Il decesso in carcere di una persona malata grave richiede risposte urgenti di Stefano Borgato superando.it, 7 settembre 2021 È un fatto grave di cui poco si sono occupati in questi giorni gli organi d’informazione, la morte nella Casa Circondariale di Trani di un detenuto con una grave patologia psicofisica, denunciata dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. “Questa vicenda - si legge in una nota del Garante stesso - pone interrogativi i quali richiedono risposte concrete e indifferibili, poiché l’incompatibilità con la detenzione in carcere di quella persona era stata valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità Sanitarie del carcere e dalla stessa Direzione”. È un fatto grave di cui assai poco si sono occupati in questi giorni gli organi d’informazione, la morte nella Casa Circondariale di Trani di un detenuto affetto da una grave patologia psicofisica, denunciata dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che in una nota scrive: “La morte di Fedele Bizzoca, avvenuta il 3 settembre, nella Casa circondariale di Trani, ove era detenuto, pone seri interrogativi all’Amministrazione Penitenziaria, ai Servizi Socio-Sanitari e alle Autorità Giudiziarie, interrogativi che richiedono risposte concrete e indifferibili. Persona sofferente di una grave patologia psicofisica, Bizzoca era detenuto dal gennaio di quest’anno nell’Istituto di Trani: l’incompatibilità con la detenzione in carcere era stata valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità Sanitarie del carcere e dalla stessa Direzione”. A quel punto, quindi, il Garante era intervenuto a verificare le condizioni di vita del detenuto, su segnalazione del difensore e della Garante del Comune di Trani, nel corso di una visita condotta in Puglia nel luglio scorso. “Qui - si legge nella nota - si era dovuta riscontrare l’assoluta inadeguatezza della collocazione, in una sezione a gestione esclusivamente penitenziaria in cui non era predisposta alcuna assistenza sanitaria adeguata alla cura e al trattamento delle particolari condizioni di sofferenza della persona. Tutto era soltanto rimesso, insieme con la gestione complessiva dei bisogni quotidiani, al solo impegno degli agenti della Polizia Penitenziaria”. In particolare, viene sottolineato, “le condizioni materiali e igieniche in cui si è ritrovato il detenuto, si presentavano molto oltre ogni parametro di minima decenza e salubrità”. Ma non solo: “La sezione di appartenenza dov’era reclusa la persona era la nota “Sezione Blu” di cui era stata definita la chiusura nel mese di novembre 2020: si è dovuto pertanto constatare non soltanto la riattivazione di essa, ma anche l’improprio utilizzo per la gestione di casi problematici, in particolare di natura psichiatrica”. Bizzoca, a quanto riferisce il Garante, era in attesa di entrare nella Residenza Socio-Sanitaria della quale sin da luglio era stata reperita la disponibilità, un’attesa determinata dalla ricerca di un soggetto che potesse far fronte al pagamento della retta. Ma non è quello che è accaduto. “Tutte le circostanze riscontrate - conclude la nota del Garante - sono state portate all’attenzione della Magistratura di Sorveglianza di Bari, con la quale il nostro Collegio ha tenuto un incontro al termine della missione. Si tratta di circostanze che interrogano non soltanto l’Amministrazione Penitenziaria ma l’intero sistema dei servizi sanitari e sociali: l’istituto del Garante, oltre ad offrire il proprio contributo di conoscenza alla Procura della Repubblica che ha aperto l’indagine sulle cause della morte, presentandosi nel processo come persona offesa, intende porre questi interrogativi a ogni soggetto responsabile, per scongiurare il perdurare delle gravi mancanze che hanno segnato la detenzione di Fedele Bizzoca”. Eutanasia, la raccolta firme per il Referendum arriva nelle carceri agenpress.it, 7 settembre 2021 È partita da poche ore la mobilitazione che fino al 20 settembre vedrà numerosi esponenti radicali, attivisti e autenticatori entrare negli istituti di pena italiani. Il primo è stato Pavia; faranno seguito Cremona, Perugia, Rieti, Ravenna, Prato, Cuneo, Fossano, Milano, Arezzo, Brescia, Rimini e Torino, con l’obiettivo finora inedito di raccogliere le firme per il referendum sull’eutanasia legale all’interno dei luoghi più dimenticati del Paese. La situazione nelle carceri italiane continua ad essere molto critica. Nonostante la tendenza in calo rispetto al 2020, il sovraffollamento resta tra i principali problemi. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 agosto 2021, infatti, i detenuti negli istituti di pena italiani sono 53.557, a fronte di una capienza regolamentare di 50.867 posti. A questo dato si aggiunge quello relativo al personale di polizia penitenziaria e al personale socio-culturale (mediatori culturali, educatori, psicologi), che soffrono di una pericolosa carenza di organico. “In questo quadro diventa allora essenziale, nel percorso di riabilitazione e effettività della giusta pena, garantire pienamente l’esercizio dei diritti politici e civili alla popolazione detenuta”, ha dichiarato Giulia Crivellini, tesoriera e avvocata di Radicali Italiani. “Per questo ci siamo mobilitati per entrare nelle carceri e dare a tutti la possibilità di esercitare un proprio diritto, firmando per il referendum eutanasia legale”, conclude. Presunzione d’innocenza, inizia il lavoro in commissione di Valentina Stella Il Dubbio, 7 settembre 2021 Con la ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa estiva, si torna a discutere di presunzione di innocenza. Infatti oggi al Senato e domani alla Camera, nelle rispettive commissioni Giustizia, inizierà l’iter per raccogliere i pareri non vincolanti per i decreti attuativi dell’atto 285 del Governo che recepisce la direttiva europea per il ‘Rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali’. Il termine per la consegna è previsto il 16 settembre, ma probabilmente si chiederà uno slittamento per lavorare bene e con la dovuta calma sul testo. Il Governo poi avrà tempo fino a novembre per emanare i decreti. Relatore al Senato il leghista Andrea Ostellari, alla Camera il deputato di Azione Enrico Costa, che dice al Dubbio: “Cercheremo di fare uno studio approfondito, anche comparativo rispetto al recepimento della direttiva negli altri Stati. Questo perché il testo licenziato dal Parlamento e dal Consiglio europeo presenta molti punti che non sono stati inclusi nel testo approvato dal Consiglio dei Ministri ad inizio agosto e che invece vanno affrontati nei decreti attuativi. Penso ad esempio all’onere della prova ma anche al diritto al silenzio. Rispetto a quest’ultima questione, infatti, la direttiva prevede che ‘Gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuto il diritto di restare in silenzio in merito al reato che viene loro contestato’. Allora in futuro non sarà più possibile negare un risarcimento per ingiusta detenzione adducendo la motivazione che l’indagato si era avvalso della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio di garanzia”. Dunque ad essere affrontato non sarà solo il profilo della comunicazione dei magistrati, che non potranno più indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata in maniera definitiva. Su questo aspetto l’onorevole Costa aggiunge: “Quando il testo del Governo prevede che ‘La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico’ occorrerà specificare puntualmente i casi eccezionali in cui è consentita la conferenza stampa, non lasciando al singolo magistrato una valutazione discrezionale”. Mentre sui nomi suggestivi delle inchieste, rispetto al testo che vi abbiamo illustrato ad inizio agosto, è stato aggiunto un comma che prevede che “è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Si dovrà dire addio dunque ad espressioni che negli anni hanno caratterizzato il racconto sensazionalistico delle indagini da parte di Procure e agenzie investigative: Mani pulite, Angeli e demoni, Mondo di mezzo, Bocca di Rosa, Terminator 3, solo per citarni alcuni. Su questo Costa è lapidario: “Non c’è nessuna ragione per dare un nome a delle inchieste. Non c’è scritto da nessuna parte nel codice di rito”. Altri elementi che andranno definiti riguardano anche le sanzioni per chi non rispetta la direttiva: “Occorre innanzitutto che, quando viene violata la presunzione di innocenza, si possa ricorrere in modo effettivo ed efficace e poi bisogna capire bene le sanzioni previste per chi non rispetta i precetti del testo normativo”. Un altro punto importante, e da non sottovalutare affatto, riguardo il fatto che a non potersi esprimersi in chiave colpevolista non saranno solo i magistrati ma altresì le autorità pubbliche in generale. Questo significa, per Costa, che “anche i membri di Governo, ad esempio, così come i parlamentari non potranno più twittare “Tizio marcisca in galera”. La relazione illustrativa del Governo, in merito a ciò, fa riferimento, tra l’altro alla sentenza della Cedu del 26 marzo 2002, Butkevicius/ Lituania: il ricorso riguardava le dichiarazioni del Procuratore generale e del presidente del Parlamento della Lituania alla conferenza dopo l’arresto dell’ex ministro della Difesa Butkevicius sospettato di corruzione. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha considerato queste dichiarazioni di esponenti pubblici atte a indurre l’opinione pubblica a ritenere l’accusato colpevole prima ancora della sua condanna passata in giudicato. Per questo motivo ha riconosciuto una violazione dell’art. 6, n. 2, della Cedu. Cartabia: in 5 anni, 574milioni di euro di indennizzi per la legge Pinto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2021 Nel solo 2020 emessi 11.867 per complessivi 106 mln di euro. Nelle prossime settimane nuovo concorso in magistratura e parere del Csm sulle “piante organiche flessibili”. “Siamo osservati speciali, c’è molta aspettativa e trepidazione per queste riforme della giustizia in ambienti internazionali, ovviamente da parte della Commissione europea ma ogni volta che ho occasione di frequentare un consesso internazionale c’è eco di questo lavoro in corso e di questa trasformazione che si attende”. Parole pronunciate dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia nel suo intervento da Cernobbio. “La malattia che affligge la giustizia italiana - ha proseguito - è grave. Il paziente è grave. E qui mi riferisco solo ad uno dei problemi: quello dei tempi”. Tra tutti i 47 Paesi su cui si estende la giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ricordato la Ministra, l’Italia ha infatti il primato delle condanne per i processi troppo lunghi: 1.202 dal 1959 (data di avvio di attività della Corte di Strasburgo) ad oggi; al secondo posto c’è la Turchia con 608, a seguire Francia (284), Germania (102) e GB (30), Spagna (16). Tutto ciò ha anche pesanti ripercussioni economiche dal momento che dall’entrata in vigore della legge Pinto (2001) lo Stato italiano è tenuto a pagare un indennizzo ai cittadini che “patiscono una violazione del loro diritto alla ragionevole durata del processo, un diritto - ricordiamolo - riconosciuto tanto dalla Costituzione quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Ebbene, secondo i dati riportati da Cartabia, negli ultimi cinque anni lo Stato ha pagato 574milioni di indennizzi. “Una cifra esorbitante”, ammette il Ministro. Ma “ancor più esorbitante”, prosegue, è il numero di casi coinvolti: sono stati emessi 95.412 decreti, il che vuol dire che 95mila 412 persone sono rimaste in attesa di giustizia più a lungo del dovuto, oltre una ragionevole durata. Nel solo anno passato, il 2020, l’ultimo anno per i quali ci sono dati disponibili, sono sopravvenuti 14.429 procedimenti ex lege Pinto di irragionevole durata. E sempre nel 2020, il numero dei decreti emessi è stato pari a 11.867 per un importo complessivo di € 105.798.778. E qui si arriva agli effetti “paradossali”. “Ovviamente - spiega Cartabia - la gestione di questa grande quantità di richieste di indennizzo genera a sua volta ritardi. Perciò siamo al paradosso che lo Stato paga anche indennizzi per il ritardo con cui paga gli indennizzi per i ritardi nell’amministrazione della giustizia. Ritardi al quadrato. Costi al quadrato”. “Pensiamo conclude sul punto - a quali benefici avrebbero potuto portare quei fondi - e tutti quelli in passato spesi - se fossero diventati investimenti, anziché indennizzi per violazione di diritti”. Cartabia ha poi ricordato che secondo quanto scritto nel Pnrr entro il 31 dicembre di quest’anno il Parlamento deve aver concluso l’approvazione delle due leggi delega del processo penale e del processo civile. “Sottolineo - ha aggiunto - che anche la riforma del processo penale entro la fine di quest’anno è un impegno assunto con la Commissione europea”. Entro il primo trimestre del 2022 invece devono prendere servizio i primi 8250 giovani giuristi dell’ufficio del processo. Il primo bando per i primi 8mila law clerks è già aperto e lo resterà fino al 23 settembre: “Diffondete la voce!!! Sono già moltissimi i candidati”. Altri 8mila invece arriveranno col successivo bando, insieme a figure tecniche (5.400 in due tranches). “8.500 assistenti giuristi - afferma Cartabia - su circa 10.000 magistrati, non è poco, integrati da 2700 supporti tecnico amministrativi”. L’obiettivo, ricorda poi il Ministro, è quello di ridurre, entro i 5 anni del PNRR, i tempi di conclusione dei processi del 25 per cento del processo penale e del 40 per cento del processo civile. Novità anche sul fronte magistrati, il cui numero in Italia “è molto basso rispetto alla media europea”. Dopo lo stop dovuto alla pandemia i concorsi sono riiniziati. “Il primo - ricorda la Guardasigilli - è stato fatto a luglio, per 310 posti; mentre la scorsa settimana ci siamo intesi con il CSM per far partire un nuovo concorso nelle prossime settimane”. Non solo, è in arrivo anche il parere del CSM che consentirà al Ministero di avviare le piante organiche flessibili, che “costituiranno la possibilità di disporre di una squadra di magistrati da assegnare a uffici giudiziari, in base alle necessità del momento”. “Ebbene, il CSM la settimana prossima - a quanto mi fanno sapere - esaminerà il parere sulle piante organiche flessibili, atteso dallo scorso autunno”. Giustizia, 22mila domande per 8mila posti: parte la rivoluzione dell’ufficio del processo di Liana Milella La Repubblica, 7 settembre 2021 Arriva l’esercito di coloro che aspirano a diventare assistenti dei giudici. Marta Cartabia: “Se c’è una riforma in cui mi riconosco davvero, in cui credo moltissimo, a cui vorrei fosse legato il mio nome è proprio questa”. Esattamente 22mila domande in un mese. Dato aggiornato a ieri sera. Domande giunte in via Arenula dal 6 agosto. Per 8.171 posti. Il futuro “ufficio del processo”. Quello che la ministra Marta Cartabia, a Cernobbio, ha descritto così: “È come se in una sala operatoria finora il chirurgo avesse lavorato da solo o al massimo con qualcuno che gli passava i ferri. Ora in quella stessa sala entra tutta un’equipe di infermieri, assistenti, anestesisti, specialisti”. La Guardasigilli non ha dubbi sull’efficacia delle nuove figure che andranno ad affiancare i giudici nel lavoro di tutti i giorni. Al punto da dire: “Giovani per la giustizia, ufficio del processo. Se c’è una riforma in cui mi riconosco davvero, in cui credo moltissimo, a cui vorrei fosse legato il mio nome è proprio questa”. Sarà possibile presentare la propria domanda per questo concorso fino al 23 settembre. Ma poi partirà un secondo bando per altri 8.500 assistenti. “Immaginate quale risparmio di tempo potrà essere per il giudice - dice Cartabia - poter contare sulla collaborazione di un’equipe numerosa e qualificata, invece di dover fare tutto da solo, come avviene ora”. Gli assistenti del giudice non saranno dei semplici segretari, ma molto di più, come avviene già per gli assistenti dei giudici costituzionali che lavorano ai singoli casi, studiano e raccolgono la giurisprudenza, redigono bozze di provvedimenti, un’attività che oggi ogni magistrato deve fare da solo. E oggi, in un webinar, sarà la stessa ministra a parlarne assieme ai tecnici di via Arenula. Barbara Fabbrini, a capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria e del personale, una sorta di “madrina” di questa innovazione che, in via sperimentale, è partita in alcuni uffici già dal 2014, la presenta come “una misura su cui si sta investendo molto non solo perché può essere davvero un supporto per gli uffici per ridurre l’arretrato e i tempi del processo, ma anche perché rappresenta il punto di convergenza di più di un obiettivo: l’ingresso negli uffici di competenze nuove e di giovani, la possibilità di passare dal lavoro individuale a quello di staff sia per il magistrato che per le cancellerie, la sfida di costruire nuovi modelli organizzativi”. Ovviamente proprio la scommessa dell’ufficio del processo è strettamente legata alle tre riforme che affrontano - già dai prossimai giorni - la corsa parlamentare. Le riforme del processo penale e di quello civile entrambe al Senato (la prima per il voto definitivo, la seconda per il primo passaggio), la riforma del Csm alla Camera in attesa degli emendamenti di via Arenula. Riforme che puntano a portare in Europa un processo italiano che vinca la sfida dei tempi lunghi, il 25% in meno rispetto agli attuali per il penale, il 40% per il civile. Di qui la riforma del penale che con l’improcedibilità impone agli stessi giudici di rispettare tempi obbligati, salvo garantire la conclusione dei dibattimenti per i reparti più gravi, e quella civile che, tra le altre novità, sfrutterà il ricorso alla mediazione. Una sfida possibile? Certo il cammino sarà duro. E lo dimostrano i dati su quello che Cartabia definisce “il triste primato per l’Italia delle condanne della Corte di Strasburgo per i processi troppo lunghi da quando la stessa Corte ha cominciato a monitorarli: 1.202 dal 1959 ad oggi. Al secondo posto c’è la Turchia con 608, a seguire la Francia con 284, la Germania con 102, la Gran Bretagna con 30, la Spagna con sedici”. Dal numero delle condanne si passa a quello dei risarcimenti per chi è rimasto troppo a lungo sotto processo. Ecco gli ultimi dati per via della legge Pinto del 2001 che garantisce l’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo: negli ultimi cinque anni, l’Italia ha speso quasi 574 milioni di euro. Una cifra che la ministra Cartabia definisce “esorbitante”. E usa lo stesso aggettivo per il numero di casi coinvolti: 95.412 decreti per altrettante persone che, secondo la Guardasigilli, “sono rimaste in attesa di giustizia più a lungo del dovuto, oltre una ragionevole durata”. Gli ultimi dati disponibili, quelli del 2020, dicono che ci sono altri 14.429 procedimenti sotto i riflettori per l’irragionevole durata. E sempre nel 2020 i decreti emessi in base alla legge Pinto sono stati 11.867 per quasi 106 milioni di euro. Come se non bastasse la lentezza dei processi produce il paradosso della “Pinto della Pinto”, quello che Cartabia definisce “il paradosso dello Stato che paga anche indennizzi per il ritardo con cui paga gli indennizzi per i ritardi nell’amministrazione della giustizia”. Per usare le sue parole “ritardi al quadrato, costi al quadrato”. Dal processo civile al Csm, i prossimi nodi che Cartabia deve sciogliere di Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 7 settembre 2021 I prossimi saranno mesi complessi per le sorti della giustizia. Mentre sulle nostre spiagge i bagnini iniziano a chiudere gli ombrelloni e ripiegare le sdraio, il pianeta giustizia scruta l’orizzonte per comprendere quale destino lo attende. Come sempre accade quando occorre cambiare l’abito alla dea bendata custode della bilancia, le previsioni non volgono al sereno. Si comincia con la riforma del processo civile, tema che sembrerebbe attirare meno saette ma che di certo è il dossier che più interessa all’Unione Europea, in vista del Recovery Fund. Sebbene quindi il governo proverà a chiudere velocemente il testo che dovrebbe approdare in aula per fine settembre, qualche nube si scorge all’orizzonte, in particolare sul diritto di famiglia. L’obiettivo del testo della riforma proposta dal governo ovviamente è sempre lo stesso, ovvero quello di rendere il processo civile più celere e snello, dando un taglio netto alla stagione delle eterne controversie che affossano le imprese e deprimono le speranze di giustizia dei cittadini. Al giudizio ordinario si punta quindi ad affiancare procedure alternative, che portino a risoluzione in tempi assai più snelli. La commissione Giustizia del Senato ha già iniziato a discutere sui circa 500 emendamenti al testo proposto dal governo. Una delle principali novità è rappresentata dalla creazione di un rito unico per le questioni che riguardano “persone, minorenni e famiglie”. Nel testo, e qui si annida una delle possibili tensioni, si chiede che sia introdotto l’obbligo per tutti i soggetti istituzionali che entrano in contatto con i minorenni di garantire che i diritti di affidamento e di visita siano assicurati tenendo conto delle violenze, anche assistite, rientranti nel campo di applicazione della Convenzione di Istanbul e ciò in presenza di casi di violenze “allegate, denunciate, segnalate o riferite”. In questi casi si prevedrebbe una procedura estremamente rapida, ispirata all’obbligo di protezione del minore da qualsiasi forma di violenza. L’aspetto di maggior delicatezza risiede proprio nella previsione che ad accertare la reale esistenza di episodi di violenza sia lo stesso giudice civile o minorile “senza formalità”. A fronte di ciò la Lega ha presentato un subemendamento che va in tutt’altra direzione, puntando a conservare la bigenitorialità e a sanzionare chi inventa episodi di violenza inesistenti. Francamente, qualche dubbio nei confronti della riferita proposta sorge in considerazione del rischio, neanche troppo remoto, di far venire meno il principio del giusto processo e di eliminare le garanzie del genitore accusato di violenza. La mediazione come sempre è affidata alla sapiente gestione del ministro, che siamo certi troverà un punto di equilibrio. Certo, non occorre rivolgersi alla sibilla cumana per prevedere che quelli che verranno saranno mesi complessi per le sorti della giustizia. Alle riforme del processo civile e di quello penale si dovranno aggiungere quelle della magistratura onoraria e soprattutto quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Dopo il via libera di Montecitorio la riforma del processo penale dovrà essere licenziata da Palazzo Madama. Dopo il travaglio che c’è stato alla Camera non dovrebbero esserci colpi di scena e il governo dovrebbe riuscire a portare a casa il provvedimento in tempi relativamente brevi. Parliamo, è sempre bene ricordarlo, di una delega che il Parlamento conferirà al governo a cui poi spetterà il compito di dettagliare in norme procedurali vere e proprie le linee di principio contenute appunto nella legge di delega. Come noto, la parte più spinosa del testo, frutto di un sofferto compromesso, riguarda la prescrizione. Sul punto, in vista dell’approdo al Senato, i più importanti studiosi italiani di procedura penale hanno pubblicamente chiesto un ripensamento rispetto al testo approvato, evidenziando il forte rischio di incostituzionalità della improcedibilità così come ipotizzata. Risulterebbero infatti violati l’obbligatorietà dell’azione penale e il principio di separazione dei poteri, sottolineando poi, fondatamente, come il neo-introdotto istituto processuale non realizzerà l’auspicata riduzione dei tempi, che rischiano invece di essere ulteriormente allungati. L’auspicio formulato da una parte della comunità scientifica è quindi che nel prosieguo dell’iter parlamentare sia presa in seria considerazione la possibilità di un ritorno alla prescrizione sostanziale, ovvero quella del reato (fortemente osteggiata dai 5 Stelle). Il potere assegnato ai giudici di disporre proroghe dei termini dell’improcedibilità, frutto del sofferto compromesso trovato all’interno del governo, finisce, fanno notare gli studiosi del processo penale, per renderli arbitri della scelta se precludere o consentire la prosecuzione dell’azione penale, pertanto, in assenza di parametri prestabiliti, due procedimenti simili potrebbero essere considerati o meno “particolarmente complessi” - e quindi prorogabili - a pura discrezione del giudice, consegnando così alla giurisdizione scelte di politica criminale, in evidente contrasto con il principio di separazione dei poteri. Come non bastassero le difficoltà di gestione delle riferite riforme processuali, altri non meno impegnativi fronti attendono di essere aperti. Un’altra riforma attesa da anni è, infatti, quella dei giudici onorari e di pace, che nei mesi scorsi hanno non senza ragioni animato numerose proteste. A loro, giova ricordarlo, è affidata la gestione di una buona fetta della giustizia civile e, limitatamente ai reati minori, di quella penale. Essendo però ufficialmente liberi professionisti “prestati” alla macchina giudiziaria, è loro negato ogni diritto dei lavoratori subordinati: le ferie, la maternità, la malattia, con ciò sollevando perplessità nella stessa giurisprudenza europea che ha già richiamato l’Italia a una miglior definizione del loro ruolo. Dulcis in fundo, più volte affrontata in queste pagine, resta tutta da affrontare la sfida per la realizzazione di una seria riforma, non solo del suo sistema elettorale, del Csm oltre quella connessa dell’ordinamento giudiziario. In questo ambito domina il tema della responsabilità dei magistrati la cui oramai autoreferenzialità è irrimediabilmente sfociata nell’abuso. Non strettamente rientrante nel perimetro delle riforme collegate al Pnrr, quello in parola è certamente il fronte più complesso e drammatico da affrontare da parte di un governo di larghe intese. L’attuale consiliatura scade nel 2022 e la necessità di cambiare le complessive regole del gioco si fa sempre più urgente. La commissione ministeriale ha formulato una proposta che verte su un Csm composto da venti togati, invece degli attuali sedici, da eleggere con il sistema del voto singolo trasferibile; dieci, invece, in membri laici, e non più otto. Sono state poi ipotizzate norme relative alle porte girevoli tra politica e magistratura e alla composizione della sezione dedicata alla gestione delle azioni disciplinari. Tuttavia, ciò che più rileva è la circostanza che la stessa commissione, con grande onestà intellettuale, ha affermato che per una riforma organica di più ampio respiro occorrerebbe molto più tempo, dovendosi necessariamente lavorare anche sulle regole di gestione dell’autogoverno della magistratura, regole previste in buone parte dalla Costituzione. La sensazione è che, anche qui, il governo proverà a intervenire di fioretto, limitandosi a ciò che proprio non si può non cambiare, come il sistema elettorale del Csm. Realismo e necessità impongono che si inizi a imboccare una strada che, pur senza mortificare alcuno, restituisca ai cittadini la necessaria fiducia verso un organo dello Stato così cruciale nella vita dei cittadini stessi. Se, per un verso, non vorremmo ritrovarci fra qualche tempo a dover amaramente commentare come lo scandalo Palamara, scoppiato oramai già due anni orsono, avesse inutilmente evidenziato quanto necessario si palesava l’azzeramento del potere delle correnti della magistratura, per altro verso qualcuno inizia a domandarsi se davvero quanto è emerso da quella vicenda non contenesse più di una notizia di reato e non solo nei confronti del suo protagonista principale. Come sussurrato purtroppo solo da pochi, fra cui il procuratore Gratteri, quanto è stato addebitato a Palamara è stato reso possibile esclusivamente dalla partecipazione a quelle condotte da un certo numero di consiglieri dei passati, oltre che dell’attuale, Csm. Ma sul punto regna un religioso silenzio. Ciò che è certo è che la nomina del procuratore di Roma, da cui tutto è scaturito, è stata annullata dal giudice amministrativo e la questione resta ancora tristemente e iconicamente aperta. “Basta con le toghe giudicate dagli amici, ora un’Alta Corte” di Errico Novi Il Dubbio, 7 settembre 2021 A Cernobbio, un rapporto dello studio Ambrosetti, che organizza il Forum, rimette sul tavolo l’idea di Violante: portare fuori dal Csm i procedimenti disciplinari sui magistrati e affidarli a un organismo esterno in cui giudici e pm non siano più in maggioranza. Ma mentre il mondo delle imprese incoraggia la politica al giro di vite sulla magistratura, alla festa del Fatto quotidiano Scarpinato e Davigo accusano: “Dietro referendum e riforma Cartabia c’è l’assalto finale dei partiti che vogliono tornare alle mani libere”. Insomma: il caso Palamara non ha fatto ridotto le toghe a più miti consigli. Una dinamica sorprendente, ma che forse annuncia il futuro mood della giustizia. Il nuovo paradigma del conflitto fra magistratura e politica. Domenica, al Forum di Cernobbio, l’ad di Ambrosetti Valerio De Molli rilancia l’idea di una “Alta Corte di giustizia” per valutare le condotte dei magistrati sul piano disciplinare. Un’idea antica, avanzata da Luciano Violante già diversi anni fa, ma che al Forum i padroni di casa inseriscono in un pacchetto di necessarie e auspicabili grandi riforme istituzionali. A segnalarlo è un editoriale firmato sul Corriere della Sera di oggi da Federico Fubini. Che cita Sabino Cassese e Gherardo Colombo tra le figure di alto prestigio chiamate da Ambrosetti a indicare le soluzioni per il futuro dell’Italia. Alla voce “giustizia” la priorità cade dunque sul nuovo tribunale per le toghe. Poi c’è la partita giocata sul fronte opposto. Dai magistrati. Che alla festa del Fatto quotidiano, come riferisce lo stesso giornale di Marco Travaglio evocano un “assalto finale” della politica per una “nuova stagione delle mani libere”. Parole di Roberto Scarpinato, pg di Palermo ma condivise nella sostanza, anche da Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri. Quindi, da una parte un l’addio alla “giustizia fai da te” dei magistrati. Idea già circolante in ambito politico (Andrea Orlando l’ha rilanciata in un’intervista al Dubbio nel maggio scorso, subito dopo che Enrico Letta l’aveva inserita nel Piano dem per la giustizia) ma fatta propria ora dal mondo delle imprese, di Confindustria e dell’università. Dall’altra parte le toghe, secondo le quali non sarebbero loro a doversi sottoporre a un sistema disciplinare meno “casereccio”, ma è la politica che casomai cerca inopinatamente nuove scorciatoie per l’impunità. Prima di tutto con il referendum, spiegano Scarpinato e Davigo, ma anche con la riforma penale di Cartabia. Scontro serio, da non sottovalutare. Perché le migliori intelligenze del Paese riprendono l’ipotesi dell’Alta Corte come risposta agli scandali della magistratura (Palamara è solo un archetipo). E fino a pochi giorni fa sembrava che le toghe e l’Anm fossero sotto scacco, e che anche la riforma del Csm, destinata a entrare nel vivo tra poco, potesse riservare ai magistrati vari giri di vite. Ma a quanto pare la replica dell’ordine giudiziario consiste in un rovesciamento dello schema: non siamo noi ad avere bisogno di una giustizia interna più efficace e credibile, dicono in pratica le toghe, sono i politici che vogliono chiuderci in un angolo per tornare a prima di Mani pulite. Certo, così descritto, il gioco politica-magistrati può apparire semplificato. Eppure rischia appunto di essere il tormentone prossimo venturo, non appena la riforma del Csm guadagnerà il centro della scena. Nel dettaglio, la proposta di “Ambrosetti-The European House” ipotizza un’Alta Corte composta secondo un modello analogo a quanto previsto per la Consulta, e in ogni caso con una quota di magistrati che, diversamente da quanto avviene oggi al disciplinare del Csm, non sarebbe maggioritaria. L’organismo richiederebbe probabilmente una modifica costituzionale, che ragionevolmente non potrebbe entrare nel pacchetto Cartabia. Ma se venisse messa sul tavolo, come il Pd chiede da molto tempo, la partita si surriscalderebbe subito. A proposito delle accuse mosse da Scarpinato e Davigo alla politica, non si tratta di voci estreme e isolate. Con richiesta di riservatezza, un autorevole magistrato con un forte peso nell’Anm, interpellato dal Dubbio, sostiene: “Il referendum sulla custodia cautelare voluto dalla Lega è uno scudo, essenzialmente, per i colletti bianchi: limitare il carcere preventivo sul pericolo di reiterazione incide proprio sui reati contro la Pa. Ma in realtà anche l’ipotesi di pagelle per i pm, che avvicina Pd e FI, favorisce gli accusati di corruzione: è in quei processi”, secondo il magistrato, “che la complessità può esporci a insuccessi”. Ma una proposta come l’Alta corte può entrare nei piani di Cartabia? La ministra, sabato a Cernobbio, ha osservato due cose. Primo, che “i rapporti tra politica e magistratura sono infiammati non da oggi ma da tanti decenni” e “il viaggio della riforma si sta svolgendo, soprattutto su alcuni temi, in un’atmosfera turbolenta come sempre”. Poi ha parlato di riforme che potranno compiersi “a piccoli passi”. Un’Alta Corte, dunque, potrebbe non essere di immediata attualità ma neppure impensabile. D’altra parte, secondo la guardasigilli, “i giudici sono contraddistinti dall’indipendenza e dall’autonomia: non solo l’autonomia dell’ordine giudiziario rispetto agli altri poteri, ma anche del singolo giudice”. Della serie: più che il diritto alla “giustizia fai da te” nel Csm, va assicurata a ciascun singolo magistrato una giustizia anche disciplinare davvero efficace. Sembrano buone premesse culturali, quelle di Cartabia, rispetto a una svolta sugli “autoprocessi” delle toghe. Utili almeno per cominciare a discuterne. “La giustizia al tempo dei migliori”, cronaca di un dibattito giustizialista di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 settembre 2021 Alla festa del Fatto quotidiano va in scena un incontro slegato dalla realtà, non solo nei numeri, ma anche nell’individuazione dei veri problemi della giustizia italiana. Piercamillo Davigo, Nicola Gratteri, Roberto Scarpinato. Più che un dibattito, quello andato in scena domenica pomeriggio alla festa del Fatto quotidiano è sembrato un film dell’orrore (confermato dall’inquietante locandina dell’evento in bianco e nero), con protagonisti tre fra i principali simboli del giustizialismo italiano. Titolo dell’incontro: “La giustizia al tempo dei migliori”. Inutile dire che i “migliori” oggetto di critica e di ironia dall’universo del Fatto sarebbero gli attuali governanti. E inutile dire che le attenzioni del trio forcaiolo si siano concentrate soprattutto sulla riforma del processo penale elaborata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, quella che prevede la velocizzazione dei processi e l’estinzione dei procedimenti che superano la durata di due anni in appello (tre per i reati più gravi) e uno in Cassazione (o 18 mesi). “Si estingueranno tutti i processi”, attacca subito l’ex pm di Mani Pulite, Piercamillo Davigo, paventando di fatto l’estinzione di addirittura un milione di procedimenti (quelli definiti in Italia ogni anno). “Il 50 per cento dei processi non si celebrerà”, afferma però dopo il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Insomma, immediatamente si ha la conferma di assistere a un dibattito del tutto slegato dalla realtà, non solo nei numeri ma anche nell’individuazione dei veri problemi della giustizia italiana (tanto che nessun ospite fa mai cenno al principio - costituzionale - della ragionevole durata del processo). Ma a toccare l’apice della fantasia è Roberto Scarpinato, fino a pochi mesi fa procuratore generale di Palermo (oggi sostituto). La riforma Cartabia è solo l’ultimo tentativo della classe politica di garantirsi l’impunità, sostiene il magistrato, prima di lanciarsi in una particolare analisi della società italiana che vale la pena riportare. “C’è un’ampia parte di questo Paese, trasversale alle varie classi sociali, che per motivi diversi non ha interesse a una giustizia che coniughi garanzie ed efficienza”, afferma Scarpinato. Il pm dice di fare riferimento innanzitutto alla “vastissima area della cosiddetta illegalità di sussistenza: migliaia e migliaia di masse popolari, condannate al degrado e alla povertà irreversibile dalle politiche neoliberiste di questi anni, e che usano l’illegalità come mezzo per mettere insieme pranzo e cena”, dai parcheggiatori abusivi a “quelli inseriti nella filiera della criminalità organizzata”. Tutta colpa del neoliberismo, dunque, anche la mafia: senza le politiche neoliberiste - questa la tesi di Scarpinato - non avremmo poveri e, di conseguenza, personale con cui alimentare la filiera della criminalità organizzata. Ma il meglio non è ancora arrivato. Dopo l’illegalità di sussistenza, secondo Scarpinato viene l’”illegalità diffusa”, quella che va dall’evasione fiscale all’abusivismo edilizio: “Una risorsa, un immenso serbatoio elettorale conteso da tutte le forze politiche, che fanno a gara per proporre senatori e indulti”. Infine c’è “la criminalità delle nostre classi dirigenti”, che - afferma Scarpinato - “sono fra le più corrotte del mondo, che sono state fra le più violente del mondo, che hanno impedito, dalla strage di Portella della Ginestra sino a quelle del ‘92-’93, di scoprire i mandanti delle stragi, e che sono compromesse in modo sistematico con la criminalità organizzata”. Affermazioni a dir poco singolari, ancor di più se si considera che provengono da un magistrato che per quarant’anni ha condotto inchieste anche contro politici ed esponenti delle istituzioni accusati di essere collusi con la mafia (o di aver trattato con essa). Attaccata la riforma Cartabia, però, il confronto organizzato dal Fatto prosegue senza tanti slanci, in maniera stanca, quasi di riflesso all’affaticamento anagrafico dei suoi protagonisti. Davigo è in pensione da un anno e con i suoi continui esempi paradossali sulla giustizia che non funziona è sempre più indistinguibile dal Davigo imitato da Crozza. Scarpinato andrà in pensione a gennaio al compimento dei settant’anni. Continua a vedere complotti criminali ovunque (tanto da affermare che “il 30-40 per cento dei fondi europei finirà nel buco nero della corruzione e dei sistemi criminali”), ma lo fa con un affanno non metaforico. Gratteri, 63 anni, è il più giovane del trio, in cerca di un ultimo incarico di livello (la procura nazionale antimafia?). La platea del Fatto ascolta, ma stavolta con pochi applausi e poco entusiasmo. “Io, donna e avvocato, insultata per aver difeso un accusato di stupro” di Nicola Campagnani Il Dubbio, 7 settembre 2021 “Mi hanno insultata perché facevo il mio lavoro: da avvocata assistevo un accusato di stupro”. Ilaria Perruzza ha incontrato a Rimini Roberto Sensi nel suo viaggio oltre i pregiudizi per raccontare la sua storia. Il tema del diritto alla difesa non sembra ancora compreso o accettato da alcuni. E a pagarne le conseguenze sono spesso avvocati trattati alla stregua di criminali. “Nel mio caso - aggiunge Perruzza - il fatto che fossi donna era un’aggravante”. Che cos’è il diritto alla difesa? Premetto che un paese civile e democratico si riconosce dal suo ordinamento giuridico, che deve garantire a chiunque, sia indagato che imputato, il diritto a un processo equo. Il complesso delle norme costituzionali, il codice penale e di procedura penale esprimono un principio fondamentale che dovrebbe essere conosciuto e rispettato anche da chi non abbia cognizione specifica di materie giuridiche: la presunzione di innocenza della persona accusata, finché non intervenga una sentenza definitiva, che sia di condanna o di assoluzione, rappresenta il cardine fondamentale del processo. Ma spesso gli imputati scontano un pre-giudizio prima ancora di essere giudicati. Perché? Purtroppo succede, soprattutto nei procedimenti penali relativi a fatti che suscitano particolare attenzione per la loro gravità. Accade che gli organi di informazione puntino la loro attenzione esasperata sul caso, suggestionando nell’opinione pubblica un pregiudizio negativo e a volte infondato, che può essere causa di gravi danni a carico di accusati o anche di persone offese dal reato. Frequentemente assistiamo a dibattiti televisivi nei talk show nel corso dei quali, presunti esperti pretendono, sulla base di pochi elementi a loro resi noti, di avere magari, già la certezza della colpevolezza di un indagato, senza possibilità che questi possa replicare. E così si ritrova addosso un pregiudizio anche l’avvocato difensore... È incredibile vedere come molti profani, nascondendosi dietro l’anonimato di una tastiera, si scaglino anche contro l’avvocato. Non comprendendo che il difensore garantisce unicamente che nel processo vengano rispettati i diritti degli imputati e ciò certamente - non dovrebbe essere necessario sottolinearlo - non comporta alcuna approvazione del reato per il quale si procede. Nel suo caso come è andata? Mi era stata conferita una nomina d’ufficio per la difesa di una persona arrestata con una pesante accusa di stupro in concorso con altri soggetti. I fatti ebbero enorme risonanza: l’indagato era un giovane ragazzo africano e tutti gli organi di informazione, persino di altri Paesi europei, per giorni assediarono anche il mio studio con richieste pressanti di informazioni sul caso. Inoltre, non appena era stato reso noto il mio nome in qualità di difensore, assurdamente fui oggetto, attraverso i vari social, di attacchi violenti e di minacce assolutamente irragionevoli e ingiustificabili. Posso fare l’esempio di più persone che mi auguravano di essere vittima della stessa violenza e abusi subiti dalla vittima, scatenando una vera e propria campagna di odio e di incitamento al linciaggio mediatico. Pensa di aver scontato anche il fatto di essere donna? Sì, qualcuno mi rivolgeva pesanti insulti e minacce anche in quanto donna. Evidentemente riteneva che non avrei dovuto accettare l’incarico, senza considerare che tale atteggiamento era oltremodo offensivo nei confronti di tutte le donne, in quanto un avvocato, donna o uomo che sia, nell’ambito del processo è solo un professionista che adempie a un alto dovere. Sarebbe stato sufficiente comprendere che in Italia nessun processo può essere celebrato senza che l’imputato abbia un difensore. Quello che fu per me motivo di grande delusione, venne da violenti attacchi sui social che mi furono rivolti da donne. Ma ci fu anche una grande manifestazione di solidarietà espressami dalla maggior parte di colleghi e colleghe. La domanda che molti Le farebbero è perché un reo che confessa il peggiore dei crimini deve essere difeso... Una domanda che viene rivolta frequentemente a me come anche a tutti gli avvocati penalisti: “come fai a difendere un reo confesso?”. Sinceramente è una domanda che mi pare banale quanto ingenua. Molte persone assolutamente disinformate o forse poco ragionevoli, sono forse condizionate dal verbo “difendere” e pensano che un avvocato in pratica approvi il reato che una persona ha commesso o abbia qualche particolare affinità con le persone che difende, approvandone la condotta: nulla di più sbagliato. Mi pare inutile doverlo sottolineare ancora una volta, ma deve essere chiaro che il dovere di un avvocato è quello di interpretare coscienziosamente il suo ruolo, al fine di garantire a chi compare al cospetto del giudice, tutti i suoi diritti, senza alcuna eccezione. Se si è bravi si può far assolvere un colpevole: questo aspetto del tuo lavoro a molti non va giù. Cosa risponde a chi descrive il suo mestiere come quello di una complice di criminali? In realtà nell’ambito del processo penale esistono regole che l’accusa e la difesa sono tenute a rispettare rigorosamente. L’avvocato incorrerebbe in un infedele patrocinio se non facesse rilevare eventuali errori commessi da chi rappresenta l’accusa e pertanto assume persino una importanza secondaria che l’imputato sia colpevole, quando si riesce ad ottenere una assoluzione. Questo a sottolineare che il compito dell’avvocato è quello di articolare una difesa “tecnica” nel miglior modo possibile, che faccia riferimento al complesso di principi e di norme che regolano lo sviluppo dell’iter processuale. “Io, in carcere per mafia graziato da Mattarella. Coi miei figli fingevo di essere in missione” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 7 settembre 2021 Il regista di film antimafia Ambrogio Crespi ha avuto una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Poi l’intervento del presidente della Repubblica. “Io innocente, ricorrerò in Europa”. “Il carcere che ho vissuto io, cioè quello di massima sicurezza per i mafiosi, è duro: se poi lo condividi con chi hai combattuto, diventa difficile e ti segna. Io non ho mai iniziato a pensare come un detenuto. E tra i detenuti ho trovato tanta voglia di cambiare e di riscatto, che non è mai scontata e non è maggioritaria. Ma in carcere la sofferenza è inaudita. Specie se, per non traumatizzare i tuoi figli piccoli, devi inventare una straordinaria narrazione in cui il loro papà è dovuto di colpo sparire in missione segreta, dentro un bunker, per far fare la pace a due popoli... Non volevo che, andando a trovare il papà, finissero per sentire come “nemici” gli agenti, le divise, la legge, la giustizia, e magari invece come “amici” proprio quelli dietro le sbarre. E lo straordinario è che anche a scuola tutti i genitori degli altri bambini hanno coperto questa storia, è stata davvero una magia...”. Mica male come Zelig giudiziario: nello stesso uomo, Ambrogio Crespi, ecco un condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa (elezioni 2010 a beneficio dell’assessore regionale lombardo Domenico Zambetti), ma anche un regista di film antimafia, e ora anche un graziato (in parte) dal presidente della Repubblica che ebbe il fratello ucciso dalla mafia. Con chi dunque si parla, quando si parla con Ambrogio Crespi? “Con una brava persona, padre di due figli, marito di una donna fantastica, regista per passione - si descrive. La condanna è una cosa lunare, assurda, non mi appartiene, culturalmente incompatibile con le mie posizioni, e per me basta leggere le carte del processo per rendersi conto che esiste un solo Ambrogio. Sono stato condannato - ritiene - per una telefonata anni dopo le elezioni, e per aver fornito voti a un politico a me sconosciuto”. Detenuto a scontare 6 anni, Ambrogio Crespi (fratello di Luigi, che nel 2001 fu il sondaggista anche di Berlusconi) sei mesi fa ha ottenuto il differimento della pena sino al 9 settembre, in attesa della decisione del Quirinale sulla grazia chiesta da sua moglie e in effetti arrivata il 2 settembre dal presidente Sergio Mattarella: ma parziale, su un segmento di 14 mesi che fa scendere la pena residua sotto il tetto dei 4 anni, dunque scontabili (lo deciderà il Tribunale di Sorveglianza) o in affidamento in prova ai servizi sociali o di nuovo in carcere. Intanto mercoledì il regista di “Terra Mia” e dei documentari su Enzo Tortora e sul Capitano Ultimo, per adesso libero, tornerà al Festival del Cinema di Venezia, dove era già stato nel 2016 con il docufilm sul carcere in Italia Spes Contra Spem, alla presenza dell’allora Guardasigilli Orlando: “Ma ci torno come autore de Le 7 giornate di Bergamo - spiega Crespi - grazie alla società di comunicazione PSC per cui lavoro e che mi ha consentito di contribuire alla sceneggiatura del film diretto da Simona Ventura” sulla Bergamo flagellata dal Covid. La giudice di sorveglianza, nel concedergli a giugno il differimento della pena, ha scritto che c’è una certa “difficoltà a conciliare” il condannato Crespi “con l’uomo di oggi, divenuto un simbolo positivo anche della lotta alla mafia” da quando “ha indirizzato le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute come efficaci strumenti di messaggi di legalità e lotta alla criminalità”. Esistono quindi due Ambrogio Crespi?: “No!! Esistono due questioni. Il reato, per cui sono stato condannato e per il quale, benché estraneo, mi sono costituito. E la pena, che per la Costituzione deve avere un fine riabilitativo. Il Tribunale di Sorveglianza mi ha restituito la libertà ritenendo che nel mio percorso non fosse necessaria la correzione carceraria, e usando per me parole lusinghiere che ho atteso per anni. Il gesto di clemenza del presidente Mattarella, egli stesso vittima di mafia per l’assassinio di suo fratello Piersanti, nell’anniversario della morte del generale Dalla Chiesa, e a soli 6 mesi dalla mia condanna in Cassazione, ha un valore umano e politico straordinario”. La grazia però non cancella la condanna nei tre gradi: “Io ho accettato la sentenza ma, poiché ha condannato un innocente, non mi resta che chiederne la revisione e ricorrere a Strasburgo: ritengo di essere stato condannato in base al libero e legittimo convincimento dei giudici di tre gradi di giudizio senza prove e riscontri fattuali”. Calamita di due letture contrapposte - vittima di un errore giudiziario in qualche modo in via di rattoppo, o furbastro trasformato in “santino” dalla mobilitazione di una lobby mediatica e politica -, Crespi prova a smarcarsi: “Credo nella giustizia, e credo d’avere diritto di essere giudicato per quello che non ho fatto, senza pregiudizi. Poi c’è la mia vita oggi e in questi anni, sotto gli occhi di tutti. Io sono nudo”. In carcere, dice, tornerà comunque: “È un dolore che ti fa apprezzare il rumore della vita intorno a te. Sì, ci tornerò da regista e da volontario di Nessuno Tocchi Caino”. Trani. Incompatibile con il carcere: muore in attesa di un ricovero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2021 Fedele Bizzoca, soffriva di una grave patologia psico-fisica, era in attesa di entrare nella Residenza socio-sanitaria. La settimana scorsa abbiamo segnalato un caso simile a Foggia: Giuseppe Giorgio è ancora recluso. Nonostante i medici lo hanno dichiarato incompatibile con il carcere per motivi di grave salute psico fisica, era rimasto nel carcere di Trani. Alla fine è morto il 3 settembre scorso. Parliamo del 41enne Fedele Bizzoca, recluso per spaccio di stupefacenti. Soffriva appunto di una grave patologia psico-fisica, era detenuto dal gennaio di quest’anno nell’Istituto di Trani: l’incompatibilità con la detenzione in carcere era stata valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità sanitarie del carcere. Caso segnalato già dal Garante a luglio - Il Garante nazionale delle persone private della libertà è intervenuto a verificare le sue condizioni di vita detentiva, su segnalazione del difensore e della Garante del comune di Trani, Elisabetta de Robertis, nel corso della visita regionale condotta in Puglia nello scorso mese di luglio, incontrandolo personalmente all’interno della stanza di pernottamento in cui era collocato. Il Garante, in un comunicato, denuncia che si è dovuta riscontrare l’assoluta inadeguatezza di tale collocazione, in una sezione a gestione esclusivamente penitenziaria in cui non era predisposta alcuna assistenza sanitaria adeguata alla cura e al trattamento delle particolari condizioni di sofferenza della persona. Tutto era soltanto rimesso, insieme con la gestione complessiva dei bisogni quotidiani, al solo impegno degli agenti della Polizia penitenziaria. Le condizioni materiali e igieniche che la delegazione del Garante ha riscontrato, si presentavano “molto oltre ogni parametro di minima decenza e salubrità”. La sezione di appartenenza, inoltre, era la nota “Sezione Blu” di cui era stata definita la chiusura nel mese di novembre 2020: il Garante nazionale ha dovuto constatare non soltanto la sua riattivazione, ma anche l’improprio utilizzo per la gestione di casi problematici, in particolare di natura psichiatrica. Era in attesa di entrare nella Residenza socio-sanitaria - Il Garante nazionale sottolinea che Fedele Bizzoca era in attesa di entrare nella Residenza socio-sanitaria della quale era stata reperita la disponibilità dal mese di luglio: attesa determinata dalla ricerca di un soggetto che potesse far fronte al pagamento della retta. Tutte le circostanze riscontrate sono state portate all’attenzione della magistratura di Sorveglianza di Bari, con la quale il Collegio del garante nazionale ha tenuto un incontro al termine della missione. Il Garante fa una riflessione più ampia: “Si tratta di circostanze che interrogano non soltanto l’Amministrazione penitenziaria ma l’intero sistema dei servizi sanitari e sociali”. Oltre a offrire il proprio contributo di conoscenza alla Procura della Repubblica che ha aperto l’indagine sulle cause della morte, presentandosi nel processo come persona offesa, l’autorità del Garante Nazionale intende porre questi interrogativi a ogni soggetto responsabile per scongiurare il perdurare delle gravi mancanze che hanno segnato la detenzione di Fedele Bizzoca. Il caso simile di Giuseppe Giorgo, recluso a Foggia e in attesa di un ricovero - Situazioni che purtroppo non sono rare. Poco tempo fa, Il Dubbio ha dato notizia di una vicenda simile, conclusasi fortunatamente senza esito nefasto. Almeno per ora. È il caso di un 30enne potentino, Giuseppe Giorgio, vicenda ripresa anche dal Quotidiano del Sud a firma di Leo Amato, affetto da una patologia che lo renderebbe, stando a due distinte perizie, incompatibile col carcere. Eppure - come ha denunciato a Il Dubbio l’avvocata Ameriga Petrucci - è in cella da più di un anno e mezzo, e rischia di restarvi ancora a lungo per scontare una condanna a 7 anni di reclusione. Anche in questo caso, la riflessione è ampia e riguarda i servizi sanitari. Parliamo di un ragazzo che, preso dal delirio psicotico, ha aggredito due persone in un supermercato. Già, in passato, prima di commettere il reato, ha subito un trattamento sanitario obbligatorio a causa della sua psicosi, ma il servizio sanitario locale non lo ha seguito. La riforma della legge Basaglia che ha abolito i manicomi si regge esattamente sul fatto che nel territorio esista una rete di servizi e presa in carico delle persone affette di patologie psichiatriche. Se alcune realtà non le mettono in pratica, si creano situazioni come questo ragazzo. E alla fine il carcere diventa un contenitore di tutti questi fallimenti. Un contenitore, però, del tutto inadeguato. Firenze. Inferno Sollicciano: degrado e condizioni precarie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2021 Come già riportato da Il Dubbio, nei giorni scorsi un detenuto è morto nel carcere di Sollicciano, a Firenze, con la testa incastrata nello spioncino per il passaggio del cibo. L’uomo era in una cella della sezione transito e la causa della sua morte è tuttora da chiarire. Ciò però ha riportato al centro dell’attenzione le condizioni precarie del carcere fiorentino. Condizione, ovviamente, non unica nel panorama penitenziario. L’associazione Antigone ricorda di aver visitato nei mesi scorsi la struttura penitenziaria, evidenziando le grandi criticità riscontrate. Dalla scheda aggiornata dall’associazione, emerge che l’istituto presenta gravi carenze dal punto di vista edilizio. Infiltrazioni, cedimenti strutturali, sprofondamenti delle fondamenta, umidità, crepe e intonaco cadente rendono la struttura del tutto fatiscente. Gli spazi sono stretti e angusti. Le camere di pernottamento del femminile subiscono una riduzione dello spazio dovuta all’inserimento di un terzo letto nelle stanze doppie, di fatto rendendole triple. Tale modifica è stata introdotta in seguito al temporaneo arrivo delle detenute del carcere di Pisa, la cui sezione femminile risultava inagibile per lavori in corso. Nonostante nei primi mesi del 2021 le recluse di Pisa siano rientrate, le stanze mantengono il terzo letto, che compromette la vivibilità del perimetro. Non solo. Antigone sottolinea che al maschile manca l’acqua calda. All’interno delle sezioni si segnala la mancanza di spazi comuni e di socialità, cosa che grava soprattutto sulla detenzione maschile che, a causa della mancata applicazione del regime di sorveglianza dinamica, è sottoposta a un regime di maggiore chiusura rispetto al femminile, dove le camere di pernottamento sono aperte da mattina a sera. Dopo i lavori che hanno portato all’apertura dell’articolazione dedicata alla salute mentale (Atsm) nel 2019 - ubicata nei pressi del femminile, nell’area precedentemente dedicata alla Casa di Cura e Custodia e dedicata ai reclusi uomini - è prevista la partenza di una seconda consegna dei lavori, a cominciare dal femminile, dove i gravi cedimenti strutturali rendono inagibile parte degli spazi da oltre 10 anni. Con una popolazione reclusa straniera pari al 70%, Antigone segnala l’assenza di mediatori culturali. Solo una persona presta, su base volontaria, un servizio di mediazione destinato ai reclusi provenienti dalle aree del Maghreb. Carenti attività culturali, ricreative e sportive, così come il lavoro. Recentemente vi ha fatto visita anche l’associazione “Progetto Firenze”. La delegazione era composta da Grazia Galli, Sandra Gesualdi, Donella Verdi, Emanuele Baciocchi, Dmitrij Palagi (consigliere comunale), Massimo Lensi. Tra i partecipanti anche l’avvocato Massimiliano Chiuchiolo (Osservatorio Carcere della Camera Penale di Firenze). Hanno dipinto un quadro altrettanto impetuoso. La direzione del carcere risulta ancora pro tempore; il corpo di Polizia Penitenziaria è sotto organico; l’area educatori è fortemente sotto organico: il personale sanitario è sotto organico e in parte precario. Non solo. La delegazione del Progetto Firenze ha rilevato che il carcere di Sollicciano è ancora in sovraffollamento: 633 detenuti (su una capienza regolamentare di 491 posti più 35 posti non disponibili), 569 uomini (di cui 335 al giudiziario, custodia cautelare), 64 donne (di cui 27 al giudiziario), bambini 1 (nato il 27 luglio, pochi giorni fa). Come se non bastasse, sono in aumento i detenuti con patologie psichiatriche. Firenze. “Sollicciano senza guida. Da 11 mesi è difficile parlare con qualcuno” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 7 settembre 2021 A colloquio con l’ex vicensindaco Giuseppe Matulli, volontario in carcere: “Risolviamo i piccoli problemi dei detenuti. Il mio impegno? Non me ne ero mai occupato, ho colmato una mia lacuna”. “Fino a qualche mese fa noi volontari andavamo in carcere e discutevamo dei problemi con il direttore. Oggi questo è sempre più difficile perché a Sollicciano non c’è una direzione permanente...”. Giuseppe Matulli, ex vicesindaco di Firenze, è oggi presidente dell’associazione di volontariato Pantagruel. I volontari incontrano i detenuti e li aiutano nei bisogni più elementari: dalle telefonate all’avvocato fino all’acquisto di uno spazzolino. “Bisogni che dovrebbero essere garantiti dalla Costituzione, a cui invece pensiamo noi sopperendo alle carenze dello Stato”. I volontari avrebbero bisogno di un confronto serrato con i vertici del carcere per tentare di risolvere i disagi dei reclusi. “Sollicciano - dice Matulli - non è adeguatamente governato perché da undici mesi manca una direzione stabile. L’attuale direttrice di Sollicciano è anche la direttrice dell’adiacente istituto penitenziario Mario Gozzini. Un direttore temporaneo può andar bene per due o tre settimane, ma non per 11 mesi. Questo lascia interdetti ed è il segno dell’estrema burocrazia che c’è all’interno dell’amministrazione penitenziaria”. D’altra parte, dice Matulli, il tema carcere “non interessa all’opinione pubblica visto che la maggior parte delle persone concorda nel chiudere i reclusi in cella e buttare via la chiave”. Eppure il carcere, “dovrebbe essere al centro della città così come gli ospedali, per riprendere un’espressione usata da Giovanni Michelucci”. Ecco perché “tutte le istituzioni, nazionali e locali, sono chiamate a impegnarsi di più su questo fronte”, tanto più che “rispetto a quando ero nella giunta comunale 12 anni fa, Sollicciano si è ulteriormente degradato”. Matulli, durante la sua esperienza di vicensindaco e parlamentare, non si è mai occupato di carcere: “È un grande rimpianto e proprio per colmare questa lacuna ho scelto di fare il volontariato tra le sbarre”. Secondo Matulli, tra i problemi principali di Sollicciano, “c’è l’eccessiva presenza in carcere di detenuti tossicodipendenti. La loro presenza contribuisce decisamente al sovraffollamento di Sollicciano”. E poi c’è la questione lavorativa: “Sono pochissimi i reclusi che hanno un lavoro. Questo è un grande problema: chi sconta la pena in carcere ha una possibilità di recidiva del 70%, mentre chi la sconta lontano dalle sbarre del 15 %”. Ecco perché Matulli invita le istituzioni a fare come succede a Bologna, “dove il Comune ha fornito alle associazioni otto appartamenti dove inserire e recuperare gradualmente alcuni detenuti accompagnandoli al lavoro e all’autonomia”. Brescia. Sistema carcerario e ricadute pandemia, se ne parla a Gavardo primabrescia.it, 7 settembre 2021 Gli incontri sono organizzati da “Gavardo in movimento”, si terranno mercoledì 8 e 15 settembre alle 20.30 al Parco Baronchelli. A Gavardo in programma due importanti serate di approfondimento a cura di “Gavardo in movimento” per parlare del sistema carcerario in Italia e dell’impatto che la pandemia avrà sui giovani. La prima serata è in programma mercoledì 8 settembre, a seguire quella di mercoledì 15 settembre: due incontri gratuiti ed aperti a tutti (previa iscrizione) per affrontare due importanti tematiche. Si terranno a Gavardo, al Parco Baronchelli, nel pieno rispetto delle normative vigenti sul Covid, con inizio alle ore 20:30. Questi due appuntamenti affrontano tematiche di interesse generale e con respiro non strettamente locale, seguendo la vocazione che sempre ha contraddistinto Gavardo in movimento. Le sbarre e la costituzione - Il carcere, la pena e il reinserimento, questi i temi al centro dell’incontro di mercoledì 8 settembre. Il tema del carcere è sempre di attualità, anche a Brescia. I due istituti di pena cittadini soffrono di sovraffollamento e di vecchie, inadeguate strutture. Le indagini e le ricerche più recenti collocano quindi Brescia al fondo delle classifiche nazionali, anche per quanto concerne il rispetto dei diritti dei detenuti. Viceversa, nuovi modelli legati al lavoro nelle carceri e al graduale reinserimento nella società mostrano la loro efficacia nella drastica diminuzione della recidiva. La stessa Costituzione afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Giusta la pena, necessaria la dignità. Interverranno: Carlo Alberto Romano, Professore di criminologia Università di Brescia e Presidente Associazione Carcere e Territorio e Marco Dotti, Agente di rete della Cooperativa di Bessimo Onlus (opera nel carcere di Canton Mombello). La serata sarà impreziosita dalla testimonianza di una persona con esperienza detentiva e di un volontario. Napoli. “La voce di Abdul”, presentazione del progetto per minori a rischio napolitoday.it, 7 settembre 2021 Sensibilizzare i minori a rischio, italiani e non, presenti nelle carceri e gli studenti delle scuole superiori sui temi dell’odio razziale e dell’omofobia, promuovere concorsi letterari, artistici e laboratori multimediali sulle problematiche dell’immigrazione per poter contare su produzioni da proporre nelle aste di beneficenza con incassi devoluti ad enti pubblici ed associazioni di categoria al fine di creare dei laboratori multimediali e di indirizzare i giovani a professioni del settore cinematografico. Questi gli obiettivi del progetto “La Voce di Abdul”, promosso dall’associazione Anthos, che sarà lanciato sabato 11 settembre in una serata-evento in programma a partire dalle ore 20,30 presso l’agriturismo Greenland di Castellammare di Stabia e che sarà presentato in anteprima alla stampa cittadina giovedì 9 settembre alle ore 12 alla libreria The Spark di piazza Borsa. All’incontro con i giornalisti, moderato da Ornella Mancini, prenderanno parte Patrizia Canova, associazione Anthos; Tristano Ravallele dello Joio, presidente Parco Regionale dei Monti Lattari; Salvatore Suarato, Movieland; Antonio Peytrignet, vice presidente del Club Supercar; Stefano Amatucci, regista; Luisa Amatucci, attrice; Abdul Shuab, testimonial. Ospite speciale, l’avvocato Hillary Sedu, vittima recentemente di un episodio di discriminazione presso il Tribunale per i minorenni di Napoli. Nel corso della conferenza stampa sarà proiettata una clip del film “Caina”, realizzato gratuitamente dalla Casa di produzione Movieland, che ‘racconta’ l’immigrazione attraverso gli occhi di una donna, Caina appunto, che per mestiere smaltisce i cadaveri degli immigrati. Il film sarà proiettato prossimamente nelle scuole e negli istituti di rieducazione minorile. L’Associazione Anthos, che ha sede a Pompei, prendendo spunto dalla storia del giovane immigrato Abdul, punta a sensibilizzare le coscienze sul tema dell’immigrazione attraverso un punto di vista alternativo, dando voce a chi non è sopravvissuto al viaggio della speranza. Non è casuale la scelta della location che ospiterà la conferenza stampa. La libreria “The Spark”, infatti, è un presidio culturale di respiro europeo al centro di Napoli che ha deciso di accogliere Abdul e di stringersi attorno a lui e alla sua storia. L’evento punta a dimostrare quanto la città di Napoli, come comunità, sia sensibile al tema della discriminazione e che soprattutto sappia approfondirlo analizzandone le radici. Milano. Monache di clausura e carcerate: dietro le grate, l’anima Famiglia Cristiana, 7 settembre 2021 Alla Basilica di San Carlo al Corso a Milano fino al 19 settembre la mostra fotografica a ingresso libero “Il mondo dentro”. L’autrice è entrata in tre monasteri di clausura e nel carcere di Bollate. Un viaggio fotografico per documentare due mondi apparentemente lontani fra loro, ma per tanti aspetti invece molto simili e complementari: quello delle monache di clausura e quello delle detenute. Monasteri e carceri sono il focus della mostra “Un mondo ‘dentro’- Clausura e carcere”, a cura di Eliana Gagliardoni, inaugurata oggi lunedì 6 settembre nella Basilica di San Carlo al Corso, situata nell’omonima piazza, lungo il corso Vittorio Emanuele, a Milano. Per la realizzazione di questo progetto, che ha richiesto oltre un anno di lavoro, Eliana Gagliardoni ha fotografato le monache di clausura di tre monasteri - due dell’ordine delle Benedettine e uno dell’ordine delle Carmelitane - per la precisione il Monastero di San Benedetto di Via Bellotti, a Milano, la comunità monastica delle Benedettine dell’abbazia di Viboldone, frazione di San Giuliano Milanese, e il Monastero di Santa Maria del Monte Carmelo di Concenedo, in provincia di Lecco. Pochissimi fotografi hanno avuto il permesso di entrare in un monastero per fotografare la clausura e, in questo senso, Eliana Gagliardoni è stata forse l’unica ad aver ottenuto questo privilegio grazie alla speciale concessione fattale dal Vicario Episcopale della Diocesi di Milano. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte del Ministero di Grazia e Giustizia di Roma, la Gagliardoni è entrata infine anche nel carcere di Bollate, all’interno del quale ha ritratto donne detenute. Dall’accostamento inedito tra queste due realtà nasce quindi l’idea di dar vita alla mostra “Un mondo ‘dentro’”, già proposta con grande successo nel gennaio del 2020 nella Sala dell’Antico Oratorio della Passione della Basilica di Sant’Ambrogio e ora, a distanza di quasi due anni, allestita nuovamente nella cornice di un’altra location ecclesiastica di grande pregio nel centro di Milano. “Al di là di alte mura e finestre con sbarre che lo sguardo non può oltrepassare” spiega Eliana Gagliardoni “esistono vite, realtà nascoste. Sono vite che incuriosiscono, talvolta insospettiscono o generano opinioni pregiudizievoli. Quante persone, come me, si sono chieste quale sia il senso di una vita da recluse? Monache di clausura e donne detenute: l’accostamento potrebbe sembrare una forzatura, ma la possibilità di una ‘crescita interiore’, sebbene parta e progredisca in contesti diversissimi e contrapposti, si rivela una grande occasione per entrambe. Si tratta di due mondi apparentemente distinti e lontani, ma invisibilmente connessi da un potente strumento: la Preghiera. Le monache di clausura pregano, non solo per sé stesse, ma anche per chi chiede un aiuto e, in tal senso, pregano soprattutto per chi vive un regime detentivo, mantenendo spesso relazioni epistolari con uomini e donne recluse”. A Eliana Gagliardoni è stata concessa l’opportunità di conoscere tutte queste donne, di varcare le porte dei loro ?mondi” e di condividere per qualche ora la loro esperienza. Attraverso questo progetto, reso possibile grazie al prezioso contributo, al supporto e alla collaborazione della Caritas Ambrosiana e di Don Marco Recalcati, cappellano del carcere milanese di San Vittore, la fotografa ha potuto conoscere persone di grande levatura spirituale e persone che hanno sbagliato e stanno consapevolmente pagando per i propri errori. “Le une e le altre” conclude “mi hanno accolto con gentilezza, benevolenza e amicizia e a tutte loro, indistintamente, riservo la mia gratitudine”. Per tutta la durata della mostra fotografica saranno in vendita sia le opere esposte sia dei cofanetti contenenti le fotografie più significative, intervallate da veline trasparenti con frasi di alto valore spirituale scritte dalle monache di clausura, che hanno partecipato e dato il loro personalissimo contributo alla realizzazione del progetto. Non manca un risvolto solidale. Al termine dell’esposizione, infatti, il ricavato di tale vendita verrà in parte devoluto a Don Marco Recalcati in favore di detenuti della casa circondariale di San Vittore particolarmente bisognosi e delle loro famiglie che, a causa della reclusione del proprio congiunto, versano in condizioni di grave disagio e difficoltà. La mostra fotografica “Un mondo ‘dentro’” sarà visitabile fino al 19 settembre dal lunedì al sabato, dalle ore 9.30 alle 12.00 e dalle 16.00 alle 18.30, e la domenica, dalle 9.30 alle 12.00 e dalle 15.30 alle 17.30. L’ingresso è libero e contingentato. Rap, sogni e segreti dei ragazzi di un carcere minorile di Francesco “Kento” Carlo Il Domani, 7 settembre 2021 Isaia, Hicham, Abbas, Giovanni, Ibrahim, Luca: questi non sono i loro veri nomi, perché ovviamente voglio e devo rispettare la riservatezza intorno alle loro giovani vite e alle loro storie difficili. Ma le loro storie sono vere, così come la loro voglia di esprimersi in rima e il loro disperato bisogno di umanità e normalità. Il lockdown è stata una gigantesca parentesi che ha rinchiuso tutti, e un problema ancora più grande per i ragazzacci del carcere minorile in cui - in quel periodo - tenevo il mio laboratorio di scrittura rap. In un ambiente così fisicamente ristretto, in una vicinanza così imposta, pensate che ossimoro tremendo possano essere state le norme di distanziamento, piovute addosso ai giovani come l’ennesima regola incomprensibile tra le tante che sono costretti ad osservare. Da un giorno all’altro, il mio corso e tutte le altre attività sono state sospese. Viste le cruente e drammatiche rivolte scoppiate in alcune carceri per adulti, la sicurezza è stata rafforzata (ma, per fortuna, è stato rafforzato anche il supporto psicologico). I colloqui con i parenti sono stati interrotti. I ragazzi si sono trovati rinchiusi a fissare il soffitto senza niente da fare se non abbandonarsi alle paranoie ogni volta che il compagno di cella faceva mezzo colpo di tosse. Appena è calata la sera, è iniziata la battitura, che è la forma più comune di protesta all’interno di ogni prigione e consiste nello sbattere qualsiasi oggetto contro le sbarre o il blindo, creando - se tutti partecipano attivamente - un rumore infernale, continuo, che non può essere ignorato. E, in effetti, la battitura qualche effetto lo ha sortito. I ragazzi che presentavano sintomi sospetti sono stati testati, risultando per fortuna negativi. I colloqui con le famiglie sono stati permessi via Skype e, quando i genitori non avevano computer o smartphone a disposizione, si è riusciti perfino a procurarne un paio. La situazione è rimasta tesa per parecchie settimane, ma niente a che vedere con i casi drammatici successi in giro per l’Italia. Io sono riuscito, tramite un’educatrice, a contrabbandare alcuni video messaggi al mio gruppo, in cui un po’ parlavo di rap e un po’ raccomandavo di stare calmi visto che, in caso di intemperanze, i primi a pagarne amaramente le conseguenze sarebbero stati loro. Quando, finalmente, i cancelli si sono riaperti per me, ero impaziente di capire cosa avrei trovato. Alla guardiola all’ingresso ho incontrato l’agente di sempre, che anche stavolta mi ha chiesto il documento. Dopo averglielo consegnato, mi ha dato da compilare l’autocertificazione Covid. Ho scritto, ho firmato, gliel’ho passata. Ha scosso la testa: “Manca il numero del documento!”, “Ma… il documento l’ho appena dato a lei! Non è che me lo ricordo a memoria…”. Mi ha ridato la carta d’identità elettronica, ha atteso che ne trascrivessi i dati e poi si è ripreso tutto con un sospiro esasperato. Poi si è contorto sporgendo solo il braccio con il termometro a infrarossi per misurarmi la temperatura e mi ha aperto il cancello. Per una volta, nessuna perquisizione. Il bar che si trova all’ingresso è rimasto chiuso parecchi mesi, ma la signora al banco - ormai vecchia amica - sembrava più preoccupata per me: “E quando ricomincerai a fare concerti?”. Non le ho detto che stavo scrivendo un libro che parla anche di lei, e che sarebbe uscito da lì a poco (nda: il mio “Barre - Rap, Sogni e Segreti in un Carcere Minorile” è stato pubblicato quest’anno). Il motivo dell’omissione è che a prendere il caffè c’erano anche un paio di assistenti di polizia penitenziaria e non volevo che la notizia del libro li mettesse sulla difensiva nei miei confronti. Quindi ho sorriso, le ho risposto che in qualche modo avrei fatto e le ho chiesto notizie della salute e della sua gamba malandata, al cui femore si era dovuta far impiantare una protesi qualche mese prima. Va bene, mi ha risposto. Purtroppo mamma sua non tanto. Il Covid? No, quello per fortuna no. Però aveva sempre le palpitazioni, l’hanno dovuta portare in ospedale, dove le hanno messo “un playmaker”. “Un peacemaker”, ha corretto uno degli agenti, con l’aria di chi ne sa. Io, ovviamente, ho evitato a mia volta di correggere lui, e per un attimo mi è venuta in mente l’immagine di un minuscolo John Stockton nel cuore dell’anziana signora, impegnato a gestire battiti e flussi sanguigni con la stessa maestria con cui smazzava assist a Karl Malone. Ho trovato i ragazzi intristiti, chiusi in comportamenti ripetitivi. Ancora più carcerati di come li avevo lasciati. Isaia ha una brutta orticaria sul braccio destro, e non smette di grattarsi. Hicham è scappato dalla comunità dove l’educatrice era riuscita a farlo assegnare. Nella totale clausura di aprile 2020, quando tutta l’Italia stava barricata in casa, ha avuto la brillante idea di cercare di prendere un treno alla stazione del paesino dove appunto aveva sede la comunità. I carabinieri lo hanno identificato e riportato in carcere per direttissima. I loro rap sono diventati più tristi, più chiusi. Le speranze di cui erano carichi - a volte ingenue ma tremendamente reali - sono state sostituite dal nichilismo e dai “lasciatemi in pace”. Ricominciare, in qualche caso, è stato più difficile che avviare un percorso da zero. Mi sto facendo aiutare da Abbas, che è stato trasferito da poco ma ha un carattere aperto ed è benvoluto da tutti, e in più mi dice che fa già rap da un po’. Gli chiedo di farmi sentire uno dei suoi testi, e lui inizia subito con una bellissima strofa che parla di libertà e futuro. A un certo punto si rende conto che la sto cantando insieme a lui: il mascalzone sta spacciando come frutto della sua creatività un testo che i suoi ex compagni di pena del vecchio IPM (Istituto Penale per Minori) avevano scritto insieme a me l’anno precedente! Quanto al sottoscritto, scrivo queste parole appena tornato da Cagliari, con gli occhi ancora pieni della bellezza dei luoghi, ma col cuore carico di sentimenti contrastanti. Grazie all’associazione culturale Malik, che svolge un formidabile lavoro sul territorio, ho infatti avuto l’occasione di conoscere i ragazzi del minorile di Quartucciu, una paurosa fortezza di sbarre e mura ciclopiche nata come carcere di massima sicurezza e, in mezzo ai dubbi di molti, riconvertita in IPM. Il mio compito era scrivere un rap insieme ai giovani reclusi su un argomento doloroso e delicato: la morte di Alessandro, un loro compagno di pena precipitato dal quarto piano durante un permesso premio nel giorno del suo compleanno. Alessandro era una promessa del rap: faceva parte di una crew nata in uno dei quartieri più difficili della città che, dopo i primi successi in terra sarda, ultimamente si sta facendo conoscere e apprezzare anche in continente. Quindi dedicargli dei versi in rima era la scelta più naturale, e i ragazzacci si sono prestati con tutta la passione e l’impegno che mi aspettavo da loro. Come accade sempre, quando li ho messi davanti al microfono è venuto fuori il lato più vero e nascosto del loro carattere: Giovanni, che è il più sfrontato e sempre con la battuta pronta, si è imbarazzato e ha avuto bisogno di ripetere più volte le strofe prima di azzeccarle. Ibrahim, che forse è stato quello più segnato dalla morte del compagno, aveva studiato tutto a memoria perfettamente, ma per la troppa passione si accalorava, correva troppo e si scordava di respirare. Luca, il più silenzioso e taciturno, ha stupito tutti con la sua voce ferma ed il perfetto senso del ritmo. Quando gli ho fatto i complimenti l’ho visto sorridere per la prima e unica volta. La canzone è venuta bellissima, ma per adesso dovrete fidarvi della mia parola, visto che passerà ancora un po’ di tempo per concludere il mix della traccia, montare il videoclip e ottenere i permessi necessari alla pubblicazione. Così come gli artificieri sanno che gli esplosivi denotano in modo più devastante in ambienti ristretti e sotto pressione, anch’io mi sono reso conto che l’impatto della pandemia e della morte ha colpito i ragazzi dietro le sbarre molto più che noi liberi. Isaia, Hicham, Abbas, Giovanni, Ibrahim, Luca: questi non sono i loro veri nomi, perché ovviamente voglio e devo rispettare la riservatezza intorno alle loro giovani vite e alle loro storie difficili. Ma le loro storie sono vere, così come la loro voglia di esprimersi in rima e il loro disperato bisogno di umanità e normalità. “Ariaferma” racconta il tempo sospeso all’interno delle carceri di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 7 settembre 2021 Non è un film di denuncia sull’emergenza carceri, ma la pellicola, girata a Sassari, impone una riflessione sulla non vita dei detenuti. Non è un film di denuncia sull’emergenza carceri, ma “Ariaferma” impone una riflessione sulla non vita dei detenuti. Non solo su quella loro, però. Anche per le guardie carcerarie il lavoro è di fatto una prigione. Un non luogo in cui tutto si ripete ogni giorno, tale e quale. Aria ferma, appunto. Ed è quello che emerge dal nuovo film di Leonardo Di Costanzo, presentato ieri fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, che vede Toni Servillo nei panni di una guardia carceraria e Silvio Orlando in quelli di un ergastolano. La pellicola è stata interamente girata nell’ex carcere di San Sebastiano di Sassari, ma al di là di qualche cadenza sarda, di un Sanna e un Puddu tra carcerati e guardie non c’è una ambientazione precisa. Il carcere di Mortana è un luogo immaginario. L’obiettivo del regista era quello di fare una riflessione sulla situazione di cattività in cui si trovano sorvegliati e sorveglianti. Il luogo non era importante, anche perché l’emergenza carceri è una questione che riguarda il Paese intero. Il film inizia con la comunicazione della direttrice del carcere in dismissione - interpretata da Francesca Ventriglia, unica donna in un cast interamente maschile - che per problemi burocratici i trasferimenti si bloccano e una dozzina di detenuti rimane, con pochi agenti, in attesa di nuove comunicazioni e destinazioni. Una situazione speciale che porta a una sospensione delle regole, nonché a un abbattimento dei muri che ci sono tra sorvegliati e sorveglianti. “Io vengo dal documentario e sentivo la necessità di indagare su questa realtà - spiega Di Costanzo -. Ho incontrato persone che il carcere lo hanno vissuto sia da una parte che dall’altra. Mi sono imbattuto in un universo ricco che mi ha portato a fare riflessioni sulla situazione carceraria, sulle punizioni, sul bene e sul male”. Per raccontare questa storia Di Costanzo ha scelto la finzione anziché il documentario. “Avevo bisogno di organizzare una narrazione molto dilatata, di inventare personaggi per raccontare meglio la storia. Mi sono allontanato dal documentario proprio perché in questo momento sono interessato a narrare le interiorità dei personaggi anziché le loro azioni”. E dunque si è affidato ad attori professionisti, su tutti Silvio Orlando e Toni Servillo, in due ruoli diversi dal solito, ergastolano il primo, agente il secondo. “Quando Leonardo mi ha mandato il copione non mi ha detto quale ruolo avrei fatto - spiega Orlando -. Come l’ho letto, io ho subito pensato alla guardia, più vicina alle mie corde attoriali. Invece, mi ha affidato l’altro ruolo e questo mi ha consentito di avere una prima volta con un personaggio del genere”. “La scomodità di non avere personaggi più prossimi alle nostre precedenti esperienze ha evitato che ci accomodassimo in un atteggiamento routiniero - aggiunge Servillo. Per me è stato molto affascinante interpretare questo funzionario che crede nel suo lavoro ma che impedisce anche che la catena di violenza che c’è fuori si ripeta all’interno del carcere. Suggerisce al pubblico più di un motivo di riflessione”. Sul perché sia stato scelto il carcere di San Sebastiano dà una spiegazione il produttore Dino Cresto Dina. “Cercavamo un carcere con al centro una struttura circolare da cui partono i rami. Il carcere di Sassari era perfetto, è stato dismesso da pochi anni e dentro si sentiva ancora l’odore della pena. Credo sia stata una esperienza fortissima, anche perché il film è stato girato in un momento di pieno lockdown. Abbiamo vissuto settimane in due bolle, il carcere e l’hotel. Condividere la cattività sul set e in albergo - conclude - ha dato tantissimo”. “Trame”, a Lamezia ritorna il festival dei libri sulle mafie di Attilio Bolzoni e Francesco Trotta Il Domani, 7 settembre 2021 “Vogliamo lanciare un segnale di resistenza, perché resistere significa che un territorio può riscattarsi”, dice il nuovo direttore artistico di Trame, Giovanni Tizian. Trame, dal 1 al 5 settembre, torna dal vivo dopo la serie di incontri che si sono svolti online causa pandemia nel 2020. Tante le novità di quest’anno, un ricchissimo cartellone di incontri e dibattiti nelle piazze e nei palazzi storici di Lamezia Terme. La cultura contro la mafia in Calabria ha un luogo simbolo e un momento speciale. Il luogo è Lamezia Terme, terza città della regione per numero di abitanti e un’amministrazione comunale commissariata per tre volte perché per tre volte è stata sciolta per infiltrazioni di ‘ndrangheta. Il momento speciale è Trame, festival dei libri sulle mafie che in questo 2021 è arrivato alla sua decima edizione. Mafia e antimafia, il sapere contro l’ignoranza e la prepotenza, teatro e musica contro i boss. Passo dopo passo e anno dopo anno Lamezia e la Calabria vanno avanti, cercando di lasciarsi alle spalle il passato più infame puntando non solo e sempre sulla repressione poliziesca e giudiziaria. “Vogliamo lanciare un segnale di resistenza, perché resistere significa che un territorio può riscattarsi”, dice il nuovo direttore artistico di Trame Giovanni Tizian, firma del “Domani” che succede a Gaetano Savatteri. Così Trame, dal 1 al 5 settembre, torna “dal vivo” dopo la serie di incontri online - causa pandemia - del 2020. Tante le novità di quest’anno, un ricchissimo cartellone di incontri e dibattiti nelle piazze e nei palazzi storici di Lamezia. A cominciare dalle testimonianze delle vittime di racket e usura che hanno avuto il coraggio di denunciare, commercianti e imprenditori provenienti da ogni angolo della regione. Tutto nasce con “Mani libere in Calabria”, un progetto che ha permesso all’Associazione Antiracket Lamezia Onlus Ala, promotrice del Festival insieme alla Fondazione Trame (e con le associazioni antiracket di Cosenza, Cittanova e Polistena) di creare quattro sportelli dislocati sul territorio calabrese dedicati all’ascolto e all’assistenza legale, bancaria e commerciale, psicologica, delle vittime. Il Blog Mafie ospita in questa serie quindici articoli sui temi che sono al centro degli incontri del Festival: dalle industrie del petrolio al lato oscuro del mondo del pallone, dal gioco d’azzardo alle donne soffocate dalle famiglie di ‘ndrangheta, dalla mafia “trasparente” a quella ben più visibile di Matteo Messina Denaro. E molto altro ancora. Inchieste, spettacoli, tanti libri. Appunto, la cultura contro la mafia. Per cambiare rotta, per andare oltre slogan e banalizzazioni. Noi donne, eterni bersagli di una società patriarcale di Annamaria Bernardini de Pace La Stampa, 7 settembre 2021 Una bravissima ragazza a detta di tutti, lavoratrice e giocatrice di volley, fidanzata con un bravo ragazzo, è stata trovata in casa morta, con la testa spaccata. Sembra che l’assassino, che pare abbia confessato, sia un vicino di casa. Dunque, l’ipotesi del movente è o nel tentativo di stupro o in una lite tra condomini. Non cambia l’orrore che, per l’ennesima volta, stiamo provando per una donna uccisa. Ormai le donne costituiscono un bersaglio per gli uomini più efferati: mariti, fidanzati, ex, vicini di casa. C’è da domandarsi da chi siamo circondati. C’è da domandarsi se dobbiamo guardare qualsiasi uomo, il passante, il vigile, il panettiere, ma anche l’amante o il corteggiatore, come il nostro potenziale assassino. C’è da imparare, però, che cosa possiamo mai fare noi donne di intelligente o, quantomeno, di salvifico, per evitare di morire al ritmo di, più o meno, dieci di noi al mese. Più o meno. Sempre troppe. Ormai, credo, abbiamo detto un milione di volte (forse) che cosa dobbiamo fare tutte per sottrarci alla furia omicida di chi noi abbiamo veramente amato, quando lui, invece, ha finto di amarci. Per poi uccidere per presunta gelosia o falsa disperazione: il femminicida è solo un criminale; violento e crudele, senza capacità di pentimento e, tantomeno, di dolore per se stesso. Nell’assenza assoluta di sentimenti. Tutte noi donne dovremmo imparare a difenderci da sole dall’uomo che vorremmo: quando lo scegliamo, quando inconsapevoli lo coccoliamo, quando lo perdoniamo, per gesti, già in sé, espressioni di una violenza che poi esploderà nel femminicidio. Non possiamo avere un poliziotto come angelo custode, in situazioni che proseguono nel rischio solo per volontà nostra. Dobbiamo imparare a capire, a denunciare, a scappare e a rinunciare alle illusioni quando la realtà le contraddice. Ma quando, invece, il massacratore omicida non è il tuo uomo, bensì un uomo qualsiasi, come dicevamo, un passante, un vicino di casa, uno sconosciuto che ci sorprende, che cosa possiamo mai fare? Niente. È chiaro che il delinquente sfrutta la propria maggiore forza fisica per disintegrare la vita di una donna notoriamente più fragile e, dunque, perdente in qualsiasi confronto fisico. Si dice “dobbiamo munirci di spray al peperoncino”, “dobbiamo imparare il karate o lo judo”, “dovremmo essere sempre armate di coltello, di bastone o, addirittura, di pistola”. Ma ci rendiamo conto di come queste situazioni che precedono il femminicidio siano, comunque sia, e sempre, all’improvviso? Senza possibilità di elaborare una qualsiasi forma di difesa e meno ancora una strategia. Siamo in ogni caso perdenti. E destinate alla morte se un uomo, lucidamente (io non credo al raptus confuso grazie al quale tanti colpevoli, muniti di bravissimi avvocati, sono puniti con più indulgenza), ha deciso di appropriarsi della vita di una donna fino a farla morire. Dunque, il problema è la nostra debolezza di fronte alla furia omicida, alla forza bruta, alla violenza incontenibile, che qualsiasi uomo, anche il più insospettabile, può manifestare. O dobbiamo, forse, rinunciare a quella libertà che abbiamo conquistato con tante battaglie giuridiche e sociali e, quindi, non girare più da sole per le strade, non ricevere nessun uomo a casa (neanche l’idraulico o l’antennista), non rincasare da sole dopo il tramonto e dimenticarci un posto singolo al cinema, in chiesa, al ristorante, al bar e tanto più nel metrò di sera? E perché questo? Perché l’uomo (ovviamente non tutti gli uomini, ma potenzialmente tutti) non ha imparato a gestire le emozioni, non vuole capire la distruttività dell’orgoglio, mal interpreta da sempre il senso dell’onore e non riesce a rinunciare alla volontà punitiva che il codice Rocco, fino a 40 anni fa, considerava come motivo di diminuzione della pena, giustificando il “cagionare la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia”. E vogliamo parlare dello ius corrigendi (“il potere correttivo del pater familias che comprendeva anche la forza”)? Fino al 1956, il padre di famiglia aveva il potere di educare e punire, anche con la violenza, moglie e figli che non si comportavano secondo i propri diktat. Quest’orrendo potere dell’uomo, e lo schifoso concetto del delitto d’onore, purtroppo, secondo me, sono rimasti nell’immaginario maschile e impediscono l’evolversi della cultura sociale. E, dunque, il comprendere che la volontà di potere e di possesso degli uomini è da reprimere fin dai primi anni di vita, con lo scopo di annientarla. La strada per sconfiggere la violenza maschile è lunghissima e in salita. Vedremo il traguardo solo quando la fiducia, il rispetto e la condivisione reciproci prenderanno il posto della paura di ogni donna e dell’ossessivo potere di controllo di troppi uomini. Quando? “Stesse tutele per lavoratori italiani e stranieri” di Daniele Cirioli Avvenire, 7 settembre 2021 A stabilirlo è la Corte di giustizia europea nella causa per due prestazioni specifiche: il bonus bebè e l’assegno di maternità dei Comuni. Il made in Italy non fa disparità tra lavoratori. Italiano o straniero che sia, chiunque lavora in Italia ha diritto alle stesse tutele sociali. A stabilirlo è la Corte di giustizia europea nella sentenza alla causa C-350/2020 per due prestazioni specifiche: il bonus bebè e l’assegno di maternità dei Comuni. Il principio, tuttavia, vale per tutte le prestazioni di “sicurezza sociale”, cioè malattia, familiari, infortuni, pensioni, disoccupazione eccetera. Perché l’Italia non si è avvalsa della facoltà di limitare la parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri come previsto dalla direttiva n. 2011/98. La vicenda è sorta perché alcuni cittadini stranieri, legalmente soggiornanti in Italia e titolari di un permesso unico di lavoro, ottenuto il diniego dall’Inps all’assegno di natalità perché non in possesso dello status di soggiornanti di lungo periodo, si sono rivolti al tribunale. Il giudice ha accolto le loro richieste, sulla base del “principio della parità di trattamento” dalla direttiva Ue 2011/98. La vicenda è proseguita poi in Corte di appello, quindi in Cassazione e in Consulta. Per gli stessi aspetti, la Cassazione si è rivolta alla Corte costituzionale anche per la questione di legittimità relativamente all’assegno di maternità dei Comuni. A fronte di tali richieste, la Consulta si è rivolta alla Corte Ue chiedendo di precisare la portata del diritto di accesso alle prestazioni sociali riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali Ue (art. 34). La Corte di giustizia europea dà ragione ai lavoratori stranieri. Per quanto riguarda l’assegno di natalità, la Corte Ue rileva che viene concesso automaticamente ai nuclei familiari sulla base di criteri fissati per legge, prescindendo da ogni valutazione e discrezionalità delle esigenze personali del richiedente. Per la Corte è una prestazione destinata ad alleviare gli oneri del mantenimento di un figlio appena nato o adottato, che costituisce, cioè, una “prestazione familiare”. Idem per l’assegno di maternità, concesso o negato, spiega la Corte, tenendo conto, oltre che dell’assenza di un’indennità connessa a rapporti di lavoro, delle risorse del nucleo della madre sulla base di un criterio predefinito (l’Isee), senza tener conto di circostanze personali. In conclusione, la Corte ritiene che sia l’assegno natalità e sia l’assegno di maternità rientrano nell’ambito della sicurezza sociale che è tutelata dalla piena parità di trattamento tra cittadini. La Corte di giustizia europea stabilisce un criterio generale: chiunque lavora in Italia ha diritto agli stessi diritti sociali. Non importa se italiano o straniero (purché regolarmente presente in Italia, cioè titolare di un permesso di soggiorno che consente di lavorare): tutti hanno diritto di accesso alle prestazioni di “sicurezza sociale” e ai “servizi sociali” che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro (per esempio, l’indennità di disoccupazione). A riconoscere questa parità è la direttiva n. 883/2004, la quale aveva concesso agli Stati membri la possibilità di limitarne il raggio d’azione. Così l’Italia poteva escludere (ma non l’ha fatto) la piena parità di trattamento, che di norma la direttiva riconosce indistintamente a tutti i lavoratori, limitando il diritto a quelli che svolgono o che hanno svolto attività lavorativa per almeno sei mesi e sono disoccupati. Quei milioni di migranti che non lasciano e non vogliono lasciare l’Africa di Luca Attanasio Il Domani, 7 settembre 2021 L’Europa si sente sotto assedio e teme ondate di migranti che potrebbero arrivare dalla costa dell’Africa o attraverso la rotta balcanica. In realtà l’invasione non c’è. Secondo uno studio recente dell’Africa Center for Strategic Studies (Acfss) degli 82,5 milioni di migranti forzati che sono stati costretti a lasciare le proprie case nel 2020, ben 32 sono africani rimasti in Africa. Secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e l’Unione africana (Ua), entro il 2050 l’Africa farà registrare un importante sviluppo economico dovuto proprio alle migrazioni interne. La fortezza Europa si sente sotto assedio. Totalmente disinteressata a numeri e fact checking, è convinta di essere ormai cinta da orde di migranti che starebbero per invaderla da ogni angolo del mondo. La prova più evidente sono i muri eretti negli ultimi 30 anni in funzione anti-profughi da tantissimi stati della Ue, taluni addirittura in area Schengen, incuranti di trattati e normative che li vieterebbero tassativamente: mille chilometri di muri, muretti, recinzioni, fili spinati e quant’altro disseminati in ogni dove e controllati da dispiegamenti di uomini, armi e droni. Il tutto con il sostegno, informato o meno, dei contribuenti. L’ultimo, in ordine di tempo, è la barriera eretta tra Polonia e Bielorussia per fermare gli arrivi di afghani. Una grande muraglia che si snoda per tutta l’Europa, sei volte più lunga di Berlino di cui, tra qualche mese, celebreremo pomposamente il 32° anniversario dalla caduta. L’accerchiamento non c’è - L’accerchiamento, in realtà, non c’è. Anzi, non c’è mai stato. E proprio ora che si tenta l’ulteriore arrocco nel terrore di arrivi dall’Afghanistan e si pensa a soluzioni che prevedano finanziamenti a Pakistan, Iran o Turchia senza garanzie sul rispetto dei diritti umani, bisognerebbe dirlo chiaramente. Gli ingressi irregolari tanto temuti attraverso sbarchi o passaggi a piedi sulla rotta balcanica, non hanno mai registrato picchi particolarmente elevati nell’Unione europea, neanche quando nel 2015, in piena crisi siriana, hanno toccato il record di un milione circa (180mila in Italia): su 520 milioni di abitanti della Ue, rappresentavano lo 0,2 per cento, non esattamente un’emergenza. Negli ultimi dieci anni poi il trend, come dimostrano le statistiche di Frontex, la polizia europea di confine, è in caduta libera (se si eccettua un lievissimo rialzo degli ultimi mesi). Chi sopporta il peso delle migrazioni di massa, in realtà, sono i paesi limitrofi o appartenenti alle aree da cui maggiormente si fugge. In particolare l’Africa. Spostamenti forzati - È l’Africa a ospitare un numero impressionante di profughi o migranti. Secondo uno studio recente dell’Africa Center for Strategic Studies (Acfss) degli 82,5 milioni di migranti forzati che sono stati costretti a lasciare le proprie case nel 2020, ben 32 sono africani rimasti in Africa. La maggior parte sono profughi interni. Gente che, sorpresa da eventi avversi, prova a trovare rifugio in zone apparentemente più tranquille del proprio paese. Il numero è in costante ascesa: solo nel 2019 erano 29 milioni. Gli altri vagano in cerca di riparo nei paesi limitrofi spesso già gravati da crisi annose. L’Africa, assieme ad alcune aree di medio oriente, Asia minore e America centro-meridionale, è il continente che produce il maggior numero di spostamenti forzati. Secondo un report del Norwegian refugee council dei dieci paesi che hanno contribuito per l’88 per cento alle fughe nel mondo, ben otto sono africani (Congo, Burkina Faso, Etiopia, Camerun, Burundi, Centrafrica, Nigeria e Mali). Ma sebbene le spinte centrifughe siano in costante aumento in Africa, sono pochissimi quelli che da quei contesti immaginano un tragitto verso l’Europa. Intanto perché ci vogliono tanti soldi (per un viaggio gestito dai trafficanti si calcola una somma da un minimo di 4mila a un massimo di 15mila dollari), poi perché chi fugge per cause di forza maggiore, non si allontana nella speranza di tornare presto a casa e infine perché il migrante, specie con famiglia, mira a trovare rifugio in luoghi in cui le possibilità di integrazione, siano maggiori. Il Congo - Tutto ciò innesca meccanismi complessi che andrebbero studiati e non semplificati e riassunti nel mantra “vengono tutti da noi”. Prendiamo il Congo. Il grande paese centro africano, tra i più ricchi al mondo per risorse interne - ma agli ultimi posti nelle classifiche di sviluppo, stabilità e reddito pro capite - è forse l’esempio più paradossale. Da decenni in permanente crisi stretto tra precarietà politica, scontri, Ebola e veri e propri conflitti nelle aree orientali che hanno fatto decine di migliaia di vittime e prodotto un numero spaventoso di sfollati interni ed esterni (6mila al giorno), si trova, allo stesso tempo, a essere un paese di accoglienza per sud-sudanesi, centrafricani, ruandesi e burundesi che, in alcuni periodi, vivono situazioni talmente terrificanti da scegliere di sconfinare in zone che considerano apparentemente appena più tranquille. L’Etiopia - Fino a un anno fa, era un paese considerato modello di stabilità politica, rispetto dei diritti e democrazia (il primo ministro Abiy è stato insignito del Nobel per la pace nel 2019). Dal novembre scorso è precipitato in una crisi drammatica con il conflitto nel Tigray che ha fatto, nel giro di qualche mese, due milioni di profughi interni ed esterni. Questi, vanno ad aggiungersi agli 800mila migranti forzati provenienti da altri stati (Eritrea, Sud Sudan, Sudan, Yemen) che, fino alla fine del 2020, vedevano nell’Etiopia un paese di approdo se non ideale, accettabile. Le migrazioni in alcune aree del mondo, per quanto sia banale dirlo, le decidono le emergenze umanitarie, non le scelte deliberate dei singoli. Da noi, in sostanza, ne arrivano pochissimi. Intanto perché quei pochi che cercano il viaggio verso l’Europa, vengono bloccati in Libia e in Turchia, a cui abbiamo affidato, esternalizzandola, la gestione dei migranti, pagandola profumatamente. E poi perché quelli che riescono a uscirne indenni dopo aver subito violenze e torture devono fare i conti con il Mediterraneo (si calcola per difetto che i cadaveri nei fondali del canale di Sicilia siano 33mila dal 2000 a oggi, ndr) o con le polizie di frontiera balcanica che li respingono lontano dai confini. Come scrive Nigrizia, c’è bisogno di decolonizzare la narrazione delle migrazioni. C’è bisogno di uscire definitivamente dall’idea che esista permanentemente un esercito di africani poco civilizzati, pronto a sbarcare sui nostri lidi, che vede nel nostro modello politico-economico l’unica possibile salvezza. “Decolonizzare la storia - ha dichiarato a The Humanitartian Joseph Teye, direttore del Center for Migration Studies presso l’Università del Ghana - significa affidare la ricerca e la narrazione a studiosi del sud del mondo”. Sarebbe chiaro a tutti, ad esempio, che l’85 per cento dei migranti forzati è ospitato nel cosiddetto emisfero meridionale. Nel racconto delle migrazioni, infine, manca un tassello determinante. In Africa, sta crescendo anche il fenomeno di migrazioni economiche tra gli stati. Sono sempre di più gli africani a spostarsi da un paese all’altro per lavoro, studio, insomma per scelta libera, non dettata da emergenze. Il popolo “on the move” fatto di giovani e giovanissimi, non pensa minimamente all’Europa o all’occidente per le proprie destinazioni finali. Questa ennesima prova di migrazione intra-africana, dimostra quanto siamo lontani dalla comprensione del fenomeno. Un futuro di sviluppo - E mentre noi fatichiamo a capire, le cose, in Africa e da noi, cambiano alla velocità della luce. Nell’ottobre scorso, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e l’Unione africana (Ua) hanno pubblicato l’Africa Migration Report da cui emerge uno scenario molto interessante. Oltre a demitizzare la retorica del fenomeno (il sottotitolo è “Challenging the Narrative”), il rapporto dimostra che entro il 2050 l’Africa farà registrare un importante sviluppo economico - già in atto al di là di conflitti, disastri e dittature, anche in alcuni dei paesi più tribolati - dovuto proprio alle migrazioni interne. A contribuire a tale panorama geopolitico-economico, sono le strategie accompagnate ad avanzamenti tecnologici che permetteranno di gestire gli spostamenti così come il Free movement protocol dell’Ua, lo Schengen d’Africa, che sta fondando una mega area libera di movimenti nel continente. Secondo il report, inoltre, l’occidente e il suo declino, non saranno più attrattivi come un tempo e saremo noi, i nostri figli e i nipoti a guardare all’Africa come meta migratoria anche prima del 2050. Chissà se allora si svilupperà dall’altra parte del Mediterraneo il concetto respingente “vengono tutti da noi” o se gli africani sapranno accogliere come occasione di sviluppo, arricchimento, avanzamento, i flussi da nord a sud. Stati Uniti. Biden fa desecretare i documenti sull’11 settembre di Marina Catucci Il Manifesto, 7 settembre 2021 L’ordine esecutivo del presidente Usa a pochi giorni dal ventennale dell’attentato. Con un ordine esecutivo firmato pochi giorni prima la data simbolica che segna 20 anni dagli attentati terroristici dell’11 settembre, Joe Biden ha ordinato al Dipartimento di Giustizia e ad altre agenzie governative di riesaminare i documenti riguardanti il 9/11 e di avviarne la declassificazione entro sei mesi. “Sto onorando l’impegno preso in campagna elettorale di garantire trasparenza - ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti - Il popolo americano merita di avere un quadro più completo di ciò che il suo governo sa di quegli attacchi”. Da molto tempo le famiglie delle vittime chiedono che vengano resi pubblici i risultati dell’operazione Encore, l’indagine dell’FBI su una possibile complicità saudita, in particolare sui contatti tra funzionari sauditi e due dirottatori dell’11 settembre che vivevano in California. In questi due decenni le informazioni che sono state rese pubbliche, incluse quelle della Commissione sull’11 settembre, hanno dettagliato numerosi coinvolgimenti sauditi ma senza mai dimostrare la complicità del governo, nonostante una causa intentata dalle famiglie delle vittime presso la corte federale di New York miri proprio a stabilire la responsabilità del governo saudita, sostenendo che abbia fornito un supporto significativo ai dirottatori nei mesi precedenti gli attacchi. All’inizio di quest’anno, la causa ha fatto un importante passo avanti con l’interrogatorio sotto giuramento di ex funzionari sauditi che hanno comunque continuato a negare qualsiasi coinvolgimento. L’ordine esecutivo di Biden arriva un mese dopo l’introduzione di una legge passata al Congresso che impone maggiore trasparenza, e rappresenta una rottura con le posizioni del suo predecessore. Nell’aprile 2020 l’amministrazione Trump si era appellata al segreto di Stato per evitare la divulgazione. L’allora procuratore generale William Barr si rifiutò anche solo di rivelare pubblicamente le ragioni per cui i documenti dovevano rimanere “nascosti”. Un mese fa invece il Dipartimento di Giustizia del nuovo procuratore generale Merrick Garland ha dichiarato che l’Fbi aveva chiuso “recentemente” una parte della sua indagine sugli attacchi terroristici, e stava quindi iniziando la revisione dei documenti, con l’obiettivo di rivelarne altri. L’impatto dell’ordine esecutivo di Biden potrebbe farsi sentire già la prossima settimana, e al momento sta raccogliendo l’approvazione di entrambe le aree politiche e di personalità sempre critiche con il governo, come il whistleblower Edward Snowden. Tramite i documenti da lui resi pubblici nel 2013 si era appreso che già entro il 14 settembre 2001, appena tre giorni dopo gli attacchi, l’allora direttore della NSA, Michael Hayden, aveva preso la “decisione tattica” di iniziare a spiare le comunicazioni digitali delle persone residenti negli Usa. “È il panico, non la conoscenza, a renderci vulnerabili”, ha dichiarato il whistleblower. Stati Uniti. Le tante guerre e la fine dell’Impero di Luigi Agostini e Marcello Malerba Il Manifesto, 7 settembre 2021 Kabul, fine dell’Impero? Henry Kissinger e Sergio Romano dicono di sì, pur con diverse motivazioni. Due monumenti della realpolitik giungono a una conclusione simile e radicale. Ora come è possibile trarre una conclusione del genere quando l’Impero a cui ci si riferisce è il più potente che la storia abbia visto sulla terra? Con una potenza militare sparsa sul globo attraverso più di 780 basi militari, 13 flotte che dominano tutti i mari del mondo, una forza aereo spaziale, una tecnologia militare formidabile? Kabul è l’ultimo atto: colpisce, rivela e disvela, rappresenta e manifesta, qualcosa di molto più lungo e complesso. Dopo il crollo dell’Urss l’impero ha cercato di passare all’incasso. La grande rivale andava portata alla disintegrazione. La Jugoslavia, non allineata, sapientemente spinta attraverso le manovre sul debito, alla guerra interetnica. I Balcani militarmente occupati. L’Iraq invaso e Saddam spodestato. La Siria portata alla esplosione. L’Iran messo alle strette. Il Caucaso spinto alla ribellione anti Russa. La Libia invasa. Annesso il centro Europa con la Nato, si passa al cuore dell’Asia lambendo il confine cinese. Questo disegno quarantennale possiamo dividerlo in due fasi. Nella prima fase gli Usa affrontano guerre contro rivali classici. Eserciti organizzati contro eserciti organizzati. La guerra simbolo è l’Iraq di Saddam. La geometrica potenza delle nuove fantascientifiche tecnologie militari, frantuma l’esercito iracheno. Tutte le guerre americane di questa prima fase hanno lo stesso schema: conquistato il dominio dei cieli, si procede a ripulire il terreno soprattutto con forze ausiliarie. La tecnologia come la leva archimedica. Si dichiara la vittoria dai ponti delle portaerei, (Bush) mentre si inizia però la seconda guerra, quella al terrorismo. Cosa vuol dire terrorismo? La definizione di guerra terroristica andrebbe limitata al suo punto centrale distintivo: una estrema minoranza, che usa la violenza per condurre e perseguire obbiettivi politici. La storia è piena di lotte violente definite come terroristiche. A partire dall’America. La seconda fase si chiama guerra asimmetrica. Anche questa forma di guerra è per certi versi sempre esistita. Ma la sua teorizzazione raffinata e i suoi concetti moderni vengono fissati da due colonnelli Cinesi, Liang Quiao e Xiangsui Wang in un libro dal titolo “Guerra senza limiti”. Nasce il problema di cosa si poteva fare da parte di chi non intendeva sottostare al dominio dell’impero. La guerra è un fatto umano, che si svolge su un territorio e in un assetto sociale. Ma, in ogni contesto, tutto, può diventare un’arma, sostengono gli autori. La condizione prima, quella da cui tutto dipende è rappresentata dalla volontà umana del guerriero combattente. La guerra asimmetrica riporta protagonista il Partigiano, combattente tellurico, nella versione Schmittianmaoista e lo colloca al centro della guerra senza limiti moderna. La guerra è un atto più filosofico di quanto siamo disposti ad ammettere. Non a caso Sun Tsu diceva che il generale magnifico vince senza combattere. Così si realizza la sconfitta militare perfetta. In Afghanistan un esercito dotato di 83 miliardi di dollari di armamenti, di cinque volte il numero di effettivi del suo avversario, lungamente addestrato, si è arreso senza combattere: memesi della Storia. L’Impero aveva infatti soffiato sul fondamentalismo religioso in funzione di contenimento dei tentativi di modernizzazione più o meno socialisteggianti che si sono tentati nel modo islamico. Quella arretratezza - come confessò Edward Luttwak - era meglio del comunismo. La seconda fase delle guerre dell’impero finisce nella sconfitta campale: l’aeroporto di Kabul, riverbera la sua luce sulla illusione della Sinistra Atlantica e sul tramonto dell’Impero americano. Dopo Kabul, l’impero si trova con una enorme forza militare, ma senza una strategia praticabile proprio sul terreno della sua efficacia. Pensare che la formula delle democrazie da scagliare contro le autocrazie russo-cinesi diventi “strategia” è un gioco di propaganda che può trovare adepti solo in qualche sopravvissuto atlantico che guarda il mondo dal salotto di casa. Tempi interessanti. Il nostro futuro in Afghanistan. Conflitto e cooperazione con i talebani di Giampiero Massolo La Repubblica, 7 settembre 2021 Possiamo distogliere l’attenzione dall’Afghanistan dopo il ritiro dei nostri contingenti militari? In fondo, nell’ottica occidentale e in particolare americana, il ripiegamento dovrebbe servire anche a questo. Eppure, la realtà sul terreno vanifica gli auspici: incide sugli interessi di sicurezza dell’Occidente, tocca la sua residua credibilità e impone di definire il nostro rapporto con i talebani, ben al di là dei negoziati in corso per proteggere chi vuole uscire. I nostri interessi, intanto. Si tratta anzitutto di evitare che il territorio afghano ritorni ad essere un santuario per il terrorismo jihadista: disporre di basi territoriali rende più agevole agli jihadisti espandersi in nuove aree impoverite e fuori controllo, reclutare combattenti da ogni dove, promuovere nei nostri Paesi proselitismo e emulazione. Occorre poi prevenire un disastro umanitario che coinvolgerebbe una popolazione inerme e poverissima, già in situazione critica sul piano dei diritti e che abbiamo sempre detto di voler tutelare. Ne può scaturire un flusso di profughi rilevante e difficile da limitare ai Paesi confinanti. È opportuno infine non lasciare la stabilizzazione solo in mani cinesi, russe e pakistane, perché potrebbe realizzarsi scaricando verso l’esterno, a nostro danno, le criticità afghane e comunque ci precluderebbe eventuali opportunità future di tipo economico, energetico, minerario. Tutti questi aspetti implicano un’interlocuzione con il governo talebano: irrealistico a questo punto pensare di sovvertirlo in qualche modo, illusorio ipotizzarne l’isolamento visto che non manca chi già gli tende la mano. Certo, non può trattarsi di un dialogo - e tanto meno di un riconoscimento - senza condizioni: lo rendono inaccettabile il peso delle atrocità passate e le rinnovate vessazioni sulle donne e i deboli. È del resto la linea definita a livello europeo, con la richiesta di un governo inclusivo e del rispetto dei diritti. A complicare ulteriormente le cose sono gli interessi più concreti e urgenti dei governanti talebani. Per loro, poco attenti ormai ad un Occidente sconfitto sul campo, prevalgono esigenze diverse: affermare la propria autorità in tutto il Paese, preservare una ragionevole compattezza tra le molte anime del talebanesimo, essere sostenuti per fronteggiare le difficoltà economiche e le attese delle piazze. Sono priorità che non li fanno andare troppo per il sottile. Comportano connivenze e collaborazioni sul campo con ogni forma di jihadismo per controllare meglio il territorio (e la sicurezza di Kabul subito affidata alla spietatezza del network criminale/terrorista degli Haqqani ne è un assaggio); fanno preferire accordi soprattutto con gli Stati più vicini e con chi offre sostegno immediato e senza troppi scrupoli. Proprio ciò che ci conviene evitare. Non abbiamo molti strumenti di pressione per influire sugli eventi. La comunità internazionale nel suo complesso avrebbe verso Kabul soprattutto l’arma della compattezza: la difficoltà ad individuare una modalità di lavoro comune, magari partendo dal G20 a guida italiana, dimostra tuttavia che unire gli sforzi non è semplice. L’Occidente dal canto suo può cercare di fare leva sull’antiterrorismo e sugli aiuti materiali e finanziari. Sono strumenti importanti, ma a doppio taglio. La prosecuzione delle attività contro il jihadismo dipende soprattutto dagli Stati Uniti: sarebbero poco efficaci senza il loro supporto aereo. Americani e talebani condividono pur tra molte ambiguità un nemico, lo Stato islamico del Khorasan. Combatterlo implica tuttavia accettare una forma di collaborazione con il nuovo regime, contribuisce in definitiva a consolidarlo. Gli aiuti occidentali, a loro volta, sono essenziali per evitare l’implosione di un Paese che ne dipende in larghissima parte e le cui riserve sono congelate in America. Ma sbloccarli indiscriminatamente ci priva della possibilità di condizionarne l’erogazione. Conflitto e cooperazione con i talebani coesisteranno a lungo. Dovremo gestirli: scegliere una sola via non scioglierebbe tutti i nodi e ci toglierebbe altro prestigio. Nepal. Accusate di stregoneria, uccise in un anno 61 donne Il Messaggero, 7 settembre 2021 Nell’anno domini 2021 esistono ancora donne che vengono uccise con l’accusa di stregoneria, proprio come accadeva in epoca medievale in Europa. Le accuse di stregoneria e le conseguenti attività di caccia alle streghe rimangono problemi serissimi in Nepal, dove molte donne - di qualsiasi età - sono soggette a violenze o torture in seguito ad accuse. Molte di loro subiscono gravi danni fisici e mentali, e tante altre muoiono. La maggior parte di questi incidenti non vengono denunciati perché le donne e le loro famiglie di origine temono rappresaglie. La povertà, la sistematica disuguaglianza di genere e la debolezza delle leggi statali forniscono un contesto in cui si verificano questi comportamenti. Proprio in questi giorni la polizia del Nepal ha reso noto di aver trattato 61 casi di donne accusate di stregoneria e sottoposte a torture tra il 2020 e il 2021 contro i 34 dell’anno precedente, con un aumento del 79,41 per cento. Le denunce sono state presentate dalle stesse presunte vittime o da familiari e sono state avviate azioni legali contro otto presunti autori di violenze. Il portavoce della polizia ha precisato che di solito si tratta di donne sole e disabili, generalmente piu’ esposte a questo tipo di accuse, che provengono da familiari e vicini, soprattutto in caso di decessi o malattie per cause non chiare di persone conosciute. Le donne accusate di essere streghe subiscono trattamenti crudeli: vengono imbrattate di fuliggine, costrette a mangiare escrementi, picchiate, allontanate dai villaggi e perfino uccise. Naturalmente il Codice penale nepalese vieta il trattamento degradante o inumano citando espressamente anche l’accusa di stregoneria e gli abusi collegati e prevede pene detentive fino al cinque anni e multe fino a 50 mila rupie, con sanzioni aggravate per i pubblici ufficiali ma questo non scoraggia gli episodi che sono aumentati durante il Covid. L’Onu chiede all’Iran di fermare l’esecuzione di un prigioniero curdo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 settembre 2021 Gli esperti delle Nazioni Unite sui diritti umani hanno rivolto un appello urgente alle autorità iraniane affinché l’esecuzione di un prigioniero curdo sia fermata e la sua condanna a morte venga annullata. Heidar Ghorbani, un curdo iraniano di 48 anni, è stato arrestato nell’ottobre 2016 con l’accusa di aver preso parte all’omicidio di tre basij (le forze paramilitari iraniane). Per tre mesi la sua famiglia non è stata informata sul luogo in cui era detenuto. Tre anni dopo, nell’ottobre 2019, Ghorbani è stato condannato a 118 anni e mezzo di carcere per complicità in omicidio, tentato sequestro di persona e favoreggiamento della fuga degli assassini. Nel gennaio 2020 un tribunale rivoluzionario della provincia del Kurdistan ha riesaminato il caso, giudicando Ghorbani colpevole di rivolta armata contro lo stato e condannandolo a morte sebbene, paradossalmente, nel verdetto il giudice avesse riconosciuto che l’uomo non era mai stato armato. La condanna è stata resa definitiva nell’agosto 2020 dalla Corte suprema, che ha poi respinto due successivi ricorsi, nel settembre 2020 e lo scorso agosto. L’esecuzione potrebbe aver luogo in qualsiasi momento. Ghorbani ha sempre negato ogni accusa, sostenendo di non aver mai fatto parte di un’organizzazione politica, né tantomeno armata, curda. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, Ghorbani ha subito un processo iniquo, nel quale il diritto alla difesa è stato gravemente leso, ed è stato torturato durante la detenzione preventiva affinché ammettesse la sua colpevolezza. Bielorussia. L’oppositrice Maria Kolesnikova condannata a 11 anni di carcere Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2021 In carcere per dieci anni anche Maxim Znak, fra gli oppositori che hanno lavorato alla campagna elettorale di Viktor Babaryko, l’aspirante presidente finito in prigione ancor prima dell’apertura delle urne e condannato a sua volta in luglio a 14 anni per frode. Secondo l’ong Viasna i prigionieri politici bielorussi sono 659. Maria Kolesnikova è stata condannata a 11 anni di prigione. È l’ultimo attacco di Alexander Lukashenko sia al movimento di protesta bielorusso sia all’Occidente. Kolesnikova, 39 anni, è uno dei simboli della rivoluzione, parte integrante della triade al femminile (insieme a Svetlana Tikhanovskaya e Veronika Tsepkalo) che ha sfidato il leader della Bielorussia alle presidenziali del 2020. Con lei, in carcere per 10 anni finirà anche Maxim Znak, membro del gruppo di oppositori che, guidati da Kolesnikova stessa, ha lavorato alla campagna elettorale di Viktor Babaryko, l’aspirante presidente finito in prigione ancor prima dell’apertura delle urne e condannato a sua volta in luglio a 14 anni per frode. La popolarità di Kolesnikova è cresciuta quando la donna ha stracciato il proprio passaporto a un passo dalla frontiera con l’Ucraina, evitando così di essere espatriata nel Paese confinante. Poco dopo è stata arrestata. A distanza di un anno arriva la sentenza che la riconosce colpevole di tutti i capi d’imputazione: “incitazione ad azioni che minacciano la sicurezza nazionale della Bielorussia, cospirazione per impadronirsi del potere con mezzi incostituzionali e creazione e direzione di una formazione estremista”. Kolesnikova dalla gabbia detentiva dell’aula del tribunale regionale di Minsk ha salutato i suoi sostenitori con le mani a forma di cuore. In piedi accanto a lei, Znak ha fatto finta d’invitare il pubblico in un teatro: “Cari spettatori, siamo felici di vedervi”, ha detto il quarantenne. Il processo è avvenuto a porte chiuse. Molti bielorussi, in segno di sfida al regime, si sono dati appuntamento vicino al tribunale per omaggiare i due oppositori. “Maria e Max hanno attraversato tutte le fasi della persecuzione politica con dignità”, ha notato l’ufficio di Babaryko in un comunicato, citando poi l’avvocato di Kolesnikova secondo cui, la scorsa settimana, Maria ha pronunciato un appassionato discorso finale alla corte sul “futuro di una Bielorussia libera”. “L’Ue ribadisce le sue richieste per il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici in Bielorussia, inclusi Maria Kaliesnikava e Maksim Znak, i giornalisti e tutte le persone che sono dietro le sbarre per aver esercitato i propri diritti”, ha protestato in una nota il Servizio di azione esterna dell’Unione parlando di “palese disprezzo dei diritti umani e delle libertà fondamentali del popolo bielorusso da parte del regime”. I prigionieri politici bielorussi, secondo la stima dell’ong Viasna, sono 659. Fino ad ora, Lukashenko ha ignorato appelli e sanzioni, sostenuto da Vladimir Putin. I due si incontreranno il 9 settembre: in quest’occasione firmeranno, pare, i trattati per una maggiore integrazione tra i due Paesi.