Numero di detenuti stabile, Puglia e Lombardia maglia nera per sovraffollamento redattoresociale.it, 8 settembre 2021 Aggiornamento al 31 agosto 2021 con i nuovi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Dati stabili nel 2021: nei penitenziari italiani ci sono 53.557 persone, di cui 17.066 stranieri. Sono 2.217 le donne detenute. Dopo il calo di luglio, la popolazione penitenziaria torna ai numeri del secondo trimestre del 2021. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 agosto 2021, i detenuti negli istituti di pena italiani sono 53.557. Un dato ormai stabilmente distante da quello di febbraio 2020, quando nelle carceri italiane c’erano oltre 61 mila persone detenute. Stabile, secondo i dati ufficiali forniti dall’Amministrazione penitenziaria, anche la capienza regolamentare con 50.867 posti. In lieve aumento la presenza di stranieri: al 31 agosto 2021 sono 17.066. Le detenute donne, invece, sono 2.217. Le regioni che presentano un divario maggiore tra numero di detenuti e capienza regolamentare sono la Lombardia (7.736 detenuti per 6.139 posti) e la Puglia (3.708 detenuti per 2.888 posti). Il 2020 segna una netta controtendenza per quanto riguarda la popolazione carceraria: al 31 dicembre 2020, infatti, nei penitenziari di tutto il paese risultano 53.364 detenuti, un numero ben distante da quello registrato al 31 dicembre del 2019, quando si contavano oltre 60 mila presenze. In un solo anno, quindi, si è tornati alla situazione del 2015, con un’inversione di trend netta dovuta alla pandemia da Covid-19. I dati raccolti dal 2015 in poi, infatti, mostrano una crescita costate della popolazione penitenziaria, terminata esattamente nel mese di febbraio 2020, quando negli istituti di pena di tutta Italia c’erano oltre 61 mila detenuti. Nonostante le oscillazioni del dato mensile registrate anche lungo tutto il 2020, per poter fare un confronto con gli anni precedenti, abbiamo scelto di prendere come riferimento unicamente la data del 31 dicembre di ciascun anno. Ferma da qualche anno, invece, è la capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dap: dai 43 mila posti del 2008 si è arrivati ai 50,5 mila posti disponibili nel 2020, ma se nel 2019 erano 10 mila i posti in meno rispetto al numero dei detenuti presenti negli istituti di pena, nel 2020 questo scarto si è assottigliato. Il sovraffollamento, tuttavia, è ancora critico in alcune regioni e in alcuni istituti di pena nonostante il dato nazionale più favorevole. In costante calo è la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2020 i detenuti stranieri sono circa 17,3 mila, contro i 19,9 mila di fine 2019 e i 20,2 mila del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2020, che rispecchia il trend nazionale e segna un ritorno al 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere rispetto al totale dei detenuti invece passa dal 34 per cento del 2017 al 32,5 per cento di fine 2020. Rispetto al totale dei detenuti, le percentuali del 2020 confermano il trend degli ultimi 10 anni: la percentuale di stranieri in carcere rispetto al totale, infatti, è diminuita circa 4 punti percentuali rispetto al 2010. Anche la presenza di donne in carcere segue l’andamento generale della popolazione penitenziaria: al 31 dicembre 2020 sono 2.255 le donne in carcere contro le 2.663 dell’anno precedente e le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Il trend del 2020 riguarda anche i numeri registrati tra i reati che producono carcere, come la violazione delle leggi sugli stupefacenti. Al 31 dicembre 2020, sono 18.757 i detenuti per aver violato la normativa sulle droghe. Un anno prima erano oltre 21 mila, con un trend in costante crescita dal 2015 al 2019. Dati che occorre maneggiare con cura, visto che, ad esempio, nel 2017 su 19.793 detenuti per droga, sono 13,8 mila quelli ristretti a causa della violazione del solo art. 73 del Testo unico (quindi la produzione o il traffico o la detenzione di sostanze), mentre sono quasi 5 mila quelli detenuti per l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Solo 976, inoltre, i detenuti esclusivamente per l’art. 74. Come nel 2015, infine, anche il 2020 fa segnare una battuta d’arresto sui detenuti per il 416 bis del codice penale, ovvero associazione di tipo mafioso: a fine 2020 si contano 7.274 detenuti, in ogni caso sempre 2 mila in più rispetto ai 5.257 del 2008. Di carcere si può morire. Lo confermano i dati dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2020 sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere secondo il Dap. Un dato che torna a salire nonostante il forte e repentino calo della popolazione detenuta e che, con quello del 2018, rappresenta il dato più alto dal 2002 ad oggi, anche se non il più alto in assoluto. Nel 2001, infatti, ci sono stati ben 69 suicidi negli istituti di pena italiani e nel 1993 si registrarono ancora una volta 61 suicidi. Fine pena mai. Per la prima volta - in base ai dati raccolti il 31 dicembre di ogni anno - il numero dei detenuti condannati all’ergastolo diminuisce. Se nel 2019 c’erano 1.802 detenuti all’ergastolo - il dato più alto mai registrato - nel 2020 i detenuti con questa condanna sono 1.784. Negli ultimi 14 anni, il dato ha fatto segnare soltanto una battuta d’arresto tra gli anni 2012 e 2014, con circa 1.580 ergastolani detenuti, ma dal 2016 il dato è tornato a salire fino a superare quota 1.800 durante il 2019. Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono 16,8 mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8,5 mila. Nel 2018, invece, il dato è pressoché stabile rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del Dap, quindi, ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite agli istituti di pena italiani mostrano un impegno maggiore da parte del volontariato. Secondo Antigone, negli istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari a 7, ovvero un volontario ogni 7 detenuti. Covid-19: in calo i casi in carcere, 70 i detenuti positivi agensir.it, 8 settembre 2021 Quasi 73mila le somministrazioni di vaccino ai detenuti. Torna a scendere il numero di casi di positività al Covid tra i detenuti nelle carceri italiane. Secondo i dati del Monitoraggio negli istituti penitenziari diffusi dal ministero della Giustizia attualmente i positivi sono 70 (di cui 14 nuovi giunti) su un totale di 52.593 detenuti (66 asintomatici, 3 sintomatici e 1 ricoverato esternamente). Sette giorni fa i positivi erano 80 su 52.466 detenuti. Dai dati aggiornati a ieri sera e diffusi oggi pomeriggio il totale delle somministrazioni di vaccino a detenuti è pari a 73.155 (una settimana fa erano 71.649). In leggero calo anche il numero di agenti positivi: su 36.939 del personale in organico, sono 112 quelli attualmente contagiati rispetto ai 114 della scorsa settimana. Il totale del personale del Corpo di Polizia penitenziaria avviato alla vaccinazione è pari a 24.360 unità. Detenute con figli in carcere. Quali soluzioni per un equilibrato sviluppo del bambino? aibi.it, 8 settembre 2021 L’ingresso in case-famiglia della mamma e del bambino o quando non sia possibile l’affido diurno, potrebbero essere la soluzione. Nell’ambito della famiglia e dell’infanzia, un argomento di cui si parla davvero troppo poco, è quello dei minori che vivono in carcere con la propria mamma, o nel caso in cui questa sia deceduta o “assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole”, con il proprio papà. Il sito dell’Agia (Autorità garante dell’infanzia e dell’adolescenza) informa come dai dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 31 maggio scorso “risultino presenti nelle strutture detentive italiane 17 detenute madri, con un totale di 20 figli minorenni al seguito”. “Gli istituti penitenziari - dichiara Carla Garlatti, autorità garante infanzia e adolescenza- seppure a custodia attenuata per detenute madri come gli Icam, non sono luoghi per bambini e non sono idonei ad assicurare un equilibrato sviluppo psicofisico. Si tratta, a volte, di bambini piccolissimi e, quindi, in condizione di estrema vulnerabilità”. Come tutti i bambini, per poter crescere al meglio, anche questi piccoli hanno bisogno di essere quotidianamente stimolati, di socializzare, di vivere il contatto con il mondo esterno, anche per non essere intimoriti. La legge 62 del 2011, nata, si legge sull’ Osservatorio Diritti “con l’intenzione di far uscire i bambini dagli Istituti di pena femminili promuovendo sei Istituti a custodia attenuata per madri (Icam), […] ha finito per raddoppiare la carcerazione dei più piccoli, che possono stare in queste strutture fino a 6 anni d’età, contro i 3 previsti in precedenza”. Cosa fare? Nel mese di giugno, l’Autorità Garante Carla Garlatti ha richiesto con una nota, al Ministero della Giustizia e a quello delle Finanze, di “sbloccare quanto prima i 4,5 milioni di euro per accogliere i genitori detenuti con bambini in case-famiglia protette e in case alloggio”, un decreto che sarebbe dovuto essere adottato entro due mesi dall’entrata in vigore della legge di bilancio 2021 “per poter utilizzare a tale scopo 1,5 milioni di euro per ogni annualità fino al 2023”. E qualora non sia possibile mettere la mamma agli arresti domiciliari o in casa-famiglia? Potrebbe arrivare in soccorso l’istituto dell’affidamento diurno. Di giorno fuori e la notte con la mamma. Una risorsa preziosa anche per favorire l’integrazione della famiglia quando si sarà scontata la pena all’interno del carcere. Tutto liscio, la riforma Cartabia avanza al Senato di Angela Stella Il Riformista, 8 settembre 2021 Pd, M5s, Lega e Forza Italia danno semaforo verde: in commissione Giustizia la maggioranza non presenta emendamenti. Pioggia di correttivi dai fuoriusciti grillini, che ne presentano ben 1726 e da Fratelli d’Italia. Che ora parlano di “guazzabuglio”. Dovrebbe filare tutto liscio per la riforma del processo penale di “mediazione Cartabia” in discussione ora al Senato, dopo il via libera della Camera arrivato prima della pausa estiva. Infatti, rispetto alla battaglia a cui abbiamo assistito in precedenza, durante e a seguito dei vari Consigli dei Ministri che hanno portato poi all’approvazione del testo lo scorso 3 agosto, ieri in commissione Giustizia a Palazzo Madama la maggioranza che sostiene il governo Draghi - Pd, M5s, Lega, Forza Italia - si è mostrata compatta e non ha presentato emendamenti, la cui scadenza era fissata per le ore 15. Solo Italia viva ha presentato 3 ordini del giorno. Pioggia di emendamenti invece è piovuta da L’alternativa c’è, il gruppo che racchiude molti dei fuoriusciti dal Movimento grillino che ne hanno presentati ben 1726: “L’obiettivo è quello di costringere la maggioranza a modificare questa riforma iniqua - ha scritto in una nota il senatore Mattia Crucioli - che grazie all’improcedibilità nel giudizio crea una sorta di impunità per tanti imputati, anche accusati di reati gravissimi”. Sempre dall’opposizione, Fratelli d’Italia ne ha presentati 23; il capogruppo a palazzo Madama, Luca Ciriani, ha spiegato all’Adnkronos: “Siamo interessati a un confronto qualificato nel merito, al fine di cercare di limitare i danni peggiori provocati da questa riforma che, per dare un contentino ad ogni partito di questa amplissima maggioranza, ha prodotto soltanto un gran guazzabuglio”. Al termine dei lavori, alla domanda dei giornalisti sull’ingente numero di emendamenti presentati, il presidente della Commissione Giustizia e relatore del provvedimento Andrea Ostellari, ha dichiarato: “Non siamo preoccupati, è già accaduto altre volte. Ora prepareremo il fascicolo degli emendamenti che invieremo per i pareri alle altre Commissioni, in particolare la Bilancio e la Affari costituzionali, dopo di che la prossima settimana saremo pronti per lavorare”. I cronisti hanno chiesto se si ricorrerà a strumenti procedurali per accelerare i tempi: “Non esistono “tagliole” ma esistono le sedute notturne - ha concluso il leghista Ostellari - poi ci sono le ammissibilità”. Sempre in tema di riforme nell’impervio terreno della giustizia, oggi Enrico Costa, deputato di Azione, e Riccardo Magi, deputato di Più Europa chiederanno all’Ufficio di Presidenza della commissione Affari costituzionali della Camera di “riprendere urgentemente l’esame della proposta di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati. Ci aspettiamo il sostegno delle forze politiche (tutte, ad eccezione di Pd e M5s) che il 24 giugno si sono impegnate in questo senso alla manifestazione organizzata dall’Unione delle Camere Penali”. Stesso appello è arrivato dal presidente dei penalisti, Gian Domenico Caiazza: “I 72 mila cittadini che hanno sottoscritto la nostra proposta di riforma costituzionale per la separazione delle carriere in magistratura attendono che riprenda il percorso parlamentare di quel progetto di legge. Auspichiamo che i gruppi parlamentari di FI, FdI, IV e Lega, che preannunciarono il loro impegno in tal senso, insieme ad Azione e +Europa, nel corso della manifestazione delle camere penali, vorranno cogliere questa importante occasione perché anche il nostro Paese scelga l’unico assetto ordinamentale della magistratura idoneo a garantirne forza, credibilità e indipendenza”. Stretta finale sulla riforma del processo civile. Cancellate le preclusioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2021 Ieri in due riunioni tra l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia (a tirare le fila il vicecapo Filippo Danovi, avvocato e docente universitario), i capigruppo di maggioranza nella commissione Giustizia del Senato e le tre relatrici (Anna Rossomando del Pd, Fiammetta Modena di Fi e Julia Unterberger del Svp) sono stati sciolti gli ultimi nodi. Ora si procederà con il voto del testo in commissione, cercando di chiudere i lavori entro la fine della settimana, visto che il provvedimento è calendarizzato per l’Aula martedì prossimo, 14 settembre. Nel merito, il punto di equilibrio raggiunto sembra poter venire incontro alle perplessità avanzate soprattutto da parte dell’avvocatura dopo la presentazione mesi fa degli emendamenti del ministero. Centrale è stato il tema della prima udienza e del sistema di preclusioni e decadenze in una prima fase, previsto per consentire un approdo della controversia davanti all’autorità giudiziaria già in uno stato avanzato di precisazione. Ora quel sistema, contestato dagli avvocati come eccessivamente penalizzante e potenzialmente moltiplicatore di ulteriori frizioni interpretative, è stato rivisto. Nel dettaglio, secondo la bozza in via di ultimazione, sparisce la decadenza per la mancata indicazione nell’atto di citazione dei mezzi di prova dei quali l’attore intende avvalersi e dei documenti in comunicazione; si stabilisce che il convenuto avrà un termine a comparire non inferiore a 120 giorni, e nella comparsa di risposta da depositare entro un termine di almeno 70 giorni prima dell’udienza di comparizione dovrà proporre tutte le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della sua domanda. Quest’ultima previsione, tuttavia, analogamente a quanto previsto per l’attore, non sarà più presidiata dalla decadenza. Scaduto il termine per la costituzione del convenuto, il giudice verificherà la regolarità della notifica dell’atto di citazione, ordinandone eventualmente la rinnovazione. L’attore, almeno 5o giorni prima dell’udienza di comparizione o almeno 10 giorni prima nel caso di abbreviazione di termini, a pena di decadenza potrà proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto e chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo, se l’esigenza nasce dalle difese del convenuto, oltre a precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i mezzi di prova e le produzioni documentali. Al convenuto, di conseguenza, è affidato, per le medesime ragioni un termine di almeno 3o giorni prima dell’udienza per precisazioni e modifiche delle proprie tesi. Entro almeno 15 giorni prima dell’udienza le parti possono replicare alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative e fornire prova contraria. Stralciata poi un’altra delle disposizioni più indigeste all’avvocatura e cioè la previsione che la contumacia del convenuto abbia come conseguenza la non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda. Per quanto riguarda la negoziazione assistita nelle controversie in materia di lavoro, si va verso una valorizzazione della specializzazione, affidandola solo a quegli avvocati in possesso del titolo di giuslavorista. Dovrebbe anche essere inserita la necessità, nel corso della procedura, di una specifica indicazione alle parti della possibilità anche di una conciliazione in sede sindacale. Come promesso dalla ministra Marta Cartabia all’ultimo congresso nazionale forense, sono state cancellate le modifiche alla disciplina della responsabilità aggravata che puntavano a ridurre la discrezionalità del giudice. Basta Mani Pulite o Mafia Capitale: è la fine della giustizia spettacolo di Francesco Grignetti La Stampa, 8 settembre 2021 La legge mette un freno ai pm che battezzano le operazioni con titoli adatti a diventare fiction. Un’epoca sta per finire. Quella delle inchieste penali con i nomi ad effetto. Basta spettacolarizzazione: la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha depositato qualche settimana fa in Parlamento un nuovo Regolamento, da oggi all’esame delle Camere, che vuole dettare regole più stringenti ai magistrati. È un qualcosa che l’Europa impone a tutti i Ventisette Paesi membri, di rafforzare in ogni aspetto la presunzione d’innocenza dei propri cittadini. Ma se nell’ordinamento italiano la presunzione di innocenza è ben presente, non può dirsi lo stesso per gli aspetti mediatici. E qui interviene il Regolamento. Con alcune nuove semplici regole: nelle conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi ai casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, il magistrato non dovrà mai presentare la figura di un indagato o arrestato come di un “colpevole”, e anzi dovrà chiarire in che fase del procedimento ci si trova. Se si è soltanto alle prime battute, si dovrà spiegare chiaramente che una verità giudiziaria ancora non c’è e che si dovrà aspettare l’esito finale. Se poi un indagato o imputato si sentisse leso da qualche atto giudiziario (salvo gli atti del pubblico ministero) che precede una sentenza, perché presentato come colpevole, potrà chiedere di modificarlo tramite il suo avvocato. Ma la rivoluzione culturale targata Cartabia viene all’articolo 3 del Regolamento: “È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Fine di una moda che ha fatto la gioia dei titolisti di giornali. Capostipite dei nomi ad effetto fu senza dubbio l’inchiesta “Pizza Connection”, negli Anni Ottanta. Di là c’erano l’Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani. Di qua, il drappello della polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Assieme, i quattro magistrati smantellarono buona parte della mafia dell’epoca. E furono gli americani a inventarsi quel titolo così evocativo. Per Falcone e Borsellino, invece, era ancora il fascicolo “Abbate Giovanni+706”. Al massimo, i giornalisti lo chiamavano “Maxi-processo”. La lezione americana però piacque molto e negli anni seguenti, sempre più spesso si diede un marchio ai procedimenti. In genere sono le forze di polizia che trovano il titolo, partendo da un dettaglio o una intercettazione. E c’è da dire che chi ha inventato alcuni di questi nomignoli è un genio del marketing. L’esempio più celebre è forse “Mafia Capitale”, sintesi folgorante tra il basso e l’alto, tra la peggiore forma di criminalità e la più illustre delle istituzioni. Ma onore al merito per chi inventò il titolo “Aemilia” sull’infiltrazione della ‘ndrangheta calabrese in Emilia-Romagna, reminiscenze di cultura classica sulla colonizzazione romana in val padana. Oppure per chi ha battezzato “Geenna” un’indagine sulla mafia in Valle d’Aosta, dimostrando una profonda cultura biblica per associare una valle maledetta vicino Gerusalemme con la Valle incontaminata degli stambecchi. “Questa spettacolarizzazione della giustizia - dice il deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera - produce danni immensi a chi finisce nell’ingranaggio. Quando infatti a un’inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all’infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizioni con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo i titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile”. Violante: “L’Alta Corte è un passo avanti per la giustizia, non la vendetta sui magistrati” di Errico Novi Il Dubbio, 8 settembre 2021 Intervista all’ex presidente della Camera. “Positivo che a Cernobbio sia stata ripresa la mia proposta di creare un organismo competente per i ricorsi dei magistrati su nomine e disciplinare. È una delle soluzioni che potrebbero ricostruire di un rapporto sereno fra istituzioni politiche e giudiziarie”. Violante definisce le riforme di Cartabia “espressione di un disegno complessivo: siamo finalmente fuori dalla logica dell’episodio che suggerisce una nuova legge”. Boccia i referendum (“ma il consenso che suscitano non va ignorato”) e sull’allarme di Scarpinato per un “assalto finale alla giustizia” dice: “Coi sospetti reciproci non si va lontano”. “Riportare ordine nei rapporti fra politica e magistratura: è urgente. Ed è possibile, senza che si consumino vendette”. Luciano Violante ne parla a proposito dell’Alta Corte, sua storica proposta rilanciata dal Forum Ambrosetti a Cernobbio. Ma l’ex presidente della Camera risponde, con il proprio appello, innanzitutto alla domanda forse decisiva sul futuro della giustizia: siamo alla resa dei conti del post Mani pulite? Una parte della magistratura, per esempio il pg di Palermo Scarpinato, evoca “un assalto finale della politica per riavere le mani libere”. Vuol dire che il cappio del 1993 soffoca ancora lo slancio riformatore? “Non intendo polemizzare con nessuno”, è la premessa di Violante. “Credo che le preoccupazioni potrebbero avere qualche fondamento. Ma d’altra parte non possiamo vivere in una società amministrata dalla giustizia penale. Perciò bisogna guardare avanti, perché con i sospetti reciproci non si va lontano. È necessario capire insieme cosa è possibile fare per superare la ipertrofia del diritto penale”. Intanto a Cernobbio il Forum Ambrosetti ha rilanciato la proposta avanzata alcuni anni fa da lei, presidente: conferire a un’Alta Corte di giustizia, esterna al Csm, la giurisdizione disciplinare su tutti i magistrati... Ho letto che nella Corte ipotizzata al Forum Ambrosetti i componenti sarebbero nominati dal ministro della Giustizia: sarebbe una soluzione non praticabile. In realtà nella mia ipotesi l’indicazione spetterebbe, per un terzo ciascuno, a tutte le magistrature, al Parlamento e al presidente della Repubblica. Negli ultimi due casi, gli eleggibili dovrebbero vantare gli stessi requisiti necessari per la nomina a giudice costituzionale. E riguarderebbe tutte le magistrature, ordinaria, amministrativa, contabile, tributaria, militare. Con un limite alla quota complessiva dei magistrati? Direi che un organismo del genere non dovrebbe essere composto in prevalenza dai magistrati. Oltretutto, va chiarito che nella mia proposta il procedimento disciplinare sulle toghe resta in carico agli attuali organismi, Csm e Consigli di presidenza delle altre magistrature. All’Alta Corte spetterebbe il giudizio su tutti i ricorsi, in primo e secondo grado, tanto in materia disciplinare quanto in materia amministrativa, come l’assegnazione di incarichi direttivi. Ma dietro riforme e referendum, alcuni magistrati vedono un “assalto finale”. Del referendum le dirò tra un attimo. Sulle riforme va ricordato, innanzitutto, che oggi abbiamo una mole di fattispecie incriminatrici tale da scaricare sul singolo magistrato una responsabilità troppo grande: anziché applicare la norma al caso concreto, il giudice deve cercare di volta in volta quale sia la regola, talmente sterminato è lo spettro dei casi punibili. Dobbiamo depenalizzare? Depenalizzare è un’espressione che non aiuta. Dobbiamo individuare cosa, nel ventunesimo secolo, va ancora penalizzato. E credo debba trattarsi solo delle condotte più gravi. Il resto può essere sanzionato per via amministrativa o con risarcimenti in sede civile. Ecco, la prima, indispensabile riforma è limitare il peso della giustizia penale nella vita dei cittadini e delle imprese. E per slegare il cappio del post Mani pulite? Va tenuta presente una norma costituzionale sottovalutata, l’articolo 54: chi esercita funzioni pubbliche deve farlo con onore e disciplina. Vuol dire che, semplicemente, è necessario stare nelle regole. Vale per tutti: magistrati e politici. E guardi che il Paese ha un assoluto bisogno di affrancarsi dalla polemica spicciola, e di ricostruire un rapporto sereno fra istituzioni politiche e giudiziarie. Ma servirebbe una politica autorevole, per pacificare il sistema: lei lo dice da tempo... A me sembra che i provvedimenti incardinati e proposti dalla ministra Cartabia siano espressione di un disegno complessivo, nel penale come nel civile e, probabilmente a breve, anche riguardo l’ordinamento giudiziario. Siamo finalmente fuori dalla logica occasionale del singolo episodio che suggerisce una nuova legge. Vale anche per le riforme che riguardano i magistrati? Mi pare che ora le proposte guardino a obiettivi importanti per gli italiani. Anche nel sistema della giustizia è necessario mettere ordine. E mettere ordine non può essere considerato come una vendetta sui magistrati. Oltretutto, a proposito di autorevolezza e di quanto accennato sulle proposte della guardasigilli, conta l’autorevolezza complessiva della politica, non quella del singolo leader. Poi terrei a fare un discorso a se stante sul referendum. Prego... L’esistenza stessa del referendum significa che ci sono problemi non risolti. Separare drasticamente la carriera dei pm dal giudicante vuol dire fare del requirente una superpolizia con le garanzie della magistratura. Non mi pare un vantaggio, per i cittadini. Riguardo alla responsabilità civile, vorrei invece notare come i giornalisti vedano nelle richieste di risarcimento del danno una possibile lesione della loro indipendenza: non credono che il discorso valga anche per i magistrati? Non hanno l’impressione che con la responsabilità diretta si attiverebbe un meccanismo intimidatorio nei confronti del giudice? Quindi il suo è un no ai referendum? Però vorrei aggiungere che se un grande numero di cittadini li sottoscrive, vuol dire che c’è la necessità di affrontare il problema. E l’Alta Corte è un modo per affrontarlo? Può essere una delle strade in grado di raccordare la magistratura al sistema costituzionale complessivamente inteso. Così come è necessario alleggerire quel peso della giustizia penale sulla società, oggi insostenibile per gli stessi magistrati. Le ha fatto piacere che al Forum di Cernobbio sia stata ripresa la sua proposta sull’Alta Corte? Mi fa piacere che esca dallo stretto circuito della giustizia. E a proposito, credo che il Forum Ambrosetti possa avere a cuore anche una maggiore specializzazione del giudice penale che si occupa di reati societari, così come assai utile è stata, in ambito civilistico, la specializzazione nei Tribunali delle imprese. L’urgenza credo sia dimostrata da casi come quelli delle accuse ai dirigenti del Monte Paschi e nel processo Eni, in cui la grande distanza fra accusa e giudizio fa riflettere. Prima di inserire l’Alta Corte nel proprio dossier il Forum Ambrosetti l’ha interpellata? No, ma ripeto: che il mondo dell’impresa si interessi della giustizia è significativo. Anche il Pd ha inserito l’Alta Corte nelle proprie proposte sulla giustizia: lo ha fatto dopo averne parlato con lei? Certo, ci siamo sentiti, così come mi hanno chiesto pareri altri partiti. Con gli amici del Pd siamo sempre in contatto. A proposito di giustizia troppo domestica: Cartabia a Cernobbio ha ricordato che conta l’indipendenza del singolo giudice prima che quella dell’ordine giudiziario inteso come corpo. Condivide? Di sicuro man mano che la politica si è indebolita si è assistito, negli anni scorsi, a un processo di corporativizzazione della società, a cui la magistratura non è stata estranea. In questo senso, condivido l’osservazione della ministra. La rivoluzione dell’Ufficio del processo: sentenze “a modello” per tagliare i tempi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2021 Webinar del Ministero sui bandi. Per i neo laureati 1.600 euro al mese ed un ruolo decisivo nella redazione delle minute su indicazione del giudice decisore. L’Ufficio del processo come “il cuore del cambio di paradigma che la giustizia italiana sta compiendo” nell’obiettivo di arrivare a un “servizio più tempestivo”, ma anche a un mutamento del modo di lavorare, con giudice non più solo ma supportato da un team. La ministra della Giustizia Marta Cartabia torna a sottolineare l’importanza dell’Ufficio del processo, in occasione della presentazione ufficiale dei due bandi che, utilizzando le risorse previste dal Pnrr, permetteranno di reclutare 16.500 giovani giuristi con contratti a tempo determinato, con funzione di supporto all’attività dei magistrati. L’occasione è un webinar organizzato dal ministero in collaborazione dell’Agenzia per la coesione territoriale e della Crui, la Conferenza dei rettori delle Università italiane. “È decisivo il rapporto tra sistema giustizia e Università”, dice la ministra che parla di una sinergia nella direzione del cambiamento e si augura che l’incontro con l’Università sia solo “l’inizio di un dialogo che auspico stabile e proficuo”. Sì perché la seconda iniziativa, illustrata nel corso del webinar, riguarda un avviso per un finanziamento di oltre 50 milioni di euro rivolto alle Università che dovranno scandagliare l’attuale funzionamento degli uffici giurisdizionali presentando poi dei progetti organizzativi, in collaborazione con gli uffici giudiziari del territorio, per rendere più efficiente il sistema giustizia. Barbara Fabbrini, Capo del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi del Ministero, ricorda che il bando per l’Ufficio del processo è uscito il 6 agosto scorso per le prime 8171 unità e si chiuderà il 23 di settembre. A seguire i bandi per le 5.400 unità con competenze di carattere tecnico, con prove che si svolgeranno presumibilmente a novembre e ingressi effettivi verso gennaio 2022. Ma lo sforzo è già in corso. “Negli ultimi quattro anni - prosegue Fabbrini - sono state assunte circa 9.000 persone, circa 1/3 del personale amministrativo è di nuova generazione e nei prossimi anni andremo ad assumere personale amministrativo per altre 10.000 unità. A questi vanno aggiunti le assunzioni tempo determinato del PNRR. Potrebbe anche essere uno shock per gli uffici giudiziari, non lo nascondo è una scommessa”. Nell’Ufficio del processo, prosegue, lo stanziamento per il capitale umano passa da 10 milioni 2,2 miliardi. “Non sono più borsisti, sono funzionari pubblici e questo ne cambia completamente le opportunità. Avranno uno stipendio: circa 1.600 euro mensili (43.000 euro gli oneri a carico dello Stato). Seppure a tempo determinato dunque sono pubblici dipendenti, fanno parte della PA e come tali hanno una finalità che non è solo di assistenza al magistrato ma anche relazione con le cancellerie, saranno impegnati sui progetti organizzativi e la massimazione delle sentenze”. Per Andrea Montagni, Dg della direzione Generale dei Magistrati del Ministero, il coinvolgimento delle Università è un passaggio rilevante. “La magistratura italiana - spiega - si offre alle Università e dice studiate i nostri uffici e diteci come siamo messi, e visto l’arretrato non siamo messi bene, non so quante altre amministrazioni lo farebbero”. Perché, spiega, serve un cambio di sistema che non vuol dire buttare a mare quanto fatto fino ad oggi ma passare da un giudice “solitario” e “artigiano” che può arrivare ad un massimo di 200 sentenze l’anno, ad un processo decisionale “corale”. Questo vuol dire che il magistrato potrà decidere 10 cause in una mattinata e poi nella fase di stesura, che ora impegna giornate di lavoro dei magistrati, intervengono i suoi collaboratori: “Il giudice decisore prende la decisione ma la parte costruttiva della motivazione viene affidata ai collaboratori, soprattutto per le cause che presentano minori difficoltà”. “Avremo - prosegue - sentenze più brutte ma l’importante è che siano adeguate a livello motivazionale, anche perché non posso immaginare che poi nel 2023 siano tutte annullate perché poco ‘pittatè “. Per arrivare a questo però, almeno nel civile, “si può immaginare un patto con l’avvocatura e tra livelli di giurisdizione: le Corti di Appello dovranno accontentarsi di sentenze a modello”. “Noi vogliamo delle sentenze su modulistica - perché di questo stiamo parlando - dove il prodotto ha una standardizzazione che fa a cazzotti con il fioretto giurisprudenziale del giudice artigiano e dove il neo laureato possa inserirsi”. Pronto a raccogliere la sfida Ferruccio Resta, Presidente della Conferenza dei Rettori Italiani (Crui): “La riforma della giustizia è un impegno che abbiamo preso con l’Europa e una responsabilità che il sistema universitario nazionale condivide con il Ministero. L’efficienza è possibile, per un verso, attraverso un capitale umano che mette a sistema le proprie capacità, competenze e motivazioni; per l’altro con l’organizzazione anche attraverso strumenti tecnologici e digitali. Questi sono i due elementi chiave dei due bandi: l’Ufficio del processo è un banco di prova importante per far vedere che l’università c’è”. Per Raffaele Piccirillo, Capo di Gabinetto del Ministro: “Ci sarà da stimolare la capacità organizzativa del singolo giudice chiamato a utilizzare le risorse dell’ufficio del processo. Perché non saremo chiamati a rispondere unicamente della capacità di mettere a terra queste 16mila risorse ma della capacità di impiegarle per l’abbattimento dell’arretrato e la riduzione dei tempi dei processi civili e penali”. Gian Luigi Gatta, Consigliere della Ministra per le libere professioni, torna sul problema dell’arretrato e su quello correlato dei tempi della giustizia: “L’Europa ci chiede di ridurre i tempi del 40% nel civile e del 25% nel penale in 5 anni”. “La strategia messa in campo - prosegue - è duplice: da una parte le riforme, quindi gli interventi normativi, dall’altra le misure organizzative e quella dell’ufficio del processo”. “La richiesta che facciamo alle Università, ai dipartimenti e alle cattedre, è quella di far conoscere l’esistenza dei bandi, comunicarlo per esempio agli uffici orientamenti in modo che possa essere diffuso in modo capillare, anche attraverso i social network, per quanto la risposta sia già ottima: le domande sono già molte”. Non solo, prosegue, “l’esistenza di un ufficio del processo con questi numeri e queste dimensioni, è una realtà di cui anche chi fa formazione universitaria deve tenere conto adeguando i propri programmi: chi si laurea in giurisprudenza ed entra nell’ufficio del processo avrà grandi responsabilità e potrà aiutare il magistrato a scrivere un provvedimento. Quindi la formazione deve essere orientata anche ad un taglio pratico, tra i tanti strumenti che ti vengono in mente c’è quello delle legal clinics, che viene anche all’estero”. Altro tema cruciale per Gatta è l’integrazione nel processo giurisdizionale delle competenze dei manager, degli informatici e degli statistici. “Serve un calendario delle udienze in modo da svolgere un processo in modo continuo senza rinvii infiniti, serve un processo consecutivo”. Superando le inefficienze per esempio nella trasmissione dei fascicoli: “A Palermo - conclude -, e i tempi sono nella media, ci vogliono ben 200 giorni per trasmettere un fascicolo dal Tribunale alla Corte di appello nello stesso edificio”. La strada per chi decide di collaborare con la giustizia è tutt’altro che semplice di Angela Corica Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2021 Giuseppe Di Matteo era un bimbo di undici anni quando è stato rapito. Suo padre, Mario Santo Di Matteo, è stato il primo collaboratore di giustizia a confessare il suo ruolo in Cosa Nostra e nella strage di Capaci del 23 maggio 1992, oltre che a indicare i soggetti a vario titolo responsabili. Nonostante suo figlio fosse stato rapito non tornò indietro e Giuseppe, un bambino innocente, è stato assassinato e sciolto nell’acido. Per la mafia i pentiti rappresentano oggi il più grande ostacolo. È grazie a loro se è stato possibile scoprire meccanismi e dinamiche delle varie organizzazioni criminali - non solo italiane, si pensi alla mafia nigeriana - ed è grazie a loro che lo Stato ha potuto infliggere un duro colpo alle mafie. Tuttavia, nonostante sia ben chiaro a tutti quali siano il ruolo e la funzione sociale dei cosiddetti collaboratori di giustizia, ad oggi il sistema di protezione presenta numerose falle, soprattutto per i familiari di chi decide di cambiare strada e denunciare. Nei giorni scorsi a dirlo è stato Luigi Bonaventura, ex mafioso che da 14 anni ha scelto di collaborare con la giustizia. Per la Dda di Catanzaro i suoi familiari sono ancora in pericolo, per questo ha chiesto la proroga del loro programma di protezione. Anche la direzione nazionale antimafia si è espressa allo stesso modo. Ma non la commissione centrale di protezione, che ha revocato il programma per un trasferimento che la moglie di Bonaventura avrebbe rifiutato. Al di là del risultato rispetto a questa vicenda la cui parola fine spetta al Tar, rimangono molti i dubbi su come sia organizzato il sistema di protezione e su quanto sia precaria l’assistenza che lo Stato dà a chi sceglie un’altra vita, dopo aver fatto parte di una organizzazione criminale. La normativa sui collaboratori di giustizia ha subito nel tempo diversi interventi di miglioramento. Ma, evidentemente, non basta, perché a prevalere sono dei meccanismi burocratici lenti e spesso farraginosi che non garantiscono le tutele promesse a chi decide di stare dalla parte dello Stato. In una delle ultime modifiche alla legge sui collaboratori sono state attribuite alle persone ammesse allo speciale programma di protezione nuove generalità, ovvero cognome, nome, indicazione del luogo e data di nascita e degli altri dati sanitari e fiscali. Insieme a queste informazioni è previsto anche il trasferimento delle risultanze del casellario giudiziale alla nuova identità. Si può verificare - e si è verificato - che molti collaboratori abbiano rinunciato al lavoro, anche dopo aver scontato le condanne inflitte, per impedire la diffusione dei precedenti penali e quindi la loro identificazione. Ma poi quale imprenditore o pubblica amministrazione assumerebbe ex mafiosi, terroristi, assassini? Insomma la strada per chi decide di denunciare è tutt’altro che semplice. Poiché una volta fuori dal programma di protezione diventa difficile sopravvivere in mezzo a chi ti giudica e non ti tutela da una parte e chi cerca vendetta dall’altra. In questo limbo ci sono anche i familiari dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Bonaventura spiega bene alcune delle difficoltà: “Ho collaborato con 14 procure ma i miei figli vanno a scuola con il loro nome e cognome originale. In pratica la protezione consiste nel prestito di una casa e di un sussidio che per tre persone adesso è arrivato a 1400 euro. Si dice che questo sussidio sia un contributo o lo stipendio dei pentiti. Non è così. Ci ripaga di tutto quello che non possiamo fare. Ho scontato la mia pena ma adesso io non posso lavorare perché dovrei farlo con il mio nome”. Lo Stato, in pratica, offre una miseria per contribuire al sostegno di due nuclei familiari che hanno subito le conseguenze del suo pentimento, e di un invalido al 100%. Spesso fra i motivi della revoca del programma di protezione ci sono troppe chiacchiere con i giornalisti oppure il fatto che il collaboratore o la sua famiglia non abbiano accettato il trasferimento in una determinata località. Anche se di quella località hanno segnalato la pericolosità. Nelle Marche nel 2018, il giorno di Natale, è stato ammazzato Marcello Bruzzese, fratello del collaboratore di giustizia calabrese Girolamo. È li, in quel territorio, che combatte la sua battaglia Bonaventura. Continua a collaborare con la giustizia senza protezione, con scarsi sussidi (quando arrivano) e con una famiglia - composta da persone senza precedenti - che difficilmente potrà riprendersi la propria vita. In questo modo è lo Stato che perde la sua lotta contro la mafia. Firenze. “Autolesionismo e topi. Così si vive a Sollicciano” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 8 settembre 2021 La direttrice Salute: “Per come è costruito questo carcere ricorda un manicomio”. “Ogni giorno si verificano due gesti di autolesionismo, a volte i topi mordono i detenuti. Il carcere di Sollicciano è inadeguato strutturalmente”. La denuncia arriva da Sandra Rogialli, direttrice salute dei penitenziari fiorentini. Come si vive nel penitenziario fiorentino. “Si vive male - sottolinea Rogialli - Sollicciano è per me completamente associabile al manicomio in quanto “istituzione totale”, dove la vita di chi è dentro è controllata h 24 da altri e c’è poco che possa dipendere da te: per uscire in giardino devi chiedere il permesso, per telefonare a casa devi chiedere il permesso, per lavorare devi avere il permesso. È vero che siamo in carcere, ma nel nord Europa i penitenziari sono pensati in modo diverso: i detenuti vivono in luoghi sorvegliati ma allo stesso tempo dignitosi, con spazi aperti e possibilità di lavorare, cosa limitatissima a Sollicciano ma che invece sarebbe fondamentale per la riabilitazione. Questa diversità architettonica del carcere permette di abbassare la percentuale di recidiva e quindi va a beneficio dell’intera società”. Ecco perché, secondo la dottoressa Rogialli, “il carcere di Sollicciano è inadeguato, soprattutto dal punto di vista strutturale”. E per questo lancia una provocazione: “Potremmo pensare a una struttura come quella di San Salvi per realizzarci un carcere? Sarebbe il luogo ideale, con più palazzine e con tanto spazio all’aperto. E naturalmente con il dovuto sistema di sorveglianza e sicurezza”. A Sollicciano, ogni giorno, ci sono 7 medici di cure primarie, 5 sono responsabili di altrettanti reparti e poi ci sono 2 medici della continuità assistenziale (guardia medica). In si alternano vari specialisti: odontoiatri, infettivologo, dermatologo, oculista, cardiologo. E ancora 4 psichiatri e 4 psicologi, nonché un servizio Serd: “Tutte persone - dice Rogialli - che lavorano con grande dedizione”. Quotidianamente compiono interventi di ogni genere: dai problemi cardiaci a patologie croniche come il diabete. Grande attenzione è riservata agli spazi Covid: “I detenuti in ingresso vengono messi in quarantena alla fine della quale c’è il tampone. In caso di positività ci sono apposite celle”. E poi ci sono quei disagi che raccontano la fatiscenza del carcere: “Alcuni detenuti si presentano ai nostri medici con punture di cimici, l’altro giorno è arrivato uno che era stato morso da un topo. La disinfestazione viene fatta, ma poi questi animali tornano”. E ancora, i tanti detenuti con problemi di calo dell’umore che chiedono psicofarmaci. “Spesso l’utilizzo è l’unico modo che ritengono di avere per non impazzire”. Per alcuni reclusi talvolta diventa quasi impossibile vivere tra le sbarre: “Ci sono persone incompatibili con la detenzione perché malate, tra queste anche quelle che presentano forme gravi di disperazione. Sono persone che puntualmente segnaliamo al magistrato di sorveglianza, ma non sempre è possibile individuare la pena alternativa e può succedere che il detenuto resti in carcere”. Milano. Screening diabetologico nelle carceri, positivo oltre il 20% dei detenuti quotidianosanita.it, 8 settembre 2021 Pubblicati i risultati dell’iniziativa promossa a maggio dal Rotary Club, in collaborazione con Vision + Onlus, Unamsi e Cri, su circa 200 i detenuti della Casa Circondariale di Milano Opera e nella Casa Circondariale “Francesco Di Cataldo” di Milano San Vittore. Effettuati anche screening oculistici: problemi alla vista per 130 detenuti. Il 23% dei detenuti della Casa Circondariale di Milano Opera e nella Casa Circondariale “Francesco Di Cataldo” di Milano San Vittore sottoposto al test di screening per il diabete è risultato positivo, 11 persone sono risultate con valori di HbA1c superiori all’8.0%, valori che rappresentano un segnale di rischio più elevato di sviluppo delle complicanze del diabete (oculari, renali e cardiovascolari). Numerosi anche i problemi alla vista: il 56% dei detenuti sottoposti a screening oftalmologico (130 totali di cui 99 maschi e 31 femmine) è stato inviato ad una visita oculistica di controllo per presenza di un deficit visivo non adeguatamente corretto (quale miopia, astigmatismo e ipermetropia) o per presenza di patologie organiche che, se non trattate, possono dare luogo a importante riduzione della funzione visiva. Sonoi risultati dell’iniziativa promossa a maggio dal Rotary Club, in collaborazione con Vision + Onlus, Unamsi e Cri, su 216 detenuti. In particolare, per quanto attiene lo screening oftalmologico, le più frequenti alterazioni visive nelle persone esaminate sono risultate essere i vizi di refrazione: l’analisi dei dati ha evidenziato la presenza di miopia nel 12% dei soggetti, astigmatismo nel 9% e ipermetropia nell’11% dei casi. È stata riscontrata una familiarità per diabete nel 36% dei casi, per glaucoma nell’1%, per cheratocono nello 0% e per maculopatia nell’1%. In merito allo screening diabetologico, i soggetti con HbA1c patologici (considerando un valore > 6%) sono risultati complessivamente il 20.2% (41/203); 6 pazienti avevano un valore uguale al 6.0% (valore considerato border line). Vanno poi considerati i soggetti che si trovano con valori compresi tra 5.4 e 5.9% (pari al 24.6%) considerati in una fase di possibile pre-diabete; condizione che potrebbe sfociare in un diabete conclamato. In questa condizione si sono ritrovati un totale di 50 soggetti, rispettivamente 39 maschi e 11 femmine. Un dato rilevante è stato quello del diabete non noto; complessivamente i soggetti non a conoscenza della verosimile presenza della sindrome sono risultati essere complessivamente 12, con una percentuale rispetto al totale di circa il 6%. Parma. In carcere da 44 anni, con gravissime patologie e senza speranza di uscire di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2021 Si tratta di Domenico Papalia, ex boss della ‘ndrangheta recluso a Parma. Ultimamente citato nel processo trattativa. L’Associazione Yairaiha Onlus ha segnalato il peggioramento delle sue condizioni di salute. È gravemente malato, ha un tumore, ed è in carcere ininterrottamente da mezzo secolo, recluso per un lungo periodo anche al 41 bis ed è un ergastolano ostativo. Durante questi anni ha avuto un percorso di ravvedimento, tutte le relazioni comportamentali danno atto del suo miglioramento e della rottura con logiche criminali. Eppure, è lì, senza prospettiva di uscire. Nemmeno per curarsi. Domenico Papalia è stato citato durante il processo trattativa da un pentito calabrese - Parliamo di Domenico Papalia, ex boss della ‘ndrangheta. Un nome ultimamente citato durante il processo trattativa Stato-mafia nella deposizione di un pentito calabrese. Il racconto di una vecchia tragica vicenda accaduta più di 30 anni fa. Papalia salì agli onori della cronaca per aver dato ordine, assieme al fratello Antonio, di uccidere Umberto Mormile, educatore in servizio al carcere di Parma e poi in quello di Opera. Ucciso con sei colpi di pistola, nell’aprile 1990, all’età di trentotto anni, perché - così è risultato processualmente - si rifiutò di fargli una relazione compiacente. Ma siamo il Paese che non si accontenta dei fatti, e anche in quel caso nasce il complotto dei servizi segreti. Ma questa è un’altra storia. Anche se sono proprio queste dietrologie - oramai diventate delle vere e proprie sovrastrutture - che tengono in ostaggio qualsiasi spinta riformatrice, qualsiasi grazia, qualsiasi atto volto al rispetto dei diritti umani e, soprattutto, dei principi costituzionali. Vive in carcere dal 1977 - Dal 1977 Domenico Papalia vive dietro le sbarre. Fu condannato all’ergastolo nel 1983, per l’omicidio del boss Totò D’Agostino, avvenuto a Roma il 2 novembre 1976. Dopo quarantun anni di detenzione, per scontare una serie di condanne legate al contesto mafioso, nel 2017 venne assolto dalla Corte d’appello di Perugia per l’omicidio D’Agostino. Una perizia balistica dimostrò che non poteva essere lui, insieme alla vittima al momento dell’agguato, ad aver sparato a bruciapelo contro il boss di Canolo. Secondo Elisabetta Zamparutti dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, Papalia testimonia la nonviolenza, anima e incarna il suo cambiamento nei laboratori “Spes contra spem” nel carcere di Parma, nei quali continua la sua opera di conversione, “fa emergere una coscienza totalmente orientata ai valori umani, al bene, all’amore da offrire come arma di riscatto”. L’Associazione Yairaiha Onlus ha segnalato il suo peggioramento - Ma la situazione di salute è peggiorata. A denunciarlo è l’Associazione Yairaiha Onlus, inviando una segnalazione alle autorità competenti. “Siamo stati contattati dai familiari del sig. Domenico Papalia - si legge nella missiva dell’associazione -, attualmente detenuto presso la CR di Parma nella sezione CDT perché preoccupati per le gravissime condizioni di salute in cui versa. Il sig. Papalia oltre ad essere affetto da una serie di patologie croniche è affetto da carcinoma prostatico con estenzioni extraprostatiche del tumore”. L’associazione Yairaiha, sottolinea che diverse istanze presentate per la sostituzione della detenzione con una misura adeguata alle sue condizioni di salute sono state rigettate perché, stando alla perizia del Ctu, le sue condizioni sarebbero compatibili con la detenzione inframuraria. Eppure di diverso parere sono i medici ospedalieri che lo hanno visitato anche perché, al più presto, dovrà subire intervento chirurgico e iniziare cicli di chemioterapia e radioterapia. “Il sig. Papalia lamenta la carenza delle terapie prescritte dall’oncologo dell’ospedale di Parma; immaginiamo quindi come può essere seguita una terapia oncologica all’interno di una struttura carceraria che già presenta notevoli criticità nel sostenere l’elevato numero di detenuti anziani e gravemente ammalati che ha in carico”, prosegue la lettera dell’associazione. La Corte costituzionale e la Cedu si sono espresse su ergastolo ostativo e diritto alla salute - Alla luce della recente pronuncia della Corte Costituzionale in materia di ergastolo ostativo, nonché alle diverse condanne della Corte europea per violazione del diritto alla salute, Yairaiha Onlus ritiene che a Domenico Papalia “possa, e debba, essere concessa la sostituzione della pena per motivi di salute se non, addirittura, accolta, finalmente, la domanda di grazia giacente nell’ufficio grazie”. Infine, la lettera indirizzata alle autorità conclude: “Uno Stato che si ostina a voler tenere in carcere una persona in simili condizioni di salute, e dopo 44 anni di carcere, non sta facendo Giustizia e non sta nemmeno rispettando la Costituzione. Certi che il caso del sig. Papalia verrà debitamente e urgentemente valutato”. Trani. La tragica fine di Fedele Bizzocca, malato e morto in cella: “Il Dap deve rispondere” di Angela Stella Il Riformista, 8 settembre 2021 Sarà una autopsia a stabilire le cause della morte di Fedele Bizzoca, 41enne di Barletta, deceduto nel pomeriggio di venerdì 3 settembre nella cella del carcere di Trani in cui era detenuto dal gennaio di quest’anno per spaccio di stupefacenti. Si tratterebbe di un decesso per arresto cardiocircolatorio ma bisognerà attendere per conoscere i dettagli: il pm della Procura di Trani Giovanni Lucio Vaira ha infatti aperto un fascicolo per omicidio colposo e disposto l’esame autoptico per sciogliere ogni dubbio e individuare eventuali responsabili. Il caso è finito sotto la lente di ingrandimento anche del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale che si costituirà parte offesa nell’eventuale processo. “La morte di Fedele Bizzoca - scrive il collegio del Garante - pone seri interrogativi all’Amministrazione penitenziaria, ai servizi socio-sanitari e alle Autorità giudiziarie: interrogativi che richiedono risposte concrete e indifferibili”. L’uomo soffriva di una grave patologia psico-fisica: “l’incompatibilità con la detenzione in carcere era stata valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità sanitarie del carcere e dalla stessa Direzione”. Eppure nulla era cambiato: allora il Garante nazionale è intervenuto a verificare le condizioni di vita detentiva di Bizzoca, su segnalazione del difensore e della Garante del comune di Trani, Elisabetta de Robertis, nel corso della visita regionale condotta in Puglia nello scorso mese di luglio, incontrandolo personalmente all’interno della stanza di pernottamento in cui era collocato. Tutte le circostanze riscontrate sono state portate all’attenzione della Magistratura di Sorveglianza di Bari, con la quale il Collegio del Garante nazionale ha tenuto un incontro al termine della missione. “Si è dovuta riscontrare l’assoluta inadeguatezza di tale collocazione - si legge ancora nella nota del garante - in una sezione a gestione esclusivamente penitenziaria in cui non era predisposta alcuna assistenza sanitaria adeguata alla cura e al trattamento delle particolari condizioni di sofferenza della persona. Tutto era soltanto rimesso, insieme con la gestione complessiva dei bisogni quotidiani, al solo impegno degli agenti della Polizia penitenziaria”. Come aggiunge Emilia Rossi al Riformista, “l’uomo giaceva su un materasso lurido, e i servizi sanitari erano sporchissimi. Le condizioni materiali e igieniche in cui lo si è ritrovato, si presentavano molto oltre ogni parametro di minima decenza e salubrità. E restava in quella cella - dove non sarebbe dovuto stare - per tutto il giorno”. La sezione di appartenenza, inoltre, era la nota “Sezione Blu” di cui era stata definita la chiusura nel mese di novembre 2020: “Il Garante nazionale ha dovuto constatare non soltanto la sua riattivazione, ma anche l’improprio utilizzo per la gestione di casi problematici, in particolare di natura psichiatrica”. Quella sezione, ci spiega la garante cittadina Elisabetta De Robertis, “è stata chiusa dopo 45 anni perché inadeguata sotto il profilo strutturale: celle molto piccole e bagni a vista, ad esempio. Un tempo era destinata ai detenuti di massima sicurezza. La sezione era stata riaperta durante l’emergenza pandemica per farvi alloggiare temporaneamente alcuni detenuti. Ad esempio chi era in attesa dell’esito di un tampone. Invece Bizzoca vi è sicuramente rimasto più di un mese”. Fedele Bizzoca era in attesa di entrare nella Residenza socio-sanitaria della quale era stata reperita la disponibilità dal mese di luglio: attesa determinata dalla ricerca di un soggetto che potesse far fronte al pagamento della retta. Infatti, come ci spiega sempre Emilia Rossi del Collegio nazionale del Garante, “bisogna fare attenzione: Bizzoca non era destinato a una Rems, in quanto pienamente capace di intendere e volere. Ma appunto ad una Residenza socio-sanitaria di cui si fa carico delle spese la Asl per il 50%, mentre la restante parte tocca al detenuto. Ma in questo caso l’uomo non disponeva della somma necessaria. Questo è il sintomo di una falla del sistema: chi si fa carico delle persone fragili e povere? Dov’è la rete dei servizi sociali che dovrebbe prendere in carico queste difficili situazioni? Bizzoca, o chi come lui, sarebbe dovuto essere assegnato a strutture adeguate: o a gestione sanitaria come le articolazioni per la tutela della sanità mentale, o in sezioni integrate da un adeguato servizio sanitario”. Napoli. Costretti a restare a Poggioreale per la mancanza di braccialetti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2021 Il Garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, denuncia le distorsioni del sistema per due casi di detenuti a Poggioreale. Durante una delle visite effettuate la scorsa settimana presso l’Istituto penitenziario di Poggioreale, il Garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, denuncia le distorsioni del sistema giustizia per due casi di detenuti che ha avuto modo di incontrare ieri al Reparto San Paolo. Dal 22 luglio dichiarato incompatibile con il carcere gli sono stati concessi gli arresti domiciliari - Il primo caso. Fichera M. di 43 anni, nato a Catania, è in carcere, appellante, per reati associati al 416 bis, attualmente ristretto nel centro clinico, reparto San Paolo, poiché affetto da una grave forma di discopatia lombare, cardiopatia ipertensiva e altro. Dal 22 luglio viene dichiarato dal tribunale di Catania incompatibile con il sistema detentivo, e gli sono stati concessi gli arresti domiciliari con il dispositivo del braccialetto elettronico che attualmente non è disponibile, impedendo l’attuazione del provvedimento. “Contribuisce a rendere la situazione ancor più paradossale - sottolinea il Garante Ciambriello - il fatto che il suddetto detenuto, dal marzo 2021 non riesce ad accedere ai luoghi in cui si effettua il passeggio a causa della sua ridotta motilità”. “Quindi da 42 giorni questa persona per colpa delle farraginose e infinite procedure, che pur avendo fatto una gara per i braccialetti, attualmente si ha difficoltà a reperirli. Ho già denunciato più volte questa anomalia tutta italiana. In questo anno di Covid diversi magistrati anche campani, si sono avvalsi dell’applicazione di questo strumento per gli arresti e per la detenzione domiciliare. Quest’inspiegabile ritardo, che tanto somiglia ad un “bluff”, finisce inevitabilmente per provocare un surplus di sofferenza che rappresenta una doppia pena per ristretti”, così denuncia il Garante regionale. Ha 84 anni e giace inerme nel proprio letto - Il secondo caso è rappresentato dalla storia di Marrandino G., 84 anni, nato a Salerno e accusato di usura. Quest’ultimo, come ha potuto constatare il Garante Ciambriello, giace inerme nel proprio letto nel centro clinico interno all’Istituto di Poggioreale, affetto da vasculopatia cerebrale cronica, insufficienza renale, e reduce da un’operazione al femore all’Ospedale Cardarelli in seguito a una caduta, attualmente assistito solo da un piantone in quanto assolutamente non autonomo. “Nella piena consapevolezza che la giustizia debba fare il suo corso nell’accertamento delle responsabilità del detenuto e per le gravi accuse, ritengo che a 84 anni, con un tale quadro clinico, sia necessario ricorrere agli arresti domiciliari con braccialetto, o l’arresto presso una struttura sanitaria che consenta di prestare le cure adeguate a un soggetto così anziano per cui anche la vicinanza dei familiari in grado di poterlo assistere garantisce Il diritto alla tutela della salute e alla dignità. Ritengo infatti questi aspetti prioritari rispetto alle sirene populiste della sicurezza”, così conclude Samuele Ciambriello su entrambe le vicende. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Allarme tubercolosi nel carcere cronachedi.it, 8 settembre 2021 La Garante Belcuore: “Mi hanno riferito di un presunto caso, il detenuto è stato isolato”. Manca lo psichiatra: “È gravissimo per un penitenziario con mille persone, così si aggravano i problemi nel reparto Danubio”. Problemi e criticità nella casa circondariale “Uccella”. A sottolineare la grave situazione all’interno della struttura detentiva è il Garante provinciale dei detenuti Emanuela Belcuore che nella giornata di domenica ha effettuato una visita nel penitenziario per i colloqui. Diverse le criticità registrate, soprattutto nei padiglioni Nilo e Danubio. In quest’ultimo c’è anche un presunto caso di tubercolosi. “Mi è stato riferito - spiega la Belcuore - della condizione di questo detenuto che viene tenuto chiuso in cella tutto il giorno perché non può uscire a passeggio per precauzione in quanto viene tenuto lontano dagli altri ma poiché ci sono i lavoranti oppure i detenuti a passeggio lui non può mai uscire e questo peggiora ancora di più la sua condizione”. Poi c’è la situazione di disagio che sta vivendo un detenuto operato di recente e munito di una sacca raccogli-liquidi: “Si è sfogato perché c’è una carenza di sacche che occorrono al detenuto e quindi si trova con questa sacca che gli posizionano sulla pancia e mi ha detto ‘un altro po’ mi mettono la busta della spazzatura perché non ci sono le sacche”. La problematica più grave riguarda però la mancanza di uno psichiatra: “Il reparto Danubio presenta molti casi difficili e la mancanza di una figura fondamentale come lo psichiatra rende difficile la gestione del padiglione, favorendo anche situazione di pericolo e di autolesionismo da parte dei detenuti che hanno bisogno di sostegno, considerando la condizione in cui si trovano. La mancanza di uno psichiatra in una struttura con mille detenuti è gravissima”. Gorizia. Riqualificata, la Sala polivalente del carcere sarà un vero e proprio luogo di cultura friulisera.it, 8 settembre 2021 Favorire il reinserimento sociale di chi è in carcere attraverso il lavoro perché, come ricordava l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, “il detenuto che lavora e che viene formato ha un livello di recidiva molto basso ed è molto probabile che non ritornerà a delinquere” è l’obiettivo delle varie attività formative che in questi anni si sono sviluppate all’interno del carcere di Gorizia nell’ambito del progetto “la città entra in carcere e il carcere entra in città”. Dopo gli interventi di ristrutturazione della Cappellina che aveva subito grossi danni dal terremoto del 1976 è oggi la volta della Sala Polivalente, ambiente che il gruppo di lavoro guidato dal prof. Steven Stergar ha pensato di riqualificare come vero e proprio luogo di cultura dove i detenuti possano scambiare momenti di incontro con il territorio con manifestazioni di teatro, concerti, cinema, conferenze mostre e altro. “Una sala - come scrive don Alberto De Nadai - riempita di persone diverse che rappresentano l’umanità della giustizia, dell’accoglienza, della pace e della fratellanza”. Proprio ai fini della realizzazione di questo progetto si è dato avvio alla costruzione di un palco sopraelevato che consentirà lo sviluppo delle varie attività artistiche e culturali. Il palco progettato dagli architetti Visintin e Bragutti e costruito dagli stessi detenuti è stato completato nel novembre dello scorso anno e sarà inaugurato sabato 11 settembre, alle ore 14.00, con un concerto del gruppo giovanile Freevoices dell’Associazione InCanto di Capriva del Friuli. Il concerto, che si svolge con il contributo Della Fondazione Carigo e della Cassa Rurale del FVG, vuole essere un momento di ringraziamento a quanti hanno contribuito alla realizzazione dell’opera oltre che segnare un ulteriore occasione di incontro tra la città e la realtà del carcere. Non nuovo a iniziative di alto valore sociale (costante la sua presenza al Premio Regionale della Solidarietà) il complesso vocale Freevoices diretto da Manuela Marussi, vanta numerosi premi e riconoscimenti in ambito internazionale e proporrà all’ascolto il meglio del suo repertorio riprendendo in tal modo, dopo il lungo periodo del lockdown, la propria attività musicale in ambito provinciale. Al pianoforte il M.o Gianni Del Zotto arrangiatore delle musiche, alle percussioni Francesco Pandolfo, al basso elettrico Alessandro Toneguzzo, alle chitarre Alberto Corredig, al flauto Silvia De Savorgnani. Roma. Il Papa dona 15mila gelati ai detenuti di Regina Coeli e Rebibbia Avvenire, 8 settembre 2021 In questi giorni, l’Elemosiniere del Papa, cardinale Konrad Krajewski, ha consegnato 15mila gelati ai detenuti del carcere di Regina Coeli e a quelli di Rebibbia. Lo comunica la stessa Elemosineria Apostolica sottolineando che l’istituzione nei mesi estivi “non è andata in vacanza”, dedicandosi, tra le altre cose, a due delle sette opere di misericordia: visitare i carcerati e consolare gli afflitti. Nella nota della stessa Elemosineria Apostolica, “il braccio caritativo del Papa” viene sottolineato che in particolare in questi giorni, l’Elemosiniere, il cardinale Konrad Krajewski, “ha consegnato 15mila gelati ai detenuti del Carcere di Regina Coeli e a quelli di Rebibbia” e inoltre “come ogni anno, piccoli gruppi di persone senza dimora oppure ospitati nei dormitori sono stati portati al mare o al lago, presso Castel Gandolfo, per un pomeriggio di relax e una cena in pizzeria”. Oltre agli aiuti che regolarmente vengono forniti attraverso i Cappellani delle carceri, l’Elemosineria Apostolica ha quindi compiuto questi piccoli gesti evangelici per aiutare e dare la speranza a migliaia di persone che si trovano nelle case circondariali di Roma con un’attenzione particolare proprio nei mesi estivi, quando tante mense e strutture caritative devono limitare le proprie attività. Non sono state certamente dimenticate neanche le popolazioni più povere di altre nazioni, le quali, attraverso la segnalazione e la mediazione dei Nunzi Apostolici, ricevono farmaci, respiratori polmonari e materiale sanitario spediti direttamente dal Vaticano mediante il corriere diplomatico della Santa Sede. Nel solo mese di agosto, ad esempio, continua la nota dell’Elemosineria Apostolica, è stato acquistato un tomografo per il Madagascar, del valore di circa 600.000 dollari, ed è stata conclusa la preparazione di ambulatori medici, ristrutturati o costruiti di nuovo, per quasi 2.000.000 di euro, in tre Paesi tra i più poveri dell’Africa. Napoli. I campioni dell’Isl di nuoto in visita ai giovani carcerati di Nisida di Stefano Arcobelli Gazzetta dello Sport, 8 settembre 2021 Un giorno di riposo utilizzato proprio bene, a fine di bene. I campioni dell’International Swimming League, impegnati cioè nella Champions del nuoto a Napoli per la prima fase sino a fine settembre, hanno fatto una missione speciale: incontrare i ragazzi del carcere di Nisida. La delegazione del team più azzurro, gli Aqua Centurions, hanno vissuto una giornata davvero diversa scambiandosi esperienze, storie di vita, percorsi di formazione. “Due mondi apparentemente diversi che abbiamo voluto mettere in contatto per far capire ai ragazzi cosa significa spirito di sacrificio. Il vero valore è la capacità di relazione, il dialogo, il ritrovarsi attraverso percorsi che hanno tanto da dirsi” ha detto il direttore del carcere minorile di Nisida, Gianluca Guida al termine di una visita che è andata oltre gli schemi normali. “È stato come un incontro tra ragazzi ed è stato duro abbracciarci quando ci siamo salutati” il pensiero di Nicolò Martinenghi che di anni ne ha 22 proprio come qualche ospite della casa circondariale minorile napoletana. “È sicuramente una visita che ha dato più a noi che a loro - prosegue - abbiamo visto dei ragazzi di cui spesso sentiamo parlare che hanno una grande voglia di riscatto sociale. Lo sport può darglielo. La cosa importante è che si crei un dopo Nisida. Quando andranno via di qui. Con tutte le esperienze fatte e con quanto hanno imparato molti di loro ci hanno manifestato la voglia di cambiare passo. Bisogna accompagnarli in questo percorso”. Una giornata, per otto ragazzi dell’istituto napoletano, passata tra il mare di porto Paone e la mensa dello storico don Peppino. Fianco a fianco ora in acqua ad imparare i segreti del dorso con Simone Sabbioni, più volte medagliato mondiale, quelli dello stile libero di Alessandro Miressi, argento e bronzo ai Giochi di Tokyo, quelli della rana di Nicolò Martinenghi, anch’egli due volte bronzo in Giappone. “Devo dire la verità che in acqua se la cavano bene - il pensiero di Miressi - ma è stato soprattutto bello interagire con loro. In fondo siamo coetanei”. Per Simone Sabbioni “abbiamo capito che tutti hanno una grande voglia di riscatto e la cosa importante è non lasciarli soli”. A guidare la pattuglia di Aqua centurions Domenico Fioravanti (il general manager e biolimpionico azzurro) e Andrea Beccari. “Era importante - dicono - una relazione del genere. Tanto per noi quanto per loro. Noi siamo fortunati perché viviamo in contesti anche agiati e spesso dimentichiamo quello che c’è attorno. Mi ha fatto piacere vedere che alcuni hanno anche seguito le olimpiadi. Significa che siamo di esempio per molti. “International Swimming League ha voluto creare questa relazione perché crede fermamente che questa tappa napoletana non è soltanto nuoto, ma anche l’opportunità di conoscere la città in tutti suoi aspetti, da quelli sportivi a quelli ludici e turistici, a quelli sociali e questa è solo la prima di una serie di iniziative che abbiamo in programma. Oggi tutti noi abbiamo imparato molto e sono orgoglioso di avere in Isl ragazzi come Niccolò - Alessandro e Simone” le parole di Andrea di Nino, manager di Isl e ideatore dell’incontro. E sul belvedere arriva anche una promessa: i ragazzi di Nisida andranno alla piscina Scandone per tifare i loro nuovi beniamini con è quali vi è stata subito una naturale empatia. “Ariaferma”, la vita in carcere nello spazio della parola di Cristina Piccino Il Manifesto, 8 settembre 2021 “Ariaferma”, una sola parola come il respiro inghiottito in gola. Si chiama così il nuovo film di Lenoardo Di Costanzo presentato a Venezia fuori concorso (e in sala il 14 ottobre) che conferma il grande talento di questo regista il cui gesto cinematografico porta in sé, a ogni nuova prova, i passaggi di cui è composto per reinventarli una volta in più. Non si tratta (non solo) di “generi”, il documentario che è stato il suo primo terreno di confronto col racconto del mondo, e la “finzione”, queste divisioni di forma non appartengono alle sue opere (L’intervallo, 2012; L’intrusa, 2017, il primo ha debuttato a Venezia, il secondo alla Quinzaine di Cannes): è questione di messinscena, di parole, di movimento, di una “giusta distanza” in cui non servono passaggi spettacolari né esibizione del gesto cinematografico: tutto si gioca lungo le traiettorie degli sguardi, nella fisicità millimetrata che allena ogni muscolo e nervo, tra le geometrie degli spazi: un giardino in L’intervallo, un cortile in L’intrusa. QUI SIAMO dentro al carcere di Mortana, intorno un paesaggio della Sardegna aspro e bello, invisibile alle celle, gli universi che si scrutano l’uno nell’altro sono interamente maschili con l’eccezione della direttrice del carcere che esce però quasi subito di scena. Hanno deciso di chiuderlo, gli agenti festeggiano, finalmente non dovranno più andare così lontano. Ma all’improvviso il loro futuro cambia: un problema burocratico costringe a rimandare il trasferimento di un piccolo numero di detenuti che nell’attesa di una nuova assegnazione rimarranno lì, e con loro alcuni poliziotti: due gruppi di uomini entrambi imprigionati seppure con motivazioni e ruoli opposti. “L’ordine di trasferimento può arrivare da un momento all’altro” ripete Gaetano, l’ispettore che è stato incaricato del comando. Di fronte a lui, a rappresentare i dodici detenuti c’è don Carmine Lagioia, capo indiscusso lì dentro, probabilmente camorrista (anche se di nessuno si dicono i reati che lo hanno condotto in cella) a fine pena, per questo non sembra interessato agli scontri pesanti, a sobillare rivolte - se non a una protesta su ciò che non si può davvero sopportare come il cibo cattivo, lo stesso che mangiano i poliziotti, portato da un catering per supplire la chiusura delle cucine. Le due parti si osservano con diffidenza, gli agenti hanno paura, mentre giorno dopo giorno la certezza di una soluzione rapida, che ha persino sospeso la “normalità” quotidiana - le visite, la cucina - si allontana: il tempo cola e insieme si immobilizza. Da queste premesse la scommessa del regista è quella di un movimento che “sorprenda” il teatro in cui avviene, e quanto vi rimanda. Ariaferma non è un film “carcerario” pure se del carcere restituisce il sentimento di costrizione che gli appartiene lavorando sulla profondità, senza l’enfasi o le convenzioni che porta in sé il soggetto “a tema”: l’intuizione del regista è spostare sempre un po’ obliquamente la propria narrazione grazie a una scrittura precisa sia nella sceneggiatura - scritta insieme a Valia Santella e a Bruno Oliviero - che sul piano cinematografico. Il punto di partenza dunque anche per parlare di carcere sono le due figure che lo incarnano da una diversa ma comune prospettiva: il detenuto don Carmine e l’ispettore Gaeatano, rispettivamente Silvio Orlando e Toni Servillo in un magnifico duetto in sottrazione, che è la cifra di un film nel quale si afferma ugualmente la dimensione corale - grazie anche a un cast in cui troviamo tra gli altri Salvatore Striano, Fabrizio Ferracane, Roberto De Francesco, e molti magnifici attori non professionisti. Queste figure disegnano una geografia umana che oppone scontenti, irrequietezze, insoddisfazioni, pregiudizi, e non semplicemente di una parte verso l’altra ma anche tra di loro, negli agenti c’è chi vorrebbe il “pugno di ferro” poco convinto o preoccupato delle scelte di mediazione dell’ispettore, mentre i reclusi emarginano un anziano che si intuisce ha commesso abusi contro i bambini. E poi c’è quel ragazzo spaesato più di tutti (il bravo Pietro Giuliano) arrivato lì con una vita disgraziata e un crimine commesso per avventatezza di cui sente la colpa con dolore. Quando il cibo cattivo diviene intollerabile scatenando uno sciopero della fame e proteste che potrebbero degenerare, l’ispettore accetta la proposta di don Gaetano, sarà lui a cucinare mentre l’altro lo sorveglia. Nella cucina con i coltelli in bella vista la tensione fluisce in qualsiasi gesto: non accade nulla lì, succede tutto altrove perché quel confronto, la presa di parola che rimodula le relazioni, seppure in un stato eccezionale, è umano e politico, ci parla delle casualità della vita, delle scelte, delle esperienze comuni anche a chi, come i due uomini, ora è su sponde diverse. E si fa racconto morale, che interroga la vita nel suo svolgersi, e una realtà che appare assurda. Mentre noi spettatori ci aspettiamo a ogni istante che esploda il caos, la regia di Di Costanzo (che ritrova i suoi “complici” abituali, Carlotta Cristiani al montaggio, Luca Bigazzi alla fotografia) lo ha già fatto avvenire in quei dialoghi, nei gesti pacati, nei passaggi che superano - mantenendo le gerarchie - la linea della separazione per inventare anche solo un istante uno spazio comune. Che è quello di una storia lontana, di una diversa consapevolezza dell’altro, della cura, dell’ascolto; qualcosa che riguarda il nostro tempo non solo nella reclusione. “Godot si è fermato a San Vittore”, libro per raccontare il carcere in un altro modo legnanonews.com, 8 settembre 2021 Nel racconto i detenuti, mettendosi in gioco nel Laboratorio Teatrale, hanno cambiato il proprio sguardo, reinterpretando il proprio vissuto. Un libro che narra una esperienza di docenza in carcere, come insegnante volontaria di Teatroalla Casa Circondariale di San Vittore. “Godot si è fermato a San Vittore” è firmato da Alessandra D’Agostino, una mental coach, autrice, drammaturga e regista teatrale milanese. “Ci sono storie che nascono da promesse fatte e, ora, mantenute. Come questa, che narra del mio viaggio all’interno del Raggio Sesto Secondo della Casa Circondariale di San Vittore, nei ristretti abitati dai Sex Offenders - spiega l’autrice. Attraverso questo viaggio di sillabe ho deciso di raccontare il carcere in un altro modo. Ovvero dei miei allievi detenuti che, mettendosi in gioco nel mio Laboratorio Teatrale, hanno cambiato il proprio sguard0, reinterpretando il proprio vissuto. Con questo viaggio, che per me è stato ed è ancora un onore e un privilegio, ho la presunzione di non seppellire nella dimenticanza, ma di conferire muova vita alla memoria di quei giorni, che per me furono e restano straordinari”. The tree factory, la casa editrice, fa parte della Cooperativa sociale Pollicino di Ivrea. La produzione è limitata alla pubblicazione di volumi tattili per ipovedenti e non vedenti, sotto il nome di “Albero della speranza” e di libri di narrativa e saggistica sotto il nome di The tree factory. La cooperativa è da sempre sensibile ai temi dell’emarginazione e dei diritti e con questo testo, leggiamo in una nota, “possiamo rendere onore e rispetto per quella moltitudine di persone costrette a contare i giorni che li separano dalla vita vissuta e non costretta. “Non voglio farne parte” sarebbe dovuto essere il titolo di quest’opera e, tutto sommato, sarebbe stato un bel titolo, ma alla fine abbiamo optato per “Godot si è fermato a San Vittore”. Molto più evocativo e suggestivo questa seconda scelta, che rende più esplicito ed evidente la condizione di chi è costretto a sperare auspicando che ci siano sempre nuove stazioni ad attenderlo”. Per acquistare il libro: info@cooperativapollicino.it. Il paradosso della giustizia di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 8 settembre 2021 “Fare giustizia”, di Giuseppe Pignatone (Laterza, pagg. 192, euro 18). “La giustizia è una cosa divina, peccato che sia affidata agli uomini”. Avevo appena superato il concorso per l’ingresso in magistratura, e mi colpirono queste parole di un mio lontano parente, lo zio Luigi, un vecchio magistrato che aveva visto la guerra mondiale e che era poi stato protagonista di importanti processi contro il banditismo e la mafia delle campagne. Quella frase, espressione di fede popolare e del tipico pessimismo (o realismo) siciliano, mi è tornata in mente molte volte nel corso dei miei quarantacinque anni in magistratura e dei miei sforzi di “fare giustizia”. Nel maggio 2019, compiuti 70 anni, sono stato collocato in quiescenza (come si dice con una orribile espressione burocratica), ma ho continuato a riflettere sui temi della giustizia, aiutato in questo dall’invito a collaborare con importanti quotidiani e dalle frequenti richieste di partecipare a incontri di discussione pubblica. Mi ha aiutato in questa riflessione anche il recente incarico di presidente del Tribunale vaticano, che dopo i decenni trascorsi negli uffici del pubblico ministero, mi consente di conoscere dall’interno la funzione giudicante, oltretutto da un punto di osservazione straordinario per l’applicazione alla realtà attuale di un insieme eterogeneo di norme, alcune recentissime e altre risalenti a più di un secolo fa. Come è logico, dunque, le analisi e le considerazioni esposte in questo libro sono il risultato della mia esperienza, professionale e di vita. La generalità degli osservatori, con rare eccezioni, ritiene che vi sia stata e vi sia tuttora, con particolare riferimento a mafia e corruzione, una sorta di delega ampia alla magistratura da parte della politica, che a sua volta ha preferito rimanere un passo indietro. In questo modo, anche per volontà della politica, che - non si può dimenticare - fa le leggi e stabilisce regole, compiti e risorse, una magistratura forte e indipendente ha conseguito in questi decenni notevoli successi, anche pagando prezzi altissimi, come testimonia il lungo elenco di suoi esponenti uccisi nell’adempimento del dovere. Questa forza, questa indipendenza, quest’ampiezza di compiti e la dotazione di penetranti strumenti di indagine per soddisfarli, ha però finito per alimentare l’opposizione di settori sempre più ampi della società verso la magistratura anche perché essa deve oggi intervenire in materie che vedono in gioco interessi enormi ma che, al contempo, non sono regolamentate in modo chiaro e specifico. Allo stesso modo, ai giudici è richiesta la ricostruzione di fatti e vicende di estrema complessità, spesso lontani nel tempo, ma con notevoli implicazioni e forti richiami a sensibilità attuali, accese, divisive. La magistratura si ritrova così al centro di un continuo scontro politico, la sua azione viene acriticamente esaltata o condannata da opposte “tifoserie” (che comprendono anche parte dell’informazione) e l’operato dei magistrati diventa, con o senza il loro consenso, materia di lotta politica. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: l’imparzialità di chi amministra la giustizia viene messa in dubbio, con una marcata insistenza sulla figura del pubblico ministero, ormai estesa anche alla funzione giudicante, la cui credibilità è invece un bene prezioso per la democrazia. È necessario riconoscere, però, che la situazione è aggravata dal comportamento di quei magistrati che più o meno apertamente si schierano con una delle parti in campo, rendendo così più facile il compito a quanti intendono dimostrare l’accusa di parzialità rivolta senza distinguo all’intero apparato giudiziario. La magistratura è stata così chiamata a svolgere compiti non solo importanti, difficili e pericolosi, ma anche molto insidiosi per le liaisons dangereuses di cui corrotti e mafiosi sono maestri. Anche così si spiega l’insorgere di una vera e propria “questione morale”, come ha riconosciuto la stessa Associazione nazionale magistrati a fronte del moltiplicarsi di episodi di corruzione e collusione. Per porre rimedio a questa complessa situazione, caratterizzata dall’intreccio di aspetti largamente positivi con altri di indubbia gravità, sentiamo ripetere da più parti che la chiave di tutto sia “ridimensionare il pm”. Si tratta a mio avviso di una semplicistica parola d’ordine dal forte sapore propagandistico, che però è diventata un obiettivo strategico per molti, a cominciare da una parte della politica e dell’informazione. Alla narrazione secondo cui i pm non applicano o non rispettano le regole e comunque hanno sempre torto (a meno che non indaghino avversari o competitori) nel tempo si sono uniti autorevoli studiosi, che su questo tema sembrano perdere facilmente il loro aplomb scientifico e si è espressa nello stesso senso anche una parte della magistratura, forse ritenendo che sia più facile salvare il nucleo essenziale della giurisdizione - la funzione giudicante - indebolendo quella requirente e attribuendo al giudice nuovi spazi nella fase delle indagini. Senza aver riflettuto a sufficienza sul fatto che ciò porterebbe al pieno coinvolgimento dei giudici nelle polemiche oggi “riservate” ai colleghi delle procure. Sia chiaro, si tratta di posizioni del tutto legittime, perché nessuno può indicare con assoluta certezza il modo migliore per risolvere la crisi della giustizia penale. Eppure continua a stupirmi il fatto che, in questo dibattito, nessuno ponga due domande che a me sembrano invece di cruciale importanza. La prima: un pm e una magistratura così ridimensionati e ristrutturati sarebbero in grado di ottenere gli stessi risultati, giudicati positivi in tutte le sedi istituzionali, contro forme di criminalità, in particolare quella mafiosa e quella dei colletti bianchi, sempre più potenti e aggressive? Non dimentichiamo che la nascita delle Direzioni distrettuali antimafia e della Procura nazionale antimafia è il frutto dell’intuizione di Giovanni Falcone sulla necessità di uffici del pubblico ministero forti, credibili e con una guida autorevole. La seconda domanda è questa: in un sistema politico-istituzionale diviso e conflittuale qual è il nostro, è saggio indebolire la magistratura requirente, interfaccia naturale e necessaria delle forze di polizia che dipendono dal potere esecutivo, cioè dal Governo in carica? Non sto, ovviamente, mettendo in dubbio la lunga tradizione di affidabilità democratica dell’apparato investigativo, che ha avuto e ha al vertice uomini di assoluta lealtà istituzionale, oltre che di grandissima capacità professionale. Si tratta però di una questione relativa a equilibri istituzionali delicatissimi, collaudati nell’arco di molti anni e la cui minima modifica richiede la più attenta considerazione. Credo sia peraltro innegabile che proprio l’esistenza di uffici di procura solidi e responsabili abbia favorito l’attività delle nostre forze di polizia in indagini delicate e difficili: attività sui rapporti tra mafie e politica, sui reati di corruzione commessi da soggetti di rilievo pubblico, ma anche filoni che hanno coinvolto uomini degli stessi apparati di sicurezza e investigativi, com’è accaduto nel caso del rapimento di Abu Omar o in quello della morte di Stefano Cucchi. Mentre, al contrario, le cronache di questi anni hanno offerto esempi chiari dei gravi problemi che si possono creare, anche sul piano istituzionale, quando l’interfaccia costituita dalle procure è assente, debole, poco efficace o viene scavalcata. Come accade, per esempio, quando un sostituto ceglie di agire in totale isolamento rispetto all’ufficio ed è, quindi, allo stesso tempo meno autorevole e, pur se in perfetta buona fede, più soggetto a errori e condizionamenti. Sono domande, ribadisco, che dovrebbero trovare spazio e risposte in un dibattito pubblico su un tema fondamentale per la tenuta democratica del Paese. Bataclan, il padre della vittima firma un libro con il padre dell’attentatore: “Sono ferite incurabili” di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 8 settembre 2021 Georges Salines, genitore della 29enne Lola: “Ricordo il primo momento in cui ci siamo visti. Mi ha voluto mostrare una foto di suo figlio, un ragazzino sorridente, posato”. Che cosa si aspetta dal processo? “Potremo capire meglio come gli attentati sono stati pensati, organizzati ed eseguiti, sarà molto importante. Sul banco degli accusati, oltre a Salah Abdeslam, ci saranno altri imputati coinvolti in profondità, se dovessero parlare potrebbero rivelare cose interessanti. O esprimere pentimento, anche se non credo. E in ogni caso non è in questa circostanza che mi aspetto sincerità o un contatto umano. Gli imputati sanno di essere filmati, e sanno che alla fine li aspetta una sentenza, quindi tutto è condizionato. Noi famigliari delle vittime, assieme ai superstiti, saremo forse feriti dalle parole dei terroristi. Sarà doloroso”. Lei parteciperà? “Sì, voglio testimoniare. Parlerò di mia figlia Lola e di quello che ho vissuto, ma anche di quello che ho fatto dopo, una cosa non comune a tutti”. Georges Salines, medico, è il padre di Lola, editrice di libri per bambini, uccisa al Bataclan qualche giorno prima di compiere 29 anni. Salines ha fondato l’associazione “13onze15: Fraternité et Vérité” della quale è stato presidente, va nelle scuole a parlare di Lola e a combattere l’odio, e ha scritto alcuni libri. Uno di questi, Il nous reste les mots (ci restano le parole) in coppia con Azdyne Amimour: il padre di Samy Amimour, uno dei tre terroristi morti al Bataclan dopo avere ucciso 90 ragazzi, tra i quali Lola Salines. Come è nata l’idea di incontrare il padre di uno dei terroristi che ha ucciso sua figlia, e addirittura di scrivere un libro assieme a lui? “È stato Azdyne a scrivermi. Quando ho ricevuto la lettera un po’ me l’aspettavo, perché mesi prima avevo partecipato a una conferenza con famiglie di vittime e di ex jihadisti. Molti genitori non sono né complici né responsabili degli atti dei loro figli. Ma ho esitato, temevo anche le reazioni negative degli altri membri dell’associazione. Alla fine mi sono fatto coraggio e ho deciso di conoscerlo”. Che cosa l’ha colpita di quell’incontro? “Ricordo il primo momento in cui ci siamo visti. Mi ha voluto mostrare una foto di suo figlio Samy quando aveva 12 o 13 anni: un ragazzino sorridente, posato, che non lasciava indovinare alcuna aggressività. Azdyne non si dava pace per non essere riuscito a impedirne la radicalizzazione. Era come se suo figlio fosse diventato un’altra persona, vittima di una setta”. Azdyne Amimour era anche andato fino in Siria per cercare di riportarlo a casa. “Ma non ci è riuscito, purtroppo. I genitori di terroristi come lui perdono i figli tre volte: quando si radicalizza, quando dice di andare a fare un’escursione in montagna e invece poi telefona avvisando “sono in Siria”, e quando il figlio muore nell’attentato. Azdyne, all’obitorio per riconoscerlo, ha sentito il peso degli occhi di tutti addosso a sé, il padre dell’assassino. Almeno questo a me è stato risparmiato. Che suo figlio era un terrorista morto al Bataclan lo ha saputo mentre si trovava in custodia cautelare, giorni dopo”. Lei come ha saputo che Lola non sarebbe tornata? “Era andata al concerto degli Eagles of Death Metal, al Bataclan, perché un’amica aveva un biglietto in più e l’aveva invitata. La sua amica ha ricevuto una pallottola ed è rimasta ferita, Lola due colpi di cui uno mortale. Quella notte l’abbiamo chiamata di continuo, ma il cellulare suonava a vuoto. Abbiamo sperato che l’avesse perduto scappando, poi che fosse ricoverata in ospedale. Abbiamo lanciati appelli in tv, non riuscivamo a trovarla. Ho capito che era finita quando ho letto l’elenco conclusivo dei feriti, e lei non c’era”. Che persona era sua figlia? “Estroversa, generosa, allegra, amava la musica metal, i manga, i viaggi, gli sport di squadra, le piaceva avere tanti amici e fare sorridere chi le stava intorno”. Reddito, povertà e lavoro sparito di Elsa Fornero La Stampa, 8 settembre 2021 Perché mai la politica ha bisogno di alzare sempre la voce? Perché non riesce a fare a meno di polemiche, affermazioni distorte, slogan e demonizzazioni invece di basarsi su argomentazioni pacate e meditate? Forse è vittima dei suoi stessi strumenti come i “tweet” o forse pensa che ai cittadini non interessino le discussioni serie magari anche un po’ pedagogiche? O ancora, appiattiti sul quotidiano, i politici non sono più in grado di guardare in alto e di proporre “riflessioni”? Tutte e tre le ipotesi hanno probabilmente qualcosa di vero e si rafforzano a vicenda, in un circolo vizioso nel quale siamo tutti perdenti, cittadini e politici. È questo il caso del “Reddito di cittadinanza” introdotto nella primavera 2019 dal governo “gialloverde” (e quindi con il sostegno della Lega che ne faceva parte). Ambiguo nel nome, troppo ambizioso negli obiettivi, già all’articolo 1 viene presentato come una medicina portentosa “di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale” diretto a “favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura” e inoltre “il sostegno economico e l’inserimento sociale degli emarginati”. Più misuratamente, si tratta di un provvedimento di civiltà, con pregi e difetti, sul quale una verifica - un “tagliando”, come si dice in gergo - sarebbe normale in un Paese abituato alla valutazione indipendente delle politiche pubbliche. Solo chi non ha responsabilità di governo o, pur avendone, non riesce a staccare lo sguardo da possibili voti nell’immediato può infatti ritenere che esistano riforme perfette, tali da non richiedere un monitoraggio attento delle risposte, date dai cittadini con i loro comportamenti, alle nuove norme. Non a caso, organismi internazionali, come l’Ocse, studiano e mettono a disposizione, indicatori e metodi consolidati di valutazione, che dovrebbero migliorare l’efficacia delle stesse riforme. È quindi normale che il cittadino si chieda se il Rdc ha funzionato e quali ne siano stati i costi. E le risposte dei politici dovrebbero essere basate su analisi attente dei dati, pur sapendo che questi permettono di individuare tendenze e sono la premessa per discussioni informate e consapevoli, che si tratti di vaccini o di politiche sociali. E invece no. La politica ignora queste sottigliezze, si fa (superficialmente) dogmatica e propende per un sì o per un no secco invece che per un atteggiamento costruttivo. E così mentre l’opposizione e parte della maggioranza tuonano contro il Rdc, anche ricorrendo a metafore assurde, come il “metadone di Stato”, un’altra parte della maggioranza fa scudo, anche al di là dei non pochi difetti della legge. E anche la proposta di referendum suona come una sorta di impropria chiamata alle armi. Una visione più articolata e meno accalorata porta invece a concludere che il Reddito di cittadinanza ha rappresentato una via di fuga dalla povertà estrema per più di un milione di famiglie - corrispondenti a 2,6 milioni di persone, di cui oltre 660mila minorenni - che hanno percepito un importo medio di poco inferiore a 600 euro al mese, ai quali si aggiungono i percettori di pensione di cittadinanza, nuclei familiari composti esclusivamente da persone con più di 67 anni. Per queste persone la misura ha funzionato. Ha funzionato molto meno, o fallito del tutto, per le famiglie più numerose, e per molti cittadini stranieri ai quali si è richiesto un numero di anni di residenza oggettivamente troppo elevato. A queste lacune è possibile porre rimedio se si abbandona la strada della demonizzazione (dimenticando che anche una parte dell’attuale maggioranza l’ha in passato duramente praticata) per quella del dialogo. Il Rdc si è invece dimostrato del tutto inadeguato nell’inserimento lavorativo dei beneficiari, che pure avrebbe dovuto rappresentare il suo principale obiettivo. È ben lontano, infatti, dal costituire un’efficace politica attiva, né vale la giustificazione che in tempo di pandemia far incontrare offerta e domanda di lavoro (quasi assente, anche in conseguenza dei ripetuti lockdown) è difficilissimo per tutti e non soltanto per i navigator, sulla cui inesperienza tanto si è scritto. Neppure è pensabile che una riforma degli ammortizzatori sociali, sulla quale il governo sta lavorando, possa essere scritta senza raccordi con il Rdc ed è quindi surreale che finora il tema del collegamento tra le due riforme non sia stato affrontato. Il Rdc non è tema per fazioni: si butta o si tiene. Così com’è, però, esso rischia di ovviare alla povertà senza curarla, senza aiutare il reinserimento nel mondo del lavoro. In definitiva, di rappresentare uno spreco di risorse, che - anche in tempi di credito facile dalla Bce e di abbondanti risorse dall’Europa - non sono certo infinite. Per parafrasare il presidente del Consiglio, esso può essere un modo onesto di spendere denaro pubblico ma certo potrebbe diventare più intelligente. Il Reddito di cittadinanza a 3,5 milioni di persone, e la metà dei poveri è senza di Rosaria Amato La Repubblica, 8 settembre 2021 Con un importo medio di 579 euro a famiglia e un costo che l’anno passato ha superato i 7 miliardi. Oggi La destra e Italia Viva mettono il sostegno sotto accusa: disincentiva la ricerca di un posto. Quasi un milione e mezzo di famiglie, tre milioni e mezzo di persone, con un importo medio per nucleo di 579 euro: è questa la platea del Reddito di cittadinanza secondo l’ultimo aggiornamento dell’Inps, pubblicato alla fine di agosto e che riguarda i primi sette mesi di quest’anno. La misura è partita nell’aprile 2019: il primo anno sono stati spesi 3,825 miliardi, l’anno scorso poco più di 7, ancora da quantificare l’ammontare definitivo di quest’anno, ma le previsioni erano di una spesa di quasi 18,3 miliardi nel triennio. Sotto accusa fin dalla sua adozione, perché “disincentiva il lavoro” e adesso tornata sotto il fuoco incrociato di FdI, Lega e Italia Viva, per il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo la misura “in alcuni contesti può essere considerata un successo”, e secondo uno studio della Banca d’Italia ha avuto il merito di ridurre il numero di poveri assoluti e, soprattutto, di attenuarne la condizione di bisogno. Eppure, rileva la Caritas nell’ultimo rapporto annuale, il Reddito non raggiunge oltre la metà dei poveri, il 56% degli aventi diritto. E al contrario, beneficia famiglie che in effetti non sono povere, quota che rappresenta il 36% dei percettori. Un dato che da solo basterebbe a motivare una revisione della misura, che il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha però difeso con fermezza dagli attacchi degli ultimi giorni. A cominciare da quello della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che lo ha definito “metadone di Stato”. “Ha funzionato come contrasto alla povertà. Dobbiamo ripensare a come armonizzare lo strumento”, ha replicato Orlando. Al lavoro da diversi mesi, per capire cosa non funziona e cosa va cambiato nell’impostazione della misura, il Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, previsto già dal decreto di istituzione del sostegno, ma istituito solo nel marzo di quest’anno. A presiederlo la sociologa Chiara Saraceno: “Le criticità riguardano intanto i criteri di accesso. La scala di equivalenza punisce le famiglie numerose con i figli minori, mentre per gli stranieri il requisito dei dieci anni di residenza è il più alto in Europa, e ci mette in difficoltà anche con l’Ue”. Ma i principali detrattori del Reddito contestano soprattutto il fallimento della misura sotto il profilo delle politiche attive del lavoro: persino l’Ocse ha osservato nel rapporto sull’Italia pubblicato lunedì che “il numero di beneficiari che di fatto hanno poi trovato impiego è scarso”. E pertanto sarebbe bene “ridurre e assottigliare il Reddito per incoraggiare i beneficiari a cercare lavoro nell’economia formale”. Un disincentivo al lavoro, ammette Cristiano Gori, componente del Comitato e responsabile scientifico dell’Alleanza contro la Povertà, è costituito dalla norma secondo la quale “se le entrate del beneficiario aumentano di 100 grazie al lavoro, il Reddito diminuisce di 80”. “In tutti gli altri Paesi - obietta Gori - è previsto, almeno per i primi mesi, un meccanismo di cumulo”. Quanto però all’effetto “disincentivo”, bisognerebbe anche chiedersi, obietta lo studioso, se la ragione è “che il Reddito è troppo alto o i salari troppo bassi”. Gori ritiene inoltre che le soglie di accesso andrebbero differenziate nelle varie aree del Paese, tenendo conto del maggiore costo della vita nel Nord Italia. “Il Reddito è partito prima che venissero messe a punto le misure di accompagnamento - conclude Saraceno - i centri per l’impiego non erano pronti. Ma c’è anche un problema di occupabilità dei beneficiari, che molto spesso hanno una bassa qualificazione: andrebbe rafforzata la formazione”. Rivedere la misura però significa anche spogliarla di modalità e obiettivi che la indeboliscono, a cominciare da quella di incentivo ai consumi: “I percettori devono spendere tutto entro fine mese, - ricorda la sociologa - altrimenti si ha una decurtazione per i periodi successivi. È una follia, le famiglie non pagano le bollette ogni mese, non comprano le scarpe ai figli ogni mese”. Se la nuova scuola resta impreparata di Chiara Saraceno La Stampa, 8 settembre 2021 La scuola è davvero preparata a riaccogliere docenti, studenti, personale tecnico, ad affrontare per il terzo anno le esigenze, e le incognite, di una pandemia ancora non vinta e le aspettative e i bisogni di studenti che vengono da due anni in cui hanno fatto scuola spesso in modo irregolare e discontinuo, comunque in molti casi per lo più a distanza? È lecito avere qualche dubbio. Tutta l’attenzione si è concentrata sulle, importantissime, vaccinazioni, lasciando ai margini tutto il resto. Non risulta che si siano attrezzate aule a sufficienza, e aumentato proporzionalmente l’organico per tutto l’anno scolastico, per ridurre il numero di allievi per classe e garantire il distanziamento necessario, né che si sia provveduto a introdurre in modo sistematico sistemi di areazione meno primitivi della finestra aperta. Anzi, il comitato tecnico-scientifico, dando per scontato che le cose stiano così, ha ridotto la distanza minima necessaria contando su mascherine e ricambio frequente d’aria. Quanto ai trasporti, l’introduzione di un controllore di mascherine e numero massimo di passeggeri, può servire a chi riesce a salire su un autobus, tram o treno, ma non a chi rimane a terra perché non ci sono abbastanza mezzi. Si ha la sensazione che sul piano logistico l’attenzione fosse maggiore, anche se non sufficiente, lo scorso anno. Ma il silenzio e la disattenzione non riguardano solo le questioni logistiche. Riguardano anche il tipo di scuola, i modelli di didattica e apprendimento con cui ci si avvia al nuovo anno scolastico. Qui sembra che nulla sia avvenuto, che questi due anni siano semplicemente da lasciare alle spalle, ricominciando da dove, un anno e mezzo fa, la pandemia ha imposto una frattura. Come se gli studenti che in questi giorni entrano nelle aule non avessero nel loro bagaglio di esperienza quanto è avvenuto, a scuola ma non solo. E come se, quanto di positivo e negativo sul modo di fare didattica e favorire gli apprendimenti non fosse rilevante ai fini del modo di fare scuola “normale”. Gli studenti e le studentesse che in questi giorni iniziano il primo anno della scuola secondaria di secondo grado, ad esempio, vengono da due anni in cui sono stati pochissimo in aula. Quindi non hanno maturato, non solo i ritmi della scuola in presenza, ma anche le modalità di interazione tra pari e con gli/le insegnanti propri delle relazioni faccia a faccia in contesti formali e di negoziazione dei confini e distinzioni tra scuola e casa. Comunque tutti/e, specie nella scuola secondaria di primo e secondo grado, hanno sperimentato modalità di studio e apprendimento in parte differenti. E molti hanno accumulato deficit di apprendimento e prima ancora di capacità e motivazione ad apprendere in una misura tale da far parlare di “dispersione implicita”, che si aggiunge a quella, già elevatissima in Italia, esplicita. Si tratta, infatti, di studenti e studentesse che non hanno formalmente abbandonato la scuola, ma in qualche modo si sono “scollegati”, perché i loro apprendimenti non consentono loro di stare al passo, innescando un circolo vizioso di perdita di motivazione e interesse. Le attività di recupero svolte all’inizio dell’estate o nelle settimane precedenti l’inizio della scuola non sono certo sufficienti a rivitalizzare, o suscitare, motivazioni e curiosità. Nei mesi scorsi si era fatto un gran parlare - anche da parte di associazioni di vario tipo che lavorano sul territorio, incluse quelle raccolte nella sovra-rete EducAzioni - della necessità di usare la terribile esperienza della pandemia per ripensare il sistema scuola - dall’edilizia, al rapporto con il territorio, alle modalità didattiche - per renderlo più adeguato alla sua missione di sviluppo delle capacità dei più giovani e di contrasto alle disuguaglianze nelle opportunità di crescita. Sono sicura che chi fa parte di queste associazioni e molti insegnanti sono impegnati, là dove operano, perché questa possibilità non si chiuda. Ma è disperante che tutto il dibattito sulla scuola negli ultimi mesi si sia ridotto al dibattito sulla obbligatorietà o meno dei vaccini per il personale scolastico. Suicidio assistito e diritti, 500 tavoli per bucare il muro di disinformazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 settembre 2021 Referendum. Con 850 mila firme raccolte, l’Associazione Luca Coscioni dà il via alla mobilitazione finale per l’eutanasia legale. Nelle piazze, online e anche nelle carceri. Non sarebbe stato necessario, perché le 500 mila firme utili per indire un referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia sono state già raggiunte da un pezzo, in piena estate, con la pandemia e senza una campagna mediatica che alimenti la macchina referendaria. Ma all’Associazione Luca Coscioni e al comitato promotore non basta evidentemente aver superato le 850 mila adesioni: con 13 mila volontari su 500 tavoli informativi dispiegati in 170 città - ma il numero è in continua crescita, fanno sapere - il comitato intende mettere in piedi “il più grande evento diffuso sul fine vita realizzato in Italia”, con il duplice obiettivo di consentire di firmare a chi ancora non è riuscito a farlo e di “colmare il vuoto informativo su un tema che coinvolge tutti”. Fino al 12 settembre i volontari informeranno “sui temi legati al fine vita, dal testamento biologico al consenso informato, cure palliative, rifiuto e interruzione delle terapie, assistenza alla morte volontaria”. Non solo nelle piazze: i Radicali italiani hanno infatti iniziato a raccogliere firme nelle carceri, cominciando da Pavia. “Faranno seguito Cremona, Perugia, Rieti, Ravenna, Prato, Cuneo, Fossano, Milano, Arezzo, Brescia, Rimini e Torino - spiega la tesoriera Giulia Crivellini - con l’obiettivo finora inedito di raccogliere le firme per il referendum sull’eutanasia legale all’interno dei luoghi più dimenticati del Paese”. Fino al 30 settembre, poi, si può sottoscrivere il referendum anche tramite firma digitale (introdotta poche settimane fa grazie ad un’iniziativa parlamentare di + Europa). “Dal 2018, data di entrata in vigore della legge sul Testamento biologico, non vi sono state campagne informative specifiche da parte del governo per aiutare le persone a intraprendere percorsi certi e con piena assistenza - fanno notare Filomena Gallo e Marco Cappato - È incomprensibile, in quanto le Dat sono uno strumento utile anche se si è in buona salute, per avere certezza di vedere affermate le proprie scelte in materia di trattamenti sanitari e di fine vita”. La segretaria e il tesoriere dell’associazione Coscioni ricordano poi che il nostro codice penale del 1930 prevede il reato di aiuto al suicidio, ma nel 2019 la Corte costituzionale ha stabilito - con la “sentenza Cappato” in merito al suicidio assistito di Dj Fabo in Svizzera - i requisiti “che la persona malata deve avere per poter ottenere legalmente l’aiuto a porre fino alle proprie sofferenze”. “La politica - è l’accusa - crea ostacoli all’esercizio di libertà personali nelle scelte sul fine vita anche non garantendo una corretta informazione e formazione per coloro che sono chiamati a rispettare la volontà della persona”. Ecco allora che grazie al progetto coordinato da Valeria Imbrogno, l’ex compagna di Fabiano Antoniani, l’associazione radicale ha creato un “Numero Bianco”, infoline gratuita (06 9931 3409) per “informare adeguatamente i cittadini sui propri diritti”. Ddl Zan, deciso un altro rinvio: dibattito in Senato dopo le comunali di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 8 settembre 2021 Ieri nella riunione dei capigruppo di Palazzo Madama il rinvio è stato votato all’unanimità. L’opposizione di Fdi attacca: “Dove è finita l’urgenza?”. Il ddl Zan è stato rinviato, se ne parlerà dopo le elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre prossimo, se tutto va bene. Nella riunione dei capigruppo di ieri al Senato la legge contro l’omotransfobia non è stata messa in calendario per la settimana in corso e adesso il suo futuro diviene sempre più incerto. C’è da fare lo slalom tra gli impegni dell’aula di Palazzo Madama che da qui a fine anno lasciano ben poche finestre libere. “Mi sono sorpreso, hanno rinviato il ddl Zan a dopo le elezioni. Dove è finita l’urgenza?” il commento a caldo del vice presidente del Senato Ignazio La Russa alla fine della riunione dei capigruppo. Ma in realtà il calendario deciso nella capigruppo è stato votato all’unanimità e dunque anche il partito di La Russa, Fratelli d’Italia, si è espresso a favore.Il punto è che calendarizzare il ddl Zan in questa settimana sarebbe stato rischioso per tutti i partiti. In aula ad attendere la legge c’è il voto del non passaggio agli articoli, un voto che se passasse sarebbe la morte definitiva della legge e se invece non passasse sarebbe un punto a favore verso l’approvazione. Con le campagne elettorali in corso non si sarebbe potuto valutare il numero dei parlamentari presenti in aula, di tutti gli schieramenti. Si è deciso quindi di lasciare libera questa settimana, di calendarizzare per la prossima settimana il green pass e subito dopo impegnare l’emiciclo di Palazzo Madama sulla riforma del processo civile e penale. Quindi arrivano le elezioni e la legge di Bilancio ad ottobre da votare entro la fine dell’anno. Poi, da gennaio, il Parlamento convocato in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica. E poi? Le incognite sul proseguimento della legislatura sono tante. “Ma di finestre volendo ce ne sono: la legge di Bilancio rimane molto tempo in commissione e in aula c’è tempo per discutere e votare il ddl”, dice il deputato del Pd Alessandro Zan che ha dato il nome alla legge. Zan è convinto: “Penso che ce la faremo, perché l’Italia è l’unico Paese occidentale che non ha una legge contro i crimini d’odio contro gli omosessuali, la misoginia e l’abilisno. Sono fiducioso ma con le antenne alte per evitare i giochetti di Palazzo sulla pelle delle persone”. Chi vuole approvare il ddl Zan deve stare attento ai numeri, nel pallottoliere del Senato: i conti non tornano da quando Italia viva sembra essersi sfilata dalla maggioranza che aveva con Pd, M5s e Leu, e anche le Autonomie sembrano tentennare. Il ddl Zan è rimasto sepolto in commissione in Senato per ben oltre otto mesi prima di arrivare in aula, ostacolato dal presidente leghista della commissione Giustizia Andrea Ostellari. Ed è di questi giorni la polemica tra la Lega e Zan. Il deputato del Pd ha scritto nel suo libro di aver visto a Mykonos un deputato della Lega che si baciava con un uomo. E Salvini ha replicato: “Se un mio deputato si bacia con un uomo o con una donna è affare suo, mi mancava di avere i deputati guardoni. Io quando vado in vacanza mi faccio gli affari miei e non mi importa chi bacia chi”. Afghanistan. I Balcani sull’orlo del caos accolgono i primi rifugiati di Alessandra Briganti Il Manifesto, 8 settembre 2021 In Macedonia del Nord, Albania e Kosovo sono arrivate 1.300 persone. Il timore della regione è di assistere a una crisi come quella causata dalla guerra siriana, mentre le politiche migratorie dell’Ue hanno dato fiato alle destre nazionaliste. “Sappiamo bene cosa voglia dire essere in fuga, venire perseguitati, vivere in un regime di terrore. Il Kosovo offrirà un riparo sicuro e protezione” ai cittadini afghani “in stretto coordinamento con gli Stati uniti”. Era il 15 agosto quando la presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, annunciava che il suo Paese, tra i primi al mondo, avrebbe accolto temporaneamente duemila rifugiati afghani su richiesta dell’alleato americano. La notizia giungeva proprio quando Kabul si arrendeva ai talebani senza colpo ferire, sotto gli occhi inermi della comunità internazionale, costretta ad organizzare un ponte aereo senza precedenti per mettere in salvo migliaia di cittadini a rischio. Dopo il Kosovo, anche Albania e Macedonia del Nord si sono offerti di ospitare rispettivamente 3,000 e 450 rifugiati. Dopo i primi momenti di confusione, alimentata anche dai dubbi dell’amministrazione americana sulle reali capacità di accoglienza in particolare del Kosovo, hanno iniziato ad affluire i primi gruppi di profughi, oltre 1,300 finora, di cui un centinaio in Macedonia del Nord, più di 600 in Albania e circa 700 in Kosovo. Nell’ex provincia serba, che finora ha ospitato i rifugiati nel campo in costruzione di Bechtel-Enka, vicino Ferizaj, e nella base militare americana di Bondsteel, sarebbero arrivati alcuni sfollati che non sono riusciti a superare i primi turni di screening o i cui casi richiedono una maggiore elaborazione prima di ottenere il visto per gli Stati uniti. Pristina, Tirana e Skopje, i tre più fedeli alleati degli Usa nei Balcani, contano su questa operazione per poter rafforzare i propri legami con Washington in un momento particolarmente critico per i tre Paesi che vedono sempre più allontanarsi la prospettiva di adesione all’Ue. Se Albania e Macedonia del Nord attendono ormai da più di due anni l’avvio dei negoziati, il Kosovo è alle prese con un aspro dialogo mediato da Bruxelles con la Serbia, e con un’iniziativa di integrazione, promossa da Belgrado, Tirana e Skopje, rinominata Open Balkan, che rischia di isolarlo dal contesto regionale. La questione della sistemazione dei rifugiati giunti tramite il ponte aereo, che non ha mancato di suscitare polemiche specie in Albania dove peraltro da cinque anni risiedono 3,500 mujahideen del controverso gruppo di opposizione iraniana agli ayatollah (Mek), è solo una delle conseguenze della crisi afgana sulla regione. Ben maggiore è il timore che sulla rotta balcanica si riversino nei prossimi mesi migliaia di profughi in fuga dall’Afghanistan. La preoccupazione che agita i Balcani è di assistere a scene simili a quelle già viste nella crisi del 2015-2016 quando la regione è stata terra di transito per oltre un milione di rifugiati che scappavano dalla guerra in Siria, ma con un epilogo peggiore. I margini per una politica europea di accoglienza di massa dei profughi come quella adottata dalla Germania all’epoca, sono estremamente ridotti, con Parigi e Berlino alle prese con elezioni dall’esito incerto e con i paesi del gruppo di Visegrad, insieme ad Austria, Slovenia, Danimarca, solo per citarne alcuni, già sul piede di guerra per impedire l’accesso dei profughi in Ue. Ad aggravare il quadro, anche la posizione della Turchia, contraria a diventare il “magazzino d’Europa” dei rifugiati. Una tempesta che rischia di surriscaldare il clima già rovente nella regione, considerata sempre di più da Bruxelles in un’ottica meramente securitaria, un’area cuscinetto che blocchi i rifugiati e tenga al riparo l’Ue da eventuali minacce terroristiche. Lo ha ribadito con la solita, lucida spietatezza il premier ungherese Viktor Orban, ospite la scorsa settimana al forum strategico di Bled, in Slovenia: i Balcani sono fondamentali per la sicurezza europea per arginare “l’invasione dei migranti musulmani”. Proprio l’esternalizzazione delle frontiere Ue nella regione ha fatto sì che la questione migratoria desse fiato alle destre nazionaliste, specie in Bosnia-Erzegovina dove questa retorica sta pericolosamente esacerbando divisioni, lascito avvelenato della guerra, fra i tre popoli costituenti, croati, bosniaco-musulmani e serbi. Se all’inizio ha prevalso l’empatia verso i rifugiati, una condizione ben conosciuta da quanti hanno vissuto le guerre degli anni Novanta, con l’andare del tempo è aumentato il risentimento verso un’Ue che scarica su una regione già problematica, responsabilità che non intende assumersi. Afghanistan, fra le donne in piazza a Kabul: “Mai più sottomesse” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 settembre 2021 Nuove manifestazioni a Kabul, Herat e in altre province. I talebani appaiono sorpresi dall’energia e dalla forza di chi non dovrebbe uscire di casa. È accaduto tutto molto velocemente. Le proteste delle donne diventano politiche, non sono più soltanto contestazioni contro l’oppressione del burqa, ma si mischiano alle manifestazioni per la libertà, la democrazia, i diritti degli individui. Così come i talebani hanno rapidamente vinto la campagna militare, altrettanto velocemente scoprono che la società afghana è ormai una realtà complessa, fatta di organizzazioni, coscienze consapevoli pronte alla mobilitazione, studenti, gente abituata alla libertà dei media, a parlare le lingue straniere, alla complessità delle opinioni. L’abbiamo visto ieri nelle quattro manifestazioni che hanno interessato il centro della capitale. Ma anche le altre nelle province: segno di un movimento che si sta organizzando grazie ai social media, ai contatti costruiti negli ultimi vent’anni con il contributo fondamentale della coalizione internazionale affiancata da una miriade di ong arrivate dall’estero. “Morte al Pakistan. Giù le mani dal Panshir. Viva la resistenza dei valorosi contro la dittatura”, hanno gridato centinaia di manifestanti per le strade. I talebani sono intervenuti molto velocemente. A Herat hanno sparato sulla folla. Gli ospedali locali segnalano almeno 2 morti e 8 feriti. A Kabul la cronaca delle proteste inizia verso le 10 della mattina presso l’ambasciata pachistana. Il motivo? Sui social è cresciuta la voce per cui l’esercito pachistano, e soprattutto la sua aviazione, starebbero aiutando le colonne talebane a debellare i gruppi della resistenza panshira. La notizia non trova conferme indipendenti. Ma la convinzione che l’esercito pachistano sia un alleato storico dei talebani è radicata in Afghanistan. E adesso la presenza a Kabul del capo dell’intelligence militare di Islamabad, generale Faiz Hameed, non fa che confermarla. Circa 300 persone sfilano dunque verso l’ambasciata. Sono soprattutto giovani, tra loro un gran numero di ragazze, molte studentesse. I talebani reagiscono picchiando duramente gli uomini. Di fronte alle donne sembrano imbarazzati, trattengono i calci dei fucili, però le spintonano, sparano in aria, lunghe raffiche che rimbombano tra le vie trafficate. Vengono fermati una quindicina di giornalisti, tra cui l’italiano Claudio Locatelli e il reporter di ToloTv, che è anche picchiato. In serata sembrava fossero tutti liberi. A un certo, punto un talebano panciuto col volto coperto da una folta barba nera sovrastata da un turbante altrettanto scuro cerca di rispondere agli slogan. “Non abbiamo certo bisogno dell’aiuto pachistano per liberare la nostra terra, che è anche la vostra. Gli americani non rispettavano le nostre donne, uccidevano i nostri figli con le loro bombe terribili, distruggevano le nostre case. Ma voi dove eravate? Come mai non protestavate allora?”, grida tra la confusione. “Voi permettete ai pachistani di usare la nostra terra. Perché il capo della loro intelligence è qui da noi? Perché interferisce nei nostri affari interni?”, rispondono le ragazze. “Vi dico che un vostro solo capello mi è più caro di tutto lo Stato pachistano. Noi non siamo servi di nessuno. Il Panshir è la nostra patria. Sono i traditori che ci combattono ad essere schiavi degli americani e dell’India”, replica lui. C’è un evidente imbarazzo tra i talebani. Con le ragazze non applicano la stessa violenza riservata agli uomini. Poco lontano, vediamo decine di ragazzini picchiati duramente, caricati di forza con le mani legate dietro la schiena sui cassoni dei gipponi e portati via. Sembra che da una finestra qualcuno abbia sparato contro una loro colonna. La repressione è stata rapidissima, con gli uomini delle squadre speciali che correvano verso i piani alti a caccia di possibili oppositori. Però queste ragazze non hanno nulla a che fare con il modello di donna sottomessa e silenziosa che molti di loro vorrebbero cercare di riportare in auge. Rispondono aggressive, accusano, parlano di politica, comunicano tra loro velocissime, organizzano le prossime manifestazioni, mettono in rete i video degli scontri. Il conflitto è culturale e sociale prima che politico. “Non siamo più le donne di tre decadi fa. Non staremo in silenzio. Vogliamo un Afghanistan diverso”, dicono. Per loro protestare è normale, non hanno mai vissuto l’oppressione del Califfato. Tanti tra i giovani talebani vengono dalle province rurali. Non hanno mai incontrato questo genere di reazioni. “I nostri soldati non sono addestrati per far fronte alle rivolte della società civile. Dovete darci tempo, dobbiamo imparare”, spiegano i portavoce talebani per giustificare la repressione. Ma pare non serva. Altre manifestazioni avvengono a Khadir Khan, di fronte alla Aziz Bank non distante dal palazzo presidenziale e a piazza Ansari. Qui alcune ore dopo incontriamo quattro ragazze accompagnate da un cugino. Altrimenti, secondo le nuove regole, non potrebbero uscire di casa. Una sola avrebbe voluto manifestare. “Ma i genitori me lo hanno vietato. Troppo pericoloso”, dice. Tutte vorrebbero emigrare. Dicono di avere parenti in Canada. “Con i talebani non c’è futuro per noi”, spiegano. “Presto il mondo si dimenticherà dell’Afghanistan e i talebani saranno liberi di fare ciò che vogliono”. Egitto. Abusi e omicidi extragiudiziali archiviati come sparatorie di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 8 settembre 2021 L’impunità delle forze di sicurezza è assoluta. Negli ultimi 5 anni nel Paese sono state documentate oltre 700 vittime di sparatorie. In realtà si tratta di uccisioni extragiudiziali condotte dalle forze di sicurezza egiziane. Human Rights Watch documenta gli abusi Negli ultimi anni, polizia e forze di sicurezza egiziane hanno ucciso dozzine di presunti “terroristi” in operazioni extragiudiziali, ufficialmente descritte come sparatorie. In realtà, le persone uccise non rappresentavano un immediato pericolo per la sicurezza pubblica o per gli agenti coinvolti, molte di esse erano già in custodia e molte ancora non erano coinvolte in attività politiche con fini violenti. Si tratta di un grave abuso di diritti umani, che Human Rights Watch (Hrw) ha documentato in un lungo report. Il massacro di piazza Rab’a. “Ci hanno pensato le forze di sicurezza: omicidi e uccisioni sospette da parte delle forze di polizia egiziane”, questo il report, analizza il rapido aumento di morti sospette e sparizioni forzate da quando l’attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi ha preso il potere nel 2013, deponendo Mohamed Morsi con l’aiuto delle forze armate. Al golpe sono seguiti gravi abusi da parte della polizia, che in una sola occasione ha ucciso almeno 800 manifestanti pro-Morsi: il massacro di Piazza Rab’a, il 14 agosto 2013, è stato definito da HRW “il peggior omicidio di massa della storia dell’Egitto moderno”. La legge antiterrorismo e gli abusi. A seguito del golpe e delle violenze poliziesche sono aumentati a dismisura gli attacchi violenti da parte di gruppi armati ai danni delle forze governative e di civili. Il governo ha individuato il principale responsabile nella Fratellanza Musulmana, una delle organizzazioni islamiste più antiche e partecipate e messa fuorilegge dopo il colpo di stato del 2013. Inoltre, nel 2015 al-Sisi ha votato una legge antiterrorismo che ha dato via libera ad ogni sorta di violenza extragiudiziale da parte delle forze di sicurezza. Queste, infatti, non sono più imputabili per uccisioni o uso di forza indiscriminata in operazioni antiterrorismo. Ciò ha aperto la strada ad abusi e violenze anche verso attivisti pacifici o membri di partiti politici scomodi. Sparizioni forzate sotto al-Sisi. Le sparizioni forzate sono all’ordine del giorno da quando al-Sisi ha preso il potere, afferma HRW. La pratica è utilizzata come deterrente verso gli oppositori politici e per estrarre informazioni o confessioni fittizie. Si tratta di un crimine talmente diffuso e pervasivo che può qualificarsi come crimine contro l’umanità. Ecco le parole rivolte ad un detenuto da un agente di polizia: “Se l’opinione pubblica viene a conoscenza di un arresto, iniziano campagne per la scarcerazione e manifestazioni contro il nostro operato. Non saremmo in condizioni di lavorare”. Quindi le persone spariscono senza fare rumore. Le dichiarazioni ufficiali. Secondo il Ministero dell’Interno egiziano, tra il 2015 e il 2020 sono state uccise circa 755 persone in presunte sparatorie. Le dichiarazioni ministeriali identificano solo 141 di queste persone, e si tratta di dichiarazioni praticamente identiche tra loro, con pochi dettagli e redatte in modo ambiguo. Nei documenti si legge che la polizia è stata attaccata per prima e costretta ad aprire il fuoco. Inoltre, si legge che tutte le persone uccise erano ricercate per “terrorismo” e che la maggior parte militava nella Fratellanza Musulmana. Le testimonianze dei familiari. HRW ha raccolto dichiarazioni tra familiari e conoscenti delle vittime. Molte persone sono sparite senza alcuna notizia di arresto. Otto diverse famiglie hanno riscontrato segni di torture e abusi fisici sui propri cari: bruciature, tagli, ossa rotte, denti mancanti. Solitamente i familiari apprendono del decesso tramite i canali di notizie e non personalmente. Inoltre, tutti hanno confermato di aver ricevuto minacce e intimidazioni da parte delle forze di sicurezza nel momento in cui tentavano di recuperare la salma. Ad alcuni familiari è stata impedita la celebrazione di un servizio funebre. In due casi, il corpo non è stato mai più recuperato. Nessuna indagine ufficiale. HRW ha chiesto spiegazioni alle autorità egiziane competenti in due diverse occasioni ma non ha ricevuto risposta. In alcune note ufficiali, il Ministero dell’interno fa riferimento ad indagini in corso ma HRW non ha trovato riscontro di queste affermazioni. “Sono anni che le forze di sicurezza egiziane uccidono persone arbitrariamente, affermando poi di essere stati coinvolti in sparatorie con le vittime” afferma Joe Stork, vicedirettore della sezione Medio Oriente di HRW. “Se tutti i Paesi che forniscono armi e assistenza all’Egitto si distanziassero oggi, sarebbero già in ritardo. Non è possibile tollerare oltre questi abusi umanitari”. Appello ai Paesi partner. Non è la prima volta che HRW e altre organizzazioni documentano la violenza della polizia egiziana. Per l’ennesima volta, si richiede ai partner internazionali (tra cui l’Italia) di imporre sanzioni mirate e interrompere almeno le forniture militari. Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, prosegue HRW, dovrebbe innescare un meccanismo internazionale indipendente per monitorare ed investigare i gravissimi abusi umanitari che vanno avanti ormai da anni in Egitto.