“Contro gli ergastoli”: spunti in attesa dell’intervento del parlamento di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 9 settembre 2021 Volume curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto. Il paradosso di una pena considerata costituzionale solo fino a quando non è senza fine. Non arriva in un momento qualsiasi la pubblicazione del volume curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto dal titolo “Contro gli ergastoli”, nato dalla collaborazione tra la casa editrice Futura/Ediesse e l’associazione “La società della ragione”. Il libro ha infatti alle spalle la recente ordinanza (sebbene gli scritti raccolti non abbiano fatto in tempo a tener conto dei suoi contenuti) con la quale nel maggio 2021 la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo nella misura in cui prevede che la collaborazione con la giustizia sia la sola via di accesso all’eventuale liberazione condizionale. E ha davanti a sé quell’udienza pubblica del 10 maggio 2022 alla quale la Corte rinvia la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale in attesa dell’intervento del Parlamento. Spetta infatti al legislatore, afferma la Consulta, ricercare il giusto punto di equilibrio affinché non si verifichino effetti disarmonici sulla disciplina. Risale al 2009 il primo volume sul tema curato, nella medesima collana, da Stefano Anastasia e Franco Corleone. Il titolo era Contro l’ergastolo. Il carcere a vita, la rieducazione e la dignità della persona. Non vi era ancora stata la sentenza Torreggiani, che con forza ha spostato il timone di una pena costituzionalmente orientata dal penultimo all’ultimo dei termini elencati, dalla rieducazione alla dignità umana, inchiodando quest’ultima a limite invalicabile di ogni potere punitivo. Contro gli ergastoli, contro tutti gli ergastoli, non solo quelli ostativi. Il concetto di ergastolo, la previsione di una pena che in principio è perpetua e che solo in seguito si riduce ad avere un termine deciso dal giudice, viola la dignità dell’essere umano che, in quanto tale, esiste solamente nella propria progettualità. Nella prefazione al libro, il presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida legge in chiave di una “logica militare” quella che oggi viene meno a seguito della pronuncia della Consulta, ma anche della Corte di Strasburgo. Logica che egli stesso aveva contribuito ad affermare e dove entrambi i termini hanno il loro peso, richiamando l’automatismo dell’inferenza logica e la contrapposizione militare del nemico. Oggi sappiamo che non dobbiamo mai conformarci “a questo tipo di logica, dimenticando che reati, pene e percorsi di recupero riguardano persone, non pedine di un esercito”. Il ricco volume ripercorre la storia parlamentare dell’ergastolo in Italia (Franco Corleone), la giurisprudenza costituzionale sul tema (Andrea Pugiotto) e quella europea (Barbara Randazzo), i racconti dell’agonia quotidiana dell’ergastolo (Stefano Anastasia), i numeri poco noti dell’ergastolo in Italia (Susanna Marietti) e nel mondo (Davide Galliani), la storia e le pratiche dell’istituto della liberazione condizionale (Riccardo De Vito), le prospettive per un’ipotesi abolizionista dell’ergastolo (Giovanni Fiandaca). Il libro è arricchito da un’appendice che ripropone testi di Grazia Zuffa, Papa Francesco, Aldo Moro, Salvatore Senese e Aldo Masullo. Uno strumento prezioso per conoscere con puntualità la storia e la situazione attuale di una pena paradossale, che fino a non molto tempo fa veniva considerata come compatibile con la Costituzione fino a quando non era però realmente quella pena, e che adesso scopre che un simile paradosso non basta più. Uno strumento prezioso per ribattere, in un momento in cui si attende la pronuncia del legislatore, a tutti coloro che ancora perorano la causa dell’ergastolo, della sua esistenza o perfino della sua necessità. Uno strumento per affermare che una società sana e costituzionalmente orientata non può che essere “Contro gli ergastoli”. La Giustizia non è una fiction: verso l’addio alle inchieste dai nomi spettacolari di Antonio Lamorte Il Riformista, 9 settembre 2021 È da oggi all’esame delle Camere un nuovo regolamento depositato in Parlamento dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Guardasigilli vuole dettare regole più stringenti ai magistrati sulle inchieste: niente più nomi a effetto, da fiction, spettacolo invece che Giustizia. È anche l’Europa a chiedere ai 27 Paesi membri di rafforzare il principio della presunzione d’innocenza verso i propri cittadini. Potrebbe quindi essere la fine di un’epoca, per magistrati e giornalisti, d’oro. Un’era durata almeno tre decenni e che potrebbe essere scandita dai nomi a effetto delle inchieste. Che cosa prevede il Regolamento? Poche ma semplici regole. Per esempio le conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi a casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, durante le quali il magistrato non dovrà presentare l’indagato come colpevole; si dovrà spiegare il punto al quale è arrivata la verità giudiziaria; l’indagato potrà chiedere di modificare un atto tramite il suo avvocato se si sentirà leso perché presentato come colpevole. E questo solo per cominciare. All’articolo 3 del Regolamento si legge infatti: “È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. La Stampa, che riporta la notizia, ricostruisce una breve cronologia a partire dalla celeberrima Pizza Connection degli Anni Ottanta - con l’Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani dagli Stati Uniti e la polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in Italia a colpire la Mafia tra i due continenti. La paternità di quel titolo fu tutta americana. Per Falcone e Borsellino il fascicolo era ancora “Abbate Giovanni+ 706”, al massimo “Maxiprocesso”. Quel nome suonò come il rumore di una bottiglia appena stappata. Da dettagli, particolari, virgolettati di protagonisti o estrapolati dalle intercettazioni, o dalla semplice fantasia delle forze di polizia. Sono arrivati negli anni “Mani Pulite”, “Why not”, “Aemilia”, “Geenna”, “Poseidone”, “Vallettopoli”, “Vipgate”, “Crimine-Infinito”, “Savoiagate”, “Mafia Capitale”. Quest’ultimo caso anche spendibile nel marketing, a prescindere dalla stessa inchiesta: la Cassazione, per esempio, dopo anni di fiction sui giornali e sugli schermi, ha sancito che il “Mondo di Mezzo” al centro di quelle indagini non era un’associazione di stampo mafioso. E Amen. “Questa spettacolarizzazione della giustizia - l’osservazione citata del deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera - produce danni immensi a chi finisce nell’ingranaggio. Quando infatti a un’inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all’infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizioni con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo i titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile”. “Anche sulla presunzione d’innocenza torniamo alla dignità costituzionale” di Errico Novi Il Dubbio, 9 settembre 2021 È un incantesimo? Come siamo passati dal blocca- prescrizione alla tutela della presunzione d’innocenza? “La Costituzione ha una propria forza straordinaria. E questo governo ha come stella polare, anche sulla giustizia, il ritorno ai principi della nostra Carta”, risponde Francesco Paolo Sisto. Sottosegretario ala Giustizia e da anni paladino del garantismo che, dice, “Forza Italia ha sempre praticato con tutti, anche con gli avversari politici”, Sisto è anche tra i principali fautori del decreto legislativo che attua la direttiva Ue 343 del 2016 sulla presunzione d’innocenza. Ieri ha preso il via l’iter che condurrà le commissioni Giustizia di Camera e Senato all’approvazione dei pareri da trasmettere al governo (entro fine settembre) sul testo varato a inizio agosto in Consiglio dei ministri. “Dal Parlamento attendiamo senz’altro possibili sollecitazioni migliorative”, osserva Sisto. Da un provvedimento simile può derivare anche un effetto “pedagogico”, per i cittadini, rispetto al valore del garantismo? C’è un obiettivo, una strada da percorrere tutti insieme: riconciliare. Questo governo ha come obiettivo la riappacificazione del cittadino con la giustizia, dell’accusa con la difesa, della magistratura con la politica. Basta stringersi attorno alla Costituzione, secondo l’invito che la ministra Marta Cartabia ha rivolto fin dal primo giorno. Vogliamo restituire al Paese la dignità costituzionale. Col decreto sulla presunzione d’innocenza cambieranno le abitudini di Procure e giornali? Si tratta di misure che hanno un’efficacia anche in termini di prevenzione, oltre che sul piano sanzionatorio. Vincolano le autorità pubbliche, e non solo quelle giudiziarie, a non indicare come colpevole indagati e imputati finché le responsabilità non siano stabilite da una sentenza definitiva. In realtà si tratterebbe di norme inutili se il principio espresso all’articolo 27 della Costituzione fosse sempre stato rispettato, ma sappiamo che gli abusi dei pochi hanno vanificato la correttezza dei più. E ripeto: si introducono meccanismi destinati a prevenire, oltre che sanzionare, comportamenti e atti lesivi. In che modo? Con un passaggio chiave indicato all’articolo 2 del decreto: il diritto di rettifica. Si estende ai magistrati l’obbligo previsto per i giornali? C’è un’evidente analogia. Fatte salve le sanzioni penali e disciplinari, recita il testo del provvedimento, si istituisce un obbligo di rettifica e dell’eventuale risarcimento per il danno causato. E innanzitutto, si noterà come rispetto a una sanzione penale o disciplinare, che potrà arrivare al termine di un lungo accertamento, qui i rimedi sono immediati. Sono tutt’altro che tardivi, e perciò davvero efficaci. Se un magistrato mi dà per colpevole in modo indebito, come si fa a ottenere la rettifica? L’articolo 2 impone all’autorità giudiziaria di procedere a rettifica di quanto comunicato in precedenza, se appunto la persona indicata ingiustificatamente come colpevole lo richiede. E se alla richiesta di rettifica non viene dato seguito, o comunque non viene assicurata adeguata diffusione, l’interessato può chiedere entro 48 ore un provvedimento d’urgenza al Tribunale. Un altro magistrato ordinerà la rettifica al pm o al giudice che ha violato la presunzione d’innocenza? Sì, in tempi come detto rapidi, e soprattutto con un meccanismo particolarmente incisivo, al punto da prevenire le violazioni. Perché a un magistrato non fa certo bella figura nel momento in cui il Tribunale gli ordina di rettificare un comunicato o una dichiarazione resa nell’ambito di una conferenza stampa. Come si vede si tratta di una tutela non solo general preventiva, ma anche special preventiva. Non ci potranno più essere trionfali incontri coi giornalisti a indagini ancora in corso, giusto? Lo stabilisce l’articolo 3, che consente al procuratore della Repubblica, o a un magistrato dell’ufficio a cui il capo abbia assegnato tale funzione, di tenere i rapporti con la stampa solo attraverso comunicati. In casi di particolare rilevanza dell’indagine, o quando strettamente necessario, si potranno tenere conferenze stampa, ma com’è evidente, visto il richiamo a non additare gli indagati come colpevoli, non assisteremo più alle feste cautelari del passato. “Feste cautelari”: un’espressione geniale... Nel testo del decreto c’è un passaggio che consente al procuratore della Repubblica di autorizzare anche la polizia giudiziaria a incontrare i giornalisti affinché possa dare informazioni sugli atti di indagine a cui ha partecipato. Ma sul punto potrà essere utile una riflessione approfondita delle commissioni parlamentari. Consentire ancora alla polizia di fare conferenze stampa rischia di riproporre le distorsioni? È un aspetto da valutare con attenzione. In ogni caso non sarà più possibile ricorrere a denominazioni lesive per indicare le operazioni d’indagine. Sembra una garanzia minima, ma è sicuramente un corollario all’idea affermata dal provvedimento: l’informazione sulle indagini, e in generale sulle accuse rivolte a chi è sottoposto a procedimento penale, non possono danneggiare l’interessato. Attenzione anche ai limiti previsti per gli atti formali della magistratura. A cosa si riferisce? A quanto previsto dall’articolo 4 del decreto: nei provvedimenti diversi da quelli in cui si stabilisce la responsabilità della persona accusata vale sempre il divieto di indicare come colpevoli gli indagati e gli imputati. Divieto che non impedisce, naturalmente, al pubblico ministero di sostenere la colpevolezza della persona accusata, ad esempio, nelle richieste di misure cautelari. Ma anche qui il magistrato dovrà attenersi a un principio di sobrietà, e utilizzare gli elementi strettamente necessari all’adozione del provvedimento. È un principio analogo a quanto introdotto col decreto intercettazioni... Nel decreto sulla presunzione d’innocenza si prevede che, qualora gli atti giudiziari abbiano contenuti contrari a quanto prescritto dall’articolo 4, la persona accusata ha dieci giorni di tempo per chiedere che quegli atti vengano corretti. Va segnalata anche la norma che consente al difensore di consultarsi liberamente con l’assistito durante il dibattimento, fatte salve le cautele previste dall’articolo 474. E ancora, a proposito di atti formali, il pm ne può stabile la pubblicabilità, in deroga all’articolo 114, solo in casi in cui sia strettamente necessario alla prosecuzione dell’indagine. Nella riforma del Csm la violazione delle norme sulla presunzione d’innocenza potrebbe essere codificata come penalizzante rispetto al conferimento degli incarichi direttivi? Nel decreto che recepisce la direttiva Ue sono inserite, come si è visto, norme strutturate in modo cogente: la presunzione d’innocenza dovrà essere rispettata. Possiamo perciò dire che, di sicuro, eventuali violazioni non potranno non essere tenute in considerazione. In che modo potrebbe essere ampliata la tutela, anche attraverso la discussione in Parlamento di altri provvedimenti? Credo che vadano riprese le tutele per il diritto all’oblio. Va evitato che, pur a fronte delle prescrizioni imposte alle autorità pubbliche, il web continui ad essere una sorta di casellario trash. Una ricettacolo non controllato di tutto il ciarpame mediatico giudiziario in circolazione. Il vento è cambiato davvero, sottosegretario? Con questo decreto si traduce in diritto positivo, in norma viva e poi diritto vivente, un principio costituzionale, quello della presunzione di non colpevolezza. Così come avvenuto, con la riforma penale, per i principi di personalità della responsabilità, giusto processo e ragionevole durata. Siamo al recupero del decoro costituzionale, ripeto. Dobbiamo fare in modo che nel nostro Paese la sanzione non sia più quella invisibile e incoercibile del processo ma quella unica e vera della pena. E noi di Forza Italia siamo orgogliosi far parte di un governo da cui proviene un provvedimento che per la prima volta traduce in diritto positivo un principio di tale forza e civiltà. Dai divorzi, alle adozioni fino agli abusi sui minori: tutto nel nuovo Tribunale della famiglia di Liana Milella La Repubblica, 9 settembre 2021 Emendamento bipartisan al Senato nel processo civile. Per la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando “è un passo importante che permetterà di parificare i diritti di tutti i minori, compresi quelli nati fuori dal matrimonio”. Un divorzio? Ad affrontarlo non sarà più un giudice civile che, soprattutto nei piccoli tribunali, è un “tuttologo”, perché si occupa di tutto e ovviamente non può essere esperto di tutto. La denuncia per un abuso su un figlio? Non sarà il tribunale dei minori a seguirlo, magari mentre la separazione tra i genitori o le controversie tra i conviventi saranno in mano a un altro ufficio e a un altro giudice. Di esempi simili se ne potrebbero fare a decine perché oggi la galassia della giustizia sulla famiglia e sui suoi possibili problemi giudiziari è divisa tra i tribunali civili e penali ordinari e il tribunale per i minorenni. Ma in un prossimo futuro - per il quale dovremmo comunque aspettare un altro anno - tutto cambia. Perché nella riforma del processo civile - emendamenti della Guardasigilli Marta Cartabia sul testo base del suo predecessore Alfonso Bonafede - si è giunti a un passo che, senza enfasi ma con sano realismo, si può definire un passo storico. Perché dalle ceneri delle tante divisioni sulla famiglia, dal rito agli uffici competenti, nasce una struttura unica che unifica tutto. È già stata battezzata come il “Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie”. Un lungo emendamento, diviso in tanti commi quante sono le lettere dell’alfabeto, firmato e presentato in commissione Giustizia dalle tre relatrici del processo penale - Anna Rossomando del Pd, Fiammetta Modena di Forza Italia e Julia Unterberger della Svp - dopo una lunga riunione in via Arenula, chiude la partita più delicata e certamente più innovativa della riforma. Sicuramente quella che, dal punto di vista dell’impatto con i cittadini, avrà l’influenza maggiore. Sarà “una riforma visibile, concreta, che cambierà radicalmente la giustizia sulla famiglia” come più volte ha messo in rilievo la stessa Guardasigilli. Anna Rossomando ne sintetizza così gli effetti: “L’istituzione del Tribunale per la famiglia rappresenta un passo importante: permetterà di parificare realmente i diritti di tutti i minori, compresi quelli nati fuori dal matrimonio, assicurando tutte le garanzie”. E Silvia Albano, giudice civile a Roma, per anni al lavoro nella sezione famiglia, mentre ora si occupa di immigrazione e diritti della persona, nonché nel direttivo dell’Anm come esponente di Magistratura democratica, legge il testo dell’emendamento e subito chiosa: “Da tempo sia l’Anm che l’Associazione dei magistrati minorili e della famiglia sollecitavano la creazione di un unico tribunale, con giudici specializzati e giudici onorari esperti, e una procura della Repubblica ad hoc, dove confluissero tutte le competenze del tribunale per i minorenni e delle sezioni famiglia dei tribunali”. Spiega ancora Albano: “Si tratta di una materia che coinvolge interessi delicatissimi e quindi richiede competenze specifiche. Mentre l’attuale frammentazione ha prodotti grossi problemi, per esempio come nel caso della decadenza dalla responsabilità genitoriale di competenza del tribunale per i minorenni quando non c’è una separazione dei genitori in corso”. Insomma, quando il passaggio di consegne sarà definitivo, ci sarà un unico luogo, un unico Tribunale della famiglia a cui rivolgersi per affrontare le stesse questioni che oggi sono divise tra il tribunale dei minorenni e il tribunale civile. Anche il rito sarà unico. Se adesso ce n’è uno per la separazione e il divorzio, un altro per i figli nati fuori o dentro il matrimonio, mentre è ovvio che tutti i figli sono uguali, e ancora un altro rito per la decadenza dalla genitorialità o per il disconoscimento della paternità, adesso il rito sarà uno soltanto, uguale in qualsiasi situazione. Era già stato il professor Paolo Luiso, ordinario di diritto processuale civile a Pisa, che la ministra Cartabia aveva voluto al vertice del gruppo di studio sulla riforma del processo civile, a individuare la strada del rito unico. Ma adesso, con l’emendamento Rossomando, Modena, Unterberger, si va ben oltre il solo rito. Nasce un nuovo tribunale autonomo, identico in tutto e per tutto ai tribunali ordinari. Una sezione distrettuale e le sezioni circondariali, la stessa struttura che hanno oggi i tribunali di sorveglianza. Un esempio? Un tribunale distrettuale a Roma, dove ha sede anche la Corte di Appello, e altrettanti tribunali circondariali nelle altre province del Lazio dove già esiste un tribunale ordinario. Al nuovo Tribunale della famiglia - recita l’emendamento - “saranno trasferite le competenze civili, penali e di sorveglianza del tribunale per i minorenni”. Ma in concreto di cosa si occuperà questo nuovo Tribunale? È semplice, di tutto quello che riguarda la famiglia, i figli, i loro reati ma anche la loro vita nella famiglia, le controversie tra i genitori, che siano sposati oppure no, le conseguenze sui figli delle dinamiche di una coppia, che sia tradizionale o che non lo sia. Il tribunale spazierà dai reati commessi da minori (oggi di competenza del tribunale dei minori), allo stato di adottabilità, alla protezione per i minori abusati, alle adozioni, alla decadenza della responsabilità genitoriale, anche a seguito di una separazione. Nel nuovo tribunale ci saranno giudici specializzati solo sulla famiglia e sui minori, mentre oggi i giudici ordinari civili, soprattutto nei piccoli tribunali dove si occupano di tutto, non lo sono e non possono fruire delle competenze dei giudici onorari che sono esperti della materia. E il rito unitario per separazione e divorzio, per i figli nati dentro e fuori dal matrimonio metterà fine alla frammentazione. “Non riesco a odiare la persona che ha ucciso mio figlio” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 9 settembre 2021 La testimonianza della mamma del 41enne ammazzato a pugni a Bitonto. Le parole riferite dal sindaco Abbaticchio al termine dei funerali di Paolo Caprio, morto in una stazione di servizio dopo un litigio. Il parroco, don Paolo: “Non possiamo rimanere indifferenti, questa morte ci chiede di cambiare”. Il 20enne Giampalmo resta in carcere accusato di omicidio volontario. “Non riesco a odiare la persona che ha colpito mio figlio, perché evidentemente a differenza di mio figlio non ha altri strumenti”. Sono le parole della mamma di Paolo Caprio, il 41enne ucciso a Bitonto, nel Barese, durante un litigio in una stazione di servizio, preso a pugni dal 20enne Fabio Giampalmo, ora in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Le parole della donna sono state riferite al termine dei funerali, nella Basilica dei Santi Medici a Bitonto, dal sindaco Michele Abbaticchio. “Non riesco a immaginare - ha detto Abbaticchio - la forza e l’umanità che si possono provare nell’esprimere un sentimento del genere di fronte alla perdita di un figlio che aveva dentro di sé lo spirito di servizio, di umiltà, l’amore per il suo lavoro di artigiano e per quello che riusciva a donare agli altri”. “Un grido che si eleva dai familiari di Paolo così forte che ci interpella tutti. Un grido che non si può lasciare nell’indifferenza. Umanamente il grido esprime tutta la nostra sofferenza e incredulità ed è un grido che oggi ciascuno di noi deve lasciar cadere nella propria coscienza”. Sono le parole di don Paolo Candeloro, durante l’omelia del funerale. Per la città di Bitonto una “esperienza amara: la morte di Paolo ci interpella, deve chiederci che tipo di vita stiamo vivendo - ha aggiunto don Paolo - Se ci stiamo sforzando di vivere gesti concreti di bene e di verità. Si uccide con le armi e con le parole. E’ facile metterci in un atteggiamento di giudizio verso gli altri: siamo vittime e carnefici anche noi”. Il parroco ha invitato la comunità a tirar fuori “da noi il bene, non la cattiveria, la violenza. Non dobbiamo crederci migliori degli altri. La morte di Paolo ci chiede di cambiare il nostro modo di vivere. Non abbiamo bisogno di belle parole ma di gesti che dobbiamo rendere concreti nella vita di ogni giorno, nelle nostre famiglie, sul posto di lavoro, nella nostra città. Non si può rimanere ancora una volta indifferenti. La morte di Paolo ci dona questo invito a migliorarci: è una morte che deve scuoterci dentro e non ci deve far perdere tempo, come cittadini e come cristiani”. Don Paolo ha ricordato anche la morte dell’84enne Anna Rosa Tarantino, vittima innocente di mafia, avvenuta il 30 dicembre 2017: “Paolo si aggiunge a questo elenco, ma ora basta, abbiamo bisogno tutti di vivere di gesti concreti, basta con questo modo di vivere, con questi nostri atteggiamenti. Il grido di oggi sia pieno di speranza per il domani perché possiamo fare meglio. La morte è una pagina amara - ha concluso - non saremo mai pronti perché ci coglie in una esperienza che ci segna dentro, è distacco è vuoto, è assenza, ma nel Signore è il passaggio”. Intanto, sempre nella giornata di mercoledì 8 settembre, il gip di Bari ha convalidato il fermo di Giampalmo, il ventenne accusato di avere ucciso, aggredendolo con tre pugni, Paolo Caprio. Il giudice ha disposto la custodia cautelare in carcere, in relazione all’accusa contestata dal pm Ignazio Abadessa di omicidio volontario, aggravato dai futili motivi e dall’utilizzo di tecniche di combattimento. In mattinata Giampalmo - assistito dall’avvocato Giovanni Capaldi - era stato interrogato e aveva confermato la versione già resa ai carabinieri domenica mattina, subito dopo essersi costituito. Il giovane ha spiegato di avere colpito Caprio a causa di alcuni “sguardi provocatori” rivolti a sua moglie e alle donne di alcuni suoi amici, senza però l’intenzione di ucciderlo. “Un episodio di violenza sconcertante, che impone una riflessione sul tema dell’aggressività e della rabbia e sul fallimento del linguaggio verbale a fronte dell’agire, della messa in azione, dell’acting out”. Così il presidente dell’Ordine degli psicologi della Puglia, Vincenzo Gesualdo, ha commentato il delitto. Benefici penitenziari, ammissione e revoca al lavoro all’esterno di Giuseppe Tripodi sentenze-cassazione.com, 9 settembre 2021 La prima sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27374/2021, depositata lo scorso 15 luglio e che si riporta al link in fondo all’articolo, ha trattato un caso relativo ai benefici penitenziari affermando che il magistrato di sorveglianza ha il potere di revocare il provvedimento di approvazione dell’atto dell’amministrazione penitenziaria di ammissione del lavoro all’esterno nel caso in cui mutano le condizioni che lo avevano determinato. Il Tribunale di sorveglianza di Ancona aveva rigettato il reclamo avverso la revoca dell’approvazione dell’ammissione al lavoro all’esterno emessa in precedenza dal Magistrato di sorveglianza. Il Tribunale, ritenendo infondato il reclamo, osservava nella sua motivazione che dette prestazione, che consisteva nello svolgimento del lavoro quotidiano di badante della madre presso il domicilio della donna, aveva evidenziato delle criticità determinate dal non poterne controllare l’effettività, con conseguenti rischi, oltre che dall’assenza del suo impegno in attività risocializzanti, in un ambito in cui era intervenuta la rilevante novità costituita dall’aggiornamento della posizione giuridica del ristretto che aveva contemplato l’allungamento della pena di ben cinque anni di reclusione. Veniva dunque proposto ricorso lamentando la violazione degli arti. 21 Ord. Pen. e 48 d.P.R. n.230 del 2000, denunciando altresì contraddittorietà della motivazione. Secondo i giudici di Piazza Cavour, però, le censure mosse dal ricorrente “non riescono a contrastare l’obiettivo spessore di questi argomenti che il Magistrato di sorveglianza aveva posto alla base del provvedimento di revoca del decreto di approvazione e che il Tribunale, pur in un quadro più ampio, ha ritenuto effettivi e fondati”. Strage di Viareggio, dalla Cassazione una sentenza reazionaria di Dante De Angelis Il Manifesto, 9 settembre 2021 Nelle motivazioni si distingue tra “rischio lavorativo” e “rischio ferroviario”, prosciogliendo gli imputati dai reati legati alla sicurezza sul lavoro. Una sentenza che fa arretrare di cinquant’anni la cultura giuridica. Ma che non rispettando le direttive comunitarie apre ad un ricorso alla Corte europea. Abbiamo atteso otto mesi per leggere le motivazioni della sentenza che la Corte di Cassazione aveva pronunciato l’8 gennaio scorso, in merito al processo per la strage di Viareggio - quando il deragliamento in stazione di una cisterna di Gpl causò 32 morti e la distruzione tra le fiamme di un intero quartiere. Una sentenza che fa arretrare di cinquant’anni la cultura giuridica in tema di sicurezza del lavoro, e non solo nelle ferrovie. Un atto di quasi seicento pagine che richiederà una lettura approfondita e sistematica ma che già presenta poche luci e moltissime ombre. Le motivazioni delle condanne confermano sostanzialmente le accuse dei primi due gradi di giudizio riguardo le responsabilità, a vario titolo, di ciascun imputato per le lacune della manutenzione e dei controlli. Ma il fulcro della sentenza ruota intorno alla mancata applicazione delle aggravanti per la violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. Una decisione atipica, distante dagli orientamenti consolidati della stessa Corte sulla tutela dei terzi coinvolti da eventi nocivi causati dalle attività d’impresa. Stavolta la IV sezione - con un’interpretazione veramente originale del “rischio lavorativo” distinto dal “rischio ferroviario” che ci lascia allibiti - ha fatto crollare per avvenuta prescrizione il reato di omicidio colposo. Una decisione che depotenzia gli strumenti legislativi per la tutela e il miglioramento della sicurezza sul lavoro, non solo all’interno del sistema ferroviario, in un paese in cui i lavoratori pagano quotidianamente un tragico tributo di vite umane; anche ieri tre operai sono morti per infortunio sul lavoro. La Cassazione riconosce ingiustamente uno status speciale al settore ferroviario, sebbene esso sia ormai da oltre venti anni un ambito produttivo di natura industriale ‘normale’ perché aperto al libero mercato, in cui vi sono rischi specifici così come vi sono nei settori chimico, edilizio, metalmeccanico, minerario, eccetera, per i quali in nessun procedimento penale si è mai azzardata una tale distinzione che esentasse tali imprese dal rispetto e dall’applicazione delle norme generali. La disciplina ferroviaria in vigore, di fonte comunitaria, non ha mai esentato il settore dal rispetto del Testo Unico 81/08 - che riunisce la legislazione in materia -, anch’esso di derivazione comunitaria, poiché proprio in premessa, all’articolo 3 recita che esso “si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”. La questione sarà da valutare con grande attenzione ma la disapplicazione del Testo Unico al settore ferroviario potrebbe configurare una ipotesi di violazione della direttiva comunitaria da cui deriva e si apre lo spazio per un possibile ricorso alla Corte europea. La negazione del “rischio lavorativo” operata da questo collegio per le attività delle imprese ferroviarie, interpretazione tanto originale quanto inaccettabile, oltre all’articolo 3, urta contro la semplice osservazione sull’origine del rischio, che ha esteso i suoi effetti micidiali oltre i confini della ‘fabbrica’, quindi oltre il convoglio e oltre la palizzata dei binari per allargarsi sulla strada, entrare nelle case e uccidere degli ignari cittadini. Proprio perché il rischio è stato generato dall’attività di impresa riguardante il trasporto di Gpl. La sorte dei macchinisti e del capostazione, salvatisi solo per un caso fortuito dal rogo che ha ucciso le 32 vittime, sta a dimostrare per logica e buon senso che il rischio creato dal sistema ferroviario è intrinsecamente un rischio lavorativo, anzi si potrebbe affermare che la sicurezza ferroviaria è un sottoinsieme della sicurezza del lavoro e che oltre alle norme speciali dedicate, essa deve rispondere a quelle generali applicabili a tutti i settori, con particolare riguardo alla prevenzione. Una sentenza inevitabilmente lunga e complessa, che su questo specifico aspetto presenta tuttavia un linguaggio particolarmente oscuro a tratti ampolloso e quasi criptico; un gergo giuridico molto spinto che fatica comunque a motivare ragionevolmente la scelta di escludere l’aggravante. In sintesi siamo di fronte ad una sentenza figlia di una cultura reazionaria di stampo borbonico che riconosce alle imprese ferroviarie una sorta di privilegio rispetto all’obbligo generale di valutare tutti i rischi compresi quelli specifici del trasporto, creando così situazioni di maggior pericolo e una discriminazione tra lavoratori e imprese di diversi settori a danno sia degli stessi addetti che della intera popolazione. Sassari. “Mi mancano 18 mesi, ho una grave malattia: sto peggio che al 41 bis” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2021 Sta scontando 40 mesi nel carcere Bancali di Sassari per aver fatto il palo in una rapina. Ha gravi problemi psico-fisici, da 4 mesi vivrebbe 24 ore su 24 chiuso in cella, ha collaborato con la giustizia ed è stato minacciato. Ha gravi problemi psico-fisici, da quattro mesi a questa parte vivrebbe 24 ore su 24 chiuso in una cella del carcere Bancali di Sassari. “È come se vivesse di fatto in un 41 bis”, spiega Silvia, la sua compagna. Lui si chiama Roberto, soprannominato “El Guero”, ha 43 anni e la sua compagna denuncia che l’ora d’aria concessagli è in una cella con una grata sul soffitto, sotto il caldo cocente, dove la visuale sono comunque quattro mura di cemento. Lui sta scontando una condanna a 40 mesi di pena per aver fatto il palo in una rapina. L’educatrice ha fatto richiesta di affidarlo ad un impiego in modo che possa uscire dalla routine e aiutarlo così psicologicamente, ma - stando al racconto della compagna - avrebbero rifiutato in quanto è “troppo malato” per lavorare, ma dall’ultimo colloquio con il dirigente sanitario avuto da Roberto, risulta invece “troppo sano” per dire che è incompatibile con il carcere e che a lui serve solo cambiare casa circondariale. Il Dubbio ha voluto capire meglio e Roberto stesso ha scritto una lettera rivolta al giornale per spiegare la sua vicenda. Scrive che gli restano 18 mesi da scontare. Per cui, teoricamente, può richiedere la detenzione domiciliare visto che in vigore il decreto emergenziale ai tempi della pandemia, utile anche per sfoltire i penitenziari. Ha collaborato con la giustizia ed è stato minacciato di ritorsioni - Roberto ha collaborato con la giustizia, ma la notizia si è divulgata in tutto il carcere, per questo lui stesso ha chiesto il “divieto d’incontro con tutta la popolazione carceraria” poiché sarebbe stato minacciato di ritorsioni verso la sua persona. Roberto racconta che la sua situazione di salute è stata dichiarata nel 2005 con un percorso riabilitativo presso il Centro di salute mentale di Alghero e diversi ricoveri in ospedale, del quale uno anche in Austria per convulsioni generalizzate. A causa di uno stato d’ansia e una depressione improvvisa ed emotiva, visto lo stato di debolezza sentimentale ed altro, amplificato dal suo stato di salute già diagnosticato, ha tentato il suicidio appena entrato in carcere. “L’unico ricordo che ho è di essermi svegliato in ospedale”, scrive Roberto. Dal 24 dicembre scorso, dopo che è stato mandato ai domiciliari, si è attivato per fare tutte le visite specialistiche che in carcere non gli avrebbero fatto fare. Durante i domiciliari ha avuto due crisi di cui un ricovero a causa dell’ansia per l’attesa del verdetto dell’imminente processo. Dai domiciliari con una sentenza di primo reato di rapina con accusa di tentata rapina e porto d’armi fuori abilitazione, viene riportato in carcere. “Ho chiesto all’ispettore se avendo il divieto di incontro, potevano lasciarmi da solo, ma invece vengo mandato in una sezione punitiva, cambiando tre celle con detenuti con una condanna per omicidio”, denuncia Roberto. Da 4 mesi è chiuso in cella tutto il giorno - Da quattro mesi sarebbe chiuso in cella senza avere la possibilità di stare all’aria aperta, “quindi - sottolinea Roberto - non solo vengono violati gli articoli di tutela della mia persona, ma anche l’articolo 10 dell’ordinamento penitenziario che mi dovrebbe permettere di guardare il cielo senza sbarre”. Non solo. Per quanto riguarda la salute, quando è tornato in carcere gli avrebbero cambiato la terapia sostituendola con una sedazione pesante “tanto da non riuscire neanche ad urinare da solo, sopportando un trattamento peggiore del 41 bis”, denuncia sempre Roberto nella lettera. “Qua non si tratta di carcerati o di persone comuni, si tratta di diritti umani, ho dormito sul mio stesso sangue dopo una convulsione avuta nella notte, ho dovuto girare il materasso a seguito di un’ennesima convulsione. Piuttosto che passare i miei ultimi 18 mesi così preferisco morire da persona umana e con una dignità”, chiosa Roberto. Ora confida nell’istanza che è stata depositata per la detenzione domiciliare. “Si vive così, ogni giorno di speranze anche se loro non te ne lasciano”, conclude. I casi in cui viene concessa la detenzione domiciliare La detenzione domiciliare può essere concessa a tutti coloro che debbano scontare una pena non superiore a due anni, anche se costituente il residuo di una pena maggiore, qualora non possa essere concessa la più ampia e favorevole misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, e sempre che si ritenga che il condannato non commetterà altri reati. Tale possibilità è invece esclusa per coloro che debbano scontare una pena per uno dei delitti (cosiddetti “ostativi”, che il legislatore considera di particolare gravità) ricompresi nell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Altra ipotesi di detenzione domiciliare è quella prevista per i soggetti ultrasettantenni che debbano scontare una pena di qualsiasi durata, salvo che si tratti di sanzione inflitta per delitto ricompreso tra i reati ostativi (4 bis) dell’Ordinamento penitenziario, o per altri delitti indicati nell’articolo 47 ter dell’Ordinamento penitenziario (che disciplina l’istituto della detenzione domiciliare), o che si tratti di soggetti dichiarati delinquenti abituali, professionali, per tendenza o recidivi ai sensi dell’articolo 99 del Codice penale. Al di fuori di tali ipotesi ostative il condannato già ultrasettantenne (oppure dal momento del compimento dei settanta anni nel caso di pena già in esecuzione) potrà scontare la pena in regime di detenzione domiciliare, e ciò senza limiti rispetto all’entità della pena da eseguire. Un’altra ipotesi di concessione della detenzione domiciliare è legata ad alcune particolari condizioni del condannato: donna incinta o madre di figli di età inferiore ai dieci anni conviventi con lei; padre di figli di età inferiore ai dieci anni con lui conviventi, quando la madre sia deceduta o sia impossibilitata alla cura dei figli; soggetto che abbia necessità di costanti contatti con strutture sanitarie territoriali a causa di condizioni di salute particolarmente gravi; soggetto di età superiore a sessanta anni che sia inabile anche parzialmente; soggetto di età minore di ventuno anni, che dimostri particolari esigenze di studio, lavoro salute o famiglia. In tutti questi casi il limite di pena residua da espiare al di sotto del quale è permesso l’accesso al beneficio della detenzione domiciliare è innalzato a quattro anni. A questo va aggiunto il decreto legge emanato, poi prorogato, durante l’emergenza Covid. Parliamo della detenzione domiciliare per condannati con pena non superiore a 18 mesi. La pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza. Questo, nei casi in cui la pena non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena. Vi sono però diverse eccezioni. Non riguarda i soggetti condannati per taluni gravi delitti, tra i quali i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza e ai delitti di associazioni di tipo mafioso; delinquenti abituali, professionali o per tendenza; detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare; detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per gravi infrazioni disciplinari o nei cui confronti sia redatto rapporto disciplinare; detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato. Milano. Spostare San Vittore o tenerlo “visibile” in centro? di Massimiliano Melley milanotoday.it, 9 settembre 2021 La proposta del centrodestra: trasformare la struttura in sede espositiva. I Radicali con l’ex direttore del penitenziario Pagano: “Importante l’idea del carcere in mezzo alla città”. Chiudere il carcere di San Vittore e trasferirlo fuori dal centro di Milano. È una delle proposte contenute nel programma elettorale di Luca Bernardo, candidato sindaco del centrodestra. Non è la prima volta che quest’idea viene “estratta dal cilindro” in campagna elettorale a Milano. Il motivo principale è che si tratta di una struttura inadeguata ad ospitare tanti detenuti secondo standard moderni di civiltà. Il secondo motivo è che si tratta di un’area di pregio nel centro della città: “Chiudere e trasferire il carcere può rappresentare un’altra grande occasione di riqualificazione di un quartiere cittadino”, si legge infatti nel programma del centrodestra. La proposta ‘alternativa’ per l’utilizzo dell’area, da parte di Bernardo, è quella di renderla sede di strutture culturali come la Biblioteca europea, la cui sede avrebbe dovuto essere a City Life ma che non fu mai realizzata. Oppure, si legge ancora nel programma del centrodestra, “spazi per esposizioni temporanee di sculture, pitture o installazioni artistiche, sede di raccolte fotografiche e artistiche di importanti enti o istituzioni milanesi, piuttosto che uno spazio dove esporre le tante opere che giacciono nelle cantine e nei depositi di importanti musei milanesi e italiani”. Insomma: cultura, mostre e museo anziché il carcere, conservando la struttura (del 1879) e ‘abbellendola’ con un parco pubblico intorno. L’idea di trasferire il carcere, si diceva, è ricorrente ad ogni campagna elettorale; ma tutte le volte divide anziché unire. C’è infatti una serie di ragioni a favore del mantenimento della struttura penitenziaria nel centro cittadino. E, nel 2021, c’è anche (tra i candidati al consiglio comunale) un ex direttore della casa circondariale: Luigi Pagano, che si presenta con la lista Milano Radicale, in sostegno a Beppe Sala. “Il carcere resti parte integrante della città” - “Bernardo propone di ‘eliminare’ San Vittore dagli occhi e dal cuore dei milanesi, per ‘riqualificare’ il quartiere in cui si trova”, il commento firmato da Pagano insieme al capolista radicale Lorenzo Lipparini e all’avvocata Valentina Alberta, anche lei candidata nella lista radicale: “A prescindere dagli interventi sul quartiere, si tratta di una proposta senza prospettiva, perché nulla dice sui luoghi prescelti per andare a creare una nuova casa circondariale, che né Opera ne Bollate potrebbero mai diventare. Al contrario, recuperando i due reparti ancora chiusi di San Vittore si risolverebbe anche il problema del sovraffollamento”. Secondo Pagano, Lipparini e Alberta, “il carcere deve restare parte integrante della città, perché parte integrante della società siano le persone detenute che nella città dovranno potersi reinserire al meglio, anche per ridurre il rischio di recidiva. L’idea del carcere nel mezzo alla città, integrato nel proprio quartiere, è importantissima. Anche per non sottrarre allo sguardo e dunque alla coscienza collettiva un luogo di sofferenza ma anche di recupero delle persone che abbiano commesso un reato”. Le condizioni attuali di San Vittore non sono però ideali. Soprattutto perché due reparti, chiusi, attendono l’avvio dei lavori di ristrutturazione. “La popolazione detenuta non può essere perennemente superiore ai posti letto disponibili”, concludono Pagano, Lipparini e Alberta, “altrimenti si perde il senso di un carcere vivibile. Situazione ancor più drammatica se si pensa che San Vittore ospita per la maggior parte detenuti in attesa di giudizio, ergo presunti non colpevoli”. ??Torino. Chiuso l’Ospedaletto del Cpr di Luca Faenzi* Ristretti Orizzonti, 9 settembre 2021 Accolta la Raccomandazione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà di chiudere il settore “Ospedaletto” del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino per l’alloggiamento di persone. L’indicazione è contenuta nella risposta del Ministero dell’interno al Rapporto del Garante nazionale sull’ultima visita al Cpr di Torino del 14 giugno scorso, Rapporto reso pubblico oggi sul sito del Garante stesso unitamente alla risposta pervenuta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale aveva effettuato una visita di follow up al Centro di Torino a seguito del suicidio, all’interno del Cpr, del cittadino guineano Balde Musa. Una visita tesa a raccogliere informazioni sulla vicenda stessa e a verificare le implementazioni delle Raccomandazioni formulate dal Garante nei suoi precedenti Rapporti (2017-2018-2019). È proprio questa la più urgente delle dieci Raccomandazioni del Garante nazionale alle Autorità competenti: la richiesta di chiusura immediata dell’area del cosiddetto “Ospedaletto”, utilizzato per l’isolamento sanitario dei migranti trattenuti, ma anche impropriamente per altre ragioni, e dove lo stesso Balde Musa era alloggiato al momento del suicidio. Una struttura del tutto inadeguata e priva dei requisiti essenziali per le esigenze sanitarie. Nel Rapporto il Garante ha valutato “che l’alloggiamento all’interno dell’area “Ospedaletto” del Cpr di Torino configuri un trattamento inumano e degradante e che tale valutazione possa essere condivisa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu), qualora adita, esponendo così il Paese alle relative conseguenze”. Il Garante nazionale prende atto con soddisfazione della decisione di interdire l’utilizzo dell’area “Ospedaletto” ritenuta inadeguata alle esigenze di carattere sanitario. Restano alcuni punti aperti su cui è necessario intensificare l’interlocuzione per superare le criticità e trovare soluzioni che soddisfino le esigenze delle istituzioni che tutelano i diritti delle persone trattenute. Tuttavia, l’articolata risposta del Ministero dell’Interno conferma la positiva collaborazione in essere con l’Autorità di garanzia. *Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Napoli. Alla libreria “The Spark” la voce di Abdul: nuove opportunità per minori a rischio Il Mattino, 9 settembre 2021 “La Voce di Abdul”, promosso dall’associazione Anthos e patrocinato dal comune di Pompei, con il sostegno del Parco Regionale dei Monti Lattari, ha come obiettivi la sensibilizzazione dei minori a rischio, italiani e stranieri, presenti nelle carceri e gli studenti delle scuole superiori sui temi dell’odio razziale e dell’omofobia. Promuovere concorsi letterari, artistici e laboratori multimediali sulle problematiche dell’immigrazione per poter contare su produzioni da proporre nelle aste di beneficenza con incassi devoluti ad enti pubblici ed associazioni di categoria, al fine di creare dei laboratori multimediali e di indirizzare i giovani a professioni del settore cinematografico. Il progetto sarà lanciato sabato 11 settembre in una serata - evento in programma a partire dalle ore 20:30 presso l’agriturismo Greenland di Castellammare di Stabia e che sarà presentato in anteprima alla stampa cittadina giovedì 9 settembre alle ore 12:00 alla libreria The Spark di piazza Bovio, comunemente conosciuta come piazza Borsa. All’incontro con i giornalisti, moderato da Ornella Mancini, prenderanno parte Patrizia Canova, associazione Anthos; Carmine Lo Sapio, sindaco di Pompei; Tristano Ravallele dello Joio, presidente parco regionale dei Monti Lattari; Salvatore Suarato, Movieland; Antonio Peytrignet, vice presidente del Club Supercar; Stefano Amatucci, regista; Luisa Amatucci, attrice; Abdul Shuab, testimonial. Ospite speciale, l’avvocato Hillary Sedu, vittima recentemente di un episodio di discriminazione presso il Tribunale per i minorenni di Napoli. Nel corso della conferenza stampa sarà proiettata una clip del film “Caina”, realizzato gratuitamente dalla casa di produzione Movieland, che “racconta” l’immigrazione attraverso gli occhi di una donna, Caina appunto, che per mestiere smaltisce i cadaveri degli immigrati. Il film sarà proiettato prossimamente nelle scuole e negli istituti di rieducazione minorile. L’associazione Anthos, che ha sede a Pompei, prendendo spunto dalla storia del giovane immigrato Abdul, punta a sensibilizzare le coscienze sul tema dell’immigrazione attraverso un punto di vista alternativo, dando voce a chi non è sopravvissuto al viaggio della speranza. Non è casuale la scelta della location che ospiterà la conferenza stampa. La libreria “The Spark”, infatti, è un presidio culturale di respiro europeo al centro di Napoli che ha deciso di accogliere Abdul e di stringersi attorno a lui e alla sua storia. L’evento punta a dimostrare quanto la città di Napoli, come comunità, sia sensibile al tema della discriminazione e che soprattutto sappia approfondirlo analizzandone le radici. Quando Genova sembrava Alcatraz di Michela Bompani La Repubblica, 9 settembre 2021 Nel Palazzo Ducale c’era un carcere unico al mondo, con sei piani di celle rimaste in funzione per 400 anni. Da ottobre saranno visitabili. Le abbiamo viste in anteprima. un vero tormento. “In questa oscura alba…”, “W l’anarquia!”, “Giacomo di via Pre saluta gli amici”, “Quando la forza colla ragion contrasta, vince la forza e la ragion non basta”, “Viva lo sciopero dei lavoratori!”. Passa il fascio di luce della torcia sulle volte e sulle pareti e cominciano a parlare le voci della trecentesca torre Grimaldina, un sistema di carceri in parte mai reso accessibile, nel Palazzo Ducale di Genova. Sono state incise nell’intonaco con il cucchiaio, tracciate a carbone con un tizzone o raschiate sull’unica mensola di pietra nera presente in ogni cella, sotto la feritoia a T da cui entrava la ciotola del cibo e usciva il pitale. Su sei piani di prigioni è custodito un ipertesto che ora restituisce parole e immagini di migliaia di prigionieri che furono rinchiusi qui, tra il ‘500 e la Seconda guerra mondiale. Un patrimonio accumulato, strato dopo strato, con figurette di dame che danno il bacio ai cavalieri dipinte sopra a ordinate file di galee o sovrascritte su vedute della città. E poi armature, profili di turchi, abbozzi di volti, impronte di mani, persino una mongolfiera, in una delle sue prime rappresentazioni, di fine Settecento. E naturalmente il tempo che passa, con date o tacche verticali e nere, per contare i giorni. Palazzo Ducale, la Fondazione per la Cultura e l’Università di Genova e la Scuola di specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio, hanno appena finito la catalogazione dei graffiti della Grimaldina per realizzare un nuovo museo nella torre-carcere. Con l’aiuto di droni, laser scanner e photoscan, hanno rintracciato, separato e studiato sette strati di storia. Nella città verticale per eccellenza, Genova, anche il carcere di massima sicurezza non poteva che essere in una torre, con le celle impilate l’una sull’altra. E infatti per entrare bisogna salire sul tetto di Palazzo Ducale. Adiacente al Palazzetto Criminale, dove invece venivano rinchiusi i detenuti comuni così come nelle prigioni della Malapaga, la torre Grimaldina, che prende il nome proprio da una delle sue celle (Paradiso, Luna, Gabbia, Pozzetto, Canto, Gentilomo, Volpe, Strega le altre), era riservata ai criminali più pericolosi, oppure eccellenti. Come Dragut, pirata del ‘500, nemico di Andrea Doria, o Niccolò Paganini, detenuto per nove giorni nel 1815 con l’accusa di violenza sessuale (“ratto e seduzione”) di minorenne e poi rilasciato per il ritiro della denuncia, fino agli eroi del Risorgimento, come il braccio destro di Giuseppe Mazzini, Jacopo Ruffini, che aveva l’unica cella con il wc: un mattone a chiudere un buco nel pavimento. E poi tantissimi prigionieri politici del “biennio rosso” 1919-20, i protagonisti degli storici scioperi del porto, e le vittime del fascismo. Le celle della Grimaldina riapriranno a ottobre, in occasione della grande mostra antologica che il Ducale dedicherà alle grafiche e alle incisioni di Maurits Escher. Sprangate da pesanti porte in legno, con doppi chiavistelli, molte celle sono cieche, altre hanno uno sfiatatoio “a bocca di lupo rovesciata” che lasciava entrare il caldo d’estate e il freddo d’inverno, aumentando il tormento, come spiegano la direttrice di Palazzo Ducale, Serena Bertolucci, e il presidente della Fondazione, l’attore Luca Bizzarri. I vani angusti, il soffitto voltato. Buio, muri, odore salmastro. Come in una gigantesca operazione di Street Art, i nuovi arrivati coprivano - forse senza neanche saperlo, spesso lavorando al buio - i segni di chi c’era stato prima. La torcia inquadra il contorno di una mano: è un filo d’inchiostro nero, continuo e, all’interno, di ogni dito c’è scritta una scelta che si pagava con la libertà: “socialista, sindacalista, comunista, anarchico, bolscevico”. Poi c’è chi ha proseguito sul muro il proprio mestiere, come il pittore cinquecentesco Sinibaldo Scorza, incarcerato con l’accusa di cospirazione perché lavorava per il “nemico” della Repubblica di Genova, Carlo Emanuele Duca di Savoia: all’ultimo piano, in una delle celle riservate ai detenuti nobili o di riguardo, ci sono alcune bellissime volpi rosse in un fitto bosco. L’imponente uscio di legno, sprangato, si schiude per la prima volta e si spalanca su una vertiginosa discesa: custodisce due livelli di celle, mai aperte al pubblico, e svela più di un segreto dell’intera organizzazione del carcere: dai muri affiora una pesante inferriata cinquecentesca che incerniera tutta la struttura. “Questa torre è un’unica gabbia di ferro, poi ricoperta di pietre e intonaco, l’Alcatraz di Genova”, indica con la torcia Pier Fontana, collaboratore di Bertolucci. Da polverose finestre, che aprono straordinari affacci sui tetti della città, filtra una luce flebile, sufficiente però per incendiare i colori di marce di soldati, guizzi di armature, vele gonfie e maestose di velieri che solcano l’intonaco. Perfettamente conservati. In queste celle sono stati trovati oggetti, mai esposti: coperchi di pitali trasformati in scacchiera, un mazzo di carte da gioco secentesco. Sono conservati nei depositi dell’Iscum, l’Istituto di Storia della cultura materiale, fondato da Tiziano Mannoni, “ritorneranno nelle celle, a completare il percorso espositivo”, assicura Bertolucci. Ci sono anche voci di donne. “In questa cella oscura e puzzolente è dentro innocente Stella Maria”, “Camilla pensa al suo caro Giovanni 1919”, con due fiori stilizzati, a incorniciare. “Qui venivano chiuse anche donne accusate di stregoneria e, nel Novecento, detenute politiche”, conferma Bertolucci. “Palazzo Ducale oltre ad accogliere contenuti esterni, comincerà a mostrare i propri, che sono straordinari”, aggiunge Bizzarri e indica la volta coperta di parole, tracciate a carbone: “Giovanni Padulo, ritenuto per aver fatto un tedioso viaggio dagli Stati Uniti d’America”, “Per venire da Napoli a Genova per protestare per l’infamia commessami dal primo ufficiale (…). Fui preso come clandestino” o, semplicemente, “Rinchiuso. Per aver fatto un piacere ad un amico”. Festival di Venezia, in un corto il viaggio nelle prigioni della mente e del corpo di Vera Mantengoli Corriere della Sera, 9 settembre 2021 E nella bellezza come chiave verso la libertà. Il regista Stefano Sgarella nel docufilm Exit mostra come la cultura e le diverse forme artistiche possano dare la forza di uscire dalla propria cella, vera o psicologica che sia. Fisiche o mentali che siano non importa. Quando ci si ritrova dentro a una prigione sembra impossibile uscirne. Eppure c’è una forza che riesce a piegare le sbarre e ad aprire un varco verso il fuori che si chiama creatività. Lo racconta Stefano Sgarella nel docufilm Exit che verrà presentato giovedì 9 settembre alle 11 nella Sala Tropicana 1 dell’Hotel Excelsior, lo spazio riservato alla Fondazione Ente dello Spettacolo in occasione della Mostra del Cinema di Venezia. Seguirà un dibattito, moderato dal giornalista del Corriere della Sera Paolo Foschini, con la ministra Marta Cartabia e gli interventi della scrittrice e conduttrice Daria Bignardi, del magistrato e scrittore Gherardo Colombo e del direttore della Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti. Il cortometraggio, con la partecipazione di Loris Fabiani, Bignardi e Alessandro Castellucci, mostra come la cultura e le diverse forme artistiche possano dare la forza di uscire dalla propria cella, vera o psicologica. È possibile pensare a un carcere aperto? Quali difficoltà sono sorte con il Covid-19? Come si intende affrontare il concetto di pena? Nel corso dell’incontro, trasmesso in diretta streaming sulla pagina Facebook della Fondazione Ente dello Spettacolo, verranno affrontati questi e tanti altri cruciali quesiti volti a riflettere sulla dimensione del dentro e del fuori. Il progetto Exit, sostenuto dalla Fondazione Cariplo, è nato dall’incontro di quattro soggetti che operano sul territorio milanese. Il primo è l’associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”, ente capofila del progetto e realtà nata in occasione di Expo 2015 per animare culturalmente il Refettorio Ambrosiano, il luogo che la Caritas Ambrosiana ha realizzato nell’ex teatro della parrocchia di Greco, anche grazie alle intuizioni di Massimo Bottura e Davide Rampello. Il secondo è l’associazione “Amici della Nave”, che sostiene il “Coro La Nave di San Vittore” e promuove anche all’esterno del carcere le attività del reparto La Nave, reparto di trattamento avanzato per la cura e il recupero di detenuti-pazienti con problemi di dipendenza, gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo di Milano. Poi ci sono gli attori del “Macrò Maudit Teàter” e l’associazione culturale “Forte? Fortissimo! Tv”. Il confronto e il dialogo con queste realtà ha dato vita al cortometraggio diretto da Sgarella che include anche interviste a Pietro Buffa, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia; Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore; Graziella Bertelli, responsabile del reparto La Nave; don Giuliano Savina, già presidente dell’associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”. La sigla finale è composta, suonata e cantata dal vivo da Franco Mussida. Exit racconta difficoltà e speranze attraverso gli occhi di Alex, un ragazzo che ha perso il fratello per una storia di droga. Attraverso le esperienze del reparto La Nave di San Vittore e del Refettorio Ambrosiano spiccano l’impegno del volontariato, della cultura, della musica e della bellezza come “chiave” per la libertà. Il corto esplora anche il blocco traumatico causato dal Covid-19 e la volontà di ripresa. L’umanità gioca un ruolo chiave nel film che verrà proiettato in versione integrale in occasione della Milano Movie Week, tra il 4 e il 10 ottobre 2021 (data e orario da definire), presso il Refettorio Ambrosiano. “Exit”, il docu-film sul carcere per raccontare la cultura che rende liberi Famiglia Cristiana, 9 settembre 2021 08/09/2021 Viene presentato giovedì 9 settembre nei giorni della 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica il docufilm di Stefano Sgarella. Partecipa al dibattito, in collegamento, la ministra della giustizia Marta Cartabia. Il carcere “aperto”, le difficoltà nate con il Covid, le nuove prospettive del concetto di pena. Sono gli argomenti di cui parlerà in collegamento la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in un dibattito con la giornalista Daria Bignardi, l’ex magistrato Gherardo Colombo e il direttore della Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti. L’evento, dal titolo: Carcere, società e giustizia: la cultura rende liberi si tiene a Venezia giovedì 9 settembre, alle 11, nello spazio della Fondazione Ente dello Spettacolo, nei giorni della 78ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Sarà visibile in diretta streaming sulla pagina Facebook della Fondazione Ente dello Spettacolo www.facebook.com/entespettacolo/videos/435403057825518/). L’occasione è data dall’uscita di Exit, un docufilm (nella foto di copertina un momento delle riprese dentro al Refettorio Ambrosiano) incentrato sull’idea che arte e cultura sono strumenti fondamentali nel percorso di rinascita di chi vive ai margini della società e, in particolare, nelle carceri. Exit, la cui lavorazione è terminata ai primi di agosto, è nato dall’incontro di quattro soggetti che operano sul territorio milanese: l’associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”, ente capofila del progetto e realtà sorta in occasione di Expo 2015 per animare culturalmente il Refettorio Ambrosiano, ovvero il luogo che la Caritas Ambrosiana ha fatto nascere nell’ex teatro della parrocchia di Greco a Milano, anche grazie alle intuizioni di Massimo Bottura e Davide Rampello; l’associazione “Amici della Nave”, che sostiene il “Coro La Nave di San Vittore” e promuove anche all’esterno del carcere le attività del reparto La Nave, reparto di trattamento avanzato per la cura e il recupero di detenuti-pazienti con problemi di dipendenza, gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo di Milano; gli attori del “Macrò Maudit Teàter”; l’associazione culturale “Forte? Fortissimo! Tv”. Il film documentario è diretto da Stefano Sgarella e vede la partecipazione di Loris Fabiani, Daria Bignardi e Alessandro Castellucci. All’interno del docufilm anche le interviste a Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia; Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore; Graziella Bertelli, responsabile del reparto La Nave; don Giuliano Savina, già presidente dell’associazione “Per il Refettorio Ambrosiano”. La sigla finale è composta, suonata e cantata dal vivo da Franco Mussida. EXIT narra la forza che la cultura e le diverse forme di espressione artistica esercitano nell’accompagnare tutti gli individui, non solo i detenuti, all’esterno della prigione, fisica o mentale, in cui vivono la propria esistenza. Attraverso le esperienze del reparto La Nave di San Vittore e del Refettorio Ambrosiano emergono l’impegno del volontariato, la cultura, la musica e la bellezza come “chiave” per la libertà, passando anche dal blocco traumatico causato dal Covid e dalla volontà di ripresa. Il tutto attraverso lo sguardo di Alex, un ragazzo che ha perso il fratello per una storia di droga e che al recupero di chi ha sbagliato non crede affatto. Il docufilm EXIT sarà poi proiettato per la prima volta, in versione integrale, nell’ambito della Milano Movie Week, tra il 4 e il 10 ottobre 2021 presso il Refettorio Ambrosiano. EXIT è stato realizzato grazie al sostegno di Fondazione Cariplo. Virus, l’unica strategia che può batterlo è globale di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 settembre 2021 Sono oltre cinque miliardi le vaccinazioni anti-Covid somministrate nel mondo, ma di esse il 75% è concentrato in appena dieci Paesi ricchi; altrove il contagio corre ancora libero (il tasso medio di vaccinazione in Africa non raggiunge il 2%). La pandemia pare proporci un bivio indecente fra terze dosi e terzo mondo (come un tempo usava chiamare i disagiati del pianeta). Proviamo dunque a immaginare la domanda che può tormentare molti: finché non ci saremo rivaccinati a casa nostra anche col nuovo richiamo, ormai quasi certo nel prossimo autunno-inverno, è sensato impegnarsi a distribuire dosi nei Paesi che non ne dispongono? La risposta deriva da quattro cifre e da un’evidenza empirica: ad oggi, ricorda l’Ispi, sono oltre cinque miliardi le vaccinazioni anti-Covid somministrate nel mondo, ma di esse il 75% è concentrato in appena dieci Paesi ricchi; altrove il contagio corre ancora libero senza l’ostacolo del siero (il tasso medio di vaccinazione in Africa non raggiunge il 2%) e, come osservano gli scienziati, il virus correndo muta, per poi riaffacciarsi da noi più dilagante e forse più letale. Dunque, la risposta è sì: non è soltanto sensato, è necessario un nuovo equilibrio vaccinale planetario per eradicare infine la malattia, esattamente nello spirito dell’accordo appena siglato a Roma dalle nazioni del G-20. E lo è per motivi di mera autotutela, al netto delle pur notevoli ragioni etiche che dovrebbero farci aborrire una sperequazione così grave tra la salute di chi ha e quella di chi non ha (è noto che tali ragioni convincono pochi, in questi tempi di ferro). Per restare dalle nostre parti, nella benestante Europa abbiamo superato la media del 70% di immunizzazioni e abbiamo ormai una notevole riserva di vaccini. È dunque un lavoro di lima ciò che occorre per smussare le resistenze (soprattutto culturali) di chi, anche potendo, non vuole vaccinarsi. Qui non mancano le dosi, manca il buonsenso: l’Est europeo presenta, per dire, tassi molto bassi in alcuni Paesi (Bulgaria al 20%, Romania 32%) ma solo a causa di una più radicata presenza di No Vax (in Bulgaria il 23% rispetto al 9% della media Ue, secondo l’eurobarometro). Supportare a questo punto i Paesi in via di sviluppo non è in contraddizione con una terza dose che da noi copra i più fragili già nel corso di settembre. È, anzi, complementare ai nostri intessi, come spiegava alla nostra Viviana Mazza l’epidemiologo Seth Berkley, che co-dirige Covax, il programma mondiale nato nel 2020 per l’equa distribuzione del vaccino: “Se vogliamo riprendere commerci e spostamenti, l’unico modo è sopprimere il virus globalmente”. La mappa di fonte Oms da poco pubblicata su queste colonne a proposito delle 50 nazioni più povere del mondo (nelle quali abita il 20% della popolazione del pianeta) racconta invece la necessità di un potente lavoro di pala, per smuovere grandi problemi di miseria scolpiti in piccoli numeri di immunizzazione. E che numeri. Lo 0,1 di dosi somministrate in Congo apre, quale performance peggiore, un elenco fatto di decimali: lo 0,3 del Ciad, lo 0,5 per cento di Burkina Faso e Sud Sudan, e così via… Dunque, se è del tutto legittima la soddisfazione del ministro Speranza per la buona riuscita del G20 capitolino sulla salute, con un patto infine sottoscritto all’unanimità affinché il vaccino “non sia un privilegio di pochi”, è facile capire quanto lungo sia il passo. E appaiono comprensibili le perplessità di organizzazioni umanitarie come Oxfam ed Emergency sul rischio che, ancora una volta, ci si impantani nelle pure enunciazioni, senza definire “strategie e strumenti di medio e lungo periodo”. Nel quadro più fosco dei Paesi poveri, l’Africa è un immane buco nero (nella lista dell’Oms sono 37 su 50 i Paesi africani) e pone difficoltà specifiche e gravi anche nella distribuzione degli aiuti. Il numero ufficiale di morti per Covid nel continente è più o meno pari a quello dell’Italia, circa 130 mila; una cifra del tutto inattendibile, che è lecito moltiplicare alla enne e che testimonia un problema ben descritto dall’ultimo rapporto dell’Ibrahim Forum sulla diffusione della pandemia: solo otto Paesi hanno un sistema universale di registrazione delle morti, i decessi per Covid nell’Africa subsahariana sarebbero sottostimati fino a 14 volte; in molti casi è una assoluta chimera anche una parvenza di sistema sanitario. Jeffrey Sachs, consulente dell’Onu e professore della Columbia, pone a 4 miliardi e 800 milioni di vaccinati il target necessario a fermare il virus. Ma ammonisce che il programma Covax da solo non può bastare a fornire i circa sei miliardi di dosi necessarie a immunizzare l’80% della popolazione mondiale sopra i 15 anni e dunque la questione si sposta (ancora una volta) sulla eventuale sospensione dei brevetti e sul trasferimento tecnologico nei Paesi più deboli: un tema ricorrente sin dal 2020, ma anche un piano assai scivoloso, certo, perché il rischio è disincentivare l’investimento della ricerca privata e perché Paesi che hanno collaborato nel mettere a punto il vaccino si mostrano assai scettici. È più che mai indispensabile, insomma, trovare un terreno di equilibrio politico che pare sfuggito anche al summit romano. Ed è altrettanto necessario tenere presente come anche questo potrebbe non bastare in un continente destrutturato quale è l’Africa, che fa registrare la media più bassa del mondo di posti letto per abitante (di 42 Paesi africani, 17 hanno meno di un letto per mille persone; degli altri 12 Paesi semplicemente non esistono dati). Non tutto è Covid, non tutto è vaccino, dunque. Mancano apparati di base, mancano entità statuali. Com’è stato dall’inizio, la pandemia è soprattutto un immane moltiplicatore di guai preesistenti, ciò che era male diventa peggio. L’Ibrahim Forum Report snocciola un lungo elenco di duri colpi assestati ai processi democratici del continente nell’ultimo anno e mezzo: dalla soppressione delle opposizioni in nome di misure di salute pubblica ai brogli elettorali per scarsa trasparenza e zero controlli delle missioni internazionali. Effetti collaterali, certo. Ma anche buoni motivi in più per curarne la causa, specie per chi, come noi, abita appena dall’altra parte del mare. Non è mai il tempo dei diritti di Francesca Schianchi La Stampa, 9 settembre 2021 E così, ancora una volta, non è il momento di parlare di diritti. Oggi di contrasto all’omotransfobia come nel 2017 di questi tempi di riforma della cittadinanza. Dopo un inizio estate rovente sul ddl Zan, dopo le baruffe in Commissione e in Aula al Senato, la valanga di emendamenti leghisti e il rinvio a settembre, ecco ci siamo, doveva essere il momento. Doveva esserlo per le forze di maggioranza che a lungo hanno predicato la necessità di quella legge, per Leu, per il Movimento cinque stelle, soprattutto per il Pd, il più risoluto in quelle settimane a sostenere la necessità di approvarlo, alla svelta e così com’è uscito nel novembre scorso dalla Camera. Basta rinvii, no alle offerte salviniane o renziane di mediazione che danno l’idea di essere solo scuse per prorogare in eterno. L’occasione era ieri l’altro, la riunione dei capigruppo per stabilire il calendario prossimo venturo, era quello il momento di dire: abbiamo aspettato anche troppo. Invece no, si può aspettare ancora: la maggioranza lo ha rimandato al mese prossimo. Meglio, dopo le elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre. Certo, sono tutte vere le imbarazzate giustificazioni dei dem, il decreto Green Pass da convertire, la riforma del processo penale e poi quello civile da portare in Aula a passo di carica, perché così è stato caldamente richiesto dalla ministra Cartabia e dal premier. Eppure, guarda un po’, la sensazione è quella del déjà vu: quando in ballo ci sono i diritti, non sono mai la priorità. E non è mai il momento giusto, soprattutto se di lì a poco si vota. Quattro anni fa, quando a Palazzo Chigi sedeva Paolo Gentiloni sostenuto da una larga maggioranza, la legge sullo ius soli, o meglio ius culturae, già approvata a Montecitorio, si fermò sulla soglia di Palazzo Madama: “Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata - spiegò il no al provvedimento l’allora ministro degli Esteri Angelino Alfano, leader della componente di centrodestra di quella maggioranza, che pure si era schierato per il sì nel primo passaggio alla Camera - può diventare un favore alla Lega”. Era settembre, mancavano sei mesi al voto delle Politiche, e quella dichiarazione lunare, che non metteva in discussione il merito di un provvedimento ma il tempismo riferito alle elezioni, quella frase indigeribile per le migliaia di ragazzi nati e cresciuti in Italia in attesa solo di un riconoscimento sacrosanto, aveva però il pregio di smascherare una grande ipocrisia: il terrore della politica dinanzi a decisioni che possono spaccare il proprio elettorato, meglio scelte al ribasso che rischiose. Quattro anni fa andò così. E naturalmente di ius soli si torna a parlare giusto ogni tanto, si infiamma brevemente il dibattito, si formano le consuete e rissose tifoserie, poi nulla cambia, e si torna ad altre “priorità”. Ecco, sarebbe bello che stavolta non fosse così. A inizio estate, quando approvare il ddl Zan sembrava urgente, a chi gli faceva notare che i numeri in Aula al Senato rischiano di non esserci, il segretario dem Enrico Letta rispondeva: andiamo in Parlamento e vediamo. Pronto alla battaglia, a rischiare pur di dire (e fare) qualcosa di sinistra. Poi però, se a un mese dalle elezioni ci si ferma, e si rinvia a un pochino più avanti, se ne riparla fra un mesetto, la sensazione è che più dei numeri in Aula facciano paura quelli che usciranno dalle urne. Ma i diritti non possono aspettare sempre le prossime elezioni. Ddl Zan rimandato a ottobre. La destra gongola, imbarazzo nel Pd Il Manifesto, 9 settembre 2021 Senato. Cirinnà: scelta saggia, ora la priorità è la giustizia. Ddl Zan rimandato a ottobre, come si diceva una volta. A dopo le amministrative. Già, perché dopo lo stop imposto dalla pausa estiva, alla capigruppo del Senato nessuno ha alzato la mano per chiedere che la discussione in aula riprendesse già dai prossimi giorni. La destra esulta, La Russa infilza Pd e M5S: “Ricordo che ci hanno fatto portare il provvedimento in aula a luglio senza relatore per l’urgenza che avevano. Adesso se ne parla dopo le elezioni. Strane queste urgenze a doppia velocità”. Nel Pd difendono la scelta, motivandola con la necessità di approvare prima il decreto sul green pass e poi la riforma della giustizia penale e civile. “Penso che il rinvio sia una decisione saggia”, dice Monica Cirinnà, in prima linea per i diritti. “La giustizia ha la priorità perché la riforma è indispensabile per avere i fondi del PNNR. E poi in campagna elettorale le posizioni ideologiche si fanno più nette e non voglio correre il rischio che la legge finisca stritolata”. Andrea Marcucci, che guida l’ala Pd scettica sul testo uscito dalla Camera, si dice dispiaciuto e rilancia la tesi di un dialogo con la Lega: “Spero almeno che questo tempo possa essere utile per capire quale è la strada che garantisca l’approvazione della legge. Se servirà un confronto con le altre forze politiche, dobbiamo farlo”. Ma dopo le amministrative parte la sessione di bilancio e a inizio 2022 ci sarà l’elezione del presidente della Repubblica: il rischio che il ddl Zan finisca in un binario morto è reale. “Sono convinto che delle finestre per l’approvazione si troveranno perché la legge di bilancio resta a lungo in commissione e l’aula è libera”, dice Zan. Secondo Gasparri, “se avessero ritenuto che fosse una cosa condivisa e portatrice di consensi per la sinistra avrebbero preteso la immediata discussione”. In realtà, visto che dopo la presa di posizione dei renziani i numeri sono a rischio, nel Pd hanno più probabilmente ritenuto di non presentarsi alle urne con una possibile sconfitta in una battaglia altamente simbolica. Cannabis legale, ora si può. Approvato il testo base di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 settembre 2021 In commissione Giustizia una maggioranza in parte trasversale trova infine la quadra. Per Salvini “non è una priorità”. Magi: “Accelerare l’iter, contro le narcomafie”. La buona politica ha finalmente vinto, dopo più di un anno, in commissione Giustizia della Camera. Grazie a quella che il presidente e relatore del provvedimento Mario Pierantoni (M5S) chiama “una sintesi ragionevole”, ottenuta nel “confronto” dei gruppi parlamentari, una maggioranza in parte trasversale ha approvato un testo base sulla depenalizzazione della coltivazione domestica di marijuana (non oltre 4 piante “femmine”) e sulla riduzione di pena per i fatti di lieve entità connessi allo spaccio di sostanze. I cinque articoli che modificano il Testo unico sugli stupefacenti 309/90 ha potuto contare sui voti del M5S, del Pd, di +Europa e di Leu, naturalmente, ma anche sul voto del deputato di Forza Italia, Elio Vito, in dissenso dal suo gruppo che invece è rimasto contrario insieme a Lega, FdI e Coraggio Italia. Mentre Italia Viva, che insieme alla Lega nell’ultima seduta del 4 agosto aveva chiesto il rinvio dell’esame del testo, si è astenuta. Il risultato, in parte inatteso, in realtà si deve soprattutto al fatto che il deputato Riccardo Magi, già firmatario di un testo ben più antiproibizionista depositato nel 2019, ha circoscritto la sua proposta allo stesso perimetro in cui si muoveva quella della Lega, sebbene di segno opposto (l’onorevole Molinari infatti aveva previsto nella sua pdl un aumento delle pene per i fatti di lieve entità al punto da renderle maggiori addirittura delle pene per le condotte più gravi). “In questo modo - spiega lo stesso presidente di +Europa - ho ottenuto l’abbinamento con la proposta della Lega, e così l’iter è finalmente andato avanti. Anche se ora il Carroccio ha chiesto ed ottenuto il disabbinamento”. Il testo approvato ieri concilia dunque le proposte di Magi, Molinari e della pentastellata Caterina Licantini. Rende totalmente legalizzata la coltivazione domestica di piante di marijuana (fino a quattro “femmine”, qualunque sia la loro dimensione), annulla nell’art. 75 della 309/90 le sanzioni amministrative per i consumatori di cannabis (non nel caso di guida sotto effetto stupefacente, però) e riduce le pene per i fatti di lieve entità con la distinzione delle sostanze (fino a un anno per la cannabis e fino a due anni per gli altri stupefacenti). Sono proprio questi “fatti di lieve entità” - il passaggio di sostanze, il piccolo spaccio, la detenzione - “che attualmente in 7 casi su 10 conducono al carcere, come ci hanno confermato in audizione in commissione tanti magistrati ed esperti”, riferisce Magi. Viceversa, però, come sottolinea Pierantoni, il provvedimento “aumenta da 6 a 10 anni le pene per i reati connessi al traffico e alla detenzione al fine di spaccio (non di lieve entità, ndr) della cannabis. Reati che saranno ora autonomi rispetto alle stesse fattispecie previste per gli oppiacei: si introduce, cioè, una separazione concettuale tra le diverse categorie di sostanze stupefacenti, diversità già evidenziata dalla Corte Costituzionale. Infine - continua il relatore pentastellato - una novità per la tutela dei minori e dei giovani: non si potrà mai considerare fatto di lieve entità lo spaccio a minori o che nella vicinanza delle scuole. Un inasprimento per contrastare la criminalità e rafforzare la protezione dei più giovani”. “La coltivazione in casa di canapa è fondamentale per i malati che ne devono fare uso terapeutico e che spesso non la trovano disponibile oltre che per combattere lo spaccio ed il conseguente sottobosco criminale”, ha tenuto a precisare il presidente della Commissione Giustizia. Ma il testo base è - prendendo in prestito le parole di Marco Perduca, coordinatore per l’Associazione Luca Coscioni della campagna Legalizziamo.it - “una buona base di partenza” per emanciparsi, come hanno già fatto quasi tutti i Paesi occidentali, da quella politica proibizionista che sposta l’accento sulla criminalizzazione dei consumatori e fa così solo il gioco delle narcomafie. Del risultato se ne rallegra, tra gli altri, anche Leonardo Fiorentini, segretario di Forum Droghe, che però si dice preoccupato di “alcune norme forcaiole inserite nel testo”, e si augura che “vengano emendate prima dell’approdo in Aula”. In realtà la prosecuzione dell’iter è il cruccio principale di Magi: il presidente Pierantoni dovrà ora fissare un termine per la presentazione degli emendamenti che verranno discussi e votati in commissione, poi il testo potrà andare in Aula. “Il testo necessita di ulteriori modifiche per un sostanziale passo in avanti ma realisticamente - ragiona il presidente di +Europa - manca un anno di lavoro, in questa legislatura, ed è urgente che la maggioranza che oggi si è manifestata in Commissione si impegni a portare al più presto la proposta in Aula. Va evitato che nell’affollamento dei provvedimenti di iniziativa governativa questo testo base non proceda”. Per la destra il provvedimento è “carta straccia” e Matteo Salvini non si capacita del fatto che la legge sulla cannabis legale sia una priorità dell’Italia. La risposta di Magi via twitter è l’unica possibile: “Il leader della Lega preferisce che a coltivarla sia la ndrangheta?”. Gabrielli: “La vittoria dei talebani aumenta il rischio di attacchi contro l’Occidente” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 settembre 2021 Il sottosegretario alla sicurezza: “L’antagonismo tra Isis-Khorasan e Al Qaeda può tradursi in azioni di forza non solo in Afghanistan”. “Con l’attentato alle Torri Gemelle è cambiato tutto: la realtà del terrorismo e la sua percezione, ma anche la nostra vita quotidiana. Fu un’azione sorprendente ma non inattesa, perché il fuoco anti americano dell’estremismo jihadista covava da tempo e s’era già materializzato. Proprio come ora il dissolvimento del sistema di governo afghano davanti ai talebani: la caduta di Kabul è l’esito di un’avanzata più rapida del previsto ma non imprevedibile. Dobbiamo fare tesoro degli errori, anche interpretativi, commessi in passato e non ripeterli oggi, per fronteggiare al meglio la minaccia”. A vent’anni dall’11 settembre 2001 e da quelle immagini che sconvolsero il mondo intero Franco Gabrielli, già capo della Polizia e adesso sottosegretario con delega alla sicurezza della Repubblica, parla di come si può affrontare la nuova emergenza internazionale innescata dalla crisi afghana. E non solo. La vittoria dei talebani aumenta il rischio di nuovi attacchi contro l’Occidente? “Certamente, è persino banale dirlo. La sconfitta di un esercito addestrato e spalleggiato dagli occidentali da parte di bande giudicate poco più che raccogliticce può innescare un effetto emulazione, per veicolare il messaggio che si può non solo resistere ma anche punire una civiltà considerata nemica. È successo vent’anni fa quando i terroristi dimostrarono di poter colpire gli Stati Uniti sul loro territorio e con i loro mezzi, può succedere oggi ovunque”. Quindi siamo di nuovo sotto attacco? “Restiamo sotto una minaccia che non è mai venuta meno, è un errore valutarla sulla base degli eventi che ci toccano più da vicino, come gli attentati del 2004-2005 in Spagna e Gran Bretagna, o del 2015-2016 in Francia e Belgio. Quelle sono manifestazioni esteriori, il pericolo resta anche quando non accade nulla. La minaccia è immanente, e il rischio che diventi imminente in una situazione come quella attuale aumenta”. Sono arrivati allarmi particolari dai servizi segreti italiani e stranieri? “Non che riguardino il nostro Paese in particolare. Sono invece aumentate le segnalazioni di rischio in Afghanistan e in generale contro obiettivi statunitensi”. Che cosa preoccupa maggiormente della situazione afghana? “La confusione e l’incertezza, che anche i talebani hanno difficoltà a gestire. Non a caso hanno faticato a formare il governo, a partire dalla scelta cruciale di chi dirigerà l’intelligence”. I nomi chiamati al governo non lasciano ben sperare… “È una composizione che sancisce, al momento, la vittoria dell’ala militare e la presenza in posti chiave - primo ministro, Interno e Difesa - di persone addirittura ricercate sul piano internazionale come terroristi. Non è un buon segnale né un’apertura verso l’Occidente, come l’assenza di personalità della società civile o femminili. E ora il divieto alle donne di praticare sport che “ne espongano i corpi”. Resta il contrasto tra l’anima più tradizionalista e quella meno ortodossa, che va considerato insieme all’influenza del sedicente Stato islamico nella regione del Khorasan, che sembra rappresentare il maggior pericolo, e ai rischi derivanti da altre situazioni”. Per esempio? “L’antagonismo fra Isis-Khorasan, che contrasta i talebani, e Al Qaeda che invece li appoggia, può tradursi in nuove azioni di forza che possono manifestarsi non solo su quel territorio”. Che si può fare? “In un quadro così magmatico è evidente che bisogna allargare il più possibile il novero dei soggetti da mettere intorno allo stesso tavolo, per coinvolgerli in una possibile soluzione. Non c’è alternativa, come ha lasciato intendere il presidente Draghi puntando a un G20 sull’Afghanistan, perché il G7 non basta. È complicato perché ci sono interessi diversi e talvolta contrapposti; basti pensare al coinvolgimento di Cina e Russia, Pakistan e India, Iran e Stati Uniti. Ma è una strettoia che si sta percorrendo con coraggio”. Questo significa che lei è favorevole anche a dialogare con i talebani? “Sì, ma a determinate condizioni. Quello che sta avvenendo conferma la necessità di procedere con cautela, traendo giudizi dai fatti più che da pregiudizi o auspici. Verificando in concreto, ad esempio, la disponibilità al rispetto dei diritti fondamentali. Considerare i talebani diversi da vent’anni fa può essere un azzardo, ma vederli sempre uguali, come se niente fosse mutato, è da miopi. È necessario capire bene chi si ha davanti e poi trarne le conseguenze”. Tra le conseguenze ci possono essere nuove guerre? “Non sono auspicabili, perché è vero che la democrazia non si esporta con la forza. Tuttavia negare che i diritti e le libertà si possano difendere anche con la forza significherebbe rinnegare l’aiuto ricevuto dagli eserciti alleati nella guerra di liberazione da cui è nata la nostra Repubblica”. Rimane però il problema di andare a combattere in casa d’altri. “È un tema delicato e complesso, ma anche nelle missioni di pace è insito l’uso della forza. Il problema è come si esercita, e la gestione dell’Italia delle proprie missioni all’estero è forse una delle ragioni per cui non siamo divenuti, fino ad ora, obiettivo del terrorismo jihadista, insieme alla prevenzione esercitata dai nostri apparati di sicurezza, alle oltre 600 espulsioni preventive dal 2015 a oggi e ad altre misure adottate”. Serve un maggiore protagonismo dell’Europa? “Certo, ma pure questo è un punto interrogativo. Si parla giustamente di esercito europeo, ma per fare che cosa? Per andare dove? Servirebbe una condivisione di obiettivi e strategie, mentre mi pare che pure sull’accoglienza dei profughi afghani, argomento sul quale dovrebbe esserci poco da discutere, ci siano più elementi di divisione che di condivisione”. A proposito di accoglienza, la crisi afghana e l’aumento degli arrivi hanno riacceso le polemiche sull’immigrazione, anche dentro il governo, con Salvini e la Lega che attaccano la ministra Lamorgese evocando anche il rischio terrorismo. Lei che ne pensa? “Le due tesi opposte, sostenere o escludere a priori che l’arrivo di stranieri comporti un aumento del rischio terrorismo, sono entrambe senza fondamento. Non c’è una strategia che fa dell’immigrazione un veicolo per gli attacchi in Occidente, tant’è che gli ultimi attentati sono stati realizzati quasi sempre da persone già presenti nei Paesi colpiti, se non da cittadini di quei Paesi; ma è anche vero che l’attentatore che uccise tre persone lo scorso anno a Nizza era sbarcato a Lampedusa. Bisogna tenere la guardia molto alta, senza generalizzazioni né sottovalutazioni. Dopodiché sull’immigrazione andrebbero fatti altri ragionamenti, a partire dall’integrazione, sui quali ora non entro”. Lei ha voluto con forza la nuova Agenzia per la cybersicurezza nazionale, che sta muovendo i primi passi. Anche il crimine cibernetico può essere utilizzato dai terroristi? “In teoria sì, magari avverrà, ma per adesso la gran parte delle attività illegali sono opera di criminalità comune di varia natura; a livello globale sono state individuate una quarantina di gang che fanno hackeraggio criminale, da cui discendono una miriade di attività di medio e piccolo cabotaggio. Terrorismo e criminalità organizzata non hanno ancora preso piede in questo settore, dove invece si registrano attività di Stati sovrani per questioni relative a spionaggio, acquisizione di proprietà intellettuali, interessi economici e industriali”. Però ci sono anche questioni che toccano da vicino la vita dei cittadini, come s’è visto con l’attacco al server che gestiva i servizi sanitari della Regione Lazio. “In quel caso c’è stata una esfiltrazione di dati preoccupante, ma dietro la quale sembra non ci sia niente di particolarmente allarmante. Però è chiaro che la digitalizzazione dei servizi, e quindi della nostra vita quotidiana, sarà sempre maggiore; ciò comporterà grandi vantaggi sul piano dell’efficienza, ma renderà più vulnerabili i nostri dati personali. Bisogna attrezzarsi alla resilienza e lo stiamo facendo, sia pure con qualche ritardo. Dobbiamo rendere più sicure le strutture, ma serve anche un cambiamento di mentalità, direi culturale, da parte dei cittadini-utenti”. L’età dell’insicurezza. Dall’11 settembre alla pandemia di Carlo Galli La Repubblica, 9 settembre 2021 Il paradosso della Lega che sul Green Pass riesce a essere tanto di governo quanto di opposizione è una mossa astuta, che cerca di intercettare e tenere insieme opinioni e sensibilità opposte, ed è anche tatticamente motivata, in quanto suggella l’alleanza elettorale con FdI; ma è soprattutto la manifestazione inconsapevole di un altro paradosso, strutturale. Questo consiste nel fatto che le questioni nate dal Covid a proposito del vaccino, del Green Pass, del rapporto fra vita e libertà, fra individuo e comunità, fra obbligo legale e obbligo morale, sono altamente divisive ma affondano le loro radici in un contesto condiviso: l’insicurezza. Le parti che si contrappongono duramente - con reciproca criminalizzazione e demonizzazione, e con violenze non solo verbali - sono infatti contigue nel condividere una condizione comune, cioè un’acuta percezione di vulnerabilità: del corpo singolo, per coloro che non vogliono essere “contaminati” dal vaccino, e del corpo della collettività, per quelli che ripongono la propria salvezza individuale nella salvezza comune. È questa reciproca percezione, questa speculare paura esistenziale, a far sì che gli uni vedano gli altri come portatori di un pericolo mortale, come nemici da combattere, da delegittimare, da eliminare. Le posizioni più sfumate e moderate, che cercano e forniscono risposte su basi oggettive, sono purtroppo minoritarie. La società condivide la divisione e l’insicurezza, insomma. Esiste una continuità fra questa insicurezza generalizzata e altre che l’hanno preceduta, e che sono la cifra del nuovo millennio. A partire dall’insicurezza indotta dal terrorismo, compendiata nell’immagine delle Twin Towers fiammeggianti che crollano su sé stesse; l’orgoglio dell’Occidente così mortificato, la sua invulnerabilità così sfidata, non sono stati sufficientemente riparati e garantiti dalle due guerre, quella afghana e quella irachena, che dall’11 settembre sono scaturite. Non solo il terrorismo ha colpito ancora, ma, benché indebolito, ancora obbliga l’Occidente a una costante estenuante difesa, a defatiganti controlli, occulti e palesi; ancora è un fantasma che agita tanto il nostro immaginario quanto la nostra esperienza concreta. Le immagini di Kabul, nel Ferragosto di quest’anno, riportano alla mente tanto Saigon nell’aprile del 1975 quanto Manhattan nel settembre di vent’anni fa. La percezione dell’insicurezza si è poi aggravata in conseguenza della crisi economica del 2007-2013, la Grande Recessione in cui molte delle promesse della globalizzazione e molte delle illusioni del neoliberismo sono naufragate; e in cui molti Paesi, e molti strati sociali, hanno provato le asprezze dell’austerità, e la durezza del lavoro che svanisce, che si indebolisce e si impoverisce, o che viene sostituito dalla tecnica. Per finire, la pandemia; fonte di un’insicurezza globale che viene sperimentata e gestita in modi diversi nei diversi contesti, e che - al di là delle parole di circostanza - corrode sia la solidarietà internazionale sia la coesione interna dei singoli Stati; che colpisce diversamente ricchi e poveri, che contrappone aspramente i cittadini tra loro, pur accomunandoli nella minaccia. Che ha allungato il tunnel nel quale le nostre società da tempo si sentono immerse. Insicurezze diverse tra loro - nate da cause disparate, da agenti non omogenei (jihadisti, mutui sub prime, virus) - ma convergenti a costituire quella che gli storici futuri chiameranno probabilmente “età dell’insicurezza”. Rispetto alla quale la “società del rischio” era dopo tutto rassicurante. Sono queste insicurezze, sedimentate una dopo l’altra nelle nostre società e nelle nostre psicologie, ad avere corroso la fiducia dell’Occidente in sé stesso - non a caso, l’immagine della Cina, come nuovo pretendente all’egemonia mondiale, non è mai stata tanto minacciosa (forse esageratamente) - e ad avere generato, tra l’altro, anche la sfiducia dei cittadini verso la politica istituzionale, che non li garantisce a sufficienza dall’insicurezza; ad avere indebolito le democrazie, facendo la fortuna di populismi e sovranismi. Forse anche questi effimeri, perché l’insicurezza brucia rapidamente i propri prodotti. Naturalmente, anche l’età dell’insicurezza è storia umana, e non è un destino; e quindi se ne possono attenuare gli spasmi più dolorosi, e si può operare per una nuova stabilità. Certo, se il paradossale fondamento dell’esistenza comune è diventata la paura, il primo compito di forze politiche responsabili non sarà di alimentare l’insicurezza - è pericoloso credere di poter governare rilanciando le crisi. Ciò di cui c’è bisogno è semmai la capacità di elaborare piani per un ordine finalmente meno instabile. Alla normalità non si torna: ma se ne può progettare una nuova. È questa la politica. Il muro della Polonia per fermare i profughi afghani e iracheni di Francesco Battistini Corriere della Sera, 9 settembre 2021 La Bielorussia di Lukashenko invia i rifugiati come arma politica, Varsavia risponde alzando il filo spinato lungo il confine. “C’è un uso strumentale dei migranti”, risponde l’Unione europea. “Mani sul cofano, favorite i documenti…”. Ecco, fregati. Sono stati quei contadini, è sicuro. Quando abbiamo passato la fattoria Tadeusza, uno l’abbiamo visto: s’è alzato sui campi, ci ha scrutato fin verso il confine, s’è portato il cellulare all’orecchio. Maledetto spione. Tempo cinque minuti e dal sentiero sono spuntati i gendarmi della Straz Graniczna, la guardia di frontiera. Braghe mimetiche e radio gracchianti, un viavai di macchine della Zandarmeria militare, perfino un elicottero. Un’ora e mezza di controlli: chi siete, che fate, avanti aprite il baule, fuori i telefonini, cancellate questi video, non sapete che è vietato, guardate che si rischia l’arresto… Mani sul cofano e bavaglio alla bocca: da lunedì c’è quel che nemmeno Trump in Messico aveva osato, lo stato d’emergenza. E su quest’estrema frontiera orientale, tre chilometri di profondità, 183 fra città e villaggi, qui la Polonia diventa un po’ meno europea e un po’ più bielorussa. A comandare sono solo esercito e polizia: niente foto né domande, zero giornalisti e umanitari. “L’immigrazione è un’invasione!”, 1.935 solo nell’ultima settimana, e per un mese i diritti saranno sospesi lungo tutti i 185 chilometri di confine. Duemila soldati dispiegati, coprifuoco serale, nessuna manifestazione è autorizzata. La prima volta dal 1981, dai tempi del comunismo. Da quando c’era il Muro di Berlino e chi s’immaginava ne avrebbero costruito un altro qui, poco sopra Lublino. Posano due chilometri di filo spinato al giorno. Calcolano le spaziature. L’avvolgono a triplo giro. Allineano le estremità. Piantano le staffe. Un bel lavoro, non c’è che dire. Con le pinze, per non sentir dolore, neanche quello dei migranti. In guanti bianchi di lattice rinforzato, per non sporcarsi con le sozzure del mondo. “Lo faremo uguale agli ungheresi”, aveva promesso in agosto il ministro dell’Interno, e così è: il Muro della Polonia è un metro più basso e 340 chilometri più corto di quello d’Orbán, ma promette di funzionare uguale, anche di più. “L’unica risposta possibile a una minaccia come quella dei nazisti e dei sovietici nel ‘39”, esagera il presidente polacco Andrzej Duda, amico dei sovranisti. “Una disgustosa, cupa propaganda sulla pelle dei migranti”, fa opposizione da sinistra Donald Tusk, l’ex presidente polacco del Consiglio europeo: “Una barriera alta tre metri e mezzo per difenderci da chi? Dalla povera gente che cerca solo un posto su questa Terra?”. L’ultimo Muro taglia foreste e fiumi, costeggia chiese e paesi. S’addiziona alle barriere già erette in Grecia e Bulgaria, Austria e Croazia. Indigna il mondo, proprio nel pieno dell’esodo dall’Afghanistan talebanizzato. Rattrista i contadini, che l’autunno vedevano sconfinare mandrie di bisonti e ora chissà. Tranquillizza le famigliole, che si trovavano l’iracheno nel giardino di casa. Come si dice in polacco “Not in my Back Yard”? Da settimane, 32 afghani “nimby” sono intrappolati nella boscaglia d’Usnarz Gorny, al di là della rete, e non possono venire in questo cortile: li riforniscono d’acqua e cibo, perché l’ha imposto la Corte europea, ma niente asilo. A sentire i sondaggi, i polacchi sono d’accordo all’86% col governo e disapprovano i dodici pacifisti che hanno tentato di divellere il filo spinato. Perfino il kebabbaro di Kuznica: “È povera gente - dice il giordano Ahmed -, ma qui non c’è posto…”. Al santuario di Sant’Antonio, ci si prepara all’adorazione dell’ostia miracolosa e la Polonia Fidelis, inginocchiata e assorta nelle preghiere, non è che si danni tanto per i fratelli migranti: “Sento che la gente è rassicurata dalla presenza dei militari - spiega padre Wojciech - e un po’ lo sono anch’io. È una faccenda politica, non di solidarietà. Perché un anno fa, in Bielorussia, non c’erano profughi?”. Appunto: che ci fanno qui? Come in Lituania e in Lettonia, altri due Paesi che stanno apparecchiando il filo spinato, questa crisi migratoria è diversa dal resto d’Europa. E Kuznica somiglia poco a Lampedusa o a Lesbo. L’ultimo dittatore del continente, Aleksandar Lukashenko, traballante per le contestazioni interne e stretto dalle sanzioni Ue, ha imitato il turco Erdogan e deciso di vendicarsi: “Ho sempre fermato per conto vostro i migranti e la droga - ha detto agli europei -, ora pensateci voi…”. Di colpo, ha tolto l’obbligo di visto per iracheni, afghani e siriani che vogliano entrare in Bielorussia. E in otto mesi, ha rovesciato sull’Europa una quantità di disperati cinquanta volte superiore a quella dell’anno scorso. Destinazione Lettonia, Lituania e Polonia, dove guarda caso si sono rifugiati gli oppositori di Lukashenko e la velocista scappata dalle Olimpiadi di Tokyo. Gli immigrati come arma di destabilizzazione di massa: Varsavia ne è certa, il dittatore paga il viaggio a chi vuole entrare nell’Ue. Ci sono i video di poliziotti bielorussi che accompagnano gruppi al confine. Ai profughi sono state trovate in tasca boarding pass da Bagdad e da Istanbul, l’Iraqi Airways s’è convinta a cancellare il collegamento diretto con Minsk. E le reazioni dell’Ue verso il governo ultranazionalista di Morawiecki, se paragonate a Orbán, stavolta sono morbide: la Repubblica Ceca ha mandato ai polacchi mezzo milione d’euro di contributo, il Gruppo di Visegrad applaude, nessuno che attivi Frontex e le guardie frontaliere europee. “C’è un uso strumentale dei migranti dalla Bielorussia - riconosce il ministro europeo Josep Borrell -, diamo tutto il nostro supporto a Polonia, Lituania e Lettonia”. Qualcuno imbarazzato, ancora c’è. “Politici, intellettuali, cattolici, lo siamo in tanti”, confida al Corriere il regista Krzystof Zanussi, già Leone d’oro a Venezia: “È il problema che ogni Paese occidentale sta affrontando: li consideriamo persone illegali o esseri umani? Profughi o migranti economici? È intollerabile il rifiuto dello straniero. Ma anche la paura dell’Islam qui non è mai stata una cosa solo teorica, e bisogna tenerne conto. Questa è una frontiera europea, non solo polacca, ed è con l’Europa che s’affronta il problema Bielorussia. Lo stato d’emergenza è una pessima reazione isterica, serve solo a questo governo sovranista per spaventare l’opinione pubblica e zittire il dissenso, accusandolo di tradimento”. Che cos’avrebbe detto di questo Muro, il suo amico Wojtyla? “Quando scoppiò la guerra in Iraq, si schierò con l’uomo e non con le ragioni politiche. Oggi farebbe lo stesso”. Ma c’era stata Solidarnosc, allora: solidarietà. Ed era un’altra Europa, un’altra Polonia. L’11 settembre: i sintomi del declino americano di Antonio Polito Corriere della Sera, 9 settembre 2021 Più che le sorti degli Usa, infatti, a noi europei devono interessare le sorti del mondo che verrà “dopo” gli Usa. L’ultimo soldato sovietico, il generale Boris Gromov, lasciò l’Afghanistan il 15 febbraio del 1989. Il Muro di Berlino cadde nel novembre, nove mesi dopo. L’Urss si dissolse nel Natale del 1991. L’impero comunista non sopravvisse alla sconfitta a Kabul. La fine dell’impero britannico - ha ricordato di recente lo storico Niall Ferguson - cominciò dopo una crisi finanziaria e una disastrosa pandemia, l’influenza spagnola del 1918-19. Gli Stati Uniti, in un lasso di tempo paragonabile, hanno conosciuto l’una e l’altra. Impressionanti paralleli storici stanno rilanciando in queste settimane le profezie del “declino americano”. Molti credono che il Duemila non sarà, come è stato il Novecento, il “secolo americano”. D’altra parte tutti gli imperi prima o poi finiscono, non foss’altro che per il loro “overstretch”, per essersi cioè allungati troppo, senza avere più le risorse economiche e militari sufficienti a controllare la vasta area del mondo su cui estendono i propri interessi. Dal punto di vista militare l’America non ha ancora rivali; ma i suoi soldati, a centinaia di migliaia, sono presenti in 150 Paesi. Dal punto di vista economico la crisi del 2007-08 ha convinto la Cina e il mondo che il re è nudo: il turbo-capitalismo anglosassone, fino ad allora imitato ovunque (anche a Pechino), non è inarrestabile, e anzi può esportare le sue crisi. I sintomi del declino insomma ci sono. Ma verrebbe da dire: ai posteri l’ardua sentenza. Più che le sorti degli Usa, infatti, a noi europei devono interessare le sorti del mondo che verrà “dopo” gli Usa. La vera domanda che ci riguarda non è se stiamo assistendo alla caduta dell’impero americano preconizzata da Paul Kennedy già alla fine degli anni ‘80, cosa sulla quale è più che lecito avere dubbi. Ma piuttosto se l’America sia ancora la “nazione indispensabile”. Se cioè il mondo possa sperare in un ordine sostanzialmente pacifico e prospero, e allo stesso tempo caratterizzato dall’espansione della libertà, dei diritti umani e della democrazia, senza la guida degli Stati Uniti. Anche su questo è lecito dubitare. Fu Madeleine Albright, forse l’ultima grande Segretaria di Stato americana, a usare la definizione di “nazione indispensabile”, a ridosso dell’ultima occasione in cui gli Usa hanno accettato di fare “la guerra degli altri”: l’intervento del 1999 contro la Serbia e a difesa del Kosovo. Era l’idea degli Stati Uniti garanti della stabilità internazionale, in quanto unica superpotenza rimasta. Ma era anche una riformulazione del principio dell’”eccezionalismo americano”, la convinzione cioè che quella nazione abbia un dovere speciale nei confronti del mondo intero, perché speciali sono i valori che rappresenta. Questa teoria è stata spesso interpretata come una mera manifestazione di imperialismo. Eppure il sentimento di avere una missione universale ha accomunato nella storia tutte le nazioni nate da una rivoluzione: dall’Urss, alla Francia, alla Gran Bretagna. Da allora, forse proprio in seguito all’11 settembre, gli Stati Uniti hanno proceduto a una selezione sempre più stretta del loro interesse nazionale. Le due guerre in Afghanistan e in Iraq si sono rivelate “guerre americane”, per quanto rivestite di motivi morali e di impegni di “nation building”. Già da Obama, poi con più rozzezza da Trump, e infine con sorprendente sincerità da Biden, è arrivato il messaggio che l’America si ritirava dai campi di battaglia dove riteneva di aver raggiunto il suo scopo primario. Prendere Bin Laden e distruggere Al Qaeda in Afghanistan. Esternalizzare lo scontro con il fondamentalismo islamico in Iraq. Portare cioè il terreno della battaglia lontano dal suolo nazionale, accettando di perdere soldati per salvare civili. In fin dei conti di questo si è trattato. Ora lo scambio non è più necessario, da vent’anni il terrorismo non colpisce più in America, e dunque si torna a casa. È probabile che lo shock dell’11 settembre sia stato decisivo nel mettere fine all’idea della “nazione indispensabile”. La prima domanda che si fecero gli americani quel martedì fu: “Perché ci odiano tanto?”. La risposta, a lungo andare, doveva per forza essere una tendenza a impegnarsi di meno nel mondo, a rinunciare al ruolo del gigante che si aggira stringendo in una mano una carota e nell’altra un nodoso bastone. La risposta, a lungo andare, è stata: ognuno faccia per sé. E se sorprende la differenza tra la promessa di Biden in campagna elettorale di rilanciare il ruolo internazionale degli Usa, e la realtà del suo effettivo comportamento alla prima occasione, non sorprende invece affatto la direzione di marcia, che in fin dei conti è la stessa dei predecessori: riportare i soldati a casa. Eppure, per quanto possa sembrare contraddittorio, la fine di una guerra non significa necessariamente l’inizio della pace. In Afghanistan, per esempio, non c’era più la guerra da tempo, e invece dopo il ritiro americano è ripresa, con la conquista talebana e la battaglia del Panshir. Inoltre il vuoto strategico lasciato dagli Usa verrà riempito. Saigon cadde nella primavera del 1975, sancendo la più cocente sconfitta del gigante americano in Asia: quattro anni dopo l’Unione Sovietica si sentì così sicura di sé da invadere l’Afghanistan, mettendo fine alla fase della distensione pacifica tra Est e Ovest. Fu mentre Obama praticava la strategia del “leading from behind”, pretesa di guidare il mondo dal sedile di dietro, che Putin intervenne in Ucraina e Siria. E c’è da star sicuri che ora, dopo l’Afghanistan, il nazionalismo cinese si sentirà più forte e audace. D’altra parte la prova che senza il gendarme americano il mondo non è affatto più sicuro ce l’abbiamo avuta proprio a Kabul in questi giorni: sono stati i talebani a liberare centinaia di militanti dell’Isis-K, il gruppo che ha rivendicato la strage dell’aeroporto, e a nominare primo ministro un terrorista internazionale sulla lista dell’Onu. Il mondo potrebbe non reggere al test del declino americano. Vent’anni dopo le Torri Gemelle gli Stati Uniti non hanno più voglia di essere la “nazione indispensabile”. Ma noi ne abbiamo ancora un gran bisogno. Crimini contro l’umanità in Siria, il gruppo Lafarge rischia grosso di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 9 settembre 2021 La Corte di cassazione ribalta la sentenza d’appello sul gigante mondiale del cemento: pagò l’Isis per continuare a fare affari a Rakka. Il gruppo Lafarge, gigante mondiale del cemento (oggi Lafarge-Holcim, dopo la fusione del francese con il gruppo svizzero) potrebbe dover rispondere di fronte a un tribunale in Francia non solo per “finanziamento del terrorismo” ma anche per “crimini contro l’umanità”. La Corte di cassazione ha difatti annullato una decisione della Corte d’appello di Parigi del novembre 2019, che non aveva accolto una sentenza di primo grado che metteva in causa l’attività del gruppo in Siria fino al 2014: due ong, Sherpa e Centro europeo per i diritti costituzionali e umani, assieme a 11 ex dipendenti del gruppo, avevano sporto denuncia contro il cementificio per collusione con gruppi armati in Siria, compreso lo Stato islamico. Il gruppo è sospettato di aver versato 13 milioni di euro in pochi anni a gruppi armati nella zona di Rakka, per poter continuare a fare affari. Lafarge nel 2007 aveva acquisito una fabbrica di cemento situata a 90 km da Rakka, che nel 2014 diventa la “capitale” dello Stato islamico. La fabbrica, rimodernata, ricomincia a funzionare nel 2010, con una capacità produttiva di 3 milioni di tonnellate di cemento l’anno. Nel 2014 però Lafarge chiude le sue attività in Siria. Di fronte alla Corte d’appello, Lafarge si era difesa sostenendo di non poter essere accusata di crimini che non aveva commesso. Ma per la Corte di Cassazione “si può essere complici di crimini contro l’umanità anche se non si ha intenzione di associarsi all’esecuzione di questi crimini”, perché per essere considerati complici “basta averne conoscenza”. E il gruppo Lafarge non poteva non sapere, “il carattere terroristico di questi gruppi non poteva essere ignorato”, perché in Francia anche prima del 2014 ci sono state sentenze giudiziarie che hanno riconosciuto come lo Stato islamico abbia commesso crimini contro l’umanità. Indonesia. Incendio nel carcere di Giacarta: 41 morti di Raimondo Bultrini La Repubblica, 9 settembre 2021 Fiamme provocate da un cortocircuito: almeno 41 morti nella prigione di Tangerang. La struttura ospitava “il 245 per cento di persone in più della norma”. Tutti i detenuti stavano dormendo quando le fiamme e il fumo hanno avvolto un reparto del grande e sovraffollato carcere indonesiano di Tangerang nel distretto Banten della capitale Giacarta. Nessuno ha potuto impedire una strage provocata secondo le prime ipotesi ancora non confermate da un corto circuito che ha scatenato attorno alle 2 di notte l’incendio nel blocco C2 dove vivevano ammassati in 19 celle 122 persone accusate soprattutto per reati di droga. Più di un terzo dei reclusi, 41, sono morti per ustioni e soffocamento, otto lottano ancora tra la vita e la morte in terapia intensiva mentre gli altri hanno riportato ferite più leggere e sono stati evacuati in una vicina moschea sotto il controllo di un vasto schieramento di polizia, centinaia di uomini che hanno subito circondato il perimetro dell’edificio per evitare una fuga in massa dei sopravvissuti. Quando dopo due ore i vigili del fuoco sono finalmente riusciti a spegnere l’incendio con gli idranti, le squadre di soccorso e i 13 agenti carcerari rimasti tutti incolumi hanno scoperto che molte delle vittime avevano tentato disperatamente di aprire le porte sbarrate, in assenza di un qualsiasi meccanismo di sicurezza per le emergenze. I corpi, molti dei quali completamente carbonizzati, sono stati chiusi in sacchi di plastica arancione e allineati poi negli angusti spazi del reparto destinato a un numero molto inferiore di detenuti. Tra loro c’erano anche due stranieri, un portoghese e un sudafricano, oltre all’unico indonesiano recluso per reati di terrorismo. Rika Aprianti, portavoce del dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia, ha ammesso che l’intera struttura ospita attualmente più di 2.000 uomini contro i 1.225 della sua massima capacità, ma altri gruppi dei diritti umani sostengono che Tangeran era stato costruito per non più 600 persone. Senza contare il numero limitato di guardie che non sono state in grado di prevenire o mitigare le conseguenze dell’incidente attribuito al vecchio impianto elettrico mai revisionato dal 1972 quando venne costruito il carcere, uno dei sei di Banten attorno al quale sorgono gran parte delle industrie e manifatture della capitale. E’ una realtà di abbandono e inefficienza comune alla stragrande maggioranza dei 477 istituti penitenziari del grande arcipelago, aggravata quattro anni fa dall’enorme numero di prigionieri per reati di droga arrestati dopo la vasta campagna del governo contro spaccio e traffico, simile a quella lanciata un anno prima dal presidente delle Filippine Rodrigo Duterte. “Gli incendi nelle carceri dell’Indonesia sono sempre legati alla condizione di sovraffollamento”, ci ha detto Andreas Harsono di Human rights watch, secondo il quale la prigione di Tangerang ospitava “il 245 per cento di persone in più della norma”. Nel paese islamico dove risorse e budget sono da decenni inadeguati a mitigare la perenne emergenza, a marzo di quest’anno risultavano reclusi 270.000 detenuti, più del doppio della capacità totale. “E’ una tragedia che ci riguarda tutti”, ha detto il ministro della Giustizia Yasonna Laoly consapevole che la mancanza di fondi e di piani di sfoltimento e umanizzazione degli istituti penitenziari è stata all’origine di numerosi incidenti che hanno scioccato l’opinione pubblica. Nell’aprile dello scorso anno un altro incendio senza vittime era stato appiccato di proposito dai detenuti di un istituto delle isole Sulawesi infuriati dalle restrizioni imposte per il Covid alle visite dei familiari e dalla scoperta che 115 loro compagni erano usciti di cella pagando probabilmente delle bustarelle. All’inizio dell’anno anche a Banda Aceh i prigionieri si sono ribellati e dato alle fiamme le celle per le condizioni disagiate della struttura. Ma negli ultimi anni con la campagna antidroga che ha affollato ulteriormente i penitenziari, incidenti come le evasioni di massa sono stati sempre più frequenti. Più di 440 prigionieri sono fuggiti in un solo giorno nella provincia di Riau, altri 240, compresi diversi condannati per terrorismo, sono evasi durante una sanguinosa rivolta a Medan, Nord Sumatra. Ma nonostante il quadro desolante ben poco è stato fatto per aumentare la sicurezza e migliorare gli standard di vita di detenuti e guardie. Solo tre province - Yogyakarta, Gorontalo, North Maluku - hanno un numero sufficiente di celle e personale, mentre regioni come East Kalimantan, Giacarta e Riau ne ospitano il doppio consentito, con drammatici sovraffollamenti anche a Banda Aceh, Bali, Bangka Belitung e altre 16 province come la stessa Banten dove si è verificata l’ultima strage.