Cartabia: “Non è più possibile rimandare la riforma della giustizia” di Chiara Vincenzi ripartelitalia.it, 6 settembre 2021 Non è più possibile rimandare la riforma della giustizia: è un’esigenza. Lo ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, intervenendo al Forum Ambrosetti di Cernobbio. “Lo status quo non è un’opzione. Dobbiamo sottoporci a tribunale della Storia”, non guardare al consenso immediato. La ministra ha anche sottolineato come con la riforma “non vogliamo risolvere tutti i problemi”, ma avviare un processo graduale che porti a un risanamento del sistema. I problemi del sistema giudiziario italiano sono ampi, ma “una maggiore tempestività” dei processi “può contribuire a risanare il rapporto tra cittadini, imprese e magistratura”, ha aggiunto Cartabia. L’obiettivo della riforma della giustizia promossa dal governo Draghi è portare a una diminuzione del 40% del “disposition time” dei processi civili e del 25% per quanto riguarda quelli penali. Il problema delle tempistiche dei processi “si può risolvere con una migliore organizzazione del lavoro”. In Italia il giudice è uno solo, si deve far carico di tutto il lavoro. Con la riforma “vogliamo dargli una squadra, una equipe che lo aiuti a organizzare il lavoro. I fondi del Pnrr, destinati all’assunzione di 16.500 giuristi e 5.400 aiutanti amministrativi, servono proprio a questo”. In questo senso, ha rimarcato la ministra, il tema della riforma della giustizia su cui si è più concentrato il dibattito pubblico è stato quello della prescrizione, che però “è solo un aspetto e non quello centrale”. La riforma “si propone di riportare la prescrizione a essere un rimedio estremo per situazioni eccezionali”. Ecco i punti principali proposti dalla Cartabia per la riforma Dalla prescrizione all’appello, dalle indagini preliminari alle misure alternative: sono molti i punti toccati dalla riforma del processo penale elaborata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, con gli emendamenti approvati in Cdm che il Governo presenterà al ddl Bonafede già da tempo al vaglio del Parlamento. Questi, nel dettaglio, sono i punti principali. PRESCRIZIONE - Viene confermata l’attuale disciplina, che prevede lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna sia in caso di assoluzione). Inoltre, si stabilisce una durata massima di due anni per i processi d’appello e di un anno per quelli di Cassazione. È prevista la possibilità di una ulteriore proroga di un anno in appello e di sei mesi in Cassazione per processi complessi relativi a reati gravi (per esempio associazione a delinquere semplice, di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, violenza sessuale, corruzione, concussione). Decorsi tali termini, interviene l’improcedibilità. Sono esclusi i reati imprescrittibili (puniti con ergastolo). DIGITALIZZAZIONE E PROCESSO PENALE TELEMATICO, DEPOSITO ATTI E NOTIFICHE - Si delega il Governo a rendere più efficiente e spedita la giustizia penale attraverso la digitalizzazione e le tecnologie informatiche. Si prevede tra l’altro che il deposito degli atti e le notifiche possano essere effettuate per via telematica, con notevole risparmio di tempo. INDAGINI PRELIMINARI - Si stabilisce che il pubblico ministero possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Si rimodulano i termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato. Inoltre, alla scadenza del termine di durata massima delle indagini, fatte salve le esigenze specifiche di tutela del segreto investigativo, si prevede un meccanismo di discovery degli atti, a garanzia dell’indagato e della vittima, anche per evitare la prescrizione del reato associato a un intervento del giudice per le indagini per le indagini preliminari che in caso di stasi del procedimento. CRITERI DI PRIORITÀ - Gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, dovranno individuare priorità trasparenti e predeterminate, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure e da sottoporre all’approvazione del Consiglio Superiore della Magistratura. EFFETTI ISCRIZIONE NOTIZIA REATO - In linea con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, si prevede che la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non possa determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo. UDIENZA PRELIMINARE - Si limita la previsione dell’udienza preliminare a reati di particolare gravità e, parallelamente, si estendono le ipotesi di citazione diretta a giudizio. Il giudice dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna. APPELLO - Si conferma in via generale la possibilità, tanto del pubblico ministero, quanto dell’imputato, di presentare appello contro le sentenze di condanna e proscioglimento. Si recepisce il principio giurisprudenziale dell’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi. Si prevedono limitate ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado, per esempio in caso di proscioglimento per reati puniti con pena pecuniaria e di condanna al lavoro di pubblica utilità. CASSAZIONE - Si introduce un nuovo mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Cassazione, per dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, si prevede la trattazione dei ricorsi con contraddittorio scritto, salva la richiesta formulata dalle parti di discussione orale in pubblica udienza o camera di consiglio partecipata. PROCEDIMENTI SPECIALI - Sul patteggiamento si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni (c.d. patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. Quanto al giudizio abbreviato si prevede, tra l’altro, che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato. Inoltre nel caso di mutamento del giudice o del collegio in un giudizio ordinario, si prevede che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, in caso di testimonianza acquisita con videoregistrazione, la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. QUERELA - Si delega il Governo ad estendere la procedibilità a querela a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni, salva la procedibilità d’ufficio, se la vittima è incapace per età o infermità. PENA PECUNIARIA - Si mira a razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, a rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi e la procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato e a prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione e conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento. PENE SOSTITUTIVE DELLE PENE DETENTIVE BREVI - Si delega il Governo a effettuare una riforma organica della legge 689 del 1981, prevedendo l’applicazione, a titolo di pene sostitutive, del lavoro di pubblica utilità e di alcune misure alternative alla detenzione, attualmente di competenza del Tribunale di sorveglianza. Le nuove pene sostitutive (detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria) saranno direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di quattro anni di pena inflitta. È esclusa la sospensione condizionale. In questo modo, si garantisce maggiore effettività all’esecuzione della pena. PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO - Per evitare di celebrare processi per fatti bagatellari, si delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione della causa di non punibilità, di cui all’articolo 131 bis del codice penale, ai reati puniti con pena edittale non superiore nel minimo a due anni. SOSPENSIONE PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA - Per valorizzare un istituto che ha avuto una felice applicazione nella prassi (22.271 applicazioni al giugno 2021), si delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 168 bis c.p. a specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, che si prestino a percorsi di riparazione. Si prevede che la richiesta di messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero. La messa alla prova comporta la prestazione di lavoro di pubblica utilità e la partecipazione a percorsi di giustizia riparativa. GIUSTIZIA RIPARATIVA - Si delega il Governo a disciplinare in modo organico la giustizia riparativa, nel rispetto di una direttiva europea (2012/29/UE) e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Si prevede la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale. DISCIPLINA SANZIONATORIA DELLE CONTRAVVENZIONI - Si conferma quanto previsto dal disegno di legge 2435 in materia di estinzione per adempimento delle prescrizioni dell’autorità amministrativa. La pena pecuniaria conviene a tutti: riempie l’erario, svuota le carceri e velocizza i processi di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 6 settembre 2021 Nel nostro Paese soltanto il 2% delle cause si risolve con sanzioni di natura economica. Nel resto d’Europa siamo all’80%. Chiamato ad approvare e definire gli emendamenti proposti dal Ministero della Giustizia, il Governo ha votato positivamente e all’unanimità il Disegno legge così elaborato dalla Commissione Ministeriale guidata dall’esperienza del Prof. Lattanzi, pur apportando talune modifiche. Tra gli Istituti previsti ed interessati dal Disegno di legge A.C. 2435, v’è la positiva rivalutazione della pena pecuniaria, sulla quale da tempo si auspica una massiccia riforma su ciò che, ora, è pressoché in totale disuso. Si pensi infatti che, come rilevato dai più recenti dati offerti da un’indagine del Ministero della Giustizia, la percentuale delle pene pecuniarie oscilla tra l’1% e il 2% (nel periodo di riferimento 2015-2018). Il dato è sconcertante se si pensa che in altri paesi dell’eurozona - come la Germania - la sanzione pecuniaria rappresenta circa l’80% totale delle condanne e quindi la regola in un corretto sistema di gradazione della pena. Inoltre, volendo emendare l’attuale Codice di Rito nel pieno accoglimento della filosofia deflattiva, la sanzione pecuniaria è pienamente funzionale allo scopo, potendo evitare di dover invece ricorrere all’assai più gravosa pena detentiva. La Commissione, consapevole del cambiamento che da anni si rende necessario proponeva l’introduzione di modifiche all’attuale disciplina di esecuzione della sanzione pecuniaria, allo stato ineseguibile come dimostrato dai dati ut spra: ad esempio adottare un modello che renda la sanzione commisurata alla condizione economica del reo, tramite un sistema di quote giornaliere; escludere l’applicabilità della sospensione condizionale della pena pecuniaria, anche qualora irrogate in sostituzione delle pene detentive; adeguare tutte le previsioni contenute nel Codice penale ai cambiamenti prospettati, in particolare all’auspicato regime delle quote. Le criticità individuate dalla Commissione sono puntuali ed espongono un problema concreto ed attuale a cui le riforme succedutesi negli ultimi anni non hanno posto la dovuta attenzione. Intervenire con efficacia sul sistema sanzionatorio pecuniario è oggi una grande opportunità per il nostro Paese. In altri termini, quale migliore occasione di (i) ridurre l’eccessivo carico di lavoro gravante sugli Uffici Giudiziari, in relazione al quale si renderà comunque necessario investire in nuovi strumenti e, soprattutto, organico; (ii) trovare una nuova fonte di danaro per lo Stato, se si pensa che le mancate esecuzioni delle pene pecuniarie sono quantificabili in circa un miliardo di euro, soldi del tutto persi per l’Erario. Sempre la stessa Commissione rileva come solo nel 2015 le mancate riscossioni ammontavano ad un miliardo e 600 milioni di euro. A ciò si aggiunga che, anche laddove comminate, le sanzioni pecuniarie sono raramente eseguite, rendendole, nei fatti, un mezzo del tutto assente e inutilizzato all’interno del nostro sistema sanzionatorio, con tutto quel che ne consegue come sopra già evidenziato. Numerosi poi i pregi legati a questo tipo di sanzione. In primis non è una pena che presenta effetti criminologici, ossia tutti quegli effetti che sono invece propri della pena detentiva e che comportano, soventemente, una criminalizzazione del condannato. Secondo un rapporto presentato dall’Associazione Antigone, elaborato citando i dati raccolti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il 68,45% dei soggetti che hanno scontato una pena in carcere sono recidivi, mentre il dato scende al 19% qualora la pena sia scontata in misura alternativa. Il secondo dato, nettamente più basso, pur dovendo tenere in considerazione che spesso chi accede ad una misura alternativa alla pena detentiva non è un potenziale recidivo, ovvero ha commesso fatti di minor entità, è comunque sintomo indiscutibile di quanto le misura carceraria sia oggi uno strumento a cui ricorrere non in via principale, bensì subordinata, come nell’idea del Legislatore dell’epoca. Questo primo dato palesa come il massiccio ricorso alla pena detentiva non solo un costo assai gravoso per lo Stato italiano, ma è anche un danno per lo stesso detenuto, il quale, a seguito della rescissione dei rapporti familiari, le pressioni psicologiche, lo stigma sociale del carcere e l’assenza di un concreto percorso rieducativo, finisce inevitabilmente per delinquere nuovamente. La mancata interruzione dei rapporti affettivi e familiari, la possibilità di continuare a svolgere il proprio lavoro, sono tutti ingenti vantaggi che rendono la sanzione pecuniaria uno strumento altamente appetibile a cui gli Organi Giudicanti dovrebbero poter guardare quale prima sanzione da irrogare, in luogo della detentiva, in qualità di vera extrema ratio come auspicato da tempo. Inoltre, così procedendo, si risolvono i problemi collegati al tema della rieducazione del reo ex art. 27 Cost.. Evitando gli effetti criminalizzanti di una pena detentiva carceraria, infatti, si evita di dover attuare percorsi educativi infra murari che spesso si concretizzano in attività sportive, scolastiche e/o lavorative. Infine, si evidenzi ancora la facilità di riparazione di cui gode la sanzione pecuniaria irrogata nel caso di un errore giudiziario. Il Consiglio dei Ministri, consapevole di quanto sin qui evidenziato, ha parzialmente mantenuto quanto previso all’art. 9 d.d.l. A.C. 2435, però, di fatto, recidendo integralmente quella che era la previsione normativa di maggior interesse ed innovazione: la commisurazione della pena pecuniaria alle condizioni economiche e personali del reo di cui alla lett. b). La precedente lett. b) della Relazione finale, oramai espunta, prevedeva l’introduzione di un sistema di commisurazione della pena pecuniaria alle condizioni economiche e personali del reo, tramite un sistema di quote in numero non inferiore a 5 e, di norma, non superiore a 360, il cui importo veniva determinato discrezionalmente ad opera del giudice in un valore non inferiore a 1 e non superiore a 30.000. Il sistema è già collaudato per gli Enti collettivi per il tramite del noto D.Lgs. 231/2001. La norma è di chiara ispirazione del modello tedesco della Tagessatssystem, ossia il sistema per tassi giornalieri: questo prevede l’applicazione della pena in due fasi. In base al grado di responsabilità penale e gravità del fatto, viene determinato il numero di quote da infliggersi. Nella seconda fase viene calcolato l’ammontare di ogni singola quota, determinata nei modi propri del punto precedente, sulla base delle condizioni economiche e personali del soggetto da condannare. La somma da corrispondersi a titolo di sanzione si ottiene moltiplicando il dato ottenuto sub (i) con il valore attribuito alla singola quota. L’ispirazione dal modello tedesco si evince anche dall’utilizzo dei medesimi valori edittali previsti: da 5 a 360 per quanto concerne il numero di quote e da 1 a 30.000 per quanto riguarda invece il valore di ogni singola quota. La commisurazione della pena pecuniaria alle condizioni economiche del reo, ad ogni modo, non è un principio del tutto sconosciuto nel nostro ordinamento: si consideri l’art. 133-bis ai sensi del quale trova posto il metodo di commisurazione della pena pecuniaria. Tuttavia, la portata dell’articolo 133-bis, all’interno di un sistema a somme vincolate in massimi edittali come il nostro, laddove la pena deve necessariamente muoversi all’interno di confini precisi e non inquadrati in tassi giornalieri, non trova una piena e reale esplicazione, come in altri ordinamenti che già adottano il sistema per quote con buoni risultati come Germania, Spagna, Francia, Polonia etc.. Ancora esemplificativo è l’articolo 10, comma 2 del D.lgs. 231/2001 citato, ai sensi del quale “Nella determinazione dell’ammontare della multa o dell’ammenda il giudice deve tener conto, oltre che dei criteri indicati dall’articolo precedente, anche delle condizioni economiche del reo”. Tuttavia, seppur auspicabile, la disciplina suesposta è stata espunta e il Governo sarà chiamato ad intervenire con maggior forza ed incisività nella risoluzione di tutte le criticità che attengono al processo burocratico di comminazione, gestione e riscossione della pena pecuniaria. Sul punto sarà pertanto necessario andare ad individuare le falle del sistema, intervenendo anche sul Testo Unico in materia di Spese di Giustizia, il D.p.r. 115/2002, dall’introduzione del quale vi è stato un rallentamento in ordine all’esecuzione delle pene giudiziarie, sostanzialmente per una spesso carente comunicazione tra l’Agenzia delle Entrate e le Cancellerie, le quali ultime non hanno modo di adottare la conversione della pena pecuniaria proprio perché non vengono informate in caso di mancata esecuzione. In secondo luogo, per ovviare al problema, si renderà necessario investire nuovamente nel settore giudiziario per l’acquisto di nuovi mezzi, strumenti e, soprattutto, organico, terminando una stagione caratterizzata da tagli che, con la pandemia, hanno messo in luce tutti i problemi di cui erano forieri. Sulla scia di una costante volontà deflattiva, la riforma appare coerente con tutto l’impianto studiato dalla Commissione ed approvato dal Governo, potendo la sanzione pecuniaria rappresentare un validissimo, se non preferibile, sostituto alla pena detentiva, riducendo il sovraffollamento carcerario e riducendo il gravoso iter che governa l’esecuzione di una pena detentiva. Purtroppo, appare come un’occasione mancata quella dell’introduzione del sistema per quote, i cui meccanismi avrebbero certamente contribuito a rendere la sanzione pecuniaria la pena più rilevante ed utilizzata nel nostro sistema, come attualmente solo auspicato, in luogo di quella detentiva. Si auspica, pertanto, che la ratio delle pesanti cesure applicate all’art. 9 così come presentato dalla Commissione Lattanzi, vi sia l’intenzione di concentrare gli sforzi nella cura di quelle falle burocratiche che ad oggi rallentano, ovvero rendono impraticabile, il ricorso all’istituto ivi esaminato, per poi procedere ad impegnative modifiche di carattere sostanziale solamente in futuro, allorquando la condanna alle pene pecuniarie, e loro eventuale conversione, sarà uno strumento processuale di agevole utilizzo. Laici nominati in ritardo: la politica blocca la giustizia amministrativa di Maria Alessandra Sandulli* Il Dubbio, 6 settembre 2021 In un momento in cui tanto si insiste sulle tempistiche della giustizia, merita segnalare due gravi situazioni di “stallo” che affliggono i giudizi amministrativi di appello sulle pronunce del Tar Sicilia e del Trga della Provincia di Bolzano. In un momento in cui tanto si insiste sulle tempistiche della giustizia, merita segnalare due gravi situazioni di “stallo” che affliggono i giudizi amministrativi di appello sulle pronunce del Tar Sicilia e del Trga della Provincia di Bolzano. Il problema è determinato dalla combinazione tra le norme che, in deroga alle regole generali, impongono la presenza nel collegio giudicante di membri “laici” - rispettivamente designati dal Presidente della Regione siciliana e dal Consiglio dei Ministri (con pareri del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e del Consiglio provinciale di Bolzano) - e le difficoltà, di varia natura, in tali speciali reclutamenti. In particolare, per la Sicilia, il d. lgs. n. 373 del 2003, norma super- primaria di attuazione dello Statuto speciale, prevede che l’apposito Consiglio di giustizia amministrativa (Sezione speciale del Consiglio di Stato con competenza esclusiva sulle pronunce del Tar regionale) sia composto, oltre che da 9 magistrati del Consiglio di Stato, da un Prefetto, designato dal Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, e da altri 9 componenti “non togati” (5 per la sezione consultiva e 4 per quella giurisdizionale), designati dal Presidente della Regione (che peraltro, per prassi, indica la sezione di destinazione) tra i soggetti in possesso dei requisiti di cui all’art. 106 Cost. per la nomina a consigliere di Cassazione ovvero di cui all’art. 19, co. 1, n. 2, l. n. 186 del 1982 per la nomina a consigliere di Stato. Tali componenti, che durano in carica 6 anni (e non sono confermabili) sono poi nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, cui partecipa lo stesso Presidente della Regione. Il medesimo d. lgs. stabilisce poi che del collegio giudicante (composto di 5 membri) debbano sempre far parte 2 membri non togati. Accade ora che, per ragioni di cui non si è a conoscenza, la Regione non abbia ancora provveduto alla sostituzione di ben 5 dei 9 membri di sua competenza (destinati a coprire 3 carenze nella sezione consultiva e 2 in quella giurisdizionale). Se si considera che, per espressa disposizione dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa (Cpga) ogni magistrato amministrativo e ogni consigliere di Stato ha un carico massimo di udienze all’anno e un carico massimo di affari di merito per ciascuna udienza rigorosamente predefinito (allo stato, 20 udienze e da 4 a 6 affari di merito per udienza, per un totale di sentenze annue da 80 a 120), tale ritardo (che per alcuni componenti ha superato l’anno) crea evidenti problemi di formazione del collegio e determina un gravissimo deficit di tutela. Senza dire che in caso di indisponibilità o di incompatibilità dei (si ricorda, oggi solo 2 su 4) membri laici della sezione giurisdizionale, il Presidente, per formare il collegio, è costretto a utilizzare quelli assegnati alla sezione consultiva. Il problema da ultimo accennato si pone con particolare evidenza (e gravità) con riferimento all’attuale situazione dei giudizi di appello avverso le pronunce del Trga della Provincia di Bolzano. In questo caso, la normativa speciale (art. 93 dello Statuto e art. 14 dPR n. 426 del 1984, recante le relative disposizioni di attuazione) impone la nomina a consigliere di Stato (fino alla cessazione dal servizio) di due “esperti” appartenenti ai gruppi di lingua tedesca o di lingua ladina (aggiunta dalla l. cost. n. 1 del 2017) della Provincia e la partecipazione al collegio giudicante d’appello di almeno uno di tali consiglieri, al fine di “garantire una rappresentanza del complessivo sistema autonomistico locale” (cfr. il parere dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato sul disegno di riforma costituzionale del 2017). La garanzia si arresta alla presenza necessaria nel collegio e non si estende alla nomina come relatore/ estensore, che giustamente segue le regole ordinarie (sicché questo magistrato può, ma non deve essere relatore/ estensore: del resto, egli è un consigliere di Stato come gli altri e come gli altri partecipa alla rimanente attività “non- bolzanina”, ove del caso come relatore/ estensore). Accade però che, a fronte dell’anticipato ritiro dal servizio dei due membri precedentemente nominati, ne sia stato a oggi sostituito soltanto uno. La scelta è fuori discussione sul piano della qualità, ma, per gli uffici prima ricoperti nell’amministrazione della Provincia autonoma, dà luogo a prevedibili incompatibilità, specie in tema di contratti pubblici. La conseguenza è che, nelle more della nomina di un secondo consigliere “bolzanino”, l’applicazione della richiamata normativa speciale implicherebbe il rinvio della trattazione del ricorso. Diversamente, la relativa decisione rischierebbe di incorrere nella censura della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione (v. ord. SS. UU. n. 26387 del 2020, anche per un’ampia ricostruzione dei precedenti e per una “rimeditazione” sulle conclusioni accolte nell’ord. n. 19248 del 2010, ha ritenuto l’ammissibilità del ricorso in cui si contestava la decisione assunta dal Consiglio di Stato in assenza del componente “bolzanino”). Con buona pace dell’intento di ridurre la durata dei processi, in funzione del quale vengono progressivamente contratti proprio i tempi dei giudizi in materia di appalti pubblici, comprimendo sempre più i termini per le difese e per la decisione. La seconda nomina potrebbe richiedere ancora qualche mese perché il procedimento è complesso. Ma intanto il rinvio va giocoforza a contrastare il fondamentale principio di effettività della tutela garantito dalla Costituzione, principio che, per di più, nelle materie di rilevanza eurounitaria, è espressamente garantito anche dal diritto dell’Unione. Non è certo questa la sede per prospettare possibili soluzioni, ma entrambe le situazioni rappresentate dimostrano la necessità di un’urgente riflessione sul tema generale di queste “specialità”; e confermano che i problemi della giustizia amministrativa non si affrontano con la limitazione dei poteri del giudice. *Ordinario Diritto Amministrativo Università Roma Tre Marche. “Corsi per reinserire i detenuti” Il Resto del Carlino, 6 settembre 2021 Il Garante regionale Giulianelli ha incontrato il prefetto Filippi. Poi la visita alla Comunità di Capodarco. Per garantire i diritti fondamentali di tutte le persone, occorre unire le forze. Ne è convinto il garante regionale dei diritti, Giancarlo Giulianelli, che ha avuto due importanti incontri a Fermo. Giulianelli ha da tempo avviato una serie di confronti con i prefetti di tutto il territorio marchigiano, proprio per arrivare ad avere una conoscenza più approfondita dei territori e delle problematiche di ciascuno. A Fermo, l’incontro è stato col prefetto Vincenza Filippi, per un dialogo attento e costruttivo. “È stata una prima riflessione condivisa - sottolinea Giulianelli - che ci ha permesso di entrare nella specificità di alcune situazioni contingenti e di esaminare i possibili percorsi da intraprendere in un spirito di massima collaborazione”. Tra le diverse tematiche poste in primo piano, quelle riferite alla sfera d’intervento su infanzia e adolescenza, alla realtà dei minori stranieri non accompagnati, agli arrivi dall’Afghanistan ed all’ospitalità da offrire. Al centro dell’attenzione anche la situazione degli istituti penitenziari. Già a luglio il garante era stato a Fermo per il sopralluogo presso la locale casa di reclusione, dove aveva avuto incontri con il direttore, la comandante della Polizia penitenziaria e con gli stessi detenuti. Tra le problematiche affrontate, quella relativa alla mancanza di attività trattamentali, anche per l’assenza di personale specifico: “Anche a Fermo si cercherà di attivare interventi - ha sottolineato Giulianelli - che sappiano dare risposte soddisfacenti in questa direzione, come l’organizzazione di corsi che possano risultare utili ai detenuti per un loro futuro reinserimento nella società”. Secondo appuntamento fermano del garante con il presidente della Comunità di Capodarco, don Vinicio Albanesi, e con il direttore Riccardo Sollini: “Anche in questo caso i minori sono stati oggetto di ampia riflessione e non è mancata una valutazione sulle progettualità da porre in essere. Ma è stata anche l’occasione per l’avvio di un percorso sulla realtà delle comunità d’accoglienza, che intendiamo portare avanti a partire dalle prossime settimane attraverso diversi interlocutori”. In questa direzione il Garante ha anche avuto modo di visitare un’altra struttura dedicata alle vittime di violenza, che fa capo alla stessa comunità fermana. Nel corso del colloquio c’è stata anche l’occasione per un approfondimento sulla situazione delle persone in fuga dall’Afghanistan, con la Comunità di Capodarco che è stata una delle prime a rendersi disponibile per l’accoglienza. Firenze. Carcere di Sollicciano, non si può aspettare: bisogna reagire ora di Alessio Gaggioli Corriere Fiorentino, 6 settembre 2021 Sofri ha definito Sollicciano un carcere-discarica. Non c’è dibattito, non c’è da dibattere. Non ci sono altre definizioni. Adriano Sofri nella rubrica “Piccola posta” su “Il Foglio” ha definito Sollicciano un carcere-discarica. Chi può affermare il contrario? Non c’è dibattito, non c’è da dibattere. Non ci sono altre definizioni. Parlano i titoli di cronaca da soli, anche i più recenti. Breve riepilogo dell’estate: lo scorso 11 luglio otto detenuti della 12esima sezione hanno incendiato i materassi delle loro celle, divelto inferriate e sono saliti sul tetto. Rivendicavano certezze sui tempi per ottenere permessi e altri benefici. Il 29 agosto, oltre un mese dopo, il cappellano del carcere don Vincenzo Russo ha raccontato che alcuni detenuti si trovavano ancora nella 12esima sezione, quella dell’incendio che doveva essere evacuata per i danni causati dal rogo. Quaranta giorni senza acqua, luce, nel carcere che d’estate diventa un forno. Loro reclusi al buio, le guardie con le torce per sorvegliarli. Mercoledì la tragedia di Nasser Yussef, morto soffocato con la testa incastrata nello spioncino. Si trovava nella vecchia sezione transito. Racconta Massimo Lensi (associazione Progetto Firenze): “È la sezione peggiore. Una sezione infame. Celle piccole e buie, passeggi francobollo a triangolo tra mura altissime pieni di escrementi di piccione. Un incubo”. Questi i fatti degli ultimi due mesi scarsi. I fatti emersi. Inutile riepilogare i dati sugli atti di autolesionismo (il peggiore d’Italia) sulle (in)evitabili tragedie a Sollicciano. Certo si dovrà capire, come scriveva ieri Sofri “come si possa morire, per incidente o per volontà, con la testa incastrata” in un spioncino. Però alcune cose (le solite) è bene sempre ricordarle: mancano, ha denunciato il segretario della Uil-Pa, comandante e direttore (ormai da tempo immemore e quelli che vengono se ne vanno anche alla svelta, chissà come mai...), i detenuti sono il doppio della capienza. Il sindaco Dario Nardella è vero ha lanciato allarmi negli anni, ha rivendicato di aver detto già nel 2019 che Sollicciano va raso al suolo, ha telefonato al ministro Cartabia che forse verrà a visitare la discarica, come tanti hanno fatto in passato. Il garante toscano dei detenuti ha scritto che il carcere “avrebbe necessità di una visione umanistica e antropocentrica (ndr) che esaltasse il dettato costituzionale”. Nel frattempo che si fa? Per Sollicciano serve una mobilitazione, vera e costante. Di tutti i partiti, i politici locali e nazionali eletti in Toscana. Delle istituzioni. È passata l’ora di uscire dalla routine (dichiarazioni, telefonate e visite con conferenza stampa finale). Serve, per quanto possibile, scuotere l’Italia. A Firenze c’è una discarica, dove le persone sono come rifiuti. Verbania. Il carcere di Pallanza è un’isola felice: “Anche la doccia nelle celle” di Cristina Pastore La Stampa, 6 settembre 2021 Il Garante regionale Bruno Mellano ha visitato la struttura verbanese. La mancanza di un direttore titolare per la casa circondariale di Verbania e la presa in carico di carcerati con disturbi psichiatrici sono tra le problematiche evidenziate al garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, in visita mercoledì con il consigliere regionale Alberto Preioni nella struttura di via Castelli a Pallanza. Un’ispezione per raccogliere dati da inserire nella relazione annuale che Mellano sta per presentare all’assemblea regionale. L’attuale direttrice ha un incarico a scavalco con Biella, mentre - è la tesi - “servirebbe la presenza costante della figura demandata alla supervisione degli aspetti di sicurezza, educativi e amministrativi”. Durante la visita si è discusso anche di questioni sanitarie. La consulenza una volta alla settimana di uno psichiatra non basta per seguire persone, già fragili, il cui malessere con la detenzione esplode. Nel complesso la situazione a Verbania è comunque buona. I detenuti sono 60 su una capienza di 52. “Una decina però sono fuori tutto il giorno perché prestano attività lavorativa alla scuola penitenziaria e alla mensa sociale di villa Olimpia. Le celle sono una trentina, con wc e doccia, che è tutt’altro che scontata, ma manca il refettorio - informa Mellano -. Per pranzo vengono interrotte le attività, tante proposte grazie all’associazione Camminare Insieme, e ognuno deve tornare in cella per mangiare”. La struttura è divisa in tre sezioni: detenuti comuni (la maggior parte); appartenenti alle forze dell’ordine (attualmente sono 8 i posti) e omosessuali (13) che fanno richiesta di essere assegnati a un’ala dedicata. Il carcere di Verbania e quello di Como sono i soli in tutta Italia ad avere questa sezione. Dei 60 detenuti 14 sono stranieri: il 25%, quando la media italiana è del 30% e quella piemontese del 40%. In un anno e mezzo il rischio contagio è stato tenuto sotto controllo e ora la quasi totalità è vaccinata, almeno con la prima dose. Non solo cortile per l’ora d’aria. Tra poco sarà disponibile un secondo spiazzo interno, trasformato in campetto da calcio: sta per essere posato il tappeto verde sintetico. “Quattro anni fa con il garante cittadino Silvia Magistrini - riferisce Mellano - siamo riusciti ad avere il finanziamento dalla Cassa delle Ammende. E’ stato realizzato grazie al lavoro di quattro detenuti che hanno preparato il fondo con la consulenza gratuita dell’architetto Antonio Montani”. Napoli. Un premio internazionale per il garante dei detenuti Pietro Ioia v-news.it, 6 settembre 2021 Il prossimo 7 settembre alle ore 14.00, presso la Sala Baroni del Maschio Angioino, il garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia riceverà un premio internazionale dedicato alla memoria di Martin Luther King. Un premio che porta dentro di sé il peso con cui costantemente il garante Ioia fa i conti mentre lotta per i diritti umani, soprattutto dei diversamente liberi. Non è sicuramente facile portare questo peso e gestire una responsabilità di tale portata perché ciò presuppone tante altre qualità che Pietro possiede, come una grande umanità ed un senso di civiltà che va ben oltre le passerelle a cui si è stati abituati per moltissimo tempo. Pietro è un ponte di dialogo e costruzione di intenti, tra una società ancora troppo sorda, gli addetti ai lavori, chi ha potere istituzionale e la voce di chi dietro le sbarre si vede calpestare diritti giorno dopo giorno e, spesso, anno dopo anno. Un uomo dunque che crede nelle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario come la semilibertà, le diverse forme di detenzione domiciliare e di affidamento in prova al servizio sociale e non solo. Ma soprattutto un garante che si è sempre speso per i detenuti e per i loro parenti, i figli minori il più delle volte dimenticati dal motore sociale che ruota attorno al sistema carcerario. Non esistono giorni di festa per lui e non soltanto perché si reca nei penitenziari anche in tali giorni, bensì perché ascoltando la sofferenza dei racconti dei carcerati, con difficoltà vive serenamente quel che resta delle sue giornate una volta rientrato a casa. Una missione la sua, quella di un attivista e di un difensore dei diritti umani che lascia sempre i riflettori accesi sul ‘detenuto persona’, una realtà che tanti cercano costantemente di sgretolare e calpestare. Una realtà che esiste, vive ed ha bisogno di molte mani, altrettanti voci e di una specifica progettualità di integrazione/reintegrazione e ricostruzione di sé per poter tornare a sentirsi, percepirsi come ‘esseri umani’ con diritti incontestabili e da difendere. Riportiamo le dichiarazioni di Pietro Ioia pubblicate sulla sua pagina Facebook personale: “È un onore ricevere un premio internazionale dedicato alla memoria di Martin Luther King, perché sono proprio le parole di questo grande uomo che ogni giorno mi guidano nella mia lotta non violenta contro le ingiustizie del carcere. Ho sempre denunciato le violenze e le gravissime condizioni in cui si trovano i detenuti perché, come diceva King, “ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi, ma l’indifferenza dei buoni”. Dobbiamo continuare a coltivare il sogno di una società diversa, in cui la pena sia un’occasione di cambiamento e di ritorno ai valori costituzionali. Abbiamo bisogno dell’impegno e del coraggio di tutti perché, parafrasando le parole di King: “Io ho un sogno, che un giorno per le strade della nostra amata terra, i figli di coloro che un tempo furono vittime della ingiustizia e i figli di coloro che furono autori di quelle ingiustizie, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza”. E’ il senso dell’art. 2 della Costituzione, la solidarietà, ed è la speranza della nuova riforma del ministro Cartabia: la giustizia ripartiva, cioè la possibilità di immaginare un nuovo sistema di pene capace di rieducare senza violenza e di riparare le vittime nel loro bisogno di giustizia, perché la vendetta è un solo un nuovo calice di veleno”. Grosseto. Chiude l’esperienza con il carcere, ma l’orto continuerà a produrre Il Tirreno, 6 settembre 2021 Nel 2018 la parrocchia Cristo Re di Valpiana inaugurò il progetto “Orto al di là delle sbarre”, una iniziativa per favorire l’inserimento dei detenuti del vicino carcere di Massa Marittima; adesso l’avventura si avvia verso la conclusione anche se l’orto rimarrà comunque in attività con l’auspicio di poter riprendere prima possibile la collaborazione con la casa circondariale. E stasera una piccola festa chiuderà simbolicamente l’iniziativa. Dietro all’orto sociale c’è don Gregorio Bibik, dal 2015 parroco della chiesa di Valpiana, parte dell’unità parrocchiale con San Paolo della Croce e Ss. Pietro e Paolo a Follonica; grazie a lui e ai volontari fra i quali fondamentale l’opera di Luciana Trivarelli, a capo del progetto, i detenuti del carcere massetano hanno potuto avere un’opportunità di reinserimento sociale e lavorativo utile una volta conclusa la pena detentiva. “Ci sono delle difficoltà legate alla situazione del carcere che non consentono più di avere detenuti da destinare al progetto - spiega don Gregorio - La storia dell’orto sociale nasce dalla volontà di Luciana di dare un’opportunità ai carcerati, passare qualche ora assieme, socializzare, effettuare insomma un’opera di reinserimento sociale. Prima tutto ciò veniva realizzato con l’attività di una pizzeria a Massa Marittima, dopo la sua chiusura è partita l’esperienza dell’orto che è iniziata con un piccolo terreno della parrocchia e poi si è allargata grazie alla disponibilità delle persone che hanno capito l’importanza dell’iniziativa e ci hanno concesso alcuni terreni in comodato gratuito fino ad arrivare a ben due ettari di spazio”. L’orto in questi anni si è sostenuto da solo riuscendo a produrre un piccolo reddito da destinare ai carcerati, i parrocchiani di Follonica e Valpiana hanno sposato appieno l’iniziativa comprando i prodotti in vendita all’orto sociale ma anche lavorando la terra e dando il loro contributo volontario, nel 2018 l’orto al di là delle sbarre ha partecipato al concorso “Tutti per tutti” della Cei ed è stato premiato con l’ottavo posto a livello nazionale. La vendita diretta dei prodotti ancora disponibili fino a esaurimento delle scorte attuali prosegue il lunedì, mercoledì e sabato dalle 9 alle 12 dietro alla chiesa di Valpiana. “Il progetto rimane solamente congelato in attesa di capire come e quando potrà riprendere - conclude don Gregorio - Il desiderio di venire incontro ai carcerati rimane immutato ma dobbiamo attendere che si creino le condizioni perché i detenuti possano nuovamente uscire dalla casa circondariale, è una procedura complessa per la quale servono numerose autorizzazioni”. Detenuto e carceriere, gioco a ruoli invertiti per Silvio Orlando e Toni Servillo di Arianna Finos La Repubblica, 6 settembre 2021 Nel film “Ariaferma” il regista Leonardo Di Costanzo mescola le aspettative del pubblico nei confronti dei due attori, per la prima volta sullo schermo insieme. Toni Servillo e Silvio Orlando, un ispettore carcerario e un detenuto, un incontro che si consuma in una scena tra le celle aperte nel braccio di un istituto in dismissione, in un momento sospeso di sofferenza condivisa. In Ariaferma, fuori concorso alla Mostra e in sala il 14 ottobre, Leonardo Di Costanzo mette in scena “l’assurdità del carcere”, tema che attraversa altri film, il doc Rebibbia Lockdown sul rapporto virtuoso tra studenti carcerati e giovani universitari, l’ucraino 107 mothers sulle donne in carcere, difficile distinguere tra detenute e agenti. “Ariaferma - spiega il regista - l’ho scritto prima della pandemia: i pestaggi come quelli a Santa Maria Capua Venere accadono con regolarità. Dell’eventualità di questi momenti si sente anche nel film, c’è una tensione forte che si avverte senza che appaiano coltelli o pistole, è nella consapevolezza dello spettatore”. Per Servillo il film “riflette su un conflitto forte, di cui si fa carico il mio personaggio, tra il senso della responsabilità e la compassione. Non c’è condizione più infame che entrare in una cella con il pensiero di stare per anni chiuso in questi spazi angusti, in un rinnovarsi della violenza che hai conosciuto fuori, prima di ricevere una punizione che si reitera, senza fine. Questa impressione di punizione la avvertono anche alcuni tra coloro che sorvegliano, è questa la lettura inedita che propone Leonardo”. Orlando: “Girando in cella ho sentito il senso di angoscia, ho compreso l’inutilità di quella che è solo una vendetta dello Stato per delle colpe che uno ha commesso. Il film si interroga su come si può spezzare questa catena. Il grado di civiltà di una società si vede dal sovraffollamento di un carcere, dallo stato dei gabinetti in una cella”. Ariaferma sfugge alle convenzioni del film carcerario, ormai un vero e proprio genere: “Ho posto il punto di vista della narrazione - dice il regista - al centro, tra i due gruppi che convivono nello spazio: spostando lo sguardo ascoltando le motivazioni di entrambi, rendendoli liberi agli occhi dello spettatore dai ruoli di guardiano cattivo e carcerato pericoloso”. Un gesto di incontro diventa importante, spiega Servillo, “come concedere a un carcerato di cucinare per gli altri, sedersi allo stesso tavolo. Sta a significare: viviamo con voi la sofferenza di stare in questo luogo. Non siamo in una condizione migliore della vostra”. Tra i piaceri del film la prima volta insieme di Servillo e Orlando. “Leonardo ha invertito i ruoli rispetto a ciò che ci aspettavamo, creando un po’ di panico - confessa Orlando - Il mio personaggio è basato sulla fisicità, i silenzi, gli sguardi, da cui deve partire il suo senso di minaccia. Ma il mio vissuto è tutto l’opposto. Questo ha creato un senso di verginità, come fossimo per la prima volta davanti alla cinepresa”. Servillo: “Non ci ha permesso di sederci comodi in personaggi già fatti, che il pubblico poteva aspettarsi. Mi piace la decorosa bontà del mio servitore dello Stato, capace però di pensare che l’istituzione possa offrire un volto umano”. Tra gli attori è nata un’amicizia. “Servillo in questi anni è stato anche una guida mistica, esempio di rigore su lavoro, su cui spesso noi attori ci concediamo vaste pause. Incontrandolo l’ho scoperto straordinariamente divertente, un po’ imbranato, nelle scene in cucina sbatteva a mestoli e pentole”, sorride Orlando. Servillo: “Ho sempre apprezzato la straordinaria naturalezza di Silvio, a volte sembra che reciti come quando si apre un rubinetto e sgorga l’acqua, con una naturalezza figlia di un lavoro intelligente. Credo anche che l’esserci divertiti così tanto sul set abbia tolto un peso alla drammaticità del film, abbiamo cercato di metterlo nel flusso di questo racconto della vita di questi tre giorni complicati vissuti in questo carcere sperduto nel nulla”. L’unico rammarico di Orlando “è che questa esperienza non si ripeta”, Servillo concorda e rilancia: “Me lo auguro fortemente, anzi stiamo cercando di sollecitare Leonardo a fare un film su un cuoco e il suo assistente. Ora bisogna stabilire chi sarà il cuoco e chi l’assistente, oppure possiamo invertire i ruoli. Ma sarebbe magnifico poter fare insieme una commedia a tema culinario”. “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo è un’amara riflessione sul mondo penitenziario di Pedro Armocida Il Giornale, 6 settembre 2021 “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo - presentato ieri fuori concorso al Lido - è ambientato in un vecchio carcere ottocentesco che nel film è in fase di chiusura. Per problemi di spostamenti dei detenuti in altre carceri - il sovraffollamento sempre presente - dodici di loro, tra cui il protagonista Carmine Lagioia, interpretato da Silvio Orlando, rimangono in attesa delle nuove destinazioni insieme a un gruppo ristretto di agenti penitenziari, comandati dall’ispettore Gaetano Gargiulo (Toni Servillo). In questa atmosfera sospesa si assottiglia inevitabilmente la separazione netta tra detenuti e secondini facendo emergere la condizione comune di carcerati. Frutto di un grande lavoro di documentazione del regista che ha scritto la sceneggiatura con Bruno Oliviero e Valia Santella, Ariaferma uscirà nelle sale il 14 ottobre e sarà l’occasione per vedere un’opera solidissima sul mondo del carcere, sempre dimenticato e tra i meno esplorati dal nostro cinema anche se, ricorda il regista, “non è una pellicola sulle condizioni delle carceri italiane, ma sulla assurdità del carcere”. “Il carcere di Mortana - racconta Di Costanzo che nel 2012 aveva presentato qui a Venezia il suo importante esordio, L’intervallo - nella realtà non esiste: è un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte carceri in cui è successo che nei nostri incontri ci fossero insieme, agenti, direzione e qualche detenuto. Allora era facile che si creasse uno strano clima di convivialità. Poi tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo uno spaesamento. Lo stesso che ho cercato di portare nel film”. Cooperazione: “A viverci è tutta un’altra storia” di Maurizio Paganelli La Repubblica, 6 settembre 2021 Il libro che parla dell’impegno degli operatori umanitari italiani. Ventuno capitoli ciascuno con punto di vista, ambientazione e periodo storico diverso, che raccontano il quotidiano dell’impegno di operatori italiani, sanitari e non. Un libro anomalo, originale e interessante sulla cooperazione internazionale (“A viverci è tutta un’altra storia” - a cura di Giampaolo Mezzabotta, Infinito edizioni, pagine 144, euro 14: si può ordinare anche sul sito). Ventuno capitoli ciascuno con punto di vista, ambientazione e periodo storico diverso, che raccontano in gran parte il quotidiano dell’impegno di operatori italiani, sanitari e non, in questo piccolo grande mondo in cui viviamo. Né eroi, né santi: solo professionisti. “Né eroi né santi né martiri ma professionisti di alto livello”, “non volontari o missionari ma professionisti retribuiti”, si afferma nel Prologo. Specialisti che applicano procedure rigorose con entusiasmo, con molti sacrifici personali e familiari, con l’idea di uno sviluppo equo e sostenibile e la profonda convinzione, al di là del credo religioso o politico (che per fortuna poco traspare dalle testimonianze), dell’importanza di equità e giustizia sociale. Un aspetto forse non pienamente colto dall’introduzione della scrittrice Igiaba Scego che si sofferma più su quella che chiama “parte tossica della cooperazione” e di quel volontariato che fa “saccheggio neocoloniale”. Quelle comunità di espat ben pagati dalle Organizzazioni internazionali e assai poco integrati nel Paese dove operano. La dedica al compianto Paolo Dieci. Non è un caso, invece, che il libro sia dedicato a Paolo Dieci, co-fondatore nel 1983 della Ong Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli (Cisp), ex presidente della rete di Ong italiane, Link 2007, morto nel 2019, a 58 anni, insieme ad altri 156 viaggiatori (otto i cooperanti) nell’incidente aereo del volo Ethiopian Airlines Addis Abeba-Nairobi, uno dei tanti spostamenti aerei che i professionisti della Cooperazione compiono per il loro lavoro. Paolo Dieci era impegnato in progetti per la formazione, docente e divulgatore delle tecniche di progettazione dello sviluppo. Un professionista, per tornare al Prologo del libro. Ma l’alta professionalità si stempera nei brevi ritratti e descrizioni di varia umanità che ci vengono proposti: sono flash di vita sul campo, nessuna prosopopea né lezioni. Molta umanità, curiosità, approfondimenti, informazioni. E alcune descrizioni davvero godibili. Momenti di storia tragici che riemergono. Geografia e storia - Un caleidoscopio di esperienze, tradizioni, culture diverse, una panoramica geo-storica dall’Etiopia all’Afghanistan, dalle Isola Salomone a Papua Nuova Guinea, dal Rwanda al Mozambico, dalla Palestina e Giordania al Sud Sudan, dal Senegal al Congo, dall’Irak al Perù. Voci e memorie uniche e per questo preziose. Riemergono così tragici momenti storici che sembrano destinati a ripetersi: i talebani, gli odi tribali, le stragi, i genocidi, le guerre, la caduta di dittatori, gli esodi biblici, i cicloni, le emergenze umanitarie, le epidemie. Poi ci sono i migranti e noi. C’è nelle pagine del libro di Mezzabotta una riflessione che ci interroga sui canali legali per i migranti (il report si svolgeva “per avere una fotografia della situazione migratoria, della percezione dei rischi e delle informazioni sui canali legali”), sui diritti come cittadini del mondo di spostarsi ovunque ma anche sui loro bisogni e desideri: “Qua e là il paesaggio desertico è punteggiato da rettangoli verdi surreali. Sono campi irrigati, orti e addirittura risaie frutto di un progetto di una Ong italiana che è riuscito a far crescere piccole riserve di cibo in mezzo a questo nulla, con il fine, né troppo celato né errato, di mostrare ai giovani che un’alternativa all’emigrazione è possibile. Il famoso “aiutiamoli a casa loro”, per intenderci, che però visto qui ha un senso ed è ciò che in effetti le centinaia di persone che stiamo incontrando chiedono a viva voce”. Le storie ascoltate a Minus Island. E così, al capitolo migranti, appartiene il racconto della prigione atroce e “dorata” (“ampi spazi, assistenza sanitaria, catering, pulizia, sicurezza”) per immigrati e richiedenti asilo a Minus Island, piccola isola della Papua Nuova Guinea per volontà e accordi del governo australiano (Dieci giorni a Manus Island di Luca Falqui: una prigione che sarà chiusa nel 2019): “A Manus ho incontrato un’umanità che non era solo stata privata della libertà, ma anche dei sogni (...) Tutte le mille storie ascoltate a Manus hanno per me dei volti e delle lacrime”. Le testimonianze dirette. Storie intense - Il fulcro del libro sono però i racconti e le descrizioni di Paesi visti da “donne e uomini di buona volontà”, le loro testimonianze. Nella prefazione il giornalista e documentarista Davide Demichelis scrive di aver visto nel libro la voglia di “incidere nel mondo dei media”, uno sforzo di comunicare e l’importanza di farci capire e conoscere Paesi e realtà così lontane. Come le Storie di isole di suor Anna Maria Gervasoni, che apre il libro. E poi i racconti sul buio e le credenze magiche: il vella che possiede le persone, la tribù di giganti delle montagne, i coccodrilli magici, la polvere di lime che apre chiavistelli, le isole abitate dagli spiriti, sempre la polvere di lime che serve a far innamorare, gli gnomi, il malocchio e la medicina tradizionale, i riti e le preghiere. “Spiccioli di africanità”. Nel capitolo Spiccioli di africanità Augusto Cosulich parla di “un misto di concretezza, gentilezza, ospitalità, resilienza, a volte interesse, fatalismo, rispetto, spontaneità e spesso anche opportunismo”. Lui ci porta a Goma, nell’estremo Est della Repubblica Democratica del Congo, capitale del Nord Kivu. Siamo gli anni del genocidio in Rwanda, quando furono gli Hutu a fuggire per paure di rappresaglie dei Tutsi ora vincenti e poi il loro rientro: “Fummo praticamente bloccati sulla strada da una processione spontanea di migliaia di uomini, donne e bambini che, portando sulla testa e sulla schiena quel poco che avevano di vestiario e masserizie, rientravano alla spicciolata. Era un vero e proprio fiume umano che occupava tutta la sede stradale ma la cosa ancora più surreale era il silenzio assoluto che regnava ovunque”. E ancora sul Congo e il Rwanda. Il rovesciamento di alleanze e le guerre (il capitolo L’ultimo volo da Kinshasa di Maurizio Busatti) immagini vivide sul riaccendersi delle vendette etniche: “non si contano i linciaggi, le esecuzioni sommarie, i necklaces, pneumatici dati a fuoco intorno alla vita del malcapitato, insomma un pogrom annunciato per migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini intrappolati a Kinshasa”. Qui c’è il racconto, che sembra attuale, “dell’evacuazione delle migliaia di persone vulnerabili dopo averle identificate, censite e infine “districate” dal resto della popolazione della capitale”. “Ci attendeva una sfida al limite dell’impossibile, la confusione era altissima; tra le voci di un imminente attacco rwandese, la città traboccava di un odio profondo...(...) A provarci più di tutto erano le storie umane, alcune agghiaccianti, altre commoventi, altre quasi comiche per le balle recitate a mo’ di cantilena”. Il valore dell’aggiornamento continuo del cooperante. Il capitolo Sekondo misto di Carlo Resti - in conclusione - è un bell’omaggio all’Etiopia spesso dimenticata che oltre ad istruirci di gastronomia etnica ci lancia una riflessione: “Il tema dello sviluppo delle risorse umane in sanità attraverso la formazione di base e l’aggiornamento professionale continuo rimane basilare ed essenziale per garantire quel rafforzamento dei servizi (health service strengthening) che l’Oms predica da quasi vent’anni e che resta l’obiettivo primario per migliorare l’accesso ai servizi nei Paesi a basso reddito”. Conclude il curatore Mezzabotta: “Tutte assieme, sono storie che ci parlano con forza di un mondo dove la solidarietà sta diventando una scelta obbligata perché, a pensarci bene, è l’unica via di salvezza. Per tutti”. Davvero tutto è possibile? di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 6 settembre 2021 Abbiamo bisogno, mai come oggi, di fiducia e speranza. Sarebbe però sbagliato coltivare facili illusioni e credere di essere quello che non siamo. Non esiste una misura attendibile del clima di fiducia del Paese. Si va per sensazioni. Sabino Cassese notava ieri sul Corriereche “regna una strana pace nella politica italiana”. Scaramucce quotidiane, sguardo chinato su un presente troppo dilatato. Ma qual è la temperatura media degli animi nel mondo dell’economia? Quello della fiducia è l’unico riscaldamento di cui non dobbiamo avere timore. Mentre una parte del Paese soffre un impoverimento drammatico ve n’è un’altra che sta decisamente meglio. E tende, purtroppo, a dimenticarsi di quella che sta peggio. I mercati finanziari sono ai massimi. L’industria manifatturiera italiana non è mai andata così bene. Mancano le materie prime semmai, non i clienti del Made in Italy che celebra, con l’apertura del Supersalone del Mobile di Milano, una sorta di nuovo inizio. Anche le attività più colpite dalla pandemia, come il turismo per esempio, mostrano segni di forte ripresa. Abbiamo bisogno, mai come oggi, di fiducia e speranza che sono beni non quotati su alcun mercato. Dipendono dalla qualità e soprattutto dalla serietà di ciò che facciamo. A tutti i livelli. Non abbiamo bisogno però di coltivare facili illusioni e credere di essere quello che non siamo. E soprattutto dobbiamo guardarci dalla tentazione del “tutto è possibile”. La sostenibile leggerezza del debito, di cui si parla poco, incoraggia progetti e persino sogni. Non abbiamo sentito nessuno, in questo drammatico tornante della vita del Paese, dire con onestà che qualcosa non è fattibile perché “non ce lo possiamo permettere”. Se tutto è possibile (spese e sussidi, ammortizzatori, ovvero redistribuzione) ciò che è assolutamente necessario (investimenti che creano reddito e lavoro) riceverà meno attenzioni e risorse. Curioso che nel dibattito sul Piano nazionale di ripresa e resilienza si insista spesso nel sottolineare quello che non c’è, anziché interrogarci su come realizzare per tempo quello che c’è. E che senza 48 riforme da approvare entro il 2026 non ci sarà mai. Il senso dell’urgenza è scomparso, come se il Pnrr fosse già stato realizzato. “Lo sviluppo lo fanno le persone - ha detto ieri il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi - con le loro competenze”. Vero. In questi anni ci siamo dimenticati che il capitale umano non si forma magicamente come un’emissione di titoli di Stato. Non lo si crea stampando moneta, né lo si prende a debito. Abbiamo imparato veramente la lezione? A Cernobbio, al workshop Ambrosetti, l’ottimismo sul futuro dell’economia italiana era palpabile. Anche da parte di chi ha passato infinite quaresime. Tempi in cui uno scostamento di bilancio di un miliardo appariva un miraggio ed era frutto di faticose ricerche nelle pieghe della contabilità nazionale. E oggi appare, invece, solo una briciola che cade dal tavolo imbandito dei sussidi e dei prestiti europei. Non si ammette che è relativamente più facile gestire un Paese, così come un’azienda, nell’abbondanza (apparente) delle risorse. E infatti, nel dibattito pubblico, si parla poco di impegno, sacrifici, studio, lotta all’evasione fiscale e molto di diritti. Come se esistesse un fantomatico benessere di cittadinanza. In pochi mesi l’aumento della crescita attesa per il 2021 è stato pari - e non possiamo che rallegrarcene - a tutta quella che abbiamo mestamente cumulato in anni di sostanziale stagnazione. Non eravamo abituati a questi tassi “cinesi”. Sono percentuali quasi etiliche che si aggiungono però agli effetti analgesici di misure ancora in vigore: moratoria sui debiti, garanzie pubbliche, aiuti dello Stato. Il rimbalzo dell’economia si trasformerà tanto più facilmente in una crescita strutturale se ogni scelta verrà accompagnata dalla consapevolezza di godere di misure eccezionali e temporanee. Se uno spreco era insopportabile prima, a maggior ragione è colpevole oggi con tante persone in difficoltà. La ripresa dell’economia, merito anche della campagna vaccinale e dell’elevata disciplina degli italiani, è oggi superiore a quella di altri Paesi. Nel dirlo con una comprensibile punta d’orgoglio, dovremmo ricordarci che siamo caduti più degli altri. La storia poi insegna che i primati possono essere ingannevoli e finire per alleggerire gli anticorpi di una società anziché irrobustirli. Il 16 maggio del 1991, il Corriere fece questo titolo: “Italia, quarta potenza”. Che cos’era successo? Avevamo superato per valore del Prodotto interno lordo sia la Gran Bretagna sia la Francia. L’Istat aveva appena rivalutato il nostro Pil mettendoci dentro un po’ di economia sommersa (a occhio molto cresciuta anche oggi). Non lo facemmo solo noi, lo fece anche il Belgio per esempio. Il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, invitava alla prudenza preoccupato dall’esplosione del debito pubblico. La lira era però incredibilmente forte. Nel gennaio del 1989 era entrata a far parte della banda stretta di oscillazione del Sistema monetario europeo, promossa tra le monete stabili dopo che dal 1979 si era svalutata otto volte sul marco. Pochi mesi dopo quel titolo che sembrava una medaglia, il 14 settembre del 1992, se ne fece un altro di segno opposto: “A sorpresa, la lira svaluta del 7 per cento”. Era l’inizio della più grave crisi finanziaria del Dopoguerra che costrinse il governo Amato a una manovra lacrime e sangue con la quale entrò nottetempo nei conti correnti degli italiani prendendosi il 6 per mille. Una patrimoniale a tradimento. La prima obiezione che si può fare a questo improvvido paragone storico è che allora non c’era l’euro e non esisteva una Banca centrale europea che acquistasse (per quanto ancora?) tutti i nostri titoli di Stato. Appunto. Questa è la differenza, meglio non scordarcelo. Anche perché - come ha ricordato ieri a Cernobbio il ministro dell’Economia, Daniele Franco - negli anni 90 il nostro Paese cresceva molto di più della media europea. Negli ultimi anni molto meno. E nel 2019, prima della pandemia - livello che non recupereremo nemmeno con una crescita “cinese” nel 2021 - il rapporto tra Italia, Francia e Regno Unito, superati brillantemente trent’anni fa, era il seguente. Il Pil italiano valeva 1.787,7 miliardi di euro; quello francese 2.425,7; quello britannico 2.525,1. Quattro punti per una ripresa di Carlo Cottarelli La Stampa, 6 settembre 2021 Cosa è emerso dal quarantasettesimo Forum The European House - Ambrosetti che si è concluso ieri a Cernobbio? Impossibile riassumere tutti i temi toccati in tre giorni di intense discussioni cui hanno partecipato politici, imprenditori e accademici italiani. Mi limiterò quindi ad alcune “pillole”. Prima pillola: la fiducia nelle prospettive di breve periodo della nostra economia resta elevata. Come ha sottolineato lo stesso Draghi, la forte crescita che stiamo sperimentando è un normale rimbalzo dopo la crisi dello scorso anno, ma il rimbalzo è forte: secondo le mie stime, nel primo trimestre del prossimo anno dovremmo aver raggiunto il livello del Pil che avevamo prima del Covid. Il rischio principale nei prossimi mesi è rappresentato da un possibile ritorno alle chiusure. Da qui la necessità di procedere con le vaccinazioni, l’arma principale che abbiamo contro il Covid. Draghi ha parlato di obbligo vaccinale come risorsa finale. Non facciamo polemiche su questo punto. Intanto, come intende fare il governo, procediamo con l’estensione dell’obbligo del Green Pass per accedere ai luoghi relativamente più affollati. Poi si vedrà. Un importante punto emerso nel Forum Ambrosetti riguarda la necessità di procedere con le vaccinazioni in tutto il mondo, se vogliamo stare tranquilli. A livello mondiale il numero dei contagi resta elevato (seicentomila nuovi casi al giorno), non troppo lontano dal picco (di poco superiore agli ottocentomila casi) della scorsa primavera. Se le cose migliorano da noi e nel resto d’Europa, ma non altrove, il rischio che da qualche altra parte del mondo germoglino nuove varianti non è trascurabile. I Paesi avanzati dovrebbero quindi preoccuparsi che sia vaccinata anche la popolazione dei Paesi emergenti e a reddito più basso. Il costo di sussidiare tali vaccinazioni è minuscolo rispetto a quello di un prolungamento della pandemia. Seconda pillola: il rischio di un persistente aumento dell’inflazione esiste ma, per ora, è considerato dai più sopportabile. Un persistente aumento dell’inflazione sarebbe problematico in sé (a chi piace l’inflazione?) e, soprattutto, per le sue implicazione in termini di politica monetaria: se le banche centrali, in risposta a uno stabile aumento dell’inflazione, smettessero di comprare titoli di stato e aumentassero i tassi di interesse le conseguenze per paesi come l’Italia, ad alto debito, potrebbero essere serie. L’inflazione è aumentata a partire da gennaio, al di qua e al di là dell’Atlantico, ma, per ora, è l’opinione prevalente che si tratti di un naturale rimbalzo dei prezzi: la domanda torna a livelli normali, dopo la depressione da Covid, i prezzi tornano a livelli normali. Naturalmente questo comporta che si osservi presto un rallentamento dell’inflazione. Dati preliminari sui prezzi di agosto indicano, fortunatamente, una frenata nel Paese che forse è più sensibile al rischio di inflazione: in Germania ad agosto il tasso mensile di inflazione è stato zero (dopo un aumento di quasi un punto percentuale in luglio). Speriamo duri. Terza pillola: l’opinione prevalente è che il Pnrr rappresenti il primo piano organico di crescita che il nostro Paese ha da tanti anni. Concordo. Alcuni aspetti potranno non piacere, ma nel complesso è un piano valido. I finanziamenti europei ne sostengono l’esecuzione. Non ne garantiscono però l’esecuzione. A questo proposito, la prima incognita è politica. Quanto durerà il governo? Qui i pareri sono discordi, anche se è chiara una cosa: le recenti schermaglie tra i partiti su aspetti specifici (il piano vaccini, gli sbarchi, lo ius soli, eccetera) non sembrano di per sé sufficienti a spaccare l’attuale coalizione: nessuno si prenderebbe la responsabilità. L’unico rischio è legato all’elezione del Presidente della Repubblica che potrebbe diventare l’occasione per puntare a elezioni nella prossima primavera. Qui l’incertezza è massima per cui non mi metto a speculare su cosa accadrà. Il mio auspicio è che il governo continui a lavorare fino alla scadenza naturale della legislatura. Nel complesso sta operando bene ed è necessario che continui a operare per fare in modo che le importanti riforme previste dal Pnrr siano non solo portate avanti, ma mettano radici. Quarta e ultima pillola: questa riguarda, come avrebbe detto Arthur Conan Doyle per bocca di Holmes, “the dog that didn’t bark”. Con qualche eccezione non si è parlato di debito pubblico. O, meglio, si è parlato di debito solo con riferimento alla necessità di cambiare le regole europee sui conti pubblici, ossia il Patto di Stabilità sospeso nel triennio 2020-22. Il coro è stato unanime da parte dei commentatori italiani sulla necessità di renderlo meno stringente. O quasi unanime, visto che qualcuno (ad esempio Veronica De Romanis) ha ricordato che il vincolo vero è rappresentato non dalle regole europee ma dai mercati finanziari che comprano i nostri titoli di stato. In realtà, finché la Bce, tramite la Banca d’Italia, continua la politica di acquisti di titoli di stato italiani (e non) il problema non si pone. Ma quanto andranno avanti questi acquisti dipende dall’inflazione. Per ora stiamo tranquilli (vedi seconda pillola), ma questi acquisti non dureranno comunque per sempre. Siamo tutti keynesiani, ma, proprio perché siamo keynesiani, una volta assicurata la ripresa anche la politica di bilancio dovrà normalizzarsi, quali che siano le regole europee. Difesa europea, serve una forza di primo intervento di Marco Minniti* La Repubblica, 6 settembre 2021 Eppur si muove. O, almeno, così sembra. Tutto è incominciato esattamente trent’anni fa a Maastricht. In questa cittadina olandese che segnerà un pezzo grande della storia dell’Europa si gettarono le basi per la Pesc (Politica Estera e di Sicurezza Comune) entrata, effettivamente, in vigore nel 1993. Poi una sequenza strepitosa di acronimi in evoluzione: Pesd, Psdc fino all’attuale Pesco. Passando per la “forza di dispiegamento” fuori teatro di 60.000 uomini (di fatto mai nata) ai più agili Battle Group del 2007. Teoricamente sempre prontamente impiegabili a rotazione semestrale. Per poi scoprire amaramente che in qualche semestre ce ne era uno solo o addirittura nessuno. Una rapida cronaca di una storia infinita. Sempre nel 1991, nella stessa città, incominciava il percorso della moneta unica. Nel 1999 viene introdotto l’euro. Nel 2002 diventa moneta contante. In questa mancata “sincronia” si riflette la strutturale fragilità politica del vecchio continente. Non solo una sottovalutazione ma, piuttosto la convinzione di far parte di un campo, quell’occidentale in cui ci si potesse permettere di fatto, una divisione dei compiti. Agli Stati Uniti l’onere principale di garantire la sicurezza del pianeta. Anche nel giardino di casa dell’Europa. Con quest’ultima che si muoveva di conserva dal punto di vista militare per cimentarsi nell’arte della mediazione e della diplomazia. Già con Obama, poi fragorosamente con Trump quest’approccio ha incominciato a vacillare. Dopo la severissima lezione afghana il re è apparso, improvvisamente, nudo. In uno dei passaggi più delicati della recente storia dell’Occidente, a Kabul, mentre si effettuava una delle più imponenti operazioni di evacuazione di sempre, l’Europa, in quanto tale, non c’era. C’erano, in maniera encomiabile, singoli Stati membri. L’Italia in testa. Ma l’Europa no. Non ne aveva e non ha la capacità per farlo. Il tentativo di reazione del vertice di Lubiana va nella giusta direzione: una forza di primo intervento che garantisca proiettabilità. La consapevolezza che, in questo mondo così disordinato, la tempestività della decisione risulta determinante. Il superamento del totem dell’unanimità. La possibilità di procedere per cooperazioni rafforzate tra singoli Stati membri (non chiamiamoli “volenterosi”, non porta benissimo). Tuttavia, i distinguo, i silenzi, che non sono mancati in Slovenia, inquietano. Eppure, mai come adesso le ragioni per una scelta decisiva non mancano. Dalle fortissime turbolenze nel Mediterraneo ed in Africa alla minaccia asimmetrica del terrorismo internazionale senza dimenticare il cyber e lo spazio. Non sfugge a nessuno, per esempio, che l’Afghanistan possa in tempi, anche, abbastanza rapidi tornare ad essere un safe haven, un rifugio sicuro del terrorismo internazionale. Anche indipendentemente dalla stessa volontà del governo talebano. Questo costituirebbe un mutamento significativo del quadro della minaccia. Non più solo o, prevalentemente, il rischio di “lupi solitari”. Ma ritornerebbe il radicamento territoriale, le possibili basi di addestramento, le retrovie dalle quali poter pianificare attacchi complessi, anche verso obiettivi lontani. Rifugi sicuri che possono diventare una calamita d’attrazione per singoli o gruppi già attivi nel mondo. Non sono scenari immaginari. Li abbiamo già visti. Purtroppo. Si tratta di tenere insieme intelligence e capacità di proiezione. Sono due facce della stessa medaglia: la sicurezza dei cittadini europei. A novembre, l’adozione dello Strategic Compass, della bussola strategica, può costituire “la risposta”. Un’autonoma capacità di difesa europea non solo non confligge con i solidi e tradizionali rapporti con gli Stati Uniti ma, anzi, può aprire una nuova fase di relazioni transatlantiche sempre più decisive nel quadro della cooperazione-competizione che accompagnerà il nuovo corso del mondo. Lo stesso vale per la Nato. Nel 1998 Madeleine Albright, a proposito della cooperazione tra Nato e Difesa Europea, scrisse delle 3 D come chiave di un nuovo rapporto: no Decoupling, no Duplication, no Discrimination. Nessuna separazione, nessuna duplicazione, nessuna discriminazione. Molta acqua è passata sotto i ponti ma le buone idee non deperiscono mai. Infine, il Regno Unito. Una partnership decisiva, indispensabile per l’Europa. Come testimoniato, altresì, dalla costituzione recentissima (2020) di un’importante forza di intervento rapida franco-britannica sulla base dei Lancaster House Treaties. La storia di questi trent’anni ci ricorda che siamo alla vigilia di decisioni cruciali. C’è bisogno di una fortissima volontà politica collettiva. Solitamente le elezioni imminenti producono un affievolimento della capacità decisionale. Tuttavia, la profondità della rottura afghana, il forte coinvolgimento emotivo di una parte importante dell’opinione pubblica europea può suggerire un approccio diverso. Vale per la Germania che voterà fra qualche settimana. Vale per la Francia che voterà l’anno prossimo. Due Paesi chiave. Il grande tema della sicurezza e del ruolo dell’Europa può diventare uno snodo cruciale delle campagne elettorali in questi Paesi. Il percorso partito in questi giorni può trovare compimento all’inizio del nuovo anno con il semestre francese di presidenza dell’Ue. Macron ha la forza di una leadership che va oltre il suo Paese. La sua relazione speciale con Draghi, il suo rapporto storico con la Germania possono costituire una positiva congiuntura astrale e politica. Sapendo che l’unica cosa che l’Europa non si può permettere è “un falso movimento”. *Presidente della Fondazione Med-Or 11 settembre 2001. Con le Torri gemelle quel giorno crollò anche lo Stato di diritto di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 6 settembre 2021 Nel corso della storia gli Stati Uniti d’America hanno subito appena tre attacchi sul proprio territorio. Il primo nel 1916, quando 500 uomini dell’esercito rivoluzionario guidato da Pancho Villa varcarono la frontiera con il New Mexico per saccheggiare un deposito d’armi nella città di Columbus. Un attacco mordi e fuggi che provocò 17 vittime. La reazione americana fu sproporzionata e terribile: per ordine del presidente Wilson pochi giorni dopo 15mila uomini ai comandi del generale Pershing passarono il confine del Rio Grande per una spedizione punitiva che durò 11 mesi con migliaia di vittime e un netto insuccesso militare. Il secondo affronto il 7 dicembre 1941 nel celebre attacco di Pearl Harbour, quando l’aviazione dell’impero giapponese rase al suolo la flotta navale statunitense ancorata alle isole Hawai, spingendo Washington nel calderone della Seconda guerra mondiale. La rappresaglia nei confronti dei cittadini di origine giapponese è una delle pagine più buie della recente storia americana: oltre 110mila persone, prevalentemente della costa occidentale furono internate in campi concentramento in quanto “possibili nemici”. La deportazione, fuori da qualsiasi norma del diritto moderno, fu autorizzata dal presidente Franklin D. Roosvelt. L’ultimo episodio naturalmente risale all’11 settembre 2001, con gli attentati alle Torri gemelle di New York e al Pentagono in cui persero la vita tremila persone. Quel massacro inaugura l’era della lotta al terrore e della guerra infinita, l’amministrazione di George W. Bush, zeppa di bellicosi orfani della Guerra fredda e di pazzoidi intellettuali neo-con, dichiara guerra all’Afghanistan dei talebani (sic) per preparare poi la successiva invasione dell’Iraq di Saddam Hussein. Sul fronte interno decidono invece di fare a pezzi il proprio Stato di diritto. Cinque settimane dopo gli attentati il Congresso approva all’unanimità (due i voti contrari) il Patriot act, una legge antiterrorismo che sospende buona parte delle libertà civili, trasfor-mando la più grande democrazia del pianeta in una succursale della Germania dell’est. Nessuno si oppone, repubblicani e democratici uniti nella lotta, anche gli intellettuali liberal si mettono l’elmetto: “Bisogna combattere il terrorismo come se non esistessero regole”, scrive il New York Times nel suo editoriale in prima pagina. In nome dell’emergenza la società civile americana viene arruolata tutta e la nazione diventa un’immensa trincea. In sostanza il Patriot act, nelle sue prolisse 132 pagine di testo, modifica una quindicina di leggi federali: dall’immigrazione, alle operazioni bancarie, dalla sorveglianza ai mandati di arresto e alle intercettazioni, fino alle manifestazioni di piazza che possono essere associate ad attività anti-patriottiche o addirittura a “terrorismo interno”. Autorizza la brutale intrusione dello Stato nella sfera privata dei cittadini entrando in rotta di collisione con il Quarto emendamento che protegge il diritto degli individui “di godere della sicurezza personale, della loro casa, delle loro carte e dei loro beni, nei confronti di perquisizioni e sequestri ingiustificati”. L’Fbi acquisisce poteri mai visti neanche all’epoca di Hoover e della caccia alle streghe, le sue inchieste, spesso fondate su esili sospetti, non hanno più il vincolo del mandato giudiziario, gli agenti possono sorvegliare, spiare, perquisire e arrestare in piena libertà, di fatto i federali hanno gli stessi poteri riservati alla Cia e al controspionaggio. Migliaia di persone vengono messe in custodia cautelare senza capo d’imputazione e possibilità di consultare un avvocato. Le stesse conversazioni tra legali e clienti sono oggetto di intercettazioni selvagge. Viene creato lo status di “combattente nemico” che permette alle autorità di tenere a tempo indeterminato nei centri di detenzione chiunque sia sospettato di attività terroristiche. Il più famoso è il carcere di Guantanamo Bay, una zona d’ombra e di illegalità del diritto internazionale di cui parliamo diffusamente in un altro approfondimento del nostro settimanale. I principali fornitori di accesso a internet sono obbligati a mostrare alle agenzie del governo i dati personali di milioni di utenti, la Nsa (agenzia nazionale per la sicurezza) può acquisire senza mandato tutte le mail e tutte le conversazioni telefoniche in provenienza o a destinazione degli Stati Uniti. In premio le aziende web e di telecomunicazione ricevono un’immunità retroattiva per eventuali reati fiscali. Il concetto stesso di privacy si sgretola con le scorribande dei federali che possono ottenere dossier medici, finanziari dei sospetti e informazioni su chiunque prenda a noleggio un video o persino un libro in una biblioteca. Lo scandalo del Datagate scoperchiato nel 2013 dall’ex consulente della Nsa Edward Snowden nasce proprio nel solco profondo scavato dal Patriot Act. Doveva essere una disposizione transitoria di quattro anni e invece il dispositivo si è nel corso del tempo si è “perennizzato”, se l’amministrazione Obama ha approvato alcuni emendamenti che limitano il campo d’azione delle agenzie federali di sicurezza, ancora oggi molte sue misure sono di fatto in vigore come ad esempio le perquisizioni effettuate in assenza del sospetto (dette sneak and peek) o la sorveglianza telefonica e telematica senza l’autorizzazione di un mandato giudiziario. Decine di giudici distrettuali hanno definito in questi anni come incostituzionali diverse nome del Patriot Act rifiutandosi di applicarle nei singoli Stati o contee, ma la Corte suprema ha sempre difeso la mostruosa creatura partorita dall’amministrazione di George W. Bush e dal suo Segretario alla Difesa John Ashcroft. Guantanámo, il buco nero in cui l’Occidente ha perso per sempre la propria “innocenza” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 6 settembre 2021 A vent’anni dall’invasione afghana, il carcere costruito in una base militare Usa a Cuba è ancora attivo. due decenni di torture e violazioni che hanno ucciso lo stato di diritto. “Non ero nessuno, ero solo un tassista di Karachi. Vorrei essere ancora quel tassista. Vorrei conoscere mio figlio, che è nato poco prima che io fossi rapito. Invece, sono un ‘prigioniero per sempre’ quaggiù a Guantanamo. Sono qui da 17 anni. Non sono mai stato accusato di un crimine. Ma ancora: eccomi qui”. La testimonianza raccapricciante, diffusa lo scorso anno dall’organizzazione umanitaria Reprieve - formata da avvocati e difensori dei diritti umani che offrono assistenza legale ai detenuti più indifesi - è di Ahmed Rabbani, uno dei 40 prigionieri ancora rinchiusi a Guantanamo. Senza mai aver avuto un processo e nemmeno un capo d’accusa, Rabbani ha passato quasi vent’anni in una cella. O meglio, in un buco nero. Nel buco nero della coscienza d’occidente, abituato a esportare democrazia ma non sempre a rispettarla. Perché se dopo vent’anni e quattro diversi Presidenti l’amministrazione statunitense ha trovato una buona ragione per ritirarsi dall’Afghanistan, non ha ancora trovato un buon motivo per chiudere per sempre la struttura della vergogna. Vent’anni di morte del diritto, di torture disumane e di costanti violazioni della Convenzione di Ginevra. Una follia pianificata, scientifica, figlia della strategia della crociata al terrore lanciata da Gerge W. Bush dopo l’11 settembre. Aperto formalmente nel 2002, lontano da occhi indiscreti, all’interno di una base navale Usa a Guantanamo, a Cuba, il campo diventa da subito il simbolo delle “vittime collaterali” della caccia a Bin Laden e ai suoi complici. Inizialmente le strutture sono tre: Camp Delta, Camp Iguana e ‘Camp X-Ray’ (chiuso tre mesi dopo l’apertura). All’interno ci può finire chiunque: terroristi, semplici sospettati e innocenti conclamati. Sono gli anni delle “extraordinary renditions”, pratiche illegali di cattura e deportazione, concepite dall’ingegno sbrigativo di Donald Rumsfield, segretario alla Difesa di Bush junior, a cui il mondo deve, secondo un rapporto del Senato americano, anche l’infamia del carcere di Abu Ghraib, in Iraq. Basta trovarsi nel posto giusto al momento sbagliato e si sparisce nel nulla di Guantanamo, con una tuta arancione identica ad altre 799, mani e piedi legati con delle catene e nessuna identità da poter rivendicare. Per le autorità nordamericane non sono prigionieri di guerra (che altrimenti dovrebbero essere sottoposti al diritto della Convenzione di Ginevra), né imputati comuni (che avrebbero diritto alle garanzie di un processo ordinario). Sono solo “detenuti” senza alcuna classificazione ulteriore, al massimo “combattenti nemici illegali”, secondo la fantasiosa definizione di Rumsfield. Praticamente fantasmi. Per le torture c’è un protocollo messo a punto da due psicologi assoldati dalla Cia: James Mitchell e Bruce Jessen. Le chiamano ‘tecniche di interrogatorio potenziate’. Prevedono waterboarding (il famigerato annegamento simulato), isolamento in celle poco più grandi di una bara, pestaggi e privazione del sonno. Come accaduto ad Ahmed Rabbani, il protagonista della testimonianza che abbiamo riportato, il tassista rapito in Pakistan e venduto alle autorità americane che però cercavano un altro uomo: Hassan Ghul. “Gli Stati Uniti in seguito hanno catturato il vero Ghul”, prosegue nel racconto. Ma “sono stato ancora sottoposto alle ‘tecniche’ di Jessen e Mitchell per 540 giorni. Queste tecniche includevano la sospensione del mio corpo, appeso per i polsi e poi calato in un buco in modo che i miei piedi potessero a malapena toccare il terreno. Sono stato lasciato nell’oscurità totale per giorni, forse una settimana. Senza cibo. In punta di piedi nei miei escrementi. Più tardi ho appreso che questo era qualcosa che Jessen e Mitchell avevano raccolto dall’Inquisizione spagnola, lo ‘strappado’ lo chiamavano. Il dolore era lancinante”. Le denunce formalmente presentate da altri Stati democratici e i report di organizzazioni internazionali come Amnesty International non servono a nulla. L’amministrazione americana, accecata dalla guerra al terrore, se ne infischia dei diritti umani. Un abominio a cui nemmeno Nemmeno Barack Obama è riuscito a porre fine, nonostante le promesse e le intenzioni più sincere. Mentre Kabul brucia, Guantanamo è ancora lì. “Io sono - e lo sono sempre stato - innocente. Chi è stato salvato torturandomi? Nessuno”, conclude Ahmed Rabbani. Nessuno è stato salvato. E chi è uscito dall’incubo di Guantanamo è tornato subito al jihad, se già faceva parte di cellule combattenti, o si è radicalizzato tra le mura del carcere, se era totalmente innocente. Uno di loro, Abdul Qayyum Zakir, è appena diventato ministro della Difesa ad interim del governo Talebano. Guantanamo non ha sventato nulla, ha solo macchiato per sempre, e continua a farlo, la coscienza dell’Occidente. Non bastano guerra e oppio: l’Afghanistan in ginocchio anche per il clima che cambia di Paolo Mastrolilli La Repubblica, 6 settembre 2021 Secondo l’Onu, tra il 2017 e il 2018 caldo e siccità hanno creato più profughi di quanto non abbia fatto il conflitto. E la tendenza sembra destinata a rafforzarsi. A prima vista, il riscaldamento globale non sembra un problema fondamentale per l’Afghanistan, tornato sotto il giogo dei taleban. Studiando meglio il tema, però, si scopre che li ha aiutati a riconquistare il potere, e adesso potrebbe favorire la loro caduta. Di sicuro c’è i cambiamenti climatici hanno contribuito alle sofferenze degli afghani, promettono di continuare a farlo, e minacciano soprattutto le componenti più deboli della loro società, a partire come sempre dalle donne. Kabul non è in cima alla lista dei più grandi inquinatori del mondo, ma finora il governo nato dopo l’invasione del 2001 aveva fatto la sua parte. Se ciò continuerà adesso è una scommessa, su cui pochi esperti del settore punterebbero i loro soldi. In compenso il Paese è assai vulnerabile al riscaldamento globale, per la sua stessa natura arida, e perché la maggior parte della popolazione vive grazie all’agricoltura e l’allevamento. Un’inchiesta di Deutsche Welle ha notato che dalla metà del secolo scorso le temperature medie del Paese sono aumentate di 1,8 gradi Celsius, ossia oltre il doppio della media globale. La siccità è diventata più frequente, e si trasformerà in un evento ciclico annuale entro il 2030. Secondo l’Onu, tra il 2017 e il 2018 questo fenomeno ha creato più profughi costretti a spostarsi all’interno del Paese di quanto non abbia fatto la guerra. E la tendenza sembra destinata a rafforzarsi. Ora infatti l’Afghanistan sta attraversando un altro periodo molto secco, che espone milioni di abitanti al rischio di patire la fame. Perciò il Programma Alimentare Mondiale ha detto che ha bisogno di 170 milioni di euro all’anno, per continuare le sue operazioni umanitarie e salvare questa gente. In generale piove meno, quindi cade meno neve sulle montagne, che fanno scendere meno acqua verso i fiumi. In compenso, il caldo scioglie più in fretta i ghiacci, provocando frequenti inondazioni. In sostanza, il volume totale delle risorse idriche a disposizione è diminuito, ma il poco che è rimasto mette a rischio la vita degli abitanti. Ciò complica il lavoro di chi si dedica all’agricoltura onesta, tipo la coltivazione dei meloni, e facilita invece il traffico dell’oppio, che ha bisogno di meno irrigazione. L’Afghanistan è già il primo produttore mondiale, e i cambiamenti climatici giocano a favore di chi punta a rafforzare questo poco invidiabile primato nel mercato delle droghe. Come al solito a patire di più sono i più deboli. I trafficanti di oppio infatti vedono aumentare i loro profitti, mentre le donne che restano confinate ai lavori domestici soffrono, perché incontrano più difficoltà a portare il cibo in tavola. Il New York Times ha denunciato che i taleban si sono già approfittati di questa crisi, perché durante la riconquista del Paese attaccavano proprio le dighe, come hanno fatto ad Herat e Kandahar, allo scopo di tagliare i rifornimenti di acqua per bere, irrigare, e generare energia elettrica. Ora però questo problema si rovescia, perché la lotta per il controllo delle risorse idriche rischia di diventare un forte elemento di attrito con i Paesi vicini, e quindi di guerre esterne che non sono ancora pronti a combattere. Per non parlare poi dei problemi che questi effetti del riscaldamento globale creano all’economia e all’alimentazione. È vero che la coltivazione dell’oppio prospera, e quindi i finanziamenti che produce continueranno ad arrivare. I taleban poi vogliono una società frugale, guidata dalla legge islamica della sharia, e potrebbero non temere l’isolamento dal resto del mondo. Se però la popolazione muore di fame, qualche problema di stabilità domestica lo rischiano anche loro, a meno di moderare i comportamenti in cambio degli aiuti che potrebbero arrivare dalla comunità internazionale. Egitto. Chiuse le indagini nei confronti di alcuni difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2021 Il 30 agosto, attraverso un comunicato stampa, il giudice dell’inchiesta nota come “caso 173/2011” ha annunciato la chiusura delle indagini, l’annullamento del divieto di viaggio all’estero e la fine del congelamento dei patrimoni nei confronti di quattro organizzazioni non governative egiziane e di loro esponenti, tra cui Azza Soliman, Esraa Abdelfattah, Negad El Bor’ei, Hossam Ali e Magdy Abdelhamid. Non è ancora noto se il ministero dell’Interno abbia già tolto ufficialmente i loro nomi dall’elenco delle persone sottoposte a divieto di viaggio. Dal 2014 il “caso 173/2011” si occupa delle attività e dei finanziamenti dall’estero delle Ong egiziane. Nell’ambito dell’inchiesta sono stati emessi provvedimenti di congelamento dei patrimoni di sette Ong e di 10 difensori dei diritti umani e di divieto di viaggio all’estero per sei anni nei confronti di almeno 31 difensori dei diritti umani e impiegati di Ong. Le indagini vanno ancora avanti nei confronti di altri importanti difensori dei diritti umani, tra i quali Gamal Eid, direttore della Rete araba d’informazione sui diritti umani; Hossam Bahgat, fondatore e direttore dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali, l’Ong per cui lavorava come ricercatore Patrick Zaki; Mozn Hassan, direttrice del Centro “Nazra” per gli studi femministi; Mohamed Zaree, direttore dei programmi dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani; Aida Seif al-Dawla, Magda Adly e Suzan Fayad, fondatrici e direttrici del Centro “El-Nadeem” per la riabilitazione delle vittime della tortura. Al di là del “caso 173/2011”, almeno 13 difensori dei diritti umani e impiegati di Ong restano dietro le sbarre per infondate accuse di terrorismo e altre decine di loro rischiano processi arbitrari per accuse quali la diffusione di notizie false. *Portavoce di Amnesty International Italia