertice del Dap. Renoldi ha anche emanato una Circolare, un gesto di buona volontà che però cozza con le condizioni disperate delle nostre celle. La Circolare si chiama “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, e già questo è singolare. Vuol dire che prima dell’arrivo del dottor Renoldi questi indirizzi non esistevano? Due giorni fa si sono svolti i funerali di Donatella, ventisette anni, suicida nel carcere di Montorio Verona, detenuta per reati legati a piccole cessioni di sostanze psicotrope. Una persona che non avrebbe dovuto stare rinchiusa. Ce ne sono tanti, e alcuni di loro non ce la fanno più, in questa estate del caldo e di una campagna elettorale da cui è esclusa la giustizia, e figuriamoci il carcere. Raccontata in numeri, Donatella era uno dei 47 che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno nelle prigioni italiane, uno dei cinque dei primi sette giorni di agosto. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è intervenuto finora solo con un’operazione di tipo progettuale e preventivo. Ma nessun provvedimento “salvavita”, cioè quello che servirebbe da subito per spezzare l’angoscia, la solitudine e i tanti problemi materiali quotidiani che producono l’insopportabilità del “malvivere” da prigionieri. Il capo del Dap Carlo Renoldi ha emanato una circolare, indirizzata a tutti i provveditori regionali e ai direttori degli istituti di pena. Un gesto di buona volontà, un progetto per il futuro. Che cozza però da subito, come è stato fatto notare da qualche operatore, con le criticità croniche delle carceri. Il problema del personale, sempre insufficiente, prima di tutto, e anche quella chimera dei corsi di specializzazione professionale di cui si parla molto nei convegni. E che poi rimangono lettera morta. La circolare si chiama “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, e già questo è singolare. Vuol dire che prima dell’arrivo del dottor Renoldi questi indirizzi non esistevano? Il documento si rivolge allo staff multidisciplinare composto in ogni istituto dal direttore, il comandante degli agenti di polizia penitenziaria, oltre al medico, l’educatore e lo psicologo. Sono questi i soggetti incaricati di esplorare le situazioni a rischio, quelli in grado di far emergere gli “eventi sentinella” del disagio per poi costruire le pratiche operative della prevenzione in ogni situazione. Cioè si spiega agli operatori non tanto quello che dovrebbero fare d’ora in avanti per capire e quindi lanciare il segnale di allarme, ma quello che avrebbero già dovuto fare. L’ovvio, insomma. E infatti insorgono gli avvocati delle Camere penali e anche l’Ordine degli psicologi, cioè tutti quei soggetti che conoscono, al contrario dei magistrati, che cosa significhi per una persona, qualunque sia stata la sua vita fino al giorno precedente, l’ingresso e poi la vita in un carcere. È indirizzata al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi e al suo vice Carmelo Cantone e firmata dal Presidente Giandomenico Caiazza e dai responsabili dell’osservatorio carceri, gli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro, la lettera con cui l’Unione delle Camere penali chiede un incontro urgente per “essere messa a conoscenza della modalità con cui viene affrontata questa emergenza, che sta rendendo ancor più la detenzione in Italia contraria alle più elementari regole della vita in un Paese civile”. Gli avvocati penalisti chiedono e si chiedono anche in che cosa consisterebbe, concretamente, questo approccio multidisciplinare al grave problema, a questo allarme drammatico. Il che ci fa tornare al punto di partenza. Tutti i dirigenti del Dap che hanno preceduto quelli di nomina recentissima, come hanno affrontato la situazione, visto che non è proprio una novità il fatto che la detenzione produca morte e autolesionismo? Per non parlare delle gravi patologie psichiatriche che hanno ormai raggiunto il 13% dell’intera popolazione carceraria, il che significa parlare di 7.000 detenuti che stanno male, anzi malissimo. Che non dovrebbero essere lì dove sono stati rinchiusi, che sono già di per sé delle “sentinelle” del disagio, e lo gridano a voce alta, prima ancora che di loro si accorga qualunque staff multidisciplinare. Dalle colonne di Avvenire, uno dei pochissimi quotidiani (insieme al Riformista e al Dubbio) che mostra sensibilità nei confronti di chi soffre, e particolarmente di chi è privato della libertà, si sente anche la voce del dottor David Lazzari, Presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, che ci informa del fatto che “i presidi sanitari nelle carceri sono sguarniti di professionisti della salute mentale”. Il che va a sommarsi alla cronica carenza di personale di ogni tipo, mentre la dirigenza del Dap esorta i provveditori a dare particolare attenzione alla formazione specifica di quegli operatori che proprio non ci sono. Non vogliamo infierire, sono questioni antiche e non sarebbe giusto scaricarne le responsabilità su chi è arrivato da poco al vertice del Dap. Ma siamo concreti. E lo diciamo anche ai giudici. Ma è possibile che a nessuno venga in mente che concedere qualche telefonata in più, qualche contatto supplementare a quelli canonici con la famiglia, un po’ di umanità, insomma, per fare qualche passo in avanti e magari salare qualche vita? Tirate fuori il naso dalle scartoffie, per favore. Per la salute mentale di tutti. Il dramma delle donne detenute: rinchiuse in strutture pensate solo per gli uomini di Viviana Lanza Il Riformista, 10 agosto 2022 Le donne detenute aumentano ma le carceri sono ancora in prevalenza concepite per soli uomini. Ci sono carenze che finiscono per diventare una sorta di aggravamento della reclusione, una sorta di pena aggiuntiva. La questione è stata riproposta dall’associazione Antigone in occasione del rapporto di metà anno, una relazione stilata a conclusione di visite nei vari istituti di pena del nostro Paese. In Italia si contano 2.314 donne detenute, pari al 4.2% del totale della popolazione detenuta. Una percentuale stabile nel tempo, di poco inferiore alla media dei paesi europei che si attesta sul 4,7%. La Campania è terza per numero di donne detenute (324), dopo il Lazio (405) e la Lombardia (370). “Negli ultimi dodici mesi l’Osservatorio di Antigone ha visitato 84 istituti e in 23 di questi erano presenti donne - si legge nel rapporto. Nel 30,4% delle celle ospitanti donne non c’era il bidet, nonostante sia previsto dal regolamento penitenziario già dal 2000. Nel 17,4% degli istituti visitati ospitanti donne non era garantito un servizio di ginecologia e nel 30,4% mancava un servizio di ostetricia. Non ovunque, nelle carceri ospitanti bambini, era presente un pediatra, così come volontari che si occupavano di accompagnare all’esterno i bambini che dormivano in istituto. Forti tassi di autolesionismo hanno riguardato le sezioni femminili degli istituti di Bologna e Palermo, con 3,6 atti di autolesionismo in un anno ogni 10 detenute”. Numeri che descrivono drammi silenziosi, crepe di un sistema penitenziario non in grado di rispettare quella funzione costituzionale di recupero e reinserimento del detenuto. Donne detenute in carcere concepiti per soli uomini: sembra una descrizione da medioevo, non certo di uno Stato di diritto nell’anno 2022. Eppure, è realtà. Come è realtà il numero crescente di donne recluse insieme ai figli in tenera età. Sei mesi fa la ministra Cartabia aveva detto mai più bambini dietro le sbarre e in questi mesi il numero delle donne detenute con figli al seguito è salito da diciotto a venticinque. E la politica cosa fa? Praticamente nulla, visti i dati e i numeri che periodicamente confermano i drammi silenziosi del popolo detenuto, soprattutto della fascia debole di quel popolo, donne e bambini. Una telefonata allunga la vita. La campagna di Antigone contro i suicidi di Andrea Oleandri* Il Riformista, 10 agosto 2022 Una telefonata allunga la vita. Così recitava una nota pubblicità nei primi anni 90, così recita la campagna promossa da Antigone in questi giorni di agosto. Una campagna con la quale si chiede alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e al Presidente del Consiglio Mario Draghi un atto con il quale si arrivi a consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. Le celle devono essere dotate di telefono come in altri paesi. Una misura normativa, non legislativa, che andrebbe a modificare il regolamento penitenziario del 2000 e che perciò è fattibile anche in questa fase in cui al governo sono concessi atti di ordinaria amministrazione. Una misura che potrebbe aiutare a prevenire i suicidi. 47 sono quelli avvenuti nelle carceri italiane in questi primi mesi del 2022. Numeri alti, altissimi, drammatici, che mai prima d’ora si erano registrati. Neanche nel periodo di massimo affollamento del sistema penitenziario, quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò l’Italia per aver trattato in maniera inumana e degradante le persone detenute. Oggi non siamo ai livelli che portarono alla sentenza Torreggiani, ma in carcere non si vive di certo meglio. Il sovraffollamento non è così alto, ma è sempre un problema endemico. A fine luglio, nella media nazionale, c’erano oltre 112 detenuti dove ce ne dovrebbero essere 100. In alcune regioni siamo vicini ai 150. In alcune carceri ai 200. Sempre dove ce ne potrebbero stare 100. La pandemia ha lasciato dietro di sé strascichi che forse si sono sottovalutati. Il governo - ottima iniziativa - ha approvato un bonus psicologico riconoscendo questi strascichi. Importanti risorse esaurite in poche ore. In carcere, invece, il supporto psicologico è quello di sempre. Cioè poco, pochissimo. I dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone ci dicono che sia nel 2021 che nel 2022, la media si attesta intorno alle 10 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. Del resto questo personale si conta sulle dite di una mano e fa quello che può. Così come gli educatori e gli altri operatori presenti negli istituti di pena. Questo nonostante una popolazione che in molti casi arriva da percorsi di vita difficili, spesso con problemi psicologici o psichiatrici pregressi, in tanti casi con diagnosi di tossicodipendenza. In queste condizioni è dunque difficile percepire un disagio quando si crea. La caduta del Governo Draghi ha interrotto un percorso di riforma che era iniziato, anche a partire dal lavoro della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario guidata dal Prof. Marco Ruotolo. In quel lavoro erano indicate una serie di importanti interventi, alcuni più semplici altri più complessi da realizzare. Ma comunque tutti necessari. Che non sappiamo che fine faranno. È difficile essere fiduciosi nel prossimo governo, in quanto conosciamo l’idea di carcere e di pena che guida qualcuno dei possibili futuri membri dell’Esecutivo. Tuttavia, nonostante questo, come detto all’inizio, c’è una cosa che si può fare e si può fare subito: aumentare il numero delle telefonate a disposizione dei detenuti. Come ricordavamo, l’attuale regolamento penitenziario prescrive 10 minuti a settimana per ciascun recluso. Nel 1975, quando fu approvato, probabilmente potevano sembrare sufficienti. Io non ero ancora nato all’epoca, ma ricordo che anche negli anni ‘80 le telefonate erano poche e per pochi minuti. Molto costose, soprattutto le interurbane (che per la cronaca scattavano anche se da Roma si chiamava in provincia). Oggi, a quasi 50 anni di distanza, quel tempo non ha nessun tipo di giustificazione e quel limite che forse all’epoca poteva sembrare rivoluzionario, oggi appare come un’afflizione. Sentire la voce di una persona cara (una moglie o un marito, il proprio compagno o compagna, una madre o un padre, un figlio o una figlia) in un momento di sconforto può essere d’aiuto a scacciare dalla mente pensieri suicidari. La pandemia di Covid-19 ci ha fatto capire, dopo anni di resistenze, che una maggiore disponibilità di telefoni e tablet, di chiamate e videochiamate, non mettono a rischio la sicurezza e non pongono problemi organizzativi insormontabili. Ma fanno bene ai detenuti e alle detenute. *Responsabile comunicazione Antigone Pochi percorsi di recupero, troppa recidiva. L’emergenza droga mai risolta di Luca Cereda Avvenire, 10 agosto 2022 Il 35% dei detenuti nelle nostre carceri ha problemi con le sostanze, in pochi possono usufruire di servizi psichiatrici e psicologici e gli istituti “dedicati” sono soltanto 3 in tutta Italia. Il modello Milano con la Asst Santi Carlo e Paolo: un’équipe composta da 90 professionisti che lavora in rete col territorio. Quando una persona entra in carcere, nei primi minuti affronta dei passaggi codificati: perquisizione e consegna degli oggetti di valore, raccolta delle impronte digitali. Poi la prima delle domande: “È tossicodipendente?”. La risposta è sempre più spesso “sì”: secondo i dati del ministero della Giustizia, nel 2021 su più di 54mila detenuti presenti nelle carceri italiane quelli con una comprovata dipendenza dalla droga erano il 35,85%, ovvero 15.244. “I dati raccolti dai servizi ambulatoriali delle carceri nazionali e dalle centinaia di persone che fanno volontariato dentro gli istituti di pena mostrano che l’eroina è la sostanza principale per cui il 70 per cento delle persone tossicodipendenti in carcere ha sviluppato una dipendenza. Segue con il 22 per cento la cocaina, l’alcol al 4,3 e la cannabis al 2.5 per cento” illustra Guido Chiaretti, membro del direttivo della Cnvg, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e presidente di Sesta Opera San Fedele. Oltre al tema dei detenuti dipendenti delle droghe, c’è un altro problema che ha il carcere, e a che fare con le sostanze: infatti a più di un detenuto su quattro vengono dati psicofarmaci perché, secondo l’associazione Antigone, le ore settimanali di servizio psichiatrico sono in media solo 9 ogni cento detenuti, mentre quelle di servizio psicologico 18. Il rovescio della medaglia di questi numeri racconta di 47 persone che quest’anno si sono tolte la vita: si tratta di 10,6 casi di suicidio ogni 10mila detenuti. Fuori dal carcere succede a 0,6 persone ogni 10mila. Non è finita qui, secondo l’amministrazione penitenziaria, i tentati suicidi e gli atti di autolesionismo sono molti di più: 11.315, aggravati dal fatto che negli istituti di pena italiani ci sono 120 persone rinchiuse per 100 posti disponibili. In Europa, peggio fa solo la Turchia. “Nei penitenziari in cui operiamo i detenuti tossicodipendenti trovano protocolli efficienti. Il problema è che questo succede in meno de110% delle carceri”, spiega il dottor Francesco Scopelliti, direttore delle strutture penitenziarie della Asst Santi Carlo e Paolo di Milano. Scopelliti guida la sua équipe composta da 90 professionisti tra medici, psicologi, assistenti sociali e criminologi che prendono in carico 3.500 detenuti all’anno tra il penitenziario minorile milanese Cesare Beccaria e le carceri di Bollate, Opera e San Vittore. Nelle ultime due strutture, l’azione sanitaria di presa in carico e contrasto delle dipendenze è resa efficace anche dai reparti, rispettivamente, de La Vela e La Nave. Qui invece di celle grandi 9 metri quadrati, abitati 22 ore su 24 da sei persone e dove la turca è accanto al tavolo per mangiare, i detenuti sono in camere con due letti a castello, con i servizi separati da una porta, dove si resta solo 12 ore: “All’intento di questi spazi si svolgono le attività di trattamento avanzato delle tossicodipendenze. Il percorso è affrontato dal punto di vista sanitario, lavorativo insieme al Terzo settore, e affettivo con i familiari” spiega Scopelliti. Se un detenuto è a un buon punto del percorso terapeutico, in fase di disintossicazione avanzata, può richiedere una forma di custodia cosiddetta “attenuata”, che prevede un percorso di reinserimento sociale specifico per chi ha una dipendenza. Questo tipo di programma è portato avanti nelle Sezioni attenuate per il trattamento dei tossicodipendenti (Seatt) e negli Istituti a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti (Icatt), ma di questi ultimi ne esistono solo tre: a Eboli in provincia di Salerno, a Giarre in provincia di Catania e a Roma nel carcere di Rebibbia. Va da sé che queste strutture hanno posti limitati che soddisfano poche centinaia di richieste all’anno, delle migliaia inoltrate dai detenuti. Paradossalmente però, il principale “intoppo” nel percorso di disintossicazione dei detenuti si presenta all’uscita dal carcere. Fuori la percentuale di recidive dell’uso di sostanze è infatti molto alta: “Siamo riusciti ad abbatterla del 50% con un discreto collegamento tra i percorsi riabilitativi svolti in carcere e poi all’esterno. Il termine della pena non coincide con la fine della terapia. Se queste si interrompo bruscamente, il rischio che tornando in libertà si riprendano i comportamenti di prima è altissimo e di dati lo confermano: in questi casi la recidiva sale sopra il 75%”. Per migliorare la situazione attuale basta mettere in pratica i dettami della legge 309 del 1990, secondo il dottor Scopelliti: “Seguendo le indicazioni di quella norma, a Milano 26 anni fa abbiamo creato all’interno del tribunale un’équipe che interviene formulando un programma terapeutico che presentiamo al Giudice della Sezione Direttissima che in questo modo una volta emessa la sentenza può inviare l’arrestato con dipendenze da stupefacenti in luogo comunità o SerD in alternativa alla carcerazione”. La rivoluzione sta nel trasformare il tribunale in un luogo di cura con l’obiettivo di intercettare imputati con problemi di tossicodipendenza e proporre loro un percorso di riabilitazione, grazie alla presenza nei giorni di udienza di assistenti sociali, psicologi e medici nell’aula dei processi per direttissima: “Con questo tipo di intervento, che da anni proviamo ad esportare da Milano, - conclude Scopelliti - ogni anno intercettato 600 persone a cui viene data la possibilità di iniziare una cura in modo precoce, aumentando le possibilità di riuscita dell’intervento”. Una casa per le madri detenute di Susanna Paparatti L’Osservatore Romano, 10 agosto 2022 Le iniziative dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Già dal 2013 l’associazione aveva partecipato ad uno specifico progetto nazionale intitolato “Donne prole” nel quale 28 detenute, più i loro figli, erano state inserite in dieci comunità ospitanti dislocate in sei regioni italiane (Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Sardegna, Toscana, Veneto), così come è stata da tempo collaudata l’accoglienza di mamme tossicodipendenti con figli, e pendenze giudiziarie, in esperienze di inclusione all’interno di comunità terapeutiche. Oggi più che mai, anche dopo l’approvazione a fine maggio, ma solo alla Camera dei deputati, della proposta di legge volta ad ampliare la tutela dei figli minori di genitori soggetti a misure cautelari, l’associazione Papa Giovanni XXIII, nelle more del legislatore, continua ad offrire una misura alternativa a mamme e bimbi, mettendo a disposizione un “luogo di cura, assistenza o accoglienza” (articolo 47 ter e quinquies, Ordinamento penitenziario). Una fitta e proficua collaborazione con gli istituti penitenziari e il ministero della Giustizia ha consentito negli ultimi dieci mesi l’uscita in misura alternativa di tre mamme e cinque bambini che hanno trovato posto nelle case della Comunità, mentre si lavora per ulteriori analoghe situazioni. La necessità di tutelate il minore è finalmente al primo posto, dal momento che sono tangibili e gravi i danni provocati a seguito della loro permanenza in carcere: con spazi ridotti, dinamiche non consone alla loro età e carenze, come solo il poter frequentare un asilo o giocare con i coetanei. Senza eccezione alcuna è stato rilevato che la detenzione ha prodotto diversi traumi come disturbi psicomotori, del linguaggio e comportamentali: “Non è la prima volta che accolgo mamme detenute con i loro figli - spiega Natascia Mazzonis, della Comunità Papa Giovanni XXXI, responsabile a Cuneo della Casa accoglienza per nuclei familiari rom - attualmente c’è una mamma arrivata dall’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icaro) di Torino, che ha ancora circa un anno e mezzo da scontare. Con lei ci sono due bambine di sei e otto anni. Una storia complicata e travagliata, con più importanti periodi di carcere che hanno segnato particolarmente la grande, ansiosa, preoccupata che la mamma stia bene e nessuno la venga a portar via”. Fra gli scopi principali di queste alternative realtà abitative, oltre alla salvaguardia del minore, c’è anche l’esigenza di garantire a queste persone con disagio relazionale di vivere in ambienti rigenerativi e riparativi, dove si è inquadrati in un “organigramma” quotidiano, che assicura compiti e spazi personali nei quali tessere nuove ipotesi di vita prima di rientrare “all’esterno”, nel mondo che ci si è lasciati alle spalle una volta commessi i reati ed entrati in carcere. Nella casa convive un altro nucleo rom, accolto per motivi diversi dal finire di scontare una pena: “Non è sempre semplice relazionarsi con i rom, hanno comportamenti e mentalità particolari, alcune volte vivono di pregiudizi, così come noi con loro - prosegue Natascia Mazzonis - ma capiscono che è importante seguire alcune regole, inserirsi in un contesto diverso da quello che ha condotto queste donne in carcere. Per loro stesse e per i bambini. Ogni giorno trascorro con loro alcune ore”. E dunque determinante che, per riacquistare una normalità sociale, siano messe in condizione di avere un impiego: la mamma che deve terminare la detenzione lavora facendo pulizie in strutture dell’associazione, l’altra in un ristorante. Questa struttura è parte di un progetto sperimentale in Italia volto all’accoglienza di nuclei rom, l’unico dell’associazione Papa Giovanni XXIII. La Rete delle scuole ristrette fa “centro”, il Dap pubblica il Programma per l’esecuzione penale tecnicadellascuola.it, 10 agosto 2022 La Rete delle scuole ristrette, dopo tre importanti seminari svolti in quest’anno scolastico, nell’ambito del Salone Internazionale del Libro di Torino (a ottobre e a maggio) e del Festival dei Due Mondi di Spoleto (a luglio), mette a segno un importante risultato perseguito in dieci anni di intensa attività all’interno delle carceri. Nella rassegna “Dieci anni con lo sguardo di dentro”, che si concluderà a novembre a Rebibbia, la Rete ha voluto, infatti, fare il punto della situazione sull’istruzione e sui percorsi culturali nell’esecuzione penale a dieci anni dalla sua fondazione e dal Dpr 263/12 istitutivo della Nuova Istruzione adulti, coinvolgendo nel proprio percorso tutti i livelli istituzionali interessati, il personale docente e i dirigenti scolastici dei percorsi di istruzione nelle carceri (dall’alfabetizzazione all’università), il personale educativo, il personale penitenziario e i detenuti, studenti e corsisti (ancora in carcere o finalmente liberi), presenti ai seminari grazie ai permessi della magistratura di sorveglianza che in questi anni ha seguito con attenzione e interesse i percorsi svolti in esecuzione penale. Negli incontri avuti in preparazione dei seminari e durante i lavori seminariali molti sono stati gli interlocutori istituzionali che hanno condiviso, ragionato e approfondito in senso critico i numerosi temi posti: la giustizia e l’esecuzione penale; il modello riabilitativo e la risocializzazione; l’importanza dei percorsi di istruzione e dei percorsi culturali nell’esecuzione penale; la necessità che anche i percorsi universitari in carcere abbiamo un “organico dedicato”; il ruolo della magistratura (di sorveglianza e non); i diritti previsti dalle norme e il dovere di attuare tali diritti; la sorveglianza dinamica e non il semplice controllo del detenuto; gli spazi detentivi e la loro revisione; il problema organizzativo e il corretto utilizzo delle risorse affinché l’azione di sistema, mediante concreti atti finanziari e attraverso istruzione, cultura e pratiche laboratoriali, migliorino le attività trattamentali. In tale direzione si è distinto l’intervento dei dirigenti della Cassa delle Ammende (Ente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: Presidente Gherardo Colombo, Segretaria Generale Sonia Specchia), presenti ai seminari e personalmente coinvolti nella realizzazione di un programma innovativo in ambito penitenziario e così, grazie all’azione propositiva della dottoressa Sonia Specchia, che ha da sempre creduto nella Rete, si è raggiunto, oggi, un importante punto per la realizzazione di quel diritto di accesso della popolazione detenuta al patrimonio culturale della comunità al quale in questi anni il Cesp e la Rete si sono sempre richiamati, grazie alla Circolare DAP 27/07/22 n. 089201.U, emanata il 27 luglio scorso. Nella Circolare, infatti, si dà avvio al “Programma nazionale di innovazione sociale dei servizi di esecuzione penale: legalità, cultura, sviluppo e coesione sociale” dando mandato agli istituti penitenziari di accogliere e favorire la realizzazione di: Biblioteche innovative (progetto presentato dal Cesp e dalla Rete in partenariato con l’Università Roma Tre e in corso di svolgimento da sei anni a Rebibbia Nuovo Complesso), collegate in rete con le altre biblioteche del territorio, delle Scuole e delle Università degli Studi, strutturate in modo da diventare dei veri e propri poli culturali, oltre che di sviluppo di nuove professionalità; di Laboratori innovativi per la formazione professionale e per le attività lavorative e ricreative (nei diversi settori: sostenibilità ambientale, information & communication technology, etc.); per lo sviluppo delle Attività teatrali e delle Arti e dei mestieri, delle Attività sportive e delle professionalità correlate allo sport. La Rete, che in questi anni ha conosciuto avanzamenti e repentini arretramenti in ambito penitenziario, è già al lavoro e dopo essersi riunita online subito dopo l’emissione della Circolare, in collaborazione con istituti penitenziari e istituti scolastici, aree educative e detenuti corsisti, sta presentando in oltre cinquanta istituti penitenziari (altri se ne aggiungeranno via via) le tre macroprogettualità elaborate insieme in questi anni che hanno suscitato interesse nell’amministrazione: Biblioteche innovative in carcere (partner Cesp e l’Università degli Studi Roma Tre); Cibo, Cultura & Biodiversità (partner Cesp e Slow Food); Arti e mestieri, del teatro e non (partner Cesp e associazioni di volontariato). Nel seminario che si svolgerà a novembre a Rebibbia, quale tappa conclusiva della rassegna “Dieci anni con lo sguardo di dentro”, la Rete verificherà lo stato dell’arte dell’accoglimento delle linee di indirizzo del Programma nazionale di innovazione sociale dei servizi di esecuzione penale: legalità, cultura, sviluppo e coesione sociale e potrà capire quali sono oggi gli istituti di pena che realmente operano per la realizzazione di un cambio di passo nell’esecuzione penale, senza più ritardi e ostacoli (o no), visti i fondi messi a disposizione e le norme di supporto. Forse il garantismo ha trovato una casa? Azione e Iv la pensano allo stesso modo di Valentina Stella Il Dubbio, 10 agosto 2022 A parte volere Gratteri a via Arenula nel 2014 e lo slang grillino riguardo alla scarcerazione dei superboss, sulla giustizia Renzi è vicinissimo a Calenda. Ci risiamo: fino a pochi giorni fa eravamo qui ad immaginarci come sarebbe stata la possibile convivenza al Governo sui temi della giustizia tra il Partito Democratico e Azione/+ Europa. Un po’ turbolenta, avevamo ipotizzato. Ora, rotto bruscamente il patto, tocca chiederci come sarebbe, invece, la coabitazione qualora si formasse il terzo polo con Carlo Calenda e Matteo Renzi. Anzi, la vera domanda è: il garantismo nudo e puro potrebbe albergare proprio al centro dei moderati progressisti riformatori? Se guardiamo a sinistra, sappiamo che da quella parte sono più sensibili alle istanze della magistratura. Ricordate chi era assente alla manifestazione del 24 giugno dello scorso anno organizzata dall’Unione camere penali a Roma per rilanciare la battaglia per la separazione delle carriere? Se la memoria non vi assiste, vi diciamo che le uniche forze politiche latitanti erano quelle del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle. Ma questo elemento potrebbe non essere visto come sintomo di carenza di garantismo. Non si può dire lo stesso dell’equiparazione che fece il segretario Enrico Letta tra impunitisti e garantisti. Lo stesso dem Alfredo Bazoli, qualche anno fa sul suo blog, ammise che “da più di vent’anni la sinistra aveva rottamato il garantismo, considerato non più utile in un’epoca nella quale solo le inchieste giudiziarie sembravano in grado di consentire al Paese il ricambio di una classe dirigente e di un sistema ormai consunti, e tuttavia ancora saldamente ancorati al potere”. Guardando a destra, è vero che proprio a questo giornale il sottosegretario forzista alla giustizia Francesco Paolo Sisto ha assicurato che sul tema della giustizia le tre forze di centro- destra lavoreranno all’unisono proprio avendo come fil rouge il garantismo. E però sappiamo bene quanto il garantismo di Forza Italia possa essere spesso classista. A ciò si aggiunge “il grave errore” - come lo ha definito in una intervista al nostro giornale Gaetano Pecorella dell’invito all’astensione rivolto agli elettori da Forza Italia e da Silvio Berlusconi in occasione del referendum del Partito radicale e dell’Unione camere penali sulla separazione delle carriere del 2000. Poi non bisogna dimenticare che Lega e Fratelli d’Italia non si sono mai nascosti nel dire che per loro il garantismo si ferma al processo, mentre nella fase dell’esecuzione penale deve prevalere il giustizialismo. Veniamo al possibile terzo polo Azione/ Italia viva. Da queste pagine abbiamo spesso ospitato l’impavido Enrico Costa che va avanti con le sue battaglie, inimicandosi profondamente l’Anm che lo considera il braccio armato dell’Unione camere penali in Parlamento. Guardando al partito di Matteo Renzi, sono rintracciabili molte similitudini con Azione e con un manifesto liberale della giustizia, con un diritto penale laico e non etico. In questa ultima legislatura, hanno quasi sempre votato allo stesso modo sui provvedimenti in materia di giustizia. Hanno entrambi sostenuto i referendum promossi in primis dal Partito Radicale. Forse una delle differenze maggiori è che rispetto al voto favorevole di Azione, Italia viva si è astenuta sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, ritenuta “più inutile che dannosa”, come disse durante le dichiarazioni di voto al Senato Renzi. Certo, quest’ultimo qualche scivolone lo ha preso in passato. Ne rammentiamo due: proporre Nicola Gratteri come Ministro della giustizia. A stoppare la nomina ci pensò per fortuna l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. E sostenere in piena emergenza covid, quando i Tribunali di Sorveglianza concedevano detenzioni domiciliari per motivi di salute anche a detenuti al 41bis, di essere “un garantista convinto”. Ma essere garantisti, aggiunse, “non significa scarcerare i superboss”. In pieno slang pentastellato. Chiedemmo un parere al noto penalista Franco Coppi in proposito, che ci disse: “O si è garantista o non lo si è: non esiste il garantista a metà soprattutto rispetto a delle situazioni che sono puntualmente previste dall’ordinamento e che devono portare a certe determinate soluzioni”. A parte questi piccoli nei, il programma di Italia viva è molto simile a quello di Azione. È ancora nella fase di rifinitura ma, come ci anticipa l’onorevole Lucia Annibali, “la nostra impostazione sulla giustizia sarà coerente con il lavoro fatto in questi anni in Parlamento e si muoverà anche sulla scia dei quesiti referendari che noi abbiamo sostenuto”. In attesa di conoscere i dettagli della proposta elettiva per il prossimo 25 settembre la deputata ci spiega che “si può ripartire dalle riforme Cartabia, nonostante per noi non siano sufficienti e a tratti poco incisive. Come temi nostri, lavoreremo e ci batteremo a favore della separazione delle carriere attraverso una riforma costituzionale, per il ripristino della prescrizione sostanziale, per una equa valutazione dei magistrati, e infine per una rivisitazione della custodia cautelare”. Per la parlamentare della Commissione Giustizia, “sul tema del carcere non è stato fatto praticamente nulla. Occorrerà rafforzare le misure alternative, sarà importante portare a termine la questione dei bambini in carcere e affrontare la condizione delle donne detenute”. L’anti sistema di Palamara ha vinto e vive: i suoi numerosi correi sono stati “graziati” di Rosario Russo* Il Dubbio, 10 agosto 2022 Per rifare la “verginità” al Consiglio bisogna tranciare la cinghia di trasmissione tra Anm, partiti e Csm. I cittadini, soprattutto per tramite dei partiti e dei media, dibattono democraticamente per l’affermazione dei propri ideali e interessi. Il risultato della dialettica parlamentare sono le leggi, che costituiscono il formante legislativo del Sistema. I magistrati sono obbligati a interpretare e applicare le leggi nel rispetto della Costituzione, oggettivamente, cioè in piena indipendenza dalle forze politiche e dalle ideologie che le hanno generate (ben altro sono le rationes legis, le diverse concezioni del diritto, i modelli interpretativi, etc.). Questo è quanto avviene - deve avvenire - in tutti gli uffici giudiziari. Nel giudicare in nome del Popolo Italiano, i magistrati non rappresentano - non possono rappresentare - alcuno schieramento politico, essendo la legge ormai oggettivizzata e incarnata nel suo testo. In una parola il formante giudiziario del Sistema - cioè il proprium dell’attività giudiziaria - è ubicato a valle del dibattito partitico-politico e in buona misura necessariamente ne astrae. Non a caso, a differenza di quanto avviene altrove, il magistrato italiano è nominato in funzione soltanto dei propri saperi tecnico-giuridici, rigorosamente accertati. Dunque egli non decide e non risponde politicamente, pur non essendo stato mai bouche de la loi (bocca della legge) né sordo alle esigenze della Giustizia e del divenire storico. L’asetticità politica della magistratura, cioè la sua indipendenza, comporta che l’amministrazione dei magistrati e il controllo disciplinare sugli stessi non possa che spettare ad un organo costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, anch’esso necessariamente estraneo al dibattito politico e alla dialettica partitica. Se i magistrati sono tenuti ad applicare oggettivamente le leggi che governano i cittadini, analogo apolitico obbligo incombe sul Csm, con riferimento alle leggi che disciplinano la condotta e la carriera dei magistrati. Anche il formante amministrativo-giudiziario del Csm prescinde necessariamente dal formante politico. In sintesi, tanto l’attività decisoria dei magistrati quanto quella del Consiglio superiore della magistratura è per definizione apolitica, siccome indipendente. Non a caso il Capo dello Stato presiede il Csm e i suoi consiglieri non possono essere rieletti; circostanze entrambe che escludono di per sé la connotazione politica e la connessa tipica responsabilità. Per conseguenza l’”elezione” dei membri del Csm (come chiamarla altrimenti?), lungi dal trasporre nel Consiglio le forze politiche con il meccanismo della rappresentanza politica o di interessi, seleziona soltanto i soggetti destinati a proteggere, con la propria indipendenza, anche quella dei Magistrati, nell’interesse esclusivo dell’Utente finale della Giustizia. Un compito regolatore tanto difensivo o neutro (di mera interdizione d’interferenze e di scorrettezze, si direbbe), quanto inconciliabile con una “elezione” propriamente politica. Del Csm si dovrebbe cioè parlare come del sommo custode dell’indipendenza giudiziaria, l’incrollabile pietra angolare della separazione dei Poteri. In sé e per sé la scelta di individuare nei magistrati la maggioranza dei componenti del Csm sembra saggia perché, in linea generale, essi sono professionalmente i più politicamente indipendenti (non possono neppure iscriversi ai partiti) e soprattutto hanno (o istituzionalmente avrebbero) precipuo interesse a restare indipendenti, essendo proprio l’indipendenza il “tesoro” loro affidato, la loro stessa ragion d’essere. Mentre la minoritaria componente laica del Consiglio costituisce il vigile “cane da guardia” (watchdog) e il ponte di collegamento alla comunità statale. Questo lucido quadro costituzionale è stato tradito allorché, attraverso le correnti dell’Anm, all’interno del Csm i magistrati si sono fatti invece espressione e complici del potere politico, con l’interessato compiacimento di taluni Partiti. Anche dal punto di vista scenografico, la notte dell’Hotel Champagne, cioè la “notte della magistratura”, “fotografa”‘ minuziosamente siffatta perversione istituzionale. Nel medesimo tavolo, accanto al Grande Mediatore Palamara, banchettavano e cospiravano consiglieri del Csm, magistrati fuori ruolo (il dott. C. Ferri, oggi parlamentare) e noti parlamentari (il dott. L. Lotti)! Da anni, invece, i membri togati del Csm non sono stati neppure “eletti”. Per lo più sono stati piuttosto “nominati” dalle correnti della magistratura, che agiscono all’interno dell’Anm e del Consiglio, secondo le logiche spartitorie tipiche dei Partiti, inidonee ad assicurare qualunque indipendenza di giudizio. Per rispettare il disegno costituzionale e ricreare la verginità del Csm, bisogna tranciare dunque la cinghia di trasmissione che collega Anm, partiti e Csm. Ma nessuno ha provato a farlo perché nessuno vuole perdere l’enorme potere incostituzionalmente conquistato; tranne il cittadino, che quel potere patisce e vuole soltanto una magistratura e un Csm indipendenti. A differenza dello scandalo di Mani Pulite (originato dalla c.d. corruzione ambientale), quello delle Toghe Sporche (originato dalla maniacale ambizione personale, che corrode l’indipendenza), invece di provocare la rinascita mediante la necessaria epurazione e “vaccinazione”, è stato fin qui sopito e assorbito. La colonna vertebrale dello Stato, cioè la Magistratura, è stata ritenuta troppo importante per soccombere alla propria domestica scelleratezza (too big to fail: troppo grande per crollare). Palamara è stato bandito dalla Magistratura e dalla Anm, ma - ahinoi - il suo Anti Sistema ha vinto e vive perché i suoi numerosi correi sono stati “graziati” (dall’Anm, dal Pg presso la Suprema Corte e dal Consiglio superiore della magistratura) e operano tuttora, nonostante i reiterati appelli del Capo dello Stato. La violazione della Costituzione è ormai conclamata, dando luogo ad un allarmante riassetto materiale dei Poteri e dell’Ordinamento. Come avviene in tutte le pandemie, sospetto e diffidenza si sono proiettati non solo tra i cittadini, ma anche nei massimi vertici della Giurisdizione, coloro cioè che, come medici e sanitari, dovrebbero contribuire a debellare la diffusione del terribile morbo. È recente e allarmante la notizia per cui il dott. Luigi Riello, Procuratore generale di Napoli, ha impugnato davanti al Giudice amministrativo la nomina del dott. Luigi Salvato a Procuratore generale presso la Suprema Corte, cui concorreva. Il ricorrente ha infatti addotto non solo la mancata considerazione da parte del Consiglio superiore della magistratura del fatto che il dott. Luigi Salvato non ha mai esercitato funzioni penali presso la Suprema Corte, ma anche che egli sarebbe rimasto coinvolto nei “messaggi del dott. Luca Palamara riguardanti il dott. Luigi Salvato”, che “sono - indubitabilmente - nella disponibilità del Csm”. Non è inconsueto che l’assegnazione ad un’altissima carica giudiziaria sia contestata davanti al Tar. Ma è la prima volta - a quanto sembra - che il Sistema Palamara & Company - che è un Antisistema - proietti la sua mefitica ombra persino sul sommo vertice dei magistrati requirenti, quale che possa essere l’attesa decisione del giudice adito. Magistratura, Giudici e Csm non appaiono più indipendenti… e non lo sono più per fatto proprio! I Partiti, quelli compromessi, lo sanno e, non fidandosi più neppure di magistrati mestatori alla maniera di Palamara, hanno deciso soltanto di “governare” direttamente la loro rassegnata dipendenza. Possiamo ancora raddrizzare il “legno storto della Giustizia”? No, fino a quando molti, proprio tra i Giudici, continuano a volerne ignorarne le cause, addebitando la colpa di delegittimare la Magistratura proprio a coloro che piuttosto ne disvelano le responsabilità! Se - come sembra ai più - abbiano gravemente errato i Magistrati e la loro Associazione, proprio da essi, in primo luogo, dovrebbe provenire il ravvedimento operoso! Da chi altri? E se non ora, quando? Hic Rhodus, hic salta! *Già Sostituto Procuratore generale presso la Suprema Corte Omicidio giudice Scopelliti, commemorazione senza la Regione Calabria di Corrado Zunino La Repubblica, 10 agosto 2022 È stata l’unica istituzione assente alla stele sul luogo dell’omicidio. La figlia del magistrato: “31 anni senza verità sono troppi”. Alla commemorazione a Piale di Villa San Giovanni (Reggio Calabria), per i 31anni dall’uccisione dell’alto giudice di Cassazione, Antonino Scopelliti, mancava solo la Regione Calabria, assente anche con il gonfalone istituzionale. Alla cerimonia nei pressi della stele del giudice, sul luogo dell’attentato mafioso il 9 agosto del 1991, erano presenti invece le massime autorità della provincia di Reggio Calabria, dal prefetto Massimo Mariani, al procuratore capo della repubblica Giovanni Bombardieri, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Trentuno anni senza verità - “Trentuno anni sono troppi. Sono da sempre convinta che ogni cosa abbia una data di scadenza. Resta lì, apposta da qualche parte in attesa di consumarsi. A un certo punto accade. Scade. E basta. Ci pensavo stamattina mentre immaginavo un messaggio da condividere con le persone che ogni anno ci sono vicine in questa ricorrenza”. Così Rosanna Scopelliti, figlia dell’alto magistrato di Cassazione, partecipando alla cerimonia di commemorazione sul luogo dell’attentato. “Siamo così abituati alla memoria - ha aggiunto - che abolirei anche il cerimoniale, ognuno saprebbe esattamente dove andare, cosa dire, come fare. Io per prima nella costante lotta tra emozione e razionalità”. “Questa cosa qui, con tutte le sue strette di mano e pacche sulla spalla, oggi - ha affermato - per quanto mi riguarda, trova la sua data di scadenza. Non sono più disponibile a vivere il copione del familiare ‘in attesa’ della stella cometa della verità. Non raccoglierò strette di mano che non siano accompagnate dall’impegno, concreto, per la verità”. “Non posso sopportare che resti un caso irrisolto” - “Mi spiace, ma non posso sopportare che il delitto Scopelliti resti un caso irrisolto. Non posso più accontentarmi della fiducia nel tempo che verrà. Non posso più sentirmi chiedere di essere paziente. Perché la giustizia ritardata - ha evidenziato - è ciò che recide il rapporto di fiducia vero e vivo tra stato e cittadini: crisi della giustizia che è quindi crisi dello stato, lo scriveva papà in un articolo del 1975”. “Lo dico con profondo rispetto per la magistratura - ribadisce rosanna scopelliti - e con immutata stima e gratitudine verso il procuratore lombardo per aver riaperto il caso. Io comprendo che ci siano molte emergenze, comprendo che ci siano casi ‘caldi’ e da prima pagina. Però posso assicurare che ristabilire la verità e dare pace alla memoria di un magistrato ucciso più di trenta anni fa sarebbe ugualmente importante per rinsaldare il rapporto di fiducia di cui parlavo”. Basta strette di mano - “Non ci sarà un altro anno di strette di mano. Non con me. Non con la comunità che ha amato Antonino Scopelliti. È una questione di dignità. Ognuno ha la propria. Ognuno la difende. E non sono più ammessi passi indietro. Lo stato oggi più che mai - ha concluso - deve saper essere forte e coeso. Le istituzioni responsabili, la memoria viva”. Tra le forze dell’ordine il comandante provinciale dei carabinieri Marco Guerini, il comandante provinciale della guardia di finanza Maurizio Cintura, il questore vicario Giammaria Sertorio, il direttore marittimo della Calabria Giuseppe Sciarrone. Per le istituzioni sono intervenuti il sindaco facente funzioni della città metropolitana Carmelo Versace, la sindaca di Villa San Giovanni Giusi Caminiti, il sindaco di Campo Calabro Sandro Repaci, il sindaco facente funzioni di Reggio Calabria, Paolo Brunetti. Nutrita anche la presenza di cittadini di Campo Calabro, cittadina di nascita del giudice Antonino Scopelliti. “Il mio arresto meritava gli articoloni, l’assoluzione dopo 5 anni di calvario no” di Irene Testa Il Dubbio, 10 agosto 2022 Diego Olivieri, imprenditore con settant’anni di storia, viene improvvisamente arrestato con l’accusa di far parte di un’associazione dedita al traffico internazionale di droga. Trascorre dodici mesi in cella al regime del 41 bis in attesa di giudizio e resta nella sezione di massima sicurezza con gli ergastolani. Dopo 5 anni è assolto con formula piena in tre diversi processi “perché il fatto non sussiste”. Diego raccontami come ti sei ritrovato al centro di questo clamoroso errore giudiziario... Vivo ad Arzignano, in provincia di Vicenza, terra di concerie in cui produciamo pelli. La nostra ditta è stata fondata da mio nonno nel 1946, in 70 anni di attività non ho mai mancato il pagamento di una ricevuta bancaria. Il nostro lavoro è quello di procurare pelli dall’estero per le concerie e per questo ci muoviamo spesso in Sud Africa, in Paraguay, in India. Questa storia è nata in Canada, dove io avevo un cliente di Monza che si riforniva settimanalmente di contenitori di pelli. Una notte hanno suonato al campanello e la mia vita è cambiata. Erano i Servizi Segreti che mi dicevano di andare con loro per una questione che mi riguardava. Mai avrei pensato che sarei finito in carcere. Mi viene detto che c’era una ordinanza che mi riguarda e mi viene messo sotto il naso un faldone di 160 pagine dove non si capiva nulla. Mi dicono di chiamare il mio avvocato, ma io avevo solo un avvocato per il recupero crediti, non avevo mai avuto avvocati penalisti. Dico di voler parlare immediatamente con questo Gip o Pm che ha firmato l’arresto perché voglio chiarire questa situazione. Insomma mi portano in carcere di massima sicurezza. E lì vedo in televisione l’arresto di 19 imprenditori tra cui il sottoscritto. Le accuse dei miei inquirenti erano: associazione mafiosa, concorso esterno, riciclaggio di 600 milioni di dollari al tempo 700 miliardi di lire, traffico internazionale di droga in grandi quantità, e non poteva mancare insider trading. Un ergastolano che era in cella con me dice: “guarda che sei tu quello lì”. Dopo 5 giorni mi portano a Rebibbia perché volevo parlare con il Pm. Non l’avessi mai fatto. Me lo avevano sconsigliato tutti per non peggiorare la situazione. Io ero molto convinto della mia innocenza, della mia estraneità ai fatti. Vi racconto come mi hanno preparato all’interrogatorio. Mi hanno portato in città, mi hanno fatto scendere ammanettato come il peggiore dei criminali e mi sono ritrovato nel centro di Roma di sabato mattina alle 10. Erano in 6 gli agenti armati di mitra che mi hanno fatto salire sul marciapiede dicendo “Olivieri non faccia scherzi”, e il drappello in fila indiana si è diretto verso l’ufficio del Pm che distava circa 10 minuti. Questo perché? Per distruggere la psiche, vi posso assicurare che una situazione del genere non pensavo potesse esistere. La gente fuggiva alla mia vista. Com’è stato l’impatto con il carcere? È una cosa difficile da spiegare. La perquisizione che fanno all’entrata non ha nulla di umano. Ti spogliano nudo, ti fanno salire su una pila di bancali, ti fanno fare le flessioni per vedere se hai qualcosa nel corpo, ti mettono le dita dappertutto. Molti non ne parlano, hai fatto bene a parlare di questo ingresso al carcere che è traumatico per molti... Mi hanno spogliato di tutto. Mi hanno dato uno spazzolino, due forchette di legno, un sacco con dentro un cuscino, una coperta e due lenzuola. Mi hanno tolto la cintura, i lacci delle scarpe, non mi stavano su i pantaloni. La cella era occupata da un ergastolano che mi ha insegnato subito come funziona un carcere di massima sicurezza. Mi spiega che se voglio essere rispettato devo dire che ho riciclato i 600 milioni di dollari. Infatti, nel carcere ero diventato l’uomo dei 600 milioni di dollari. Il giorno dopo il mio arresto, cosa molto importante di cui parlano in pochi, era già in edicola sul Corriere della Sera un articolo su di me. Questo significa che la Procura aveva comunicato al giornalista quello che avrebbe dovuto scrivere. Io non avevo ancora l’avvocato. Quello che avevo era un avvocato d’ufficio che non avevo mai visto. Sono stato un anno in custodia cautelare. Poi è iniziato il processo e mi hanno dato 436 giorni di libertà vigilata. Di processi ce ne sono stati 3, assieme al processo mediatico dei giornali. È stata emessa una rogatoria internazionale su questo intrigo, perché coinvolgeva la Svizzera, il Canada, la Francia: “intrigo internazionale sventato dalla Dia” dicevano le testate. Ho subito delle vere e proprie torture psicologiche, dicevano che ero omertoso, perché nell’incontro con il Pm io non confermavo le loro accuse. Al termine dei 12 mesi di indagini preliminari mi hanno tolto il concorso esterno mettendomi direttamente come esponente mafioso poiché non avevo collaborato. Il processo di primo grado come è andato? Le accuse erano infondate. I miei avvocati hanno distrutto gli inquirenti. Infatti, il processo si è fermato al primo grado. Siamo stati assolti tutti e 19. Però è successo che nove di loro hanno subito un grosso fallimento, perché quando si viene sputtanati nei giornali, questo è il termine, la banca si mette in moto e se hai un contenzioso aperto, anche piccolo, loro ti dicono di sanarlo dopo uno o due mesi e se non lo fai chiudono il conto, sei con le spalle al muro. A me hanno messo il commissario in azienda che dava gli stipendi ai dipendenti e ai miei figli che lavorano nell’azienda. Per fortuna mio figlio è stato bravissimo, ha tenuto in piedi l’attività, ha dato prova di grande valore, altrimenti avrei perso tutto anche io, come tutti. Poi, come se non bastasse, mi hanno controllato 13 anni, non 10 come prescrive la legge, ma ben 13, dai mille euro in su. Hanno controllato tutto, sequestrato anche i beni dei miei figli, le auto. Mi hanno sequestrato tutto. Ho vissuto per sei anni senza poter accedere ai miei conti poiché erano stati sequestrati. Ci sono voluti altri cinque anni, non è finita da molto la storia, ma nessuno di noi è stato risarcito. Hai fatto ricorso alla Corte europea per il risarcimento? Sì, e si parla di otto anni di attesa, tempi lunghi. Bisogna cambiare questo sistema, penso che il referendum sia d’obbligo, bisogna iniziare con la separazione delle carriere, non si può arrestare una persona se non c’è un reato. Tu ti sei impegnato per avere una riabilitazione, hai raccontato spesso la tua storia.... Certo, ci tenevo più del risarcimento e più di ogni altra cosa: la dignità e l’onore sono al primo posto per un imprenditore e per la mia persona. I giornali, che sono i primi accusatori, avrebbero potuto fare un articolo sulla nostra assoluzione, ma ricordo che quando siamo usciti dal Tribunale di Roma il mio avvocato ha chiamato il redattore del Corriere della Sera, spiegando che ero stato assolto, ma la risposta fu che la questione avrebbe interessato poco. Tu hai avuto anche la fortuna in qualche modo di poter mandare avanti il tuo processo... Certo, chi non ha i soldi resta dentro perché le spese da sostenere sono tante. I miei figli avevano trovato degli avvocati di un certo spessore. Se non avessi avuto la mia famiglia sicuramente non ce l’avrei fatta. Ho vissuto per sei anni senza soldi, ho vissuto con i prestiti dei miei amici, mia moglie mi tagliava i capelli e facevo girare i colli delle camicie dai cinesi, cosa che per me non è mai esistita. È necessario dare un sussidio, altrimenti non si può sopravvivere. Napoli. Sarebbe uscito dal carcere nel 2024, si è tolto la vita domenica a Poggioreale di Francesco De Felice Il Dubbio, 10 agosto 2022 Francesco Iovine, 43 anni, detenuto per piccoli reati era anoressico e pesava appena 43 chili. La drammatica lista di detenuti suicidi in carcere continua ad allungarsi. “Francesco Iovine, 43 anni, detenuto per piccoli reati con fine pena 2024, si è suicidato domenica pomeriggio nel reparto Sai (Servizio Sanitario Integrato) del carcere di Poggioreale. Siamo al quarto suicidio in Campania dall’inizio dell’anno”. La notizia è stata resa nota dal Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello e da quello comunale Pietro Ioia, che nella mattinata di ieri si sono recati al carcere di Poggioreale al secondo piano del reparto Sai dove è avvenuto il suicidio: “Francesco - raccontano Ciambriello e Ioia - era entrato nel novembre 2021 a Poggioreale nel reparto per gli ammalati: era anoressico, pesava 43 kg. Durante la sua permanenza più di una volta era stato portato per visite specialistiche al Caldarelli. Rifiutava spesso la nutrizione parenterale. Questo drammatico evento ci ricorda che il carcere è lo specchio della società. Ogni suicidio in carcere è una nostra sconfitta, una sconfitta della società e delle Istituzioni a vari livelli. Occorre prevenire, intervenire prima, rilevare eventuali segnali di disagio e sofferenza emotiva in correlazione con un rischio suicidario. Intanto il carcere uccide. Continua il malinteso populista della certezza della pena e della certezza della galera. Domenica pomeriggio, mentre soccorrevano Francesco, dal carcere hanno chiamato il 118: l’autoambulanza è arrivata dopo 40 minuti”. Il magistrato di turno si è recato domenica stessa al carcere di Poggioreale. La salma è stata portata al II Policlinico per l’autopsia. Amaro il commento del Garante campano Samuele Ciambriello: “In una Regione che conta 6.660 detenuti, di cui ben 2.181 sono a Poggioreale, la mancanza di educatori (in regione ce ne vorrebbero 105 ma ce ne sono solo 70 e a Poggioreale ne sono previsti 19 ma ce ne sono solo 9), si affianca alla mancanza di medici di reparto, di figure sociali di psicologi e psichiatri. Oggi a Poggioreale per più di 2000 persone era presente un solo psichiatra”. Durissime le considerazioni di Ciambriello: “Questo dimostra che il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, vivono la “politica dello struzzo”. Una politica cinica e pavida, spesso incompetente ed opportunista: non parla nei suoi programmi né di giustizia, né di carceri, e i segretari di partito restano con il pallottoliere a fare i loro conti. Faccio un appello alla magistratura di sorveglianza, sia per i permessi premio, sia per le misure alternative, anche per evitare ulteriori tragedie come quelle di Francesco, va inoltre segnalato che ci sono 1.122 detenuti - sui 6.660 in Campania - in attesa di giudizio, anche per reati non gravi. C’è dunque un abuso della misura cautelare in carcere”. Questo ennesimo suicidio, come è stato sottolineato dai garanti Ciambriello e Ioia, evidenzia ancora di più la cronica mancanza di figure professionali che possano seguire i detenuti a rischio suicidario. La situazione è stata analizzata anche dal presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, David Lazzari, commentando l’allarme sull’ondata di suicidi nelle carceri italiane lanciato dal Garante dei detenuti, Mauro Palma. “Il suicidio è un fatto complesso - ha sottolineato il presidente Lazzari - ma sicuramente le nostre carceri non riescono in tempi utili a intercettare il rischio suicidario e a mettere in atto tempestivamente azioni di prevenzione e cura. I presidi sanitari sono sguarniti di professionisti della salute mentale”. “Chi c’è - ha continuato David Lazzeri - fa del suo meglio ma spesso né il numero di ore né gli strumenti forniti sono completamente adeguati. In più gli psicologi esperti ex art. 80 hanno un numero di ore così esiguo che non resta tempo per lavorare sul trattamento oltre che sull’osservazione e spesso nemmeno per lavorare in maniera integrata con i colleghi dei servizi sanitari”. “Sarebbe più lungimirante - ha aggiunto Lazzari - rivedere il ruolo dello psicologo nell’ordinamento penitenziario e farne parte integrante dello staff. Una figura che lavori su più fronti per contribuire concretamente all’individuazione del trattamento in carcere e lavorare sul benessere della comunità carceraria tutta. La Comunità professionale psicologica attraverso il Cnop da tempo ha avanzato proposte e siamo pronti a collaborare se si vuole fare davvero qualcosa”, ha concluso. E come dimenticare l’appello di don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia e al Capo del Dap Carlo Renoldi: “telefoni in cella subito!”. “Una telefonata ti può salvare la vita!”. Napoli. Suicidio a Secondigliano, si impicca un detenuto di 33 anni Ristretti Orizzonti, 10 agosto 2022 Si chiamava Garden Dardou, nato in Algeria il 7 agosto 1989. Detenuto con condanna definitiva per rapina e fine pena 5 agosto 2023. Sottoposto al 14 bis o.p. È stato soccorso e giunto in infermeria ancora in vita. Fonte delle informazioni: Garante nazionale dei detenuti Torino. Chiuse le celle dei pusher, chi ingerisce gli ovuli senza prove torna in libertà di Irene Famà La Stampa, 10 agosto 2022 Dopo l’inagibilità della “sezione filtro” definita disumana da Cartabia, un tavolo in procura per individuare gli spazi adatti a recuperare la droga. “In assenza di riscontri non ci sono elementi sufficienti per dimostrare che l’indagato abbia effettivamente ingoiato dello stupefacente”. Ecco. La questione di come gestire gli arresti dei militari della droga dopo la chiusura della controversa sezione filtro del carcere di Torino è tutta qui. Nell’ordinanza di scarcerazione di un ventisettenne nigeriano arrestato dai carabinieri negli scorsi giorni. I militari lo fermano in piazza Carducci, lo vedono ingoiare degli ovuli di droga. Dimostrarlo, però, è impossibile e in mancanza di prove il giudice Marco Picco ne dispone “immediata liberazione”. Perché? La sezione filtro del carcere Lorusso e Cutugno, quella riservata a chi ingoia ovuli per trasportarli e passare i controlli senza problemi, è chiusa da giugno: il macchinario per individuare e recuperare lo stupefacente si è inceppato. La manutenzione è complessa, in Italia non c’è nessuno che sia in grado di effettuarla. E il costo per sostituirla, sembra essere esorbitante. Aspetti tecnici ed economici. E aspetti umani. Perché la sezione filtro di umano non aveva nulla, tra sporcizia, spazi angusti, odori sgradevoli. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, al termine della sua visita in carcere lo scorso marzo, l’aveva detto chiaro: “È un posto inguardabile per la disumanità, sia per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria, sia per le condizioni dei detenuti”. E quel macchinario che si è inceppato è stata l’occasione per chiudere la “sezione della vergogna”. Il problema di come trattare chi trasporta gli ovuli però resta. Da un lato c’è la tutela della salute degli indagati, dall’altro c’è la legge: senza prove l’arresto è destinato ad essere revocato. La procura sta portando avanti in questi giorni un tavolo di confronto tra forze dell’ordine, carcere, ospedali, dirigenti dell’asl competente per trovare una soluzione. Tra le ipotesi c’è quella di adibire alla raccolta degli ovuli alcuni spazi del repartino delle Molinette. Che però dovrà essere attrezzata ad hoc. La direttrice del carcere Cosima Buccoliero commenta: “Bisogna definire la procedura per stabilire chi e come recuperare lo stupefacente. Gli ospedali - aggiunge - sarebbero gli spazi più idonei”. A Milano, ad esempio, funziona così. Il macchinario all’aeroporto di Malpensa è utilizzato per i cosiddetti body packers, chi ingoia grandi quantità di droga per trasportarle da una parte all’altra del mondo. I body stuffing, ovvero chi ingerisce ovuli durante un controllo, vengono portati in ospedale. La questione è annosa. Nel 2019, a Torino, un parere dell’Asl spiega perché i body stuffing non hanno necessità di ricovero urgente. Ma dopo la chiusura della sezione filtro, si cercano soluzioni. “Bisogna stabilire la procedura - ribadisce Buccoliero - Se affidarsi nuovamente al macchinario oppure percorrere altre vie”. Una cosa, però la direttrice del penitenziario, la esclude con fermezza: “Non è possibile riaprire la sezione filtro in carcere. Non è il luogo adatto”. In tanti l’avevano denunciato e tornano a ribadirlo: “La sezione della vergogna non dovrà riaprire. Si trovino altre soluzioni”. Palermo. “Al Pagliarelli docce fuori dalle celle e acqua calda solo tre giorni a settimana” palermotoday.it, 10 agosto 2022 Lo denuncia l’associazione Antigone, che ieri e oggi ha visitato i due istituti penitenziari della città. “Con le alte temperature condizioni di vivibilità al limite, va meglio all’Ucciardone grazie alle ristrutturazioni della struttura d’epoca borbonica”. “All’Ucciardone, carcere di epoca borbonica, grazie alle ristrutturazioni, ogni cella ha una propria doccia e i detenuti possono fare la doccia ogni giorno. Al Pagliarelli purtroppo, per problemi strutturali, malgrado l’istituto sia più moderno, le docce sono quasi tutte fuori dalle celle e l’acqua calda è disponibile solo tre giorni alla settimana”. E’ quanto denunciato da Pino Apprendi, Francesco Leone e Giacinto Vaccarella, che fanno parte dell’osservatorio carceri dell’associazione Antigone, che ieri e oggi hanno visitato i due istituti penitenziari della città. “Con il caldo, che anche questa estate sta affliggendo Palermo e la Sicilia, - proseguono - le condizioni di vivibilità dei detenuti sono al limite. Al di là delle leggende metropolitane che spesso la gente racconta, i detenuti vivono in spazi molto limitati, dove il caldo e il freddo hanno la stessa influenza. I 47 suicidi del 2022 devono fare riflettere su quanto e come incide questo tipo di detenzione, soprattutto fra i giovani”. “Il grande problema irrisolto - concludono i rappresentanti di Antigone - è quello dei soggetti con problemi psichiatrici, che non trovano risposte nel carcere. In particolare in Sicilia, le due Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems) di Naso e Caltagirone sono assolutamente insufficienti. Da anni si aspetta l’apertura di un terzo centro”. Sulmona (Aq). Il Garante regionale dei detenuti in visita all’istituto penitenziario Il Centro, 10 agosto 2022 Ieri mattina si è svolta la visita ispettiva, promossa dal Garante dei detenuti di Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, all’interno dell’istituto penitenziario di Sulmona. Il garante ha stabilito degli obiettivi da raggiungere a breve termine, tra questi: integrare il personale sanitario mancante, ammodernare una parte delle apparecchiature diagnostiche, digitalizzare le cartelle sanitarie dei pazienti, implementare la telemedicina. Insieme al Garante, hanno partecipato all’ispezione il direttore generale della Asl1 Avezzano-Sulmona-L’Aquila, Ferdinando Romano e il vicepresidente del Consiglio regionale, Roberto Santangelo. La delegazione è stata accolta dal direttore facente funzione dell’istituto penitenziario sulmonese, Lucia Di Feliciantonio e assistita dal personale penitenziario. In particolare, i sopralluoghi hanno interessato le cucine, l’infermeria e alcune sezioni dei reparti. Le soluzioni annunciate dal direttore sanitario della Asl1, Ferdinando Romano, intendono contribuire a migliorare le condizioni di vita e di lavoro di detenuti ed operatori. “La presenza fisica del personale sanitario in carcere, - ha dichiarato Romano - non ha solo una funzione strettamente medico-assistenziale, ma ha spesso un valore umano. I pazienti cercano un dialogo, un ponte tra l’interno e l’esterno”. Il Garante dei detenuti ricorda quanto è stato già realizzato, in accordo con Regione e Consiglio regionale: “Abbiamo dato slancio alla formazione universitaria dei detenuti, ottenendo l’abolizione della tassa sul diritto allo studio per i ristretti degli istituti penitenziari abruzzesi. Rispetto agli scorsi anni nei quali gli iscritti ai corsi si attestavano su numeri molto bassi, oggi abbiamo più di una cinquantina di immatricolati”. Roma a mano sempre più armata: una pistola ogni palazzo di Martina Di Berardino La Repubblica, 10 agosto 2022 E ai poligoni soprattutto donne, è l’effetto femminicidi. I dati della polizia fotografano un aumento delle licenze nel corso dell’ultimo anno. Procedure semplificate per alcune categorie. E spesso l’uso finisce ad essere per la difesa. Una pistola ogni 75 abitanti. Quasi un’arma corta ogni condominio. È il dato che emerge dalle ultime statistiche della Polizia di Stato relative ai porto d’armi. La quota dei rilasci dei permessi nella Capitale è aumentata di mille unità e ha superato i 40 mila, che diviso per i circa 3 milioni di abitanti fa di Roma una città a mano armata. I numeri parlano chiaro e rivelano un incremento notevole della corsa agli armamenti, soprattutto alla detenzione in casa. Salgono le richieste di licenze per tiro a volo, che sarebbe l’uso sportivo dell’arma, ottenibile con una procedura di rilascio semplificata e permette di avere regolarmente nella propria abitazione due pistole e un numero illimitato di fucili. Nel Lazio la stessa tendenza si registra a Latina e Rieti. Scendono invece le domande di possesso per difesa personale che consentono di portare ovunque con se l’arma da fuoco, ma sono più difficili da ottenere ed hanno alcune restrizioni. Il porto d’armi per uso sportivo è quindi la via più breve per sentirsi sicuri in casa. Ed ecco quindi che la tentazione della pistola si fa largo non solo tra gli appassionati dei poligoni o tra chi è cresciuto in prima fila tra i film western con il mito della Colt. Il pubblico degli acquirenti è tra i più eterogenei e trasversali: liberi professionisti e operai, ma anche casalinghe, capi famiglia o single. “La modifica della legge sulla legittima difesa del 2019 - spiega una fonte investigativa - che ha introdotto maggiori attenuanti per chi tutela la propria incolumità tra le mura domestiche potrebbe essere stata proprio una delle spinte all’incremento di questi dati”. Le differenze tra i permessi sono sostanziali. Se si vuole solo tenere un’arma in casa basta ottenere un nulla osta all’acquisto e alla detenzione presentando domanda in Questura e allegando due documenti: una certificazione di idoneità psicofisica rilasciata generalmente dalle Asl e un attestato di idoneità al maneggio delle armi ottenuto dall’Unione italiana tiro a segno. L’arma non potrà mai uscire di casa. Il porto d’armi vero e proprio si divide in: tiro a volo o uso sportivo e caccia, e difesa personale. Nei primi due casi l’arma potrà essere trasportata smontata e senza proiettili verso i poligoni di tiro o le zone venatorie. Bisogna essere anche iscritti ad un tiro a segno abilitato. Con questo tipo di licenza si possono tenere tre armi comuni da sparo, dodici per uso sportivo mentre per i fucili da caccia non sono previsti limiti. Il costo è contenuto: 300 euro per la pratica e il certificato dura 5 anni. Quello per difesa personale è tutta un’altra storia: la licenza è molto più difficile da ottenere e va rinnovata ogni anno. L’iter è questo: viene rilasciata dal Prefetto e oltre ai documenti del nulla osta bisogna motivare le ragioni per le quali si ritiene di essere a rischio e avere quindi necessità di difendersi. Tra le categorie che hanno i requisiti emergono quelle che maneggiano molto denaro tipo i benzinai, ma anche gioiellieri. Per quanto riguarda rapine e violenza in generale, secondo il servizio analisi del crimine della Polizia di Stato, nell’ultimo anno le armi bianche hanno superato di gran lunga quelle da fuoco nelle aggressioni e negli omicidi. Il coltello o un qualsiasi oggetto da taglio sono quindi preferiti dalla criminalità come strumenti di pura offesa. Donne che vogliono imparare a sparare: “L’effetto femminicidi” Chi sono i 40 mila romani appassionati di armi? Chi compra pistole usate o nuove, pezzi dal valore di poche centinaia di euro fino a migliaia? I poligoni di tiro hanno il reale polso della situazione. Con una rappresentanza di armi corte che vanno da una Glock 17 dal costo di 800 euro circa, ad una 44 Magnum di 1.500 euro. È lì che si va a sparare, è lì che si segue il corso di maneggio delle armi necessario per ottenere la licenza e che ci si esercita davanti ai bersagli sotto l’occhio attento degli istruttori. “Qui vengono a sparare persone di ogni cultura, professione ed estrazione sociale”, dice Guido Matteini del Futura Shooting Club, sulla Cassia. Fino ad alcuni anni fa le donne erano pochissime, adesso non è più così: alcune comuni casalinghe frequentano il poligono e sanno bene come maneggiare un’arma. Altre donne si sono armate per paura di stare sole in casa e per difendersi dalle aggressioni. Forse anche per tutti i femminicidi che si sono registrati negli ultimi anni. Ricordo sempre che maneggiare un’arma è cosa rischiosa per sé e per gli altri e soprattutto una pistola è anche difficile da gestire. Insomma, bisogna fare dei corsi specifici per usarle con capacità e criterio”. Donne, dunque. Ma anche tanti professionisti: le pedane del poligono offrono uno spaccato sociale molto eterogeneo. “Sono soprattutto avvocati penalisti che hanno a che fare con la delinquenza, ma anche commercialisti e in generale gente che sposta denaro o preziosi come gioiellieri. Oppure benzinai o anche operai con la passione del tiro a segno. Vengono qui per esercitarsi al tiro e prendere confidenza con le armi. Ma chi vuole davvero imparare ad usare una pistola, senza correre inutili rischi, dovrebbe sostenere un corso specifico di quello che si chiama “tiro dinamico”. Perché di solito quando si spara realmente lo si fa muovendosi, a volte correndo e con il cuore che batte forte”. Piacenza. Il lavoro senza diritti degli immigrati: la dignità? In una casa di Barbara Sartori Avvenire, 10 agosto 2022 Un alloggio, una formazione adeguata, ascolto: “Restare indifferenti alle condizioni dei “lavoratori poveri” è un errore”, spiega don Lusignani. Il lavoro di una parrocchia con la Caritas. Il più fortunato ha un contratto di sei mesi, che scade a fine agosto. Gli altri, di tre. Ma si è arrivati anche a rinnovi di 15 giorni in 15 giorni. Da novembre la casa Don Paolo Camminati nella parrocchia di Nostra Signora di Lourdes, a Piacenza, è diventata un piccolo osservatorio delle contraddizioni che popolano il mondo del lavoro nel settore logistica. Il progetto nato in sinergia con la Caritas diocesana da un’intuizione dell’ex parroco - l’ultimo, prima che il Covid se lo portasse via a 53 anni nel marzo 2020 - ospita al primo piano della canonica un appartamento per lavoratori precari, quelli che un’occupazione ce l’hanno, ma non si possono permettere un alloggio. Sono i cosiddetti working poor, fenomeno che la provincia emiliana ai confini con la Lombardia ha visto crescere progressivamente negli ultimi anni, complice il boom della logistica che attira qui tante persone da tutta la penisola. Il Rapporto Piacenz@ Economia presentato a luglio ha tracciato la consistenza dell’occupazione nel comparto, che vale 15mila addetti nel 2021. Vero è che tra questi ci sono anche laureati e professionalità di vario genere (l’istituto tecnico industriale cittadino dal 2018 ha varato la scuola biennale per formare periti della logistica e dei trasporti), ma nel mare magnum di magazzinieri, facchini, driver, addetti delle pulizie c’è anche quella sacca di vulnerabilità che si aggiunge alle povertà generate dalla pandemia, sfidando i territori a percorrere nuovi percorsi di risposta al bisogno. La casa Don Camminati è il primo centro sorto a Piacenza espressamente con questo scopo. Finora, ha accolto sette persone, tutti uomini dal-l’Africa subsahariana - con una sola eccezione, un cinquantenne dello Sri Lanka ora emigrato in Norvegia - tra i 20 e i 30, massimo 35 anni, senza alcun appoggio familiare in loco. “Sono venuti a Piacenza perché il lavoro nella logistica non manca: ha colpito anche noi questa velocità e disponibilità ad ottenere un’occupazione. Il contratto termina e già hanno davanti diverse offerte. Il problema è che bisogna chiedersi se questo lavoro rispetta appieno la dignità dell’essere umano. È ora come città che si faccia una riflessione seria su quel che viene offerto”. Don Giuseppe Lusignani guida la popolare parrocchia alla periferia di Piacenza, 7mila abitanti, il 40% rappresentato da immigrati. Con l’inaugurazione della casa, il 6 novembre, e subito dopo l’arrivo dei primi quattro ospiti - per l’emergenza sanitaria non è ancora stato possibile raggiungere il tetto massimo di sette persone accolte contemporaneamente - ha dato un volto e delle storie ai working poor. “I ragazzi che sono qui non sono degli sprovveduti, hanno spesso degli studi alle spalle, Piacenza la vedono come un luogo di passaggio obbligato, perché c’è lavoro. Progettare il futuro, nella precarietà continua che vivono, non è semplice” fa notare don Lusignani. Per questo il progetto della casa prevede non solo di fornire un tetto sulla testa, ma di accompagnare ogni ospite dentro un itinerario personalizzato che - in massimo 18 mesi - gli permetta di camminare da solo. La presenza di un educatore, Alessandro Ghinelli, operatore della Caritas diocesana, e di un gruppo di volontari della parrocchia servono a questo scopo. Ma la realtà, non ha problemi ad ammettere don Giuseppe, è ben diversa dagli obiettivi pensati a tavolino: “Questi ragazzi sono molto assorbiti dal lavoro, che è su turni e non aiuta a creare momenti comuni, sia la cena in casa che una semplice partita a pallone con i giovani della parrocchia”. La preoccupazione di mandare soldi alla famiglia nel Paese d’origine è un altro punto di vulnerabilità. Lo stipendio medio da magazziniere da 1.200 euro che percepiscono devono imparare a gestirlo pensando a una piccola somma da mettere da parte per una casa autonoma, se mai un contratto d’affitto riusciranno a trovarlo, non potendo offrire garanzie di stabilità. “Quel che tutti mi dicono - spiega Ghinelli - è che non vogliono fare questo lavoro tutta la vita. Mi raccontano di aziende che sono attente a verificare che i lavoratori non portino carichi eccessivi, ma ce ne sono anche altre che non si fanno scrupoli ad oltrepassare i limiti e se uno riesce a fare il lavoro di due di certo non hanno da recriminare. Un ragazzo mi ha parlato di un collega di sessant’anni: “Io non voglio finire così” ha ripetuto. Il desiderio comune è di uscire prima o poi dalla logistica. “C’è chi vorrebbe fare il panettiere, andare ad occupare quei posti vacanti, che ci sono. Ma ci vogliono corsi di formazione. Stiamo contattando vari enti del territorio per cercare delle opportunità, nella consapevolezza che, per frequentare un corso, dovrebbero interrompere il lavoro. E non è che tutti vogliano o possano permetterselo”. Don Giuseppe ed Alessandro una certezza ce l’hanno. “Qui i miracoli non li facciamo, però la casa può offrire uno spazio di speranza, la prospettiva di un futuro. Nel confronto tra culture e fedi diverse che stiamo vivendo si crea anche uno spazio di crescita onesto, serio”. Uno degli ospiti, affiancato da un volontario, ha accettato di raccontare la sua storia a un gruppo di giovanissimi della parrocchia. “Ha parlato del suo viaggio, dei 23 giorni di detenzione in Libia, del suo sogno di trovare una fidanzata e formarsi una famiglia. Vorremmo organizzare in futuro altri incontri, aperti a tutti”. L’altro tassello che manca è il coinvolgimento della città. “Questo progetto - sottolinea don Lusignani - non è solo della parrocchia o della diocesi, riguarda tutta Piacenza. Uno dei nostri ragazzi si è adattato a dormire in una stanza con vermi e scarafaggi che gli giravano sul corpo, doveva portarsi sempre dietro i documenti per paura di essere derubato. Non si può restare indifferenti”. Questa volta i cittadini vogliono essere rassicurati di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 10 agosto 2022 Ci sono elezioni segnate dalle illusioni, altre al contrario dalla delusione, dalla voglia di punire. Ma, in tempi difficili, le persone chiedono soprattutto conforto. Un’elezione, un sentimento. Si capisce a cose fatte: ma si capisce. I sentimenti prevalenti, nelle grandi scelte elettorali di questo secolo, sembrano tre: illusione, delusione, rassicurazione. I partiti e le coalizioni che l’hanno intuito per tempo hanno vinto, in Italia e non solo. Quelli che l’hanno compreso in ritardo hanno perso. Soltanto dopo, col senno di poi, hanno capito perché. Quali sono state le elezioni dell’illusione? Quelle dove la speranza contava più dell’ansia? Di certo il voto nel 2001: Silvio Berlusconi e la Casa delle Libertà sono riusciti a intercettare la voglia di cambiamento. Le semplificazioni televisive hanno funzionato, l’ottimismo esibito ha convinto, i conflitti d’interesse sono stati ignorati. Chi sosteneva che l’Italia non avesse bisogno di un illusionista ha perso. I risultati di Forza Italia (29,4%) e della Lega Nord (3,9%) dimostrano come l’euforia, ventuno anni fa, fosse più potente della rabbia. Importante è la data: 13 maggio, quattro mesi prima dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, che ha cambiato l’umore e le prospettive del mondo. Se nel 2001 avessimo votato in autunno, chissà come sarebbe andata a finire. Altre elezioni piene di illusioni? Le Politiche del 2013 e le Europee del 2014, entrambe segnate da Matteo Renzi. La giovane età, la grinta e le proposte hanno convinto i moderati che fosse venuto il momento di affidare il cambiamento a una nuova generazione. Renzi e il Partito democratico hanno beneficiato degli umori portati dall’elezione di Barack Obama (2008, 2012): il vento politico, in Italia, soffia quasi sempre da Occidente. La coalizione di centro-sinistra nel 2013 ha vinto di misura. La conferma che avesse intercettato l’aria nuova è arrivata l’anno dopo: nelle Europee 2014 il partito guidato da Renzi - già a Palazzo Chigi - ha conquistato uno strabiliante 40,8% dei voti. Come quel giovane presidente del Consiglio sia riuscito a sprecare un tale capitale di consenso resta un mistero. Ci sono, poi, le elezioni segnate dalla delusione, quelle in cui gli elettori intendono infliggere una punizione. Elezioni punitive sono state quelle del 2018. Votare il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Matteo Salvini è sembrato, a sedici milioni e mezzo di italiani, il modo migliore di esprimere il proprio fastidio. I leader delle due formazioni sostenevano, ovviamente, che avessero vinto le proposte e i programmi. La realtà è un’altra: quel voto è stato la sentenza sommaria dopo anni di accuse e denunce, moltiplicate dai social. La breve vita tumultuosa del governo giallo-verde ne è la prova. Anche in questo caso, il voto in Italia ha trovato spunti e motivi all’estero. Soprattutto nel referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea (giugno 2016) e nelle elezioni presidenziali negli Stati Uniti (novembre 2016). Il successo di Brexit e l’ascesa di Donald Trump sono certamente - anche se non esclusivamente - legati allo scontento nei rispettivi Paesi. Un miscuglio di rivendicazioni, frustrazioni, fantasie e nostalgie si è sfogato nel voto. Di nuovo: l’esito burrascoso della presidenza Trump, e le difficoltà che sta incontrando la Gran Bretagna fuori dalla Ue, lasciano pensare che usare il voto come punizione non sia una buona idea. Spesso ne approfittano le persone sbagliate. Samo al terzo sentimento: la voglia di essere rassicurati. Dittatori e autocrati, per impossessarsi del potere e non lasciarlo più, offrono proprio questo: rassicurazione. In questo caso si tratta di un imbroglio, certo. Ma la rassicurazione è anche un’onesta moneta elettorale. È il motivo per cui la maggioranza degli americani, in momenti post-traumatici, ha scelto il repubblicano George W. Bush (2004) e il democratico Joe Biden (2020). È il sentimento che ha spinto gli elettori britannici a confermare Boris Johnson nel 2019, e quelli francesi a rinnovare la fiducia a Emmanuel Macron nel 2022. È la spiegazione dietro al gradimento costante di Mario Draghi e del suo governo (siamo un Paese smemorato, è vero, ma non al punto da essercene già dimenticati). In attesa del 25 settembre, chi è grado di fornire rassicurazione agli italiani? È su questo terreno, infatti, che si giocheranno le prossime elezioni. L’impressione è che gli elettori, più che sognare o punire, oggi chiedano di essere confortati. La guerra in Ucraina, l’inflazione, i costi dell’energia, la siccità, la coda della pandemia. La faticosa tenuta della sanità e della scuola. La gestione dell’immigrazione (magari la programmazione, tanto per cambiare?). Una democrazia che, in queste condizioni, cerca rassicurazione non è una democrazia pavida. È una democrazia umana. I partiti politici dicono di saperlo. In pratica, molti leader agiscono secondo antichi automatismi. Matteo Salvini fatica a cambiare ruolo. Silvio Berlusconi ripropone frasi e stilemi di vent’anni fa. Conte e Fratoianni discutono le alleanze internazionali, e allarmano. Anche i gemelli diversi Calenda e Renzi appaiono fuori sincrono: l’elettorato chiede melatonina, loro offrono adrenalina. Restano Enrico Letta e Giorgia Meloni. Entrambi sembrano aver capito che la nazione spaventata cerca rassicurazione. Tra sei settimane e mezzo, sapremo chi è stato più convincente. La campagna elettorale si è già dimenticata dei più giovani di Filippo Teoldi Il Domani, 10 agosto 2022 Dopo il dibattito, fin troppo lungo, sulla costruzione delle alleanze si spera sia finalmente arrivato il momento di discutere di come riformare il paese. La crescita economica è in stallo da più di venticinque anni e le opportunità sono sempre meno, soprattutto per i più giovani. Alcuni numeri per capire meglio la tragica condizione di una generazione e per prepararsi all’ennesima fuga dalle urne di chi non è mai stato così poco ascoltato Povertà - I dati sulla povertà assoluta (intesa come l’incapacità di sostenere spese minime) indicano un peggioramento generalizzato della situazione dell’intero paese: le persone in povertà assoluta sono passate da 1,9 milioni nel 2005 a oltre 5 milioni nel 2021. Ma sono i più giovani a registrare la maggiore incidenza. Come si nota dal grafico, l’incidenza della povertà assoluta raggiunge circa il 15 per cento fra chi ha 17 anni e oltre l’11 per cento fra chi ha 18-34 anni. Resta poco sopra il 5 per cento invece per i più anziani (65 anni e più). Si sono verificati due eventi negli ultimi anni. Innanzitutto, se nel 2005 erano gli anziani la fascia di età a trovarsi più spesso in una situazione di povertà assoluta, oggi è l’opposto: al diminuire dell’età, aumenta l’incidenza della povertà assoluta. Inoltre la distanza fra le varie classi di età è via via aumentata nel corso degli ultimi anni: se nel 2011 tutte le classi registravano un’incidenza della povertà intorno al 5 per cento, nel 2021 la differenza fra la classe più colpita e quella meno colpita è di quasi 10 punti percentuali. Retribuzioni - Analisi dell’Ocse hanno dimostrato che negli ultimi 30 anni i salari reali medi degli italiani sono diminuiti del 3,6 per cento. I giovani sono però quelli che stanno pagando di più questo calo. Secondo stime dell’Inps, fatta 100 la media dei redditi sulla popolazione in ogni anno, i redditi dei giovani si sono ridotti a tal punto che il numero indice passa da 76 nel 1975 a 51 nel 2019. La caduta è solo in parte attribuibile all’aumento del tempo passato in percorsi di studi e formazione. È una dinamica questa che ha fatto sì che negli ultimi anni fosse sempre più evidente nei dati statistici la cosiddetta povertà lavorativa (in sintesi, trovarsi in una situazione di povertà, nonostante si abbia un lavoro). Secondo gli ultimi dati disponibili si è registrato nel tempo un aumento dell’incidenza dei dipendenti con bassa paga: il valore è passato dal 9,5 per cento del 2019 al 10,1 per cento del 2020, con punte massime fra chi ha 15-24 anni (quasi il 30 per cento) e 25-34 anni (13,5 per cento). Indipendenza - In Unione europea l’età media in cui un ragazzo o una ragazza lasciano casa dei propri genitori è 26 anni circa. Croazia, Slovacchia, Italia e Malta registrano l’età media più alta. In Italia per esempio è oltre i 30 anni. Circa il 70 per cento dei ventenni nel nostro paese vive ancora coi genitori. Il ritardo nell’uscire di casa e rendersi indipendenti è dovuto a condizioni economiche che rendono difficile il mercato del lavoro per i giovani italiani. Né studio né lavoro né formazione - Sono oltre il 23 per cento i giovani che non studiano, non frequentano corsi di formazione e non lavorano in Italia (Neet). Circa tre milioni di ragazze e ragazzi fra i 15 e i 29 anni. Il dato più alto tra i paesi europei e 4,2 volte più grande di quello registrato nei Paesi Bassi (il minimo in Europa). Dopo l’Italia vengono la Romania (20,3 per cento), la Serbia (18,8 per cento) e la Bulgaria (17,6 per cento). Osservando la differenza territoriale, nelle regioni del sud Italia la percentuale di Neet sfiora il 30 per cento. Educazione - In Italia il 28 per cento della popolazione che ha fra i 25 e i 34 anni possiede un titolo di studio terziario (laurea triennale o magistrale). Un numero assai basso se messo a confronto con gli altri paesi a noi più simili. La media europea è del 44 per cento: in Francia e Spagna è quasi il 50 per cento, in Germania il 35 per cento. Il dato italiano è dovuto a diversi fattori della nostra economia, ma la mancanza di percorsi terziari professionalizzanti è sicuramente un motivo importante. Il dato è però legato anche a quel concetto economico conosciuto in inglese come “low-skill, bad-job trap”. In paesi in cui gran parte della forza lavoro non è qualificata, le aziende sono poco incentivate a fornire buoni posti di lavoro (che richiedono quindi competenze elevate e forniscono salari elevati). Dall’altro lato, se sono disponibili pochi buoni posti di lavoro, i lavoratori sono poco incentivati ad acquisire competenze. Immigrazione, il complotto contro le Ong di Furio Colombo La Repubblica, 10 agosto 2022 Organizzazioni riconosciute e ammirate nel mondo, come Medici senza frontiere, sono indagate in vicende giudiziarie con le accuse più fantasiose Ne avevamo già sentito parlare tanto tempo fa, nello sciame di guerre e rivoluzioni latino americane, negli scontri crudeli contro le minoranze, in Myanmar, Malesia, Sri Lanka, Filippine. Lunga e vasta l’attività delle Ong in Africa con il doppio nemico della malattia contagiosa e incurabile e dell’uso estremo delle armi. E poi le Ong erano diventate protagoniste sempre presenti nella catena di guerre nei Balcani. La sigla - lo sanno tutti - vuol dire Organizzazioni non governative, niente protezioni, niente bandiere, niente politica, e il compito autoassegnato di salvare quante più vite umane è possibile. La loro presenza, la loro attività sono diventate ben presto un dato di civiltà mentre la civiltà, in molti luoghi del mondo, si spezzava, liberando nuove barbarie. Organizzazioni come Emergency e Medici senza frontiere sono apparse, al centro di un mondo inferocito, una realtà e un simbolo di solidarietà a e di coraggio estremo. Per anni anche le peggiori organizzazioni del male, nelle diverse parti del mondo, hanno il più delle volte rispettato le Ong. Non gli Europei. Quando è cominciato un momento tragico della nostra storia, quello della grande fuga dei migranti africani verso l’Europa, per salvarsi da fame e da guerre quasi sempre europee. Questo voleva dire imprigionare (se si arriva in tempo) o bloccare i profughi in mare che spesso vuol dire annegamento. Ma le Ong non hanno cambiato il loro compito e il Mediterraneo ha cominciato ad essere percorso da navi che hanno portato in salvo un numero molto alto di persone destinate a morire. Occorre ricordare che, nel frattempo, ciascun Paese europeo e tutta l’Unione, avevano disattivato o smantellato ogni organizzazione di salvataggio e dunque si sono trovate dalla parte opposta alle Ong, divenuta unica controparte umanitaria. S’intende che il problema è grave e che la soluzione pone all’Europa (prima di tutto all’Italia) grandi difficoltà. Si intende anche, però, che centinaia di migliaia di famiglie in fuga non potevano essere lasciate morire in mare. Qui manca del tutto (a tutti) una capacità di azione politica. Non manca però l’immaginazione. Dopo tutto siamo al tempo delle fake news. E allora viene montata, anche con la collaborazione mai spiegata di alcuni giudici italiani, la tipica scatola magica delle fake news: il complotto. Così tanti emigranti esistono perché grandi reticolati di attivisti, i “mercanti di carne umana” in Africa (per conto di potenti organizzazioni che agiscono per molto danaro, per il progetto di sostituzione dei popoli o per odio alla religione cattolica) inducono sempre più persone a emigrare (giovani, giovanissimi, famiglie con bambini) in modo da esasperare e spingere alla rivolta l’Europa mediterranea e poi l’intera Europa. Organizzazioni riconosciute e ammirate nel mondo, come Medici senza frontiere, sono tuttora indagate in molte vicende giudiziarie con le accuse più fantasiose, incluse quelle di “sporcare il mare” (sta accadendo adesso) contro la nave Aquarius che, in decine di interventi, ha salvato migliaia di vite. Se in queste elezioni tornerà il governo Salvini sapete l’esito. Ma non si farebbe in tempo, in questi due mesi, a scoprire se sono stati Bannon o Meloni a ideare il complotto contro le Ong? Droghe, voci critiche dentro l’Onu di Marco Perduca Il Manifesto, 10 agosto 2022 Uno dei principi fondamentali dei diritti umani è la “non discriminazione”. Leggendo il documento se ne desume che il “controllo internazionale delle droghe” è fonte inesauribile di discriminazioni dovunque e contro chiunque. In un documento pubblicato a fine giugno, decine di esperti delle Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale di porre fine alla cosiddetta “guerra alla droga” e di promuovere in alternativa politiche che nel controllare le sostanze “stupefacenti” rispettino pienamente i diritti umani. La “guerra alla droga”, si legge nella presentazione del lavoro, “mina la salute e il benessere sociale e impiega risorse pubbliche senza sradicare la domanda o il mercato delle droghe illegali”. Senza mai chiamarlo tale, finalmente si imputa al proibizionismo la nascita di narco-economie locali, nazionali e regionali che erodono risorse allo sviluppo lecito di quelle stesse comunità. In 60 anni di proibizioni crescenti e transnazionali, tutti i diritti umani sono stati conculcati: dal giusto processo alla salute (comprese le cure palliative per cui le Convenzioni Onu erano state scritte), utilizzando il lavoro forzato e la tortura, discriminazioni di ogni tipo, fino a colpi mortali a culture e libertà di espressione, religione, associazione e all’ambiente. Il rapporto, pubblicato in occasione della Giornata internazionale per la lotta al narcotraffico e l’abuso di droghe, fa seguito a un documento del 2021 del gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria che aveva denunciato come in molte zone del mondo la “guerra alla droga” provoca incarcerazioni di massa, profilazione razziale, perquisizioni e sequestri, detenzione preventiva eccessiva, violazioni di leggi e procedure, oltre che condanne sproporzionate e criminalizzazione di chi usa le sostanze. Violazioni di diritti umani che si aggravano quando perpetrate nei confronti di gruppi più fragili come donne, bambini e minoranze e in Paesi non democratici. Non di rado si assiste a torture e maltrattamenti, oltre che a mancanza di garanzie di un processo equo. La lista prosegue con uccisioni extragiudiziali, come nelle Filippine, fino al ricorso alla pena di morte - che resiste in materia di droghe in 30 Paesi. È bene chiarire, se mai ce ne fosse bisogno, che gli esperti dell’Onu si riferiscono a condotte governative e non della criminalità organizzata. L’abuso del diritto penale per punire chi traffica o usa sostanze proibite è, per eccellenza, la pena di morte, che, per il diritto internazionale, può essere comminata solo per i “crimini più gravi” come l’omicidio intenzionale. Uno dei principi fondamentali dei diritti umani è la “non discriminazione”. Leggendo il documento se ne desume che il “controllo internazionale delle droghe” è fonte inesauribile di discriminazioni dovunque e contro chiunque: persone di origine africana, popolazioni indigene, bambini e giovani, persone con disabilità, anziani, e chi vive con l’Hiv. Inoltre lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, senzatetto, sex workers, migranti, disoccupati ed ex detenuti. Gli esperti segnalano una crescente penalizzazione nei confronti delle donne. Eppure l’Onu stessa, nell’adottare nel 2020 la posizione comune delle sue agenzie in materia di droghe, aveva già ricordato che l’uso personale di sostanze illecite dovrebbe esser trattato, eventualmente, come una questione sanitaria da affrontare con politiche basate sui diritti umani, tra cui educazione alla salute pubblica, fornitura di cure - anche per la salute mentale - assistenza, sostegno, riabilitazione e programmi di transizione/reinserimento. In una formula, la riduzione del danno, purché utilizzata su base volontaria informata. Gli esperti si appellano alla comunità internazionale affinché si sostituiscano “le punizioni con la cura e si promuovano politiche che rispettino, proteggano e realizzino i diritti di tutte le comunità”. Dopo 60 anni, sarebbe ora che l’Organizzazione delle Nazioni Unite non agisse più a compartimenti stagni e, soprattutto, in violazione dei suoi principi fondamentali e fondativi. Il ricatto nucleare nuova arma di guerra di Domenico Quirico La Stampa, 10 agosto 2022 La battaglia a Zaporizhzhia fa pensare a una nuova escalation fatta anche di bugie e disinformazione. Siamo dunque giunti in Ucraina al fosco capitolo del ricatto atomico o del terrorismo nucleare? Come sempre accade in quel gran ciarpame di confusione in cui già si preparano i peggiori avvenimenti domina un misterioso rispetto per la bugia e la disinformazione. Zaporizhzhia: non dimenticate questo nome. Corrisponde a lugubri e per fortuna possenti (garantisce la Agenzia internazionale per l’energia atomica) cubi di cemento armato che ospitano una delle quattro centrali atomiche ucraine. Da alcuni giorni sono il bersaglio di frequenti tiri di artiglieria per ora senza conseguenze. Gli ucraini accusano i russi. Il presidente Zelensky, sempre alla ricerca di una buona battuta per il copione delle prediche serali alla nazione e non solo, ha denunciato esplicitamente “il terrorismo atomico russo”: la Russia “Stato terrorista”, talmente criminale da esser l’unico che osa manovrare cinicamente la possibilità di una catastrofe nucleare per ricattare il mondo. “Perché se a Chernobyl - ha rammentato - il reattore esploso era uno a Zaporizhzhia potrebbero essere sei”. A seguire la logica verrebbe da dubitare dell’accusa visto che la centrale è stata da tempo occupata dai soldati russi. E appare quanto meno singolare che siano così malaccorti o diabolici da bombardarsi da soli. Va bene il disinvolto macchiavellismo criminale stile Kgb. Ma causerebbero un disastro di cui sarebbero le prime vittime. I russi contrattaccano sostenendo che colpevoli sono gli ucraini che sparano dalle loro linee oltre il fiume Dniepr e mostrano come prove “inoppugnabili” alcuni filmati: come sempre di impossibile decifrazione e accertamento. Alla fine quello che resta sono solo parole. Di concreto ci sono le cannonate e la possibilità di essere annientati da una esplosione atomica. Di Zaporizhzhia si parlava, ma sottovoce, da tempo. L’improvvisa raffica di attenzione propagandistica mentre corrono voci di un agosto di grandi e risolutivi avvenimenti militari, fa sorgere qualche dubbio. Il pericolo nucleare è da sempre il pretesto perfetto di quando si decidono “escalation” militari su cui non si è certo di avere il consenso. Quello che è certo è che i russi hanno dedicato alle centrali atomiche ucraine dal primo giorno di guerra un capitolo della loro strategia. Due centrali le hanno occupate: Zaporizhzhia e Chernobyl, evocatrice di spettri a prescindere. Anche lì si sono registrati incidenti dovuti ad attività bellica come la interruzione dei sistemi di controllo a distanza della radioattività. Una terza, Kostiantinivka, è invece sfuggita ai loro attacchi. Occuparle dà la possibilità di privare l’Ucraina di energia elettrica visto che il nucleare ne fornisce la metà, creando gravi impicci ai progetti di riscossa sul campo. Secondo gli ucraini che aggiungono anche prove filmate i militari russi usano i siti atomici soprattutto per farne delle piazzeforti e depositi al riparo dei colpi della artiglieria nemica. A Zaporizhzhia infatti sarebbero nascosti ingenti quantitativi di munizioni e postazioni di artiglieria al riparo di una sorta di intangibile santuario atomico. Piano che gli ucraini, peraltro, non avrebbero esitato disinvoltamente a scombinare. Circolano infatti immagini di un drone di Kiev che polverizza soldati russi accampati all’interno della centrale. Verità da brividi o semplice propaganda a cui la comunicazione militare ucraina si dedica con successo tra gli ingenui collezionisti social di brividi bellici di tutto il mondo. Ma che poco svelano della verità della situazione militare. Accanto a una possibile apocalisse di chilotoni tattici e strategici c’è chi rammenta altri rischi forse più concreti: ovvero che a causa della situazione possa sopravvenire un calo di alimentazione che blocchi il raffreddamento dei reattori. Oppure in un sito in cui i tecnici sono costretti a lavorare tra bombardamenti e minacce possa verificarsi un irreparabile errore umano. Senza dimenticare che un guasto sarebbe difficile da riparare in un luogo costeggiato da fronti di guerra impegnati a scambiarsi cannonate. La nostra unica assicurazione quindi è nei metri di cemento armato. Proiettili di artiglieria, si assicura, difficilmente possono sfondare i ciclopici spessori della centrale. Ma siamo come sempre alle simulazioni. La realtà chissà… All’inizio della guerra si è discusso, poco, sui rispettivi arsenali atomici russo e americano e le possibili prospettive di fine del mondo. In quel caso la sorprendente assenza di panico universale si poteva far risalire alla certezza che funzionasse sempre la vecchia, saggia regola non scritta della Guerra fredda prima maniera. Mille bombe di qua mille di là: ma servivano solo come ipotesi, come deterrenza contro i colpi di testa. Conoscendo entrambi le conseguenze. Ora dopo sei mesi siamo già scivolati su un piano ben più inclinato. Le centrali atomiche sono diventate arma di guerra, che sia ricatto o propaganda in fondo è dettaglio poco importante. Cito Zelensky: un incidente a Zaporizhzhia sarebbe la fine dell’Europa, la fine di tutto. Se il presidente ucraino pensava di sollevare fervide indignazioni contro l’ennesima, apocalittica conseguenza dell’aggressione russa deve esser rimasto deluso. Ci stiamo, non c’è dubbio, avviando a una stagione di grande indifferenza nei confronti della tragedia ucraina. Di più: di sincera avversione. Dalle spiagge di tutta Europa salgono sospiri di noia verso questa guerra ormai di trincee, di avanzate millimetriche, di offensive mostruose e risolutive ma che non arrivano mai. La guerra, soprattutto quella degli altri stanca. Persino gli europei dell’est finora zelantissimi nei confronti degli sventurati profughi ucraini danno segni di volere che i fratelli ucraini tornino a casa. Perfino una nuova Chernobyl causata da cannonate non ha la densità dell’incubo e lo splendore dello spavento. C’è solo l’aria appiccicosa legata al vecchio dibattito di politica interna sul nucleare civile da far risorgere in epoca di penuria energetica. Niente che valga iperboli violente e parole terribili. Tutti si sono autoconvinti che la guerra atomica sia qualcosa di anacronistico. Già: ma Zaporizhzhia? Palestina. Sono il n° 1124052 dal 2001, quando ancora bambino sono stato arrestato di Salah Hammouri* Il Manifesto, 10 agosto 2022 Fra un arresto e l’altro, a malapena assaporiamo i momenti di vita e di gioia, abbiamo paura di esagerare nel godere di una vita stabile, perché temiamo il prossimo shock. Fino a quando rimarremo numeri? Oggi, e da 21 anni, porto il numero 1124052. Il numero che mi identifica presso la cosiddetta “Amministrazione Carceraria”. Il numero che mi accompagna da quando nel 2001, ancora bambino, sono stato arrestato. Questo numero è il nostro codice a barre… che contraddistingue noi tutti, arrestati più di una volta. Con questo numero addosso ci sentiamo “prodotti” per le carceri, merce umana che può essere consumata in ogni centro per gli interrogatori, in ogni prigione, in tempo di pace e in tempo di guerra, prima della “guerra fredda” e dopo la guerra di logoramento, ai tempi di Oslo e dopo l’Intifada… L’unica costante è che la merce umana, nelle carceri, non ha una data di scadenza. L’occupazione israeliana non ci vede né ci tratta come esseri umani, persone che hanno diritto a vivere come tutti… E fa qualsiasi cosa per rovinare quella semi-vita che viviamo fuori dalle mura delle carceri… Fra un arresto e l’altro, a malapena assaporiamo i momenti di vita e di gioia, abbiamo paura di esagerare nel godere della felicità e di una vita stabile, perché temiamo il prossimo shock…Non abbiamo il coraggio sufficiente per programmare un futuro comunque lontano, per paura dell’inevitabile delusione… Un clima di tensione e di incertezza avvolge noi e tutto quanto ci circonda. E - ironia della sorte - dal momento in cui entriamo in carcere, i nostri sogni diventano sempre più straordinari e grandiosi. Iniziamo col rimpiangere ogni istante di gioia e di felicità che non ci siamo goduti quando eravamo liberi. E, a un certo punto, ci sorprendiamo a ritenere possibile che, una volta liberi, i sogni che oggi facciamo a occhi aperti si sovrappongano alla realtà che ci siamo lasciati alle spalle… La sola spiegazione possibile di questo fenomeno è che per noi il mondo si sia fermato nel momento in cui ci hanno arrestati. E così ci costruiamo un mondo immaginario, una realtà fatta di sogni… Ma la cosa più dura e dolorosa è renderci conto che tanto più magnifici sono i nostri sogni quanto più misera è la nostra realtà… e il sogno della libertà, di una donna, degli amici e della famiglia si scontra in pochi attimi con la nostra amara situazione: scopriamo che il massimo delle nostre aspirazioni, di noi prigionieri, è che il secondino, quando alle sei in punto arriva l’ora della chiusura delle celle, si dimentichi di noi per cinque minuti. O che uno di noi riesca a captare, trasmessa da una radio, una canzone che gli ricordi i bei giorni vissuti fuori dalle mura del carcere. Il posto peggiore in cui può essere messo un essere umano è la prigione: un luogo che non ha pari al mondo, che ci fa a pezzi e fa a pezzi i nostri sogni, le nostre aspirazioni e le nostre speranze, proprio come l’oliva viene schiacciata nel frantoio. La cosa che più detesto comunque è l’attesa, una sensazione che in prigione cresce a dismisura dentro di me. Il logoramento creato dall’attesa in prigione è simile, fuori dal carcere, al deterioramento del globo terrestre causato dal riscaldamento globale. Ma in questi giorni mi si è affacciata alla mente una domanda pressante: se detesto questa situazione di attesa, ora che mi trovo a pochi chilometri dal mio paese, dalla mia libertà e dalla mia città, Gerusalemme, come sarà mai l’attesa qualora accettassi volontariamente di essere allontanato dal mio paese? Sono ben consapevole che il mio amore per il mio paese è un amore unilaterale che non mi porta altro che dolore, sofferenze e perdite. Questo amore mi ha derubato degli anni più belli della mia vita, mi ha derubato della mia adolescenza e della mia giovinezza e mi ha fatto molto più vecchio della mia età… Ma, nonostante tutto, ne sono innamorato. Certamente per il nostro paese abbiamo speso tutto quanto abbiamo… ma lui ci chiede ancora di più. Per la maggior parte della gente questo è un “gioco a somma zero” … Lo capisco, ma per me la vita, quella vera, consiste nel trovarmi sul treno della libertà con i suoi sacrifici… Non certo fermo in una stazione, nell’attesa che qualcuno costruisca per noi la libertà. *Salah Hammouri è difensore dei diritti umani, avvocato dell’associazione Addameer e prigioniero politico palestinese, detenuto nel carcere israeliano di Ofer. Questa lettera è stata scritta il 3 luglio 2022. Traduzione di Piera Redaelli Turchia. Il trucco di Erdogan per restare al potere: guerra totale ai curdi di Ezio Menzione* Il Dubbio, 10 agosto 2022 Nella primavera del 2023 in Turchia si terranno le elezioni, parlamentari e presidenziali. I sondaggi danno lo AKP, il partito di Erdogan, in deciso calo, e tale da non raggiungere la maggioranza nemmeno col suo partner nella attuale dittatura, il fascistissimo e islamissimo MHP. Addirittura, in termini assoluti, l’AKP verrebbe secondo dopo il CHP, di opposizione moderata, che ha già in mano le amministrazioni delle maggiori città. Il calo di consenso dell’AKP è dovuto, secondo ogni osservatore, alla crisi economica che dal 2018 sta colpendo le classi più disagiate con disoccupazione e intollerabile aumento dei prezzi, in generale, e in particolare dei generi di prima necessità. Si noti che la maggioranza presidenziale del 52% anche alle ultime elezioni era stata costruita attraverso l’alleanza con lo MHP, che ci mise il suo 7%, che sarebbe andato disperso perché in Turchia vi è una soglia dell’8%. È mai possibile che Erdogan si rassegni a lasciare la sua posizione senza porre in atto manovre e trucchi per cercare di ricostituire il vecchio consenso? L’attivismo di Erdogan sullo scenario internazionale è volto ad accreditare una Turchia di cui non si può fare a meno se si intende preservare l’ordine geopolitico attuale. Questo dovrebbe consentire anche di portare aggressioni per esempio verso la Siria, o nei territori dei curdi siriani, così come anche recentemente più volte verso quello dei curdi irakeni. Ciò consente alla Turchia di additare un proprio indebolimento come un venir meno delle garanzie di stabilità non solo del Mediterraneo orientale, ma di tutto il Medio Oriente, costringendo le potenze occidentali non solo a chiudere gli occhi sul tema dei diritti umani e civili, ma a consentire politiche di aggressione verso Siria, Cipro, Libia, Irak. Il presentarsi come mediatore necessario nel conflitto russo- ucraino ne dovrebbe fare un soggetto indispensabile nel panorama occidentale. Non ci sarebbe da meravigliarsi che prima o poi Erdogan ricominciasse a bussare alle porte dell’Ue. Una politica estera che vede Erdogan così ben piazzato è moneta che egli può spendere anche per tappare le falle di consenso in politica interna. Il tallone d’Achille è l’economia, in tutte le sue declinazioni (finanza, industria, occupazione ecc.) ed è anche il terreno su cui si vincono elezioni. Di fronte ad una crisi verticale che attanaglia il paese da 4 anni, soprattutto in quei settori, come l’edilizia, su cui si fondava il consenso del “sultano”, e che fa viaggiare l’inflazione a tre cifre (120% annuo, ma sui beni che interessano le fasce più basse sale al 165%), Erdogan non intende tirare i freni del credito. Ha cambiato governatore della banca centrale 4 volte negli ultimi tre anni proprio perché la ruota dovrebbe continuare a girare e garantire un certo livello di consenso negli strati intermedi e soprattutto imprenditoriali. È chiaro il ragionamento: più debiti faccio, soprattutto verso l’estero, e meno questi debiti saranno esigibili, perché troppo elevati. Se le banche tedesche (ma anche italiane) dovessero richiedere i propri crediti ad Ankara non solo fallirebbe il governo, ma anche le incaute banche tedesche (e italiane). È un po’ lo stesso principio che governa la politica estera: Erdogan non può essere lasciato andare in malora. Come sappiamo, Erdogan ha fatto dei rifugiati (soprattutto siriani) una merce di scambio con l’Europa. Tu paghi, ed io trattengo i rifugiati. Così negli ultimi anni ha incassato 10 miliardi di euro, e ha dovuto ospitare nei campi (tutti ormai militarizzati) fino a 6 milioni. Oggi, però, le classi meno abbienti addossano la colpa della crisi ai rifugiati, che sottrarrebbero lavoro e benessere (!) ai turchi. Erdogan da un lato continua a minacciare la EU di spedirgli i rifugiati trattenuti, dall’altro si è impegnato a rispedirne a casa 2 milioni e ottocentomila. Erdogan ha fatto passi indietro su tutta la linea (amministrazione, scuola, cultura) per quanto riguarda il riconoscimento dell’autonomia dei curdi. I sindaci curdi sono in galera e i comuni del Kurdistan sono governati da prefetti. Ma l’offensiva è soprattutto sul piano politico, cercando di mettere fuori legge lo HDP, terzo partito del panorama turco, di sinistra non solo curdo, ma capace di raccogliere oltre il 10 % di consensi fra gli strati medio bassi. Da tempo i leader locali e nazionali (compreso Demirtas, il segretario del partito, e la sua vice) sono in galera. E’ facile immaginare che l’assalto finale verrà sferrato nei mesi immediatamente precedenti le elezioni, così che esso non abbia il tempo di ricostituirsi con un’altra bandiera o tramite un’altra alleanza. Siccome chi decide sulla messa fuori legge di un partito è la Corte Costituzionale, Erdogan ha rafforzato la presenza conservatrice al suo interno tramite la nomina di un nuovo giudice di strettissima osservanza AKP. Accanto alla messa fuori legge dell’HDP, c’è poi un progetto di legge elettorale, con riscrittura dei confini dei collegi, ma soprattutto con un “premio” per chi si presenta in coalizione, nel presupposto che lo AKP si presenterà sicuramente assieme all’MHP, mentre per l’opposizione è più difficile raggiungere l’accordo. Siamo abituati a pensare che una dittatura al declino possa fare dei timidi accenni di apertura soprattutto sul piano delle libertà e della politica giudiziaria. Non vanno così le cose in Turchia, anzi. I dossier politico- giudiziari aperti si stanno concludendo nel peggiore dei modi, con pene più che esemplari: il processo all’imprenditore filantropo Kavhala (per il quale era intervenuta due volte la CEDU perché fosse liberato) e il cosiddetto caso Gezi Park si è chiuso con la condanna dell’imprenditore all’ergastolo e degli altri 8 imputati (di cui due avvocati; odiati da Erdogan come rappresentanti di una borghesia illuminata che non si vuole piegare) a 18 anni con immediata carcerazione. Non meglio andranno i moltissimi processi contro gli avvocati e i giornalisti. Recentemente è stato nominato vice Ministro della Giustizia il famigerato giudice Akin Gurlek, quello che dava tre anni di condanna agli Accademici per la Pace che avevano firmato un appello per la non aggressione in Siria, laddove gli altri giudici “contenevano” le condanne attorno all’anno, con la condizionale: finché non è intervenuta la Corte Costituzionale affermando che l’appello era una libera espressione del pensiero. Lo stesso giudice nel marzo 2019 condannò praticamente con una finzione di processo 20 avvocati del CHD a pene che vanno da 3 a 18 anni. Il giudice più reazionario che ha messo le mani in pasta nei dossier politicamente più rilevanti. Erdogan è molto attento anche sul fronte della politica culturale e dei diritti individuali, anche perché incalzato dagli islamisti fondamentalisti, che fanno il bello e il cattivo tempo tramite il potentissimo Direttore degli Affari Religiosi, e dunque eccoci alla disdetta della Convenzione di Istanbul per la tutela delle donne, i un paese in cui i femminicidi ammontano a uno al giorno di media; al divieto del Gay Pride e all’attacco all’intera comunità LGBT+; alla stretta sulle nomine dei rettori dei vari atenei; ai divieti di spettacolo per chiunque sia lontanamente schierato con l’opposizione. Per non parlare dell’informazione e della persecuzione dei giornalisti della carta stampata e della TV (ma l’attacco è anche contro i social). Insomma, il “sultano” sembra convinto che il suo consenso debba nutrirsi, anche in questa fase declinante, di repressione e violazione di ogni diritto, civile e politico. Altri trucchi? Difficile dire come Erdogan agirà se dovesse intravedere una sicura sconfitta. Un rinvio delle elezioni? E per far questo? Un nuovo stato di emergenza? E per giustificare questo? Una serie di attentati “pilotati” o un secondo tentativo di colpo di stato assai benvenuto? Chissà, staremo a vedere. *Osservatore Internazionale Ucpi Afghanistan. Fame, scuole chiuse, depressione: non è un paese per ragazze di Luca Liverani Avvenire, 10 agosto 2022 A un anno dal ritorno dei fondamentalisti, Save the Children denuncia: “Crisi umanitaria e catastrofe dei diritti dei bambini”. Tra lavoro, matrimoni precoci, violazioni “una generazione è a rischio”. Afghanistan, anno primo della seconda era talebana. Parishad, 15 anni, vive nel nord del Paese. Da un anno non va più a scuola perché i suoi genitori non possono permettersi di sfamare lei e i suoi fratelli e non hanno soldi anche per i suoi libri. Sono stati sfrattati perché non potevano pagare l’affitto. Il padrone di casa si è offerto di comprare uno dei fratelli di Parishad, ma i genitori hanno rifiutato. “Ci sono giorni in cui mio padre non riesce a procurarsi del cibo”, racconta la ragazza. “I miei fratelli si svegliano nel cuore della notte e piangono per la fame. Io non mangio e conservo il cibo per i miei fratelli e sorelle. Quando mi chiedono da mangiare, piango molto. Vado anche dal mio vicino e chiedo se hanno qualcosa da darmi. A volte mi aiutano e a volte dicono che non hanno niente purtroppo”. Ad un anno dalla presa di controllo dell’Afghanistan da parte dei talebani, la crisi economica, la siccità devastante e le nuove restrizioni hanno sconvolto totalmente la vita delle ragazze, con conseguenze gravissime anche sulla loro salute mentale. Escluse quasi totalmente dalla società, la maggior parte soffre la fame e un quarto di loro mostra segni di depressione. È l’allarme lanciato dal nuovo rapporto di Save the Children intitolato Punto di rottura: la vita per i bambini a un anno dalla presa di controllo dei talebani, un’indagine sulle condizioni di bambine, bambini e adolescenti nel Paese. Dal rapporto emerge che il 97% delle famiglie sta cercando disperatamente di procurarsi cibo a sufficienza per sfamare i propri figli e che le ragazze mangiano meno dei ragazzi. Quasi l’80% dei bambini ha dichiarato di essere andato a letto affamato negli ultimi 30 giorni, una probabilità che, ad oggi, coinvolge il doppio delle ragazze rispetto ai coetanei maschi. La mancanza di cibo, infatti, sta avendo ripercussioni devastanti sulla salute di bambine e bambini, minacciando il loro futuro. Nove ragazze su 10 hanno affermato che i loro pasti sono diminuiti nell’ultimo anno e che sono preoccupate perché stanno perdendo peso e non trovano sufficienti energie per studiare, giocare o lavorare. La crisi sta mettendo a dura prova anche il benessere mentale e psicosociale delle ragazze. Secondo le interviste ai loro adulti di riferimento, il 26% delle ragazze mostra segni di depressione rispetto al 16% dei ragazzi e il 27% di loro mostra segni di ansia rispetto al 18% ai coetanei maschi. Save the Children ha raccolto testimonianze di ragazze che hanno raccontato di avere problemi a dormire la notte perché angosciate e tormentate dai brutti sogni. Hanno anche affermato di essere state escluse da molte delle attività che in precedenza le rendevano felici, come passare del tempo con parenti e amici o andare nei parchi o per negozi. Più del 45% delle ragazze, inoltre, ha affermato di non poter frequentare la scuola - rispetto al 20% dei ragazzi. Le cause sono le difficoltà economiche, il divieto per le ragazze di frequentare la scuola secondaria e gli atteggiamenti della comunità. Dallo scorso agosto, infatti, a migliaia di ragazze delle scuole secondarie è stato ordinato di rimanere a casa, annullando così, di fatto, anni di progressi a favore della parità di genere. Il quadro che emerge, grazie anche alle testimonianze raccolte nelle interviste, è drammatico soprattutto per bambine e ragazze. A più di una giovane afghana su venti (5,5%), per esempio, è stato proposto il matrimonio come soluzione per mantenere la propria famiglia. “Non posso tollerarlo, ma non posso farci niente”, confessa Parishad, che lancia un appello alla comunità internazionale: “Aiutate la mia famiglia - e i bambini e le famiglie più vulnerabili - con denaro e cibo. Voglio che i miei fratelli e sorelle mangino del buon cibo e che abbiano scarpe da indossare. Per favore aiutateci in modo che possiamo accedere all’istruzione”. Save the Children ha fornito alla famiglia di Parishad assistenza in denaro per acquistare il necessario e limitare matrimoni precoci o vendita di bambini per coprire debiti. L’ong sta fornendo servizi su salute, nutrizione, istruzione, protezione dell’infanzia oltre a rifugi, acqua, servizi igienici e per la sicurezza alimentare e un sostegno alla sopravvivenza. Da settembre 2021, Save the Children ha raggiunto oltre 2,5 milioni di persone, inclusi 1,4 milioni di minori.