In carcere si muore e la riforma tarda ad arrivare di Franco Corleone L’Espresso, 5 settembre 2021 Lo stillicidio delle morti in carcere continua nell’indifferenza totale. Un suicidio a Ferrara, un decesso denso di mistero a Trani, un soffocamento tra le sbarre a Sollicciano. D’altronde i 13 morti relativi alle proteste legate alle misure restrittive per il Covid, sono stati rapidamente archiviati. La lunga teoria di pestaggi culminati con gli episodi di tortura nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dà la misura di uno stato di difficoltà di gestione nelle strutture e di incapacità di governo delle relazioni umane. Il Presidente del Consiglio Draghi e la ministra della Giustizia Cartabia hanno usato parole non consunte per condannare gli orrori e hanno richiamato in maniera non banale i valori della Costituzione. Tutto rischia però di consumarsi se non vengono assunte decisioni che diano il segno di un cambio di passo, immediato. Vent’anni fa venne approvato il nuovo Regolamento penitenziario, grazie al lavoro di Sandro Margara. Io ero sottosegretario alla fine di un’esperienza riformatrice straordinaria. Purtroppo troppe sono le previsioni, per garantire bisogni e diritti, rimaste inattuate. Siamo di fronte a gravi violazioni e mi pare che sarebbe indispensabile effettuare una verifica della sua applicazione. Non è tollerabile che troppe carceri non abbiano un direttore titolare e che manchino educatori. È incredibile che molti/e detenuti/e potrebbero godere di misure alternative alla detenzione e invece stiano recluse/i fino all’ultimo giorno per lentezze burocratiche e per la scelta di privilegiare il timore del fallimento rispetto al rischio della libertà. In Parlamento sono all’esame delle Commissioni Giustizia una proposta per il diritto alla affettività per le persone detenute e i loro partner e per definire con maggiore chiarezza le sanzioni per i fatti di lieve entità relativi alla detenzione e al consumo di sostanze stupefacenti. Il Governo darà parere favorevole a questi provvedimenti di civiltà e di umanità? Potrei continuare l’elenco delle doglianze all’infinito. Ma l’interrogativo è noto: Che fare? Di fatto in carcere si vive una situazione di emergenza ma manca la definizione di una responsabilità politica che affronti e risolva le contraddizioni con sagacia. Usando come bibbia il numero speciale del Ponte, la rivista di Piero Calamandrei del marzo 1949, con le voci degli antifascisti che avevano conosciuto la galera, tenendo fermo il monito Bisogna aver visto, e la decisione di istituire una Commissione d’inchiesta sulle carceri e sulla tortura (ottobre 1948). Cartabia: “La riforma della Giustizia è un’esigenza imperativa” rainews.it, 5 settembre 2021 “Negli ultimi cinque anni lo Stato ha speso 573 milioni di euro” per rimborsi e indennizzi, mentre “i casi coinvolti sono 95.412”. A chiudere la seconda giornata del Forum Ambrosetti a Cernobbio è stata la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, con un atteso intervento sulla riforma. Investire invece di pagare i costi del disservizio “Investire nella giustizia non è a costo zero, è bene farlo per migliorare il servizio piuttosto che pagarne i danni del disservizio”. Marta Cartabia ha citato il caso dei ricorsi alla legge Pinto cui si rivolgono i cittadini che sono incappati in processi che sono andati al di là di una ragionevole durata: “ebbene”, ha spiegato il ministro, “sono crescenti le richieste di rimborsi e indennizzi”. “Negli ultimi 5 anni lo Stato ha speso 573 milioni di euro”, mentre “i casi coinvolti sono 95.412. Queste richieste di rimborsi - ha aggiunto - creano paradossi perché intasano ulteriormente i tribunali e aumentano i contenziosi, per cui abbiamo ritardi e costi al quadrato; sembra un rompicapo, ma la situazione è seria”. “Se queste risorse fossero state destinate al miglioramento della giustizia, ne avremmo beneficiato tutti”. Riforma sia coraggiosa, realista, corale Entro la fine di quest’anno devono essere approvate le leggi delega sia per la riforma del processo civile che per quella del processo penale; successivamente, nel primo trimestre del 2022 “bisogna assumere i primi giovani giuristi per l’ufficio del processo”. “Fra cinque anni dobbiamo aver ridotto del 40% il disposition time della durata del processo civile e per il processo finale del 25%”, ha ricordato Cartabia, secondo cui servono “scelte efficaci che intervengano in modo significativo sui problemi anche se possono essere percepite come scomode”. “Non si può essere preoccupati di inseguire il consenso, occorre uno sguardo lungo. Bisogna essere consapevoli dei problemi reali e della loro complessità: questi obiettivi ambiziosi devono essere realizzati”. “Il viaggio delle riforme in alcuni casi è molto turbolento. Al pilota si richiedono nervi saldi e grandi disponibilità all’ascolto, alla mediazione, alla ricerca di scelte condivise. La riforma della giustizia non si farà in un tratto ma a piccoli passi”. Italia osservata speciale - “Siamo osservati speciali negli ambienti internazionali sulla riforma della giustizia. C’è molta attesa”. “Sulla giustizia lo status quo non è una opzione, non possiamo stare fermi” Non partiamo dalla prescrizione ‘‘Il tema della prescrizione’’ non è centrale, la prescrizione è ‘‘un rimedio estremo per situazioni eccezionali, non è il problema da cui partire’’. Riforma supportata da risorse e mezzi - “Non mi sento pessimista, sono animata da realistico ottimismo: queste riforme, forse per la prima volta, possono contare su risorse, finanziamenti, personale e mezzi”. “Gli obiettivi di quell’impegnativa meta della riduzione dei tempi sono sostenuti da un’attrezzatura adeguata”. Per il ministro “la riforma del processo civile e penale sono in fase di approvazione e i calendari parlamentari ci dicono che dovrebbero essere portati a termine nel mese di settembre”. La nostra società, ha concluso Cartabia, “ha bisogno di imparare a ricomporre i conflitti”. Magistrati desiderosi di migliorare il servizio - “Quando incontro i magistrati si incontrano persone desiderose, e la maggior parte di loro svolgono il loro compito con grande dedizione, di essere messi nella condizione di migliorare il servizio che offrono ai cittadini”. Per Cartabia occorre intervenire, allo scopo di migliorare i tempi dei processi, con un approccio “tailored”, cioè con interventi su misura per i singoli uffici giudiziari che sono afflitti da problemi diversi. “La giustizia italiana non è tutta uguale. Ci sono alcune situazioni molto virtuose e altre più in difficoltà. Ho cominciato a visitare Corte d’appello per Corte d’appello, anche per rendermi conto di persona dei problemi specifici. Insomma occorre un tailored approach”, ha detto. “Bisogna intervenire a quei livelli. E lì non trovo resistenze”. 16.500 giuristi per formare équipe in supporto ai giudici “I problemi dei tempi della giustizia vanno risolti soprattutto con misure organizzative”. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Forum Ambrosetti ha osservato che il giudice lavora spesso da solo e deve farsi carico di tutto il lavoro. Con la riforma della Giustizia, ha detto Cartabia “vogliamo dargli una squadra, una equipe che lo aiuti a organizzare il lavoro. I fondi del Pnrr, destinati all’assunzione di 16.500 giuristi e 5.400 aiutanti amministrativi, servono proprio a questo. Il bando è aperto, se conoscete giuristi diffondete la voce”, ha concluso. Cartabia: “Per cambiare la giustizia non si può inseguire il consenso. La prescrizione? non è la priorità” di Errico Novi Il Dubbio, 5 settembre 2021 La guardasigilli nel suo intervento al forum Ambrosetti di Cernobbio: “Una giustizia che risponde in maniera celere è un bene per le vittime e anche per gli imputati, che non possono essere tenuti in attesa troppo a lungo: non possiamo stare fermi, lo status quo non è un’opzione”. Le riforme della giustizia devono essere “portate avanti con coraggio, realismo e coralità”. A dirlo la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nel suo intervento al forum Ambrosetti di Cernobbio. Dopo aver ricordato “l’impatto negativo” per l’economia dato dall’inefficienza della giustizia, la ministra ha spiegato che “il fattore del tempo della risposta della giustizia può contribuire a risanare quel rapporto di fiducia che dobbiamo risanare fra cittadini, imprese e magistratura”. Entro la fine di quest’anno devono essere approvate le leggi delega sia per la riforma del processo civile che per quella del processo penale; successivamente, nel primo trimestre del 2022 “bisogna assumere i primi giovani giuristi per l’ufficio del processo”. “Fra cinque anni dobbiamo aver ridotto del 40% il disposition time della durata del processo civile e per il processo finale del 25%”, ha ricordato Cartabia, secondo cui servono “scelte efficaci che intervengano in modo significativo sui problemi anche se possono essere percepite come scomode”. “Non si può essere preoccupati di inseguire il consenso, occorre uno sguardo lungo. Bisogna essere consapevoli dei problemi reali e della loro complessità: questi obiettivi ambiziosi devono essere realizzati”, ha aggiunto la guardasigilli. “Il tema della prescrizione” non è centrale, ha sottolineato quindi la ministra. La prescrizione, ha precisato, è “un rimedio estremo per situazioni eccezionali, non è il problema da cui partire”. Nel percorso di riforma della Giustizia, Cartabia, ha fatto notare che “i rapporti tra la politica e la magistratura sono infiammati non da oggi ma da tanti decenni” e “il viaggio della riforma si sta svolgendo, soprattutto su alcuni temi, in un’atmosfera turbolenta come sempre lo è stato. Al pilota - ha detto il ministro durante un panel al Forum Ambrosetti di Cernobbio - viene chiesto di tenere nervi saldi ma anche una grande disponibilità all’ascolto di tutti i soggetti, alla mediazione, alla ricerca di soluzioni condivise e anche una progressività. Una frase che più mi piace - ha aggiunto - è quella famosissima all’origine dell’Unione europea e cioè che l’Europa non si farà d’un tratto”; ebbene, ha concluso, “la riforma della giustizia non si farà d’un tratto ma a piccoli passi”. “Non mi sento pessimista, sono animata da realistico ottimismo: queste riforme, forse per la prima volta, possono contare su risorse, finanziamenti, personale e mezzi”, ha spiegato. “Gli obiettivi di quell’impegnativa meta della riduzione dei tempi sono sostenuti da un’attrezzatura adeguata”, ha aggiunto Cartabia. Per il ministro “la riforma del processo civile e penale sono in fase di approvazione e i calendari parlamentari ci dicono che dovrebbero essere portati a termine nel mese di settembre”. La nostra società, ha proseguito Cartabia, “ha bisogno di imparare a ricomporre i conflitti”. “Siamo osservati speciali, c’è molta aspettativa e trepidazione per queste riforme della giustizia in ambienti internazionali, ovviamente da parte della Commissione europea ma ogni volta che ho occasione di frequentare un consesso internazionale c’è eco di questo lavoro in corso e di questa trasformazione che si attende”, ha detto la guardasigilli. “Lo chiede l’Europa, ma giustamente è una richiesta per dare piena attuazione ai diritti che sono garantiti dalla nostra Costituzione, ai cittadini, agli operatori economici tenendo presente che una giustizia che risponde celermente è un bene sia per chi ha subito l’ingiustizia, le vittime, sia per gli imputati che non possono essere tenuti in attesa troppo a lungo: non possiamo stare fermi, lo status quo non è un’opzione”, ha detto, ribadendo l’occasione “speciale” rappresentata dal Pnrr che “ci dà la possibilità di fare grandi investimenti in personale, edilizia e strumenti informatici”. Ragazzi dentro di Carlo Bonini La Repubblica, 5 settembre 2021 Un’indagine sulla delinquenza giovanile, tra emulazione e noia. E sul nostro sistema penale, basato su recupero e reinserimento. Un esempio per tutta l’Europa. Nel corso degli ultimi anni è cambiato radicalmente l’atteggiamento della pubblica opinione verso il disagio minorile, in particolare verso quello che approda alla violazione delle leggi e al crimine. Ed è mutata la considerazione che dei reati dei giovani e dei minorenni hanno i principali attori politici. Se nel periodo storico a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento i minori e i giovani devianti venivano considerati come “soggetti bisognosi di aiuto e di una guida” e non solo di punizione, negli ultimi due decenni (in concomitanza con la presenza di forze politiche che hanno investito sulla paura del crimine e ne hanno ad arte ampliato la percezione, anche attraverso un uso accorto dei giornali e delle Tv) il clima è nettamente mutato: i minorenni a rischio sono considerati come una minaccia per la convivenza civile e più forte è stata la richiesta di rivedere alcune delle norme emanate negli anni precedenti. In particolare, sono stati attaccati il limite di punibilità a quattordici anni del nostro ordinamento giudiziario e il ricorso al carcere solo in casi di mancanza di alternative; e, di conseguenza, è stato demonizzato anche il ricorso massiccio a luoghi alternativi dove scontare la pena, cioè le comunità di accoglienza e di recupero. L’enfasi sulla delinquenza minorile, sulla presenza massiccia di baby-gang in tutte le città italiane, con bande di giovanissimi predatori pronti a tutto, ha occupato la scena mediatica negli ultimi decenni, descrivendo un paese in preda alle scorribande di giovanissimi violenti che assieme ai delinquenti stranieri dominavano le nostre contrade. Ma il processo di “decarcerizzazione” dei minori in Italia, così come la ricerca di pene alternative e non la radicalizzazione dei criminali (che quasi sempre è associabile alla carcerazione) è avvenuto in sintonia con ciò che si verificava nella maggior parte delle altre nazioni europee. Anche i recenti rapporti dell’associazione Antigone sullo stato delle carceri in Italia hanno dovuto prendere atto che il modo in cui è trattata la criminalità minorile si differenzia nettamente dal modo in cui la nostra stessa nazione tratta i delitti e la carcerazione degli adulti. La responsabile del dipartimento nazionale della giustizia minorile, la dottoressa Gemma Tuccillo, ha potuto affermare che quello minorile è il sistema di carcerazione e di pena meglio funzionante in Italia. Certo, non sono tutte rose e fiori nel sistema della giustizia minorile in Italia, e alcune delle lacune le affronteremo nel corso di questo articolo, ma è assolutamente esagerato descrivere l’Italia come un paese alla mercé della delinquenza minorile e giovanile; in ogni caso resta questo uno dei pochi settori della giustizia in cui, a volte disperatamente e con scarsi mezzi, si cerca di applicare il dettato costituzionale del recupero del reo. Il metodo Italia - La domanda da cui partire è la seguente: esiste un’emergenza criminale minorile in Italia? Cioè, un’emergenza di fronte alla quale le norme in vigore vanno radicalmente messe in discussione e cambiate? Mettendo a confronto le statistiche italiane con quelle di altri paesi europei, la risposta allo stato attuale delle cose è no, nel senso che quasi tutte le altre nazioni fanno registrare numeri più preoccupanti dei nostri: nel 2018 nel nostro paese ci sono state 870mila segnalazioni di reati alle autorità giudiziarie (persone fermate e arrestate); di questi solo il 3,5% è riferibile a minori, una delle percentuali più basse in Europa, mentre si arriva al 5,5% in Spagna, al 6,5% in Grecia, e a numeri a due cifre per Francia, Austria, Olanda, Svezia e Finlandia. Quindi il primo dato da segnalare è che nel centro e nel nord dell’Europa la criminalità minorile assume aspetti di gran lunga più preoccupanti rispetto a quella presente nei paesi mediterranei e in particolare nel nostro. Certo, il confronto dei dati statistici non è semplice, anche perché il limite della punibilità cambia a seconda delle nazioni, passando dagli otto anni della Scozia, dai dieci dell’Inghilterra, dai dodici dell’Olanda e dell’Irlanda, dai tredici di Francia e Polonia, dai quattordici di Italia, Spagna e Germania, fino ai quindici di Svezia, Repubblica Ceca, Finlandia e Danimarca, e ai sedici del Portogallo. E sicuramente c’è una quota di reati che non viene segnalata o sfugge alle autorità preposte (il cosiddetto “numero oscuro” per dirla con il linguaggio dei criminologi). Sta di fatto che l’abbassamento del limite di età per la punibilità non si è dimostrato in nessun caso decisivo ai fini della dissuasione dal commettere reati. L’Italia tra i paesi europei è quello che fa meno ricorso al carcere per i reati commessi da minori (375 erano i ragazzi rinchiusi nel 2018 in 17 istituti di pena sparsi in varie regioni) mentre in Germania e in Francia, ad esempio, la carcerazione di minori è 3 volte superiore, in Inghilterra 4 volte, e in Polonia addirittura 5 volte maggiore, ma ciò non ha inciso nel rendere meno aggressiva e preoccupante in quelle nazioni la criminalità minorile. All’Italia si può rimproverare una scarsa coerenza tra le affermazioni di principio e le affettive politiche introdotte per il recupero di coloro che commettono reati, ma il più cauto ricorso alla carcerazione non ha prodotto di per sé una crescita del crimine minorile, anzi. Il sistema basato sulle comunità di accoglienza in alternativa al carcere e su modalità di pena che puntano al reinserimento attraverso percorsi formativi di studio e di lavoro (principalmente attraverso la cosiddetta “messa alla prova”, l’azzeramento cioè della punibilità del reato in cambio dell’impegno a studiare o a imparare un mestiere) regge nonostante le tante difficoltà segnalate dagli stessi operatori. Quindi, proviamo a partire dai dati per capire esattamente di cosa parliamo quando ci occupiamo di criminalità minorile in Italia, perché sono i dati, le cifre, i numeri che ci fanno conoscere meglio il nostro paese, ci aiutano a combattere enfasi e pregiudizi e ci fanno cogliere le specifiche caratteristiche della questione criminale minorile nel nostro paese e le differenziazioni tra le varie realtà territoriali nelle quali si manifesta. Il primato del nord - La maggior parte dei reati dei minori si registrano nelle 14 aree metropolitane indicate come tali da una apposita legge del 2014, quasi a dimostrare che il disagio delle periferie delle grandi città resta una delle cause più influenti nei reati in Italia: anche per quanto riguarda la criminalità minorile (ancora di più rispetto a quella degli adulti) la connessione tra spazi urbani degradati, mancanza di scolarizzazione per gli autoctoni e di integrazione per gli stranieri, si dimostra quasi automatica nella spinta a infrangere le norme. Infatti, il 42% di tutti i reati dei minori avviene in queste 14 aree metropolitane. Il primo dato sorprendente è che gli indici di delittuosità dei minori presentano valori tendenzialmente superiori alla media nazionale nelle regioni del nord Italia e valori più bassi della media nelle regioni del sud, al netto della presenza di minori stranieri coinvolti: i numeri (segnala il Rapporto Antigone per il 2018) vanno contro tutti gli stereotipi, visto che ben il 40% degli imputati italiani è nato nel nord (il 21% nel nord-ovest e il 18% nel nord-est), il 25% è nato nel sud, il 19% nel centro e il 16% nelle Isole. Anche quando in alcuni anni la percentuale di minori italiani sale fino al 75% del totale, sono sempre ragazzi del centro-nord nati in Italia a fare registrare la percentuale più alta di imputati. Ma la cosa più singolare è che la città con il più alto indice di criminalità minorile non è né Napoli, né Palermo né Reggio Calabria, ma Bologna, cioè una delle realtà urbane dove più hanno funzionato e funzionano servizi sociali di ottima qualità, cosa che sembra in contraddizione con quanto affermato precedentemente. Ed è un dato che deve far riflettere, perché non di facilissima decifrazione. Il capoluogo dell’Emilia distanzia di gran lunga le altre città: a Bologna, in media, per ogni 10mila minorenni ne vengono arrestati o denunciati 260. Abbiamo usato per questo articolo i dati relativi al 2019, perché durante la pandemia c’è stato un calo complessivo dei reati (cosa che poteva falsare la percezione delle tendenze di fondo in questo campo) ma facciamo riferimento, confrontandoli, anche ai dati dei periodi precedenti. Infatti, se si prendono le statistiche elaborate da Maria Di Pascale nel saggio La criminalità minorile nelle città metropolitane italiane per il Secondo rapporto su criminalità e sicurezza a Napoli (a cura di Giacomo Di Gennaro e Riccardo Marselli) il dato riguardante Bologna viene ampiamente confermato per il periodo 2004/2015, così come il primato delle aree metropolitane del Nord. In particolare, se si calcola l’indice di criminalità minorile violenta (rapporto tra casi segnalati di rapine, risse, omicidi, estorsioni, stupri, danneggiamenti, dei residenti tra i 14 e i 17 anni ogni 100mila abitanti) Bologna è prima seguita da Torino, Genova, Milano e Firenze; mentre la prima città meridionale è Catania, Napoli è al nono posto (anche se qui si registra il più alto numero di rapine) e Reggio Calabria è all’ultimo, mentre Roma è sotto la media. Gli imputati minorenni sono per il 70% italiani e per il 30% stranieri secondo i dati del 2018, ma in quelli riferiti al periodo 2004/2015 la percentuale di italiani sale al 75%. Se prendiamo le statistiche degli adulti stranieri in Italia, riscontriamo un dato leggermente diverso: nelle carceri al 30 aprile 2019 c’erano 20.324 immigrati su 60.439 detenuti, cioè il 33,6%: i minori stranieri infrangono le leggi un po’ meno degli adulti. E se il reato degli adulti è per il 40% il traffico di droga, per i minori stranieri il reato più frequente è il furto. Oltre l’84% sono maschi e meno del 16% femmine (percentuale quasi simile per italiani e stranieri): il 30,5% degli imputati maschi ha fra i 14 e i 15 anni, il 69,5% ne ha 16 o 17. Il reato in cui l’incidenza delle donne è maggiore è il furto, in particolare tra le ragazzine straniere: in questo caso la percentuale di coinvolgimento sale al 25%. La Lombardia è la regione con il maggior numero di segnalazioni riguardanti minorenni, seguita dalla Sicilia, dall’Emilia-Romagna, dal Lazio, dal Piemonte, dal Veneto e dalla Campania. Se, poi, raffrontiamo i dati in rapporto alla popolazione minorile residente nelle singole regioni, la Liguria è la prima, seguita dal Friuli-Venezia Giulia, dall’Emilia-Romagna e poi dalla Calabria. Questi minori entrati nel circuito penale hanno commesso reati contro le persone (aggressioni, risse, ferimenti, omicidi) per il 17%, furti e rapine per il 62%, mentre il restante 21% in gran parte ha commesso reati relativi allo spaccio di stupefacenti. Va ricordato, a proposito del problema droghe, che secondo una ricerca ESPAD del 2016 il 32,9% degli 800mila studenti italiani intervistati tra i 15 e i 19 anni ha dichiarato di aver provato almeno uno degli stupefacenti presenti sul mercato. C’è poi una piccola parte di minori che è stata coinvolta in associazione di stampo mafioso, di cui quasi la metà la si riscontra a Napoli, come vedremo più avanti. In ogni caso, senza il problema dell’uso e del commercio di droghe non si capirebbe molto dei reati dei singoli minori, delle baby-gang e soprattutto delle bande giovanili, essendosi spaventosamente abbassata l’età del consumo. Criminalità “mista” - Appena si va oltre il dato numerico appare evidente tutta l’originalità della questione criminale minorile in Italia: mentre nel centro-nord i reati sono distribuiti a metà tra stranieri e autoctoni, quasi a definire una specie di criminalità “mista”, nel sud i reati sono quasi esclusivamente commessi da ragazzi del posto, essendo minima la percentuale di minori stranieri coinvolti. Non si può dire che nel centro-nord domini la criminalità minorile straniera (perché quella autoctona supera il 50%) ma non si può ignorare il fatto che se nel sud è quasi inesistente, nel Nord presenta valori preoccupanti. Questo dato conferma a suo modo che anche per quanto riguarda la criminalità minorile siamo di fronte a un paese spaccato, con caratteristiche fortemente differenziate: l’economia del centro-nord è più attrattiva per gli stranieri rispetto a quella del sud; nelle aree centro-settentrionali vive stabilmente l’89% della popolazione minorile straniera ufficialmente registrata e ciò ha un’incidenza anche nei numeri dei minori che delinquono. Nel sud, invece, i reati sembrano essere predominio quasi esclusivo dei minori locali, e quindi si può parlare a ragione di criminalità minorile “doppia” nel centro-nord (tra locali e stranieri) e di criminalità minorile “esclusiva” (di autoctoni) nel sud. Infatti, se in Italia la percentuale di minori stranieri segnalati all’autorità giudiziaria nel 2019 è poco più del 26%, questo dato cresce a più del 33% a Roma e a Firenze, sale ad oltre il 37% a Bologna e sfiora il 40% a Milano, mentre a Napoli i minori segnalati sono quasi al 90% napoletani. Ma se si esaminano i dati relativi al periodo 2004/2015 i numeri sono ancora più significativi: Milano, Firenze, Roma e Genova vedono un prevalere (oltre il 50%) dei minori stranieri segnalati, mentre a Torino e Bologna si supera la soglia del 60%. Nel sud tutte le città metropolitane manifestano la stessa tendenza: a Cagliari, Palermo, Catania, Messina, Bari e Reggio Calabria si mantengono tassi di delittuosità dei minori autoctoni attorno al 90%, mentre gli stranieri non superano il 10%: più o meno lo stesso andamento di Napoli. Nella città partenopea però le rapine e gli scippi riguardano autoctoni quasi al 96%, configurandosi questi come i reati tipici dei minorenni partenopei. La comunità straniera che presenta in assoluto più minori coinvolti è quella romena, segue quella marocchina e poi quella albanese: lo stesso andamento della criminalità adulta straniera. E se i furti sono più presenti tra gli stranieri al nord, gli omicidi riguardano più i minori italiani sia al nord che al sud. Resta il fatto che essendo il furto il principale reato dei minori stranieri e italiani, la deprivazione e il bisogno sembrano caratterizzare in maniera notevole queste statistiche criminali. Baby-gang e bande minorili - Questione più delicata è quella riguardante la presenza e il numero di bande minorili nelle principali città italiane. Il termine baby-gang è molto usato, spesso a sproposito, ogniqualvolta si verifica un reato in cui sono coinvolti insieme più minorenni o giovanissimi. Negli ultimi anni si è parlato di gang di latino-americani massicciamente operanti nel centro-nord (Genova, Milano, Torino, Bologna, Brescia, Padova, Prato, Venezia); al sud invece soprattutto a Napoli, Bari e Catania. Intanto, cosa si deve intendere per baby-gang? Della questione si è occupata la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza che ha prodotto un interessante report: “Con baby gang si intendono gruppi di adolescenti, poco più che bambini, che riproducono dinamiche tipiche della microcriminalità orga­nizzata”. Cioè ragazzi che stando insieme commettono reati. Queste gang rappresentano un fenomeno molto complesso, che non si identifica con quello più ampio della criminalità minorile dei singoli né con quelle delle gang giovanili e, anche se deve essere differenziato dal bullismo, lo si può ritenere una forma organizzata di bullismo. Ogni banda non ha una durata lunga, e la sua attività si esaurisce spesso in pochissimo tempo. È un fenomeno fluido non strutturato, non organico al mondo criminale degli adulti, che però suscita grave allarme sociale per la giovanissima età dei componenti e per la particolare aggressività con la quale vengono compiuti i delitti, originati spesso da motivi futili. E anche nella composizione, nelle attività e nelle motivazioni delle baby-gang, si può parlare a ragione di una grossa differenza tra città del centro-nord e del sud. Nel centro-nord l’aggregazione è in gran parte etnica, nel sud è sociale e di appartenenza territoriale, cioè provengono tutti dalle stesse condizioni di degrado e da determinati quartieri dove forte e radicata è la presenza di criminali adulti. E se le principali motivazioni del crimine minorile sono “deprivazione, noia, identità ed emulazione”, nelle baby-gang del centro- nord prevale identità (per gli stranieri) e noia per quelle di italiani, mentre nelle bande del sud emulazione e identità. Quasi mai le baby-gang si aggregano per bisogno di beni che i membri non hanno, anche se commettono reati predatori: l’identità e la noia (che si manifesta anche nel consumo di droghe) prevale sul bisogno. Nel centro nord sono presenti bande di minori e giovani salvadoregni (Mara Salvatrucha e Barrio 18) di dominicani (Trinitarios) di portoricani (Netas) di ecuadoregni (Latin-Kings) e ultimamente di cinesi. Il modo di operare delle cosiddette Pandillas si basa su di un gergo comune, su tatuaggi o monili di identificazione, sull’indossare determinate felpe o scarpe, tagliarsi i capelli in un certo modo e su forme di giuramento, sull’uso di determinate droghe, sul frequentare gli stessi luoghi della movida, e sulla guerra a tutti gli altri che non fanno parte del loro mondo. Molto spesso spettacolarizzano sui social le violenze fatte subire, una specie di “estetica della sopraffazione” che è diventata una caratteristica globale della devianza minorile: se sottometti qualcuno, che sopraffazione è se nessuno ne viene a conoscenza? In genere operano per affermare la supremazia sulle altre bande etniche; i reati predatori che si commettono sono finalizzati a questo scopo. Mentre le bande di italiani in gran parte si rivolgono contro coetanei più deboli, soprattutto se handicappati, fragili, anziani, di diversa religione o di orientamento sessuale, e commettono reati per il gusto di trasgredire, umiliare, sottomettere o sopraffare. Molte baby-gang straniere si sono originate da adolescenti arrivati in Italia già oltre l’età della scolarizzazione primaria e hanno avuto dunque più difficoltà di apprendimento anche della lingua italiana. Perciò è più facile trovare nelle gang dei ragazzi o dei giovani inseriti tardi nel circuito scolastico piuttosto che ragazzi inseriti fin dalla scuola dell’infanzia. Chi nasce in Italia da famiglie straniere ed è stato da subito scolarizzato, sente meno il bisogno dell’appartenenza etnica di “contrapposizione”. Il caso delle bande di ecuadoregni a Genova è emblematico: i ragazzi dell’Ecuador arrivarono molto dopo le madri ed ebbero quasi tutti problemi di inserimento scolastico e sociale. Anche nel sud, soprattutto nelle grandi città, la composizione delle baby-gang è fatta per la maggior parte da ragazzi non scolarizzati che hanno rifiutato di continuare la scuola o che la frequentano senza nessuna motivazione, con la differenza fondamentale che essi imitano gli adulti mafiosi, camorristi o ‘ndranghetisti: nel meridione le bande minorili sono contrassegnate dal tentativo, attraverso le azioni di violenza di strada, di farsi notare dai membri dei clan mafiosi. Il Sudamerica a Genova e Milano - Per quanto riguarda Genova e Milano, le due città che più hanno occupato la scena mediatica per le attività di bande di minori stranieri, il fenomeno sembra essersi molto ridimensionato rispetto al decennio precedente, soprattutto nel capoluogo ligure. Nell’ultimo libro Liguria. La geografia del crimine (Aracne 2021) di Stefano Padovano, non si dà un eccessivo peso di gang latino-americane, soprattutto ecuadoregne e peruviane, che avevano interessato nei decenni precedenti il capoluogo, suscitando preoccupazioni nell’opinione pubblica e ripetuti allarmi da parte delle forze di sicurezza. E proprio a causa di una massiccia presenza di anziani a Genova (con una popolazione che ha il più alto tasso di ultrasessantacinquenni e il più basso tasso di natalità in Italia) che si fece ricorso all’immigrazione dall’Ecuador e dal Perù di badanti, tramite il circuito relazionale con l’America latina delle autorità cattoliche. In special modo la comunità ecuadoregna divenne la più numerosa nel capoluogo, più di 19mila, formata per la maggior parte da donne e da figli adolescenti che erano arrivati grazie alle norme sul ricongiungimento familiare. Questi minori si organizzarono tra il 2003 e il 2008 in due bande, i Netas e Latin-Kings, che ripetutamente cercavano e trovavano occasioni di picchiarsi. Quasi mai furono coinvolte persone estranee alla nazionalità delle bande. Ogni gang era formata da 30/40 affiliati e il numero complessivo degli aderenti non superò le poche centinaia di persone. Forze di polizia avevano parlato di 435 ragazzini divisi in 17 formazioni. Ultime notizie si sono avute nel 2016 con l’arresto di cinque affiliati ai Latin-Kings accusati di aver torturato tre ragazzini ecuadoriani che volevano passare ad un’altra banda. A Milano invece si è parlato di 2000 appartenenti alle bande minorili e giovanili. Il problema è molto più avvertito perché sono presenti nel capoluogo lombardo quasi tutte le comunità latino-americane che hanno dato origine a bande su base etnica: il sentimento di appartenenza alla nazione di nascita sostituisce ogni altro senso di appartenenza e di identità. In ogni caso non siamo di fronte ad una emergenza delle baby-gang o delle gang giovanili tipiche di molte grandi città statunitensi a grande presenza di comunità latine o ai fenomeni di allarme sociale di altre grandi metropoli europee e dell’America centrale e del sud. Ma la situazione va seguita con attenzione perché in rapida trasformazione. Nel sud il numero dei membri delle bande sono di gran lunga inferiori, e la presenza di clan mafiosi in quattro regioni impone altre riflessioni sulla questione criminale minorile. I dati di Napoli, Catania, Palermo Bari e Reggio Calabria sono a tal fine estremamente interessanti. Reggio Calabria sembra la meno esposta a fenomeni di massa di violenza minorile, forse anche perché le famiglie ‘ndranghetiste cercano di tenere fuori i loro rampolli dalla violenza di strada avendo già assegnato loro lo scettro del comando per via familiare. Mentre i casi di Catania, Palermo e Napoli sembrano somigliarsi per tre caratteristiche: forte descolarizzazione, provenienza da quartieri degradati del centro storico e delle periferie, relazioni dirette o indirette delle bande minorile con la criminalità degli adulti. Il caso meridionale si differenzia anche per un altro aspetto dalla criminalità minorile centro-settentrionale: le città del sud hanno una periferia che si trova spesso nel cuore del centro storico. Il caso Napoli è emblematico da questo punto di vista. E forse si avvicina solo a Marsiglia in Europa per una presenza massiccia di disagio e devianza minorile al centro delle città. Perciò merita una attenzione del tutto particolare. Qui sono avvenuti alcuni dei delitti da parte di minori più terribili, qui si pratica come un fatto abituale la “stesa” cioè un’intimidazione a colpi di armi da fuoco di tutti gli abitanti di un quartiere che ospita una banda o un clan avversario, costringendo i presenti a stendersi a terra per non essere colpiti. Qui il comportamento del mondo criminale sembra influenzare anche i settori sociali che ne sono fuori. Il caso Napoli - Già a fine Ottocento le statistiche segnalavano un primato della città partenopea per minori sottoposti a denunce, condanne e ricoveri in istituti preposti. Allora si chiamavano “scugnizzi” e si segnalavano per furti di destrezza (il più diffuso era quello del fazzoletto di seta, così come avveniva nella Londra di Oliver Twist) per lavori di strada ai confini della legge o per la richiesta insistente ad ogni passante benestante di un contributo in soldi alla loro spavalda simpatia. Anche gli “sciuscià” si affaccendavano in maniera rumorosa e allegra in cerca di occasioni per guadagnare un soldo, specializzandosi nel pulire le scarpe ai soldati alleati presenti a Napoli dopo la liberazione della città (sciuscià deriva infatti da “shoe shine”, lustrascarpe in inglese). Oggi Napoli non è più la città degli scugnizzi e degli sciuscià. I minori che un tempo vivevano al limite della legge per guadagnarsi qualcosa hanno lasciato il campo ai guaglioni di camorra. È questa contiguità della devianza minorile con la criminalità camorristica che caratterizza da alcuni decenni la particolarità e l’esplosività della questione minorile a Napoli e nel suo hinterland. Proprio per questa particolare situazione, a Napoli è tremendamente difficile separare la questione minorile dalla più ampia questione criminale che ha il volto delle tantissime bande di camorra che da più parti stringono in una morsa la città. La questione minorile non è un problema di età, ma di graduazione della medesima questione criminale, di cui quella minorile è solo una tappa. In altre città i minori sono esposti alla deprivazione culturale e sociale, alla vita illegale ma non immediatamente a quella criminale. La criminalità vive a ridosso, spalla a spalla, con il disagio minorile. I minori sembrano fungere da esercito di riserva a cui la criminalità maggiore può attingere a suo piacimento. Nella mafia siciliana e nella ‘ndrangheta questa vicinanza non è così immediata. Esiste una separazione, una distinzione che a Napoli non c’è. Oggi Napoli (assieme alla sua provincia) si segnala tra le città con il maggior numero di minori coinvolti in procedimenti per 416 bis. Un numero così alto di minori coinvolti in attività camorristiche e mafiose non esiste in nessun’altra parte d’Italia. E se in altre grandi città italiane ed europee la questione minorile è anche espressione di una difficile integrazione di varie ondate migratorie, interne ed esterne, a Napoli essa è una questione indigena, interna, locale. Gli stranieri non c’entrano niente, gli immigrati non c’entrano niente. La questione minorile è quasi esclusivamente questione napoletana e di napoletani. Anzi mentre i bimbi delle famiglie di immigrati regolari vanno a scuola e non evadono l’obbligo scolastico, quelli delle famiglie napoletane dei quartieri più degradati non sentono la scuola come un luogo di promozione sociale e di una qualche utilità. Con la particolarità che oggi l’uso delle vie dell’illegalità non risponde a un bisogno di sopravvivenza ma di riuscita sociale, non ad una necessità dettata solo dall’assenza di altre opportunità: la violenza e il crimine si affermano come mezzi rapidi di ascesa, di successo, di carriera, di identità, di realizzazione umana e sociale. La mobilità sociale non è assicurata dalla scuola, dalla famiglia, dal lavoro, ma esclusivamente dalla violenza agita, dalla ferocia non mitigata. Se, poi, nelle altre città, le forme violente si esercitano anche da parte di ragazzi provenienti da famiglie borghesi, a Napoli invece c’è quasi il monopolio di atti violenti da parte di ragazzi di famiglie sottoproletarie. Ultima caratteristica della criminalità minorile napoletana è questa: se in altre città l’impatto con la giustizia penale non si tramuta necessariamente in continuità delinquenziale al raggiungimento della maggiore età, a Napoli e provincia una gran parte dei ragazzi che hanno commesso reati passano nelle carceri per adulti. E i luoghi di provenienza dei minori violenti sono quasi sempre gli stessi: le tre enclave criminali (centro storico, periferie e hinterland) dove storicamente e negli ultimi anni si concentrano le presenze camorristiche. I luoghi del degrado urbano (e del malessere sociale) e la questione minorile sembrano quasi coincidere. Infatti, i dati che impressionano di più sono i seguenti: è considerevole il numero di minori in istituti di pena che non ha completato la scuola elementare, è altrettanto rilevante il numero dei provenienti da famiglie numerose (dai quattro figli in su), è altissimo il numero di chi ha un genitore, un fratello, un nonno o uno zio in carcere. I minorenni delinquenti sono in linea di massimi figli, fratelli o nipoti di pregiudicati. Essi hanno cominciato prestissimo l’acculturazione illegale, per strada e in famiglia. In molti di essi l’analfabetismo di ritorno è elevatissimo. Si esprimono esclusivamente in dialetto, la lingua italiana la capiscono ma non la parlano. Insomma, la camorra non è altro che la sorella maggiore, comprensiva e attenta, dei minori delinquenti. Per tutti questi motivi Napoli rappresenta una particolare originalità nella storia del disagio urbano delle grandi città italiane, pur non essendo la città che in percentuale ha un numero elevatissimo di minori coinvolti nella giustizia penale. La violenza minorile e giovanile si caratterizza per delle “qualità” comuni a quella camorristica. Siamo di fronte, a Napoli a un confine disintegrato tra infanzia, adolescenza e maggiore età nella vita criminale. Perciò, le baby-gang di oggi potrebbero rappresentare i clan di domani. L’ambiente delinquenziale di riferimento sembra essere già una società autosufficiente, fuori dalla quale questi ragazzi non hanno interesse ad inoltrarsi. Infatti, pur non essendo “integrati” (anzi rifiutandosi di farlo) pensano di contare, decidere, arricchirsi, senza nessun problema. Nel secondo dopoguerra nei quartieri fungevano da modello gli artigiani che si realizzavano attraverso la loro abilità manuale, i professori e i professionisti che indicavano la strada dell’integrazione sociale attraverso lo studio e la scuola. Oggi nessuna di queste categorie funge da modello, e le classi sono più separate che nel recente passato. Né la borghesia napoletana, né tanto meno il mondo del lavoro sono modelli per i sottoproletari che vivono in città. Il modello sono i calciatori, le veline e i camorristi che vedono nei film, nelle fiction televisive e che incrociano nei quartieri, e tutti coloro che attraverso l’illegalità si arricchiscono e contano. Sembra quasi che in alcuni quartieri gli emarginati siano i ragazzi che hanno studiato e hanno un lavoro onesto, anche se precario. C’è rivalsa verso i coetanei di altri ceti che hanno avuto maggiori possibilità legali dalla loro famiglia e rancore verso i mestieri da sopravvivenza dei padri. Danno vita a forme di antagonismo sociale per via criminale e contestazione verso la rassegnazione dei padri. In questi aspetti la criminalità minorile a Napoli ha qualche somiglianza con i ragazzi delle periferie francesi e belghe approdati al jihadismo: gruppi di adolescenti socializzati dalla strada, dal rancore sociale e dalla contrapposizione ai padri immigrati. Com’è noto, Olivier Roy ha descritto il terrorismo jihadista non come effetto della radicalizzazione dell’Islam ma come “islamizzazione della radicalità”, volendo con questa espressione suggerire il fatto che la radicalità giovanile va alla ricerca di sempre nuove cause da seguire, e sicuramente una certa interpretazione della religione islamica ha offerto sponda a questo bisogno. Allo stesso modo si potrebbe parlare di “camorrizzazione della radicalità” nel caso dei giovani violenti napoletani dei quartieri, delle periferie e dell’hinterland. Essi si sentono come dei “guerriglieri del crimine” e giustificano le loro azioni attraverso un’ideologia che nella camorra napoletana è stata sempre presente, da Cutolo in poi. Per esempio, nella cosiddetta “Paranza dei bimbi”, la banda di giovanissimi criminali del quartiere di Forcella, al centro di due romanzi di Roberto Saviano, è forte la caratteristica condivisa di rifiuto della sottomissione all’autorità criminale degli adulti, come una specie di rivincita della minore età sui “grandi”. A tale proposito interessanti sono le considerazioni svolte da Giacomo Di Gennaro e Riccardo Marselli nel saggio Gang giovanili nel contesto della globalizzazione. In definitiva, a Napoli città sembra chiusa la fase storica in cui si affrontava il tema del sottoproletariato con le armi dell’integrazione (attraverso la scuola, il lavoro artigiano o industriale, con conseguenti modi di comportarsi diversi dall’ambiente di provenienza) o del contenimento. Se si esclude il lavoro dei preti, dei maestri di strada, di alcune scuole e di alcune associazioni di volontariato, chi delle istituzioni si pone più l’obiettivo dell’integrazione, e non solo a Napoli? E se alcuni se lo pongono quali strumenti e risorse hanno nelle loro mani? Insomma, la criminalità minorile non è uguale in tutta Italia, come più volte ha ricordato Isabella Mastropasqua, dirigente ufficio prevenzione e promozione della giustizia minorile, ed è condizionata dalla presenza nel centro-nord di una forte presenza straniera non integrata e di un disagio urbano notevole, e al sud dalla presenza di organizzazioni mafiose e da impressionante degrado sociale e culturale. Non sono queste questioni impossibili da decifrare e superare. Fra tutte il tema della scuola. Sembra incredibile come non ci si renda conto che ogni abbandono scolastico è una sconfitta e un problema che si ripresenterà in modo spesso criminale negli anni successivi. Eppure, si fa troppo poco per integrare gli stranieri e per riportare a scuola i minori italiani, soprattutto meridionali, che l’abbandonano. La scuola italiana, la società e la politica sembrano impotenti di fronte a un problema evidentissimo e che a prima vista non sembra così difficile da affrontare. Ancora oggi mancano statistiche adeguate (c’è tanta confusione tra evasione e abbandono), non sono chiare le responsabilità di chi deve intervenire per affrontarlo, e si pensa che la soluzione sia solo nelle scuole aperte di pomeriggio: ma chi non va a scuola di mattina, non ci andrà neanche di pomeriggio! E che dire poi del fatto che non ci sono (non ci sono!!!) assistenti sociali nei comuni dove sarebbero più necessari. In queste condizioni non avere a disposizione dei servizi sociali adeguati alla gravità e riproducibilità della situazione, è davvero criminogeno. Cosa si aspetta? Se i comuni interessati non hanno le risorse per assumere personale, si faccia un concorso nazionale per assistenti sociali per realtà dove si supera un certo rapporto tra popolazione minorile e reati e si usino le risorse europee a ciò destinate. Quando si leggono i dati sul rapporto strettissimo tra tassi di disoccupazione, tassi di abbandono scolastico, precedenti penali nel nucleo familiare e tassi di criminalità minorile, non si può che restare impressionati da una così implacabile connessione, a Napoli come a Palermo, Catania e Bari e in altre parti d’Italia. I dati ci dicono che è possibile prevedere in largo anticipo in quali quartieri, in quali rioni, in quali famiglie, in quali classi di età si formeranno i futuri ospiti degli istituti di pena minorili e successivamente delle carceri per adulti. E si può fare una previsione del tutto attendibile sui tassi di recidiva: è accertato che tra quelli che saranno arrestati o fermati da minorenni (per furti, scippi, rapine, spaccio di droga, risse, possesso d’armi) almeno la metà finirà nelle carceri per adulti per gli stessi reati, aggiungendo per alcuni di essi l’omicidio e la partecipazione a clan mafiosi. I carabinieri durante un raid nel centro di Napoli, alla ricerca di un latitante Tutto ciò non ha niente a che fare con il fatalismo, con il destino, con i geni criminali nel sangue, o con l’etnia di provenienza, ma con una reciprocità di influenza tra condizioni sociali, economiche, culturali (cioè tassi di istruzione e di opportunità legali) e carriere criminali. Se le condizioni sociali in cui vivono e si formano migliaia e migliaia di persone non vengono affrontate, esse si riverseranno contro il resto della società; e le statistiche criminali sono il segno della vendetta delle situazioni che non si vogliono affrontare. Scriveva la mazziniana/garibaldina Jessie White Mario nel 1877 in un’inchiesta svolta nei quartieri più degradati della città partenopea: “Quando si pensa che lo Stato per obbligo della propria sicurtà è costretto ad albergare, custodire, nutrire e vestire tutti i suoi figli una volta che sono rei, è strano davvero che se ne dia così poco pensiero, finché sono innocenti e in grado di divenire utili ed onesti cittadini”. Aveva ragione allora e ancora di più oggi. C’è una maggioranza per la legge sulle querele temerarie: ora votatela di Giulia Merlo Il Domani, 5 settembre 2021 La questione delle querele intimidatorie rimane un non risolto nel nostro sistema giudiziario: a parole tutti i politici voglio difendere la libertà di stampa, all’atto pratico però sono sempre sorti infiniti distinguo che da vent’anni a questa parte impediscono l’approvazione di una legge. Al Senato è depositato il disegno di legge firmato da Primo Di Nicola, ma la calendarizzazione è bloccata. Sentiti da Domani, a favore della calendarizzazione si sono espressi il Pd, il Movimento 5 Stelle e Italia Viva, che avevano lavorato durante il governo Conte 2 a limare il testo. Sul fronte del centrodestra è favorevole Forza Italia, che chiede in aggiunta la calendarizzazione anche della legge che cancella il carcere ai giornalisti. La Lega con Andrea Ostellari sfida i Cinque stelle a richiedere la calendarizzazione del testo. Il parlamento riapre ma nulla si muove sul fronte dell’approvazione di una legge contro le querele temerarie volte a intimorire la stampa e i giornalisti e a limitare la libertà di stampa. Anche se la lite è infondata, causa ai giornalisti anni di processi con conseguenti spese legali. Anche Domani si sta confrontando con il problema: Eni, in seguito a un articolo che si occupava del processo per corruzione internazionale terminato con l’assoluzione della azienda (il fatto non sussiste), ha scelto la via peculiare di chiedere di 100mila euro, riservandosi comunque il diritto di procedere per via civile. Tutti i politici vogliono difendere la libertà di stampa, ma soltanto a parole: da tempo è depositato in Senato un disegno di legge a prima firma del giornalista e senatore Cinque stelle Primo Di Nicola, che introduce un comma all’articolo 96 del codice di procedura civile prevedendo che, nei casi di diffamazione a mezzo stampa, in cui “risulta la mala fede o la colpa grave di chi agisce”, il giornale chiamato in causa possa chiedere al giudice di condannare l’attore oltre che alle spese di causa anche al pagamento di una somma “non inferiore alla metà della somma oggetto della domanda risarcitoria”. L’iter di approvazione è fermo dal 2020. L’alternativa sarebbe quella di un inserimento della questione all’interno del disegno di legge delega sul processo civile: il disegno di legge già prevede una modifica dell’articolo 96 del codice di procedura e si potrebbe accorpare anche l’integrazione a tutela dei giornalisti. C’è una differenza tra i due diversi iter. Nel caso del ddl Di Nicola, il testo è immediatamente precettivo, una volta approvato, l’interrogativo però riguarda la volontà politica di portarlo in aula e quando. All’opposto, se si inserisse la previsione nel ddl civile i tempi sarebbero certi - la legge di delega al governo va approvata entro fine 2021 per adempiere agli accordi Ue - ma dovrebbe passare per i decreti attuativi previsti entro il 2022. Sul ddl Di Nicola la maggioranza giallorossa del governo Conte 2 aveva trovato un accordo sul testo, limato e approntato per l’aula. Poi, però, qualcosa è successo e tutto si è bloccato. Ora spetta alla conferenza dei capigruppo ricalendarizzare l’approdo in aula: la prossima data utile per farlo è martedì 7 settembre e tutti i partiti della maggioranza si dicono favorevoli. “Auspico che i Cinque stelle facciano sentire la loro voce, perché quella delle querele temerarie contro i giornalisti è una emergenza democratica: il ddl va calendarizzato subito, altrimenti si tradiscono ancora gli impegni presi. Lancio un appello anche alla presidente del Senato Casellati, perché dia corso alla riforma”, dice Di Nicola, che si è detto favorevole anche alla presentazione di un emendamento al ddl civile, se questa potesse essere una strada alternativa più rapida. Anche da parte del Pd la senatrice Anna Rossomando, che è responsabile giustizia, ha confermato la volontà dei dem di calendarizzare il testo: “Sulle cosiddette querele temerarie c’è il testo su cui c’era stata ampia condivisione, già pronto per l’esame in aula. Il Pd vuole che sia votato al più presto e pensiamo di poter contare sull’ampia maggioranza che lo aveva votato in commissione”. Quanto all’alternativa del ddl civile c’è qualche perplessità in più “perché, essendo una legge delega, richiederebbe tempi più lunghi, mentre abbiamo una norma precettiva già pronta”. Dello stesso avviso anche Giuseppe Cucca di Italia viva: “Noi siamo favorevoli a calendarizzare il ddl a prima firma Di Nicola, su cui c’era accordo e che è frutto del lavoro del parlamento. Del resto eventuali modifiche potranno essere apportate con gli emendamenti. Invece le perplessità sull’emendamento del governo al ddl civile sono dettate dal fatto che potrebbero successivamente sorgere conflitti con il contenuto della cosiddetta legge Di Nicola”. Sul fronte del centrodestra c’è la convergenza anche di Forza Italia, ma con un dettaglio in più. La senatrice Fiammetta Modena, infatti, ha chiarito che “inizialmente avevamo espresso contrarietà perché volevamo che insieme al ddl Di Nicola andasse anche quello sulla diffamazione a prima firma del senatore Giacomo Caliendo. Oggi ribadiamo di volerle portare in Senato per approvarle entrambe quanto prima”. Per Modena la condizione è di legare l’approvazione dei due disegni di legge, che insieme trovano un punto di equilibrio: “Con il primo si inibiscono le querele temerarie, con il secondo si cancella definitivamente il carcere per i giornalisti. Entrambi i testi sono pronti”. La Lega, per voce del presidente della commissione Giustizia al Senato Andrea Ostellari, si dice contraria a norme immediatamente dispositive in un ddl di delega come il civile. Poi Ostellari aggiunge: “Durante il Conte 2 era già stata votata in commissione la proposta di Di Nicola e poi non più calendarizzata in aula. È ancora lì. Perché il Movimento 5 stelle non ne chiede la calendarizzazione?” e rilancia: “Noi abbiamo il ddl sulla giornata per le vittime di errori giudiziari pronto per il voto in aula”. Poi, quando il ddl Di Nicola sarà in calendario, saranno il segretario Matteo Salvini e il capogruppo a decidere come votare. L’accordo di maggioranza, anche senza la Lega, ci sarebbe: ora non resta che calendarizzare e approvare la legge. Trani. Muore in carcere malato psichiatrico di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 settembre 2021 Il Garante denuncia. Fedele Bizzoca, gravemente malato, era stato ritenuto incompatibile con la detenzione. A Sollicciano un giovane detenuto tunisino trovato morto in isolamento con la testa incastrata nello spioncino. Morti che potevano e dovevano essere evitate. Morti di persone malate in carcere. È avvenuto ancora, a Trani e a Sollicciano, due giovani uomini, due storie completamente diverse: nel primo caso un malato psichiatrico già ritenuto incompatibile con la detenzione, nel secondo un uomo sicuramente bisognoso d’aiuto. Entrambe le storie sono emblematiche di un sistema penitenziario che si muove ormai sul filo dell’illegalità. Anche se naturalmente saranno le indagini aperte dalle relative procure e le autopsie a stabilire cause e responsabilità individuali. Il 3 settembre è stato trovato morto nella sua cella della Casa circondariale di Trani, Fedele Bizzoca, 41enne di Barletta detenuto dal gennaio 2021 per spaccio. Era “persona sofferente di una grave patologia psico-fisica”, come scrive l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti che aveva verificato “l’incompatibilità con la detenzione in carcere”, peraltro “valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità sanitarie del carcere e dalla stessa Direzione”. Su segnalazione della Garante del comune di Trani, Elisabetta de Robertis, “nel corso della visita regionale condotta in Puglia nello scorso luglio”, il Garante nazionale aveva riscontrato “l’assoluta inadeguatezza” della collocazione del detenuto, in una cella senza “alcuna assistenza sanitaria adeguata”. “Tutto - scrive il Garante in un’interrogazione alle autorità competenti - era soltanto rimesso, insieme con la gestione complessiva dei bisogni quotidiani, al solo impegno degli agenti penitenziari. Le condizioni materiali e igieniche in cui lo si è ritrovato, si presentavano molto oltre ogni parametro di minima decenza e salubrità. La sezione di appartenenza inoltre era la nota “Sezione Blu” di cui era stata definita la chiusura a novembre 2020: il Garante nazionale ha dovuto constatare non soltanto la sua riattivazione, ma anche l’improprio utilizzo per la gestione di casi problematici, in particolare di natura psichiatrica”. Bizzoca (sulla cui morte il pm di turno ha aperto un fascicolo per omicidio colposo) era in attesa di qualcuno che potesse pagare la retta della Residenza socio-sanitaria disponibile già dal mese di luglio. Il Collegio del Garante nazionale aveva incontrato e informato la Magistratura di sorveglianza di Bari. Ora l’ufficio di Mauro Palma, che si presenterà “nel processo come persona offesa”, intende interrogare “l’intero sistema dei servizi sanitari e sociali”, “per scongiurare il perdurare delle gravi mancanze che hanno segnato la detenzione di Bizzoca”. Invece a Sollicciano, di cui il sindacato Uil-Pa denuncia le “ataviche criticità strutturali e gestionali”, un 43enne tunisino detenuto in isolamento nel reparto “transito” è stato trovato morto con la testa incastrata “nello spioncino della cella riservato al passaggio del cibo”. “In carcere non si muore per caso - ha scritto il Garante della Toscana, Giuseppe Fanfani, che chiede chiarimenti - Il carcere come lo conosciamo noi è la precondizione per forme psichiatriche che quasi sempre portano ad atti autolesionistici (l’anno passato solo a Sollicciano se ne sono contati 700), e spesso portano al suicidio”. Trani. Il Garante nazionale interroga le autorità competenti sulle circostanze della morte di Fedele Bizzoca Ristretti Orizzonti, 5 settembre 2021 La morte di Fedele Bizzoca, avvenuta nella giornata di ieri, 3 settembre, nella Casa circondariale di Trani, ove era detenuto, pone seri interrogativi all’Amministrazione penitenziaria, ai servizi socio-sanitari e alle Autorità giudiziarie: interrogativi che richiedono risposte concrete e indifferibili. Fedele Bizzoca, persona sofferente di una grave patologia psico-fisica, era detenuto dal gennaio di quest’anno nell’Istituto di Trani: l’incompatibilità con la detenzione in carcere era stata valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità sanitarie del carcere e dalla stessa Direzione. Il Garante nazionale è intervenuto a verificare le sue condizioni di vita detentiva, su segnalazione del difensore e della Garante del comune di Trani, Elisabetta de Robertis, nel corso della visita regionale condotta in Puglia nello scorso mese di luglio, incontrandolo personalmente all’interno della stanza di pernottamento in cui era collocato. Si è dovuta riscontrare l’assoluta inadeguatezza di tale collocazione, in una sezione a gestione esclusivamente penitenziaria in cui non era predisposta alcuna assistenza sanitaria adeguata alla cura e al trattamento delle particolari condizioni di sofferenza della persona. Tutto era soltanto rimesso, insieme con la gestione complessiva dei bisogni quotidiani, al solo impegno degli agenti della Polizia penitenziaria. Le condizioni materiali e igieniche in cui lo si è ritrovato, si presentavano molto oltre ogni parametro di minima decenza e salubrità. La sezione di appartenenza, inoltre, era la nota “Sezione Blu” di cui era stata definita la chiusura nel mese di novembre 2020: il Garante nazionale ha dovuto constatare non soltanto la sua riattivazione, ma anche l’improprio utilizzo per la gestione di casi problematici, in particolare di natura psichiatrica. Fedele Bizzoca era in attesa di entrare nella Residenza socio-sanitaria della quale era stata reperita la disponibilità dal mese di luglio: attesa determinata dalla ricerca di un soggetto che potesse far fronte al pagamento della retta. Tutte le circostanze riscontrate sono state portate all’attenzione della Magistratura di Sorveglianza di Bari, con la quale il Collegio del Garante nazionale ha tenuto un incontro al termine della missione. Si tratta di circostanze che interrogano non soltanto l’Amministrazione penitenziaria ma l’intero sistema dei servizi sanitari e sociali: il Garante nazionale, oltre a offrire il proprio contributo di conoscenza alla Procura della Repubblica che ha aperto l’indagine sulle cause della morte, presentandosi nel processo come persona offesa, intende porre questi interrogativi a ogni soggetto responsabile per scongiurare il perdurare delle gravi mancanze che hanno segnato la detenzione di Fedele Bizzoca. Trani. Muore in cella, si indaga per omicidio colposo: “La salute di Fedele era incompatibile con il carcere” di Rossella Grasso Il Riformista, 5 settembre 2021 Fedele Bizzoca aveva 41 anni. Originario di Barletta è morto venerdì 3 settembre in carcere a Trani, dove era detenuto. Soffriva da tempo Fedele, per una grave patologia psico-fisica, spedito in carcere ci è rimasto nonostante stesse male. “Era detenuto dal gennaio di quest’anno nell’Istituto di Trani: l’incompatibilità con la detenzione in carcere era stata valutata e dichiarata da tempo dalle Autorità sanitarie del carcere e dalla stessa Direzione”, ha scritto il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della liberà personale in una nota. Fedele era in attesa di essere spostato in una struttura più adatta alla sua detenzione. Avrebbe scontato tutta la sua pena ma in un luogo dove potesse essere adeguatamente curato. Invece è rimasto nel carcere di Trani dove è spirato. Sarà l’autopsia a stabilire le cause della morte del detenuto. Il pm di turno della Procura di Trani, Giovanni Lucio Vaira, ha comunque aperto un fascicolo per omicidio colposo e disposto l’esame autoptico per sciogliere ogni dubbio e individuare eventuali responsabilità, come riportato da Repubblica. Intanto il Garante nazionale dei detenuti sulla vicenda pone seri interrogativi all’Amministrazione penitenziaria, ai servizi socio-sanitari e alle Autorità giudiziarie: “Interrogativi che richiedono risposte concrete e indifferibili”, scrive in una nota. Il Garante nazionale è intervenuto a verificare le sue condizioni di vita detentiva, su segnalazione del difensore e della Garante del comune di Trani, Elisabetta de Robertis, nel corso della visita regionale condotta in Puglia nello scorso mese di luglio, incontrandolo personalmente all’interno della stanza di pernottamento in cui era collocato. “Si è dovuta riscontrare l’assoluta inadeguatezza di tale collocazione - scrive il garante - in una sezione a gestione esclusivamente penitenziaria in cui non era predisposta alcuna assistenza sanitaria adeguata alla cura e al trattamento delle particolari condizioni di sofferenza della persona. Tutto era soltanto rimesso, insieme con la gestione complessiva dei bisogni quotidiani, al solo impegno degli agenti della Polizia penitenziaria. Le condizioni materiali e igieniche in cui lo si è ritrovato, si presentavano molto oltre ogni parametro di minima decenza e salubrità”. E ancora: “La sezione di appartenenza, inoltre, era la nota ‘Sezione Blu’ di cui era stata definita la chiusura nel mese di novembre 2020: il Garante nazionale ha dovuto constatare non soltanto la sua riattivazione, ma anche l’improprio utilizzo per la gestione di casi problematici, in particolare di natura psichiatrica. Fedele Bizzoca era in attesa di entrare nella Residenza socio-sanitaria della quale era stata reperita la disponibilità dal mese di luglio: attesa determinata dalla ricerca di un soggetto che potesse far fronte al pagamento della retta”. “Tutte le circostanze riscontrate sono state portate all’attenzione della Magistratura di Sorveglianza di Bari, con la quale il Collegio del Garante nazionale ha tenuto un incontro al termine della missione. Si tratta di circostanze che interrogano non soltanto l’Amministrazione penitenziaria ma l’intero sistema dei servizi sanitari e sociali: il Garante nazionale, oltre a offrire il proprio contributo di conoscenza alla Procura della Repubblica che ha aperto l’indagine sulle cause della morte, presentandosi nel processo come persona offesa, intende porre questi interrogativi a ogni soggetto responsabile per scongiurare il perdurare delle gravi mancanze che hanno segnato la detenzione di Fedele Bizzoca”, conclude la nota del Garante. Palmi. L’allarme del Garante dei detenuti: “Non possono fare l’ora d’aria perché privi di mascherine” ilreggino.it, 5 settembre 2021 Mille mascherine chirurgiche sono state donate da Antonino Gullì e il garante ha rivolto un appello ad altri imprenditori che vogliano seguire il suo esempio. Il garante metropolitano dei detenuti Paolo Praticò ha denunciato la situazione di disagio che si è venuta a creare nella Casa circondariale di Palmi, dove “i detenuti sono costretti a rimanere nelle celle senza poter usufruire per l’ora d’aria, perché sprovvisti di mascherine. Non tutti possono permettersi di acquistarle e ciò per regolamento anti-covid, proibisce loro di uscire dalle celle per recarsi ai “passeggi”. L’appello del garante a voler donare delle mascherine, è stato raccolto dalla ditta Clivia di Antonino Gullì, che ha regalato ben mille di quelle “chirurgiche”, sopperendo cosi, per un breve periodo, alla totale mancanza. “Mi rivolgo perciò - ha continuato il garante - a ditte e club service, affinché vogliano donare delle mascherine lavabili, in modo tale che se ne possa fare uso per un tempo maggiore. Se c’è qualcuno che voglia seguire il buon esempio del dott. Gullì, può mettersi in contatto con me”. Terni. Inclusione e solidarietà: concluse attività di formazione per 48 detenuti umbria24.it, 5 settembre 2021 L’iniziativa dell’università dei Sapori e Caritas per favorire il miglioramento della condizione sociale e lavorativa dei carcerati. Si è concluso con la consegna degli attestati, il progetto di formazione per l’inclusione socio lavorativa nel settore della ristorazione (Filar) svoltosi presso la Casa circondariale di Terni sotto la guida di università dei Sapori scarl, assieme all’associazione di volontariato San Martino - Caritas di Terni Narni e Amelia e Iter scarl Impresa Sociale. “Riteniamo questa esperienza per i detenuti del carcere di Terni estremamente utile per le professionalità formate e per i contenuti valoriali espressi - dice Stefano Lupi Presidente di università dei Sapori -. Grazie ai due corsi di pizzeria è stato recuperato e ripristinato il laboratorio di panificazione allestito all’interno della casa circondariale, che era in disuso da anni. Il laboratorio, in virtù delle competenze tecniche acquisite da 27 detenuti (15 nella prima edizione e 12 nella seconda) potrebbe essere riavviato permanentemente per la produzione del pane, biscotti ed altri prodotti ai fini del consumo interno per i detenuti della casa circondariale. Ciò costituirebbe un elemento importante e concreto di integrazione dando, attraverso il lavoro, dignità e gratificazione alle persone. Avanzeremo tale proposta alla direzione del carcere - chiosa -, offrendo la nostra disponibilità come università dei Sapori”. Formazione e inclusione - Il progetto nasce con l’intento di favorire il miglioramento della condizione sociale e lavorativa di 48 detenuti della Casa circondariale di Terni, attraverso percorsi di formazione specifici nel settore della ristorazione. Anche nell’espressione della partnership creata, l’attività ha voluto mettere a disposizione dei detenuti un’esperienza formativa qualificante, strumenti e supporti dedicati ed espressamente tarati sulle esigenze del singolo, sulle caratteristiche e la durata della pena da scontare, in modo da inserire la persona ristretta in attività occupazionali capaci di aiutarla e ridefinire il proprio recupero sociale. Attività di laboratorio Obiettivo del progetto, inoltre, è stato quello di creare un modello condiviso di lavoro tra tutti i soggetti coinvolti (soggetti proponenti, istituto penitenziario, mondo del lavoro, mondo del volontariato, istituzioni pubbliche), favorendo la predisposizione di percorsi didattici attivi e motivanti, fondati sui bisogni reali dei detenuti e finalizzati ad orientarli ad un progetto di vita futuro, coniugando il sapere ed il saper fare verso l’acquisizione di competenze coerenti con le esigenze del mercato del lavoro per implementare il reinserimento e contrastare il fenomeno della recidiva. Le attività laboratoriali, precedute da momenti di orientamento tra gli operatori dell’associazione di volontariato San Martino e i detenuti, sono iniziate a gennaio 2020 e terminate, con non molte difficoltà causa Covid, lo scorso 31 agosto. Sono stati erogate, sotto il coordinamento di Marilena Liccardo di università dei Sapori e sotto la guida degli chef esperti Simone Minelli, Edi Dottori, Daniele Guerra e Donatella Aquili, due edizioni del percorso di cucina dedicato alle preparazioni gastronomiche della durata di 120 ore e due edizioni del corso di pizzeria, sempre della durata di 120 ore totali. “La conclusione di questo progetto con la consegna degli attestati - ha detto il vescovo Piemontese ai detenuti - è motivo di speranza, perché l’attività, l’impegno, il lavoro competente e la formazione sono fondamentali nella vita della persona. Vi auguro che queste competenze si traducano in un lavoro che sia di sostegno alla vostra realizzazione. Il pane per i cristiani è l’elemento fondamentale dell’eucarestia e riconoscimento della presenza del Signore e dono del corpo di Cristo per la nostra redenzione”. Milano. Quel “Pane” fatto in carcere, un modello senza più confini di Paolo Lambruschi Avvenire, 5 settembre 2021 Partito da Opera., il progetto di produzione delle ostie dietro le sbarre ha coinvolto diocesi e istituti penitenziari in tutto il mondo. Mosca Mondadori: sono percorsi di vera conversione. Da cinque anni mani che si sono sporcate di sangue e hanno ucciso producono ostie nelle carceri di mezzo mondo. Tra poco lo faranno anche in Brasile. Sta facendo strada “Il senso del pane”, il progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Avevamo raccontato la gestazione su Avvenire pubblicando nel Natale del 2015 la lettera dei primi tre detenuti del carcere di Opera - Giuseppe, Ciro e Cristiano - coinvolti. Nella prigione milanese è partito, con il contributo della Fondazione Cariplo, il primo laboratorio. Dal gennaio 2016, anno del Giubileo della Misericordia, dopo che le ostie sono state consacrate per la prima volta da papa Francesco, vengono donate a decine di chiese in tutta Italia e all’estero. La forza e l’immediatezza dell’idea spiega Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Casa dello Spirito e delle Arti - è che il pane per la celebrazione eucaristica viene prodotto da chi ha ucciso, ma ha seguito un autentico percorso di conversione interiore e pentimento. Questo ha incoraggiato l’adesione di oltre 500 tra diocesi italiane e straniere, congregazioni religiose, parrocchie, monasteri, che ricevono gratuitamente le ostie portando alla produzione artigianale di oltre 4 milioni di particole. Un paradosso, un modo per comunicare a credenti e non l’infinita misericordia dell’Amore divino. E un modo per far entrare la dignità in carcere. Ogni persona fragile - 70 quelle finora coinvolte - ha infatti imparato un mestiere ed è stati assunto a tempo indeterminato. Grazie al contributo del presidente di Banca Mediolanum, Ennio Doris, il progetto è decollato. Da Opera sono nati infatti nuovi “laboratori eucaristici” in Italia all’estero creando reti con missioni o diocesi. Sono sorti ad esempio a Buenos Aires, dove vi lavorano giovani ex tossicodipendenti, in Etiopia con ex ragazzi di strada, a Barcellona e Maputo con ex carcerati. Il progetto sta approdando in Brasile, dove si adotta il metodo di gestione del carcere Apac (inizialmente acronimo di “Amando il prossimo amerai Cristo” diventato “Associazione di protezione e assistenza ai condannati”). Il valore del metodo, che non prevede carcerieri, è stato riconosciuto internazionalmente ed è presente in 100 città in Brasile in 27 Paesi, Italia compresa. Il tasso di recupero e reinserimento sociale nelle strutture Apac è dell’85%, contro una inedia mondiale del 30. Lo slogan delle carceri che adottano Apac è: “Dall’amore nessuno fugge”. Complemento al “Senso del pane” e alla sua idea di liberazione. Saluzzo. Teatro-carcere, trenta detenuti raccontano sul palco la storia sbagliata di Ulisse targatocn.it, 5 settembre 2021 Il 23, 24, 25 e 26 settembre, alle 15 e alle 17, spettacolo teatrale con l’associazione Voci Erranti. Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria entro domenica 12 settembre. Da giovedì 23 a domenica 26 settembre, alle 15 e in replica alle 17, presso la Casa di Reclusione di Saluzzo “Rodolfo Morandi” (Regione Bronda, 19/B) si terrà lo spettacolo teatrale a ingresso gratuito “Ulisse. Una storia sbagliata” a cura dell’associazione di formazione e produzione teatrale Voci Erranti, portato sulla scena da 30 detenuti del carcere saluzzese. Lo spettacolo, reso possibile grazie al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, rientra nel progetto nazionale “Per Aspera ad Astra”, coordinato dalla Compagnia La Fortezza di Volterra e sostenuto da ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio). Per partecipare è necessario prenotarsi entro domenica 12 settembre telefonando a Voci Erranti al numero 380/1758323 o scrivendo a info@vocierranti.org. L’ingresso è consentito solo a chi è provvisto di Green Pass. Gli spettatori dovranno presentarsi presso la Casa di Reclusione 30 minuti prima dell’inizio dello spettacolo per la verifica dell’autorizzazione all’ingresso, muniti di documento di riconoscimento in corso di validità. “Il gruppo dei detenuti del laboratorio teatrale ha rivisitato il mito e subito si sono identificati nei compagni di Ulisse immaginando di invertire la storia perché, questa volta, sono loro a ritornare a casa e non l’eroe - afferma la presidente di Voci Erranti, Grazia Isoardi, che con Marco Mucaria firma il testo e la regia dello spettacolo. Trenta uomini che stanno scontando lunghe condanne vogliono credere di poter ritornare a casa e ritrovare i loro affetti. È la speranza di tutti, è il filo che tiene viva la loro speranza. Lo spettacolo è la rappresentazione di una storia sbagliata, così come sono state le loro vite, caratterizzate dal forte desiderio di oltrepassare il limite, di essere uomini invincibili, eroi improvvisati. È la rappresentazione di una storia al contrario che semina dubbi e fa vedere le tante fragilità che si nascondono sotto le corazze e le armi indossate. Una storia che si ripete ancora oggi e proprio per questo motivo è necessario raccontarla, perché quando vengono meno i punti di riferimento e la linea della costa scompare, quando si naviga verso terre straniere, quando intorno tutto cambia e si dispera di ritrovare la propria Itaca allora non resta che aggiustare e riaggiustare la rotta fino a trovare il varco giusto. O almeno ci si prova”. Durante l’emergenza sanitaria le attività formative teatrali in carcere si sono svolte in modo alternato, ma il gruppo dei partecipanti si è dimostrato molto determinato nel volere portare a termine il percorso iniziato. La scelta del tema è stata quanto mai profetica perché le disavventure, gli imprevisti e le tempeste sono state realmente compagne di viaggio dei detenuti. Il protagonista dello spettacolo è Ulisse, il primo personaggio della letteratura occidentale e il primo uomo moderno, l’eroe che i Greci chiamavano Odisseo e che osò superare le colonne d’Ercole, il viaggiatore inquieto simbolo dell’eterna ricerca, l’uomo diviso tra l’amore per la propria patria e il fascino dell’ignoto. Forse l’eroe che più di ogni altro è vicino a tutti noi, un eroe imperfetto che non si sottrae all’avventura e si contraddice continuamente, mai sazio di scoprire e superare i propri limiti. “Il progetto ha visto la partecipazione di trenta detenuti che hanno partecipato ai corsi di formazione di recitazione, scenografia e tecnico audio-luci e la collaborazione con diversi professionisti dell’ambito teatrale - conclude Marco Mucaria. Questo è stato possibile grazie al contributo della Fondazione CRC che ha scelto di far parte del progetto nazionale “Per Aspera ad Astra”. Per noi è un onore far parte di un gruppo di eccellenze e viviamo con grande responsabilità il compito di rappresentare la realtà di Teatro in Carcere della provincia di Cuneo”. Libia. Inferno Tripoli, il report Onu documenta la violenza senza fine sui migranti di Nello Scavo Avvenire, 5 settembre 2021 Il nuovo rapporto Onu sulla Libia è un continuo atto d’accusa. Con il segretario generale Antonio Guterres che denuncia “le continue restrizioni all’accesso umanitario e al monitoraggio da parte delle agenzie umanitarie nella Libia occidentale”. Nessuna pietà neanche per i bambini. “Il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia ha riferito che i bambini - scrive Guterres nel suo ultimo dossier (Unsmil) - hanno continuato a essere detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione a Tripoli e dintorni, senza accesso alla protezione di base e ai servizi sanitari e senza ricorso all’assistenza legale o al giusto processo, e spesso sono stati detenuti con gli adulti”. Quasi non c’è più alcuna distinzione tra uomini in uniforme e trafficanti. “Le donne migranti e rifugiate hanno continuato ad affrontare un rischio elevato di stupro, molestie sessuali e traffico da parte di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti transnazionali, nonché funzionari della Direzione per la lotta all’immigrazione illegale sotto il ministero dell’Interno”. I continui divieti alle agenzie Onu, a cui è impedito di ispezionare i campi di prigionia, sono motivati dalla volontà di nascondere i fatti. “A giugno, l’Unsmil ha documentato ripetuti episodi di violenza sessuale perpetrati - si legge ancora - contro cinque ragazze somale di età compresa tra i 16 e i 18 anni”. Abusi avvenuti in strutture ufficiali da parte di agenti e militari libici. Alla data del 14 agosto, la guardia costiera libica aveva intercettato e riportato nel Paese 22.045 migranti e rifugiati, con 380 morti confermati e 629 persone considerate disperse. “Ma l’aumento del numero di migranti e rifugiati rimpatriati ha portato a un maggior numero di persone detenute arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali della Direzione per la lotta all’immigrazione clandestina, senza un controllo giudiziario e sottoposte a trattamenti e condizioni disumane”, insiste Guterres. Ad attenderli non c’è alcun tentativo di impedire i crimini, ma “tortura, violenza estrema, abusi sessuali e accesso limitato a cibo, acqua, servizi igienici e cure mediche, in alcuni casi con conseguente morte o lesioni”. All’inizio di agosto i prigionieri erano 5.826 migranti, contro i 1.076 dichiarati a gennaio. Per le milizie l’approvvigionamento di esseri umani è essenziale per far pesare la propria presenza sia ai tavoli interni che nei negoziati con l’Ue a colpi di barconi. Ancora una volta è il clan di Zawyah a fare scuola, dove gli uomini del comandante Bija e dei fratelli Kachlav non perdono occasione per rilanciare la sfida. E mentre per le strade si torna a combattere, tra faide e regolamenti di conti come quelli avvenuti ancora una volta ieri proprio a Zawyah, viene fomentato l’odio. “Durante il periodo di riferimento, Unsmil ha documentato - riferisce ancora Guterres nel dossier inviato al Consiglio di sicurezza - un aumento delle dichiarazioni pubbliche contro i migranti e contro i rifugiati oltre a incidenti xenofobi contro gli stranieri”. È bastato che un certo numeri di lavoratori subasahariani protestasse contro l’impunità garantita agli xenofobi, perché scoppiassero dei disordini. “Centinaia di uomini, donne e bambini sono stati arrestati e portati in una struttura di detenzione a Zawiyah gestita dalla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale”. Si tratta proprio del campo di prigionia statale gestito dal clan di Bija. Notizie compatibili con l’aumento delle partenze da quelle coste. Afghanistan. Il pugno duro dei talebani: repressa la protesta delle donne di Mattia Sorbi La Repubblica, 5 settembre 2021 Gli studenti coranici disperdono una manifestazione per i diritti. Slitta il nuovo governo per le divisioni interne. Di Maio: “Non credo riconosceremo mai l’esecutivo di Kabul”. Si combatte l’ultima battaglia nel Panshir. Mentre la formazione del nuovo governo arranca e viene ancora rinviata per le divisioni intestine tra le diverse fazioni dei talebani, un gruppo di donne afghane è sceso in piazza a Kabul per il secondo giorno di fila, dopo che in settimana identiche proteste si erano viste anche a Herat. Questa volta però i talebani non hanno tollerato la manifestazione, che si è conclusa con una serie di scontri. Le forze speciali degli studenti coranici per disperdere la folla hanno fatto ricorso a gas lacrimogeni e hanno esploso colpi di kalashnikov in aria. La protesta era iniziata pacificamente. I partecipanti hanno deposto una corona di fiori davanti al ministero della Difesa per onorare i soldati afghani morti combattendo, prima di marciare verso il palazzo presidenziale. “Siamo qui per rivendicare il rispetto dei diritti umani in Afghanistan”, ha dichiarato la ventenne Maryam Naiby, un’attivista del gruppo. Le manifestanti rivendicano un ruolo significativo per le donne nel nuovo governo, ma i talebani hanno già fatto sapere che nessuna donna ricoprirà la carica di ministro. Alla guida del nuovo esecutivo dovrebbe andare il co-fondatore talebano, Abdul Ghani Baradar. Da Doha però il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha affermato che un riconoscimento del futuro governo talebano “è molto improbabile”. “Non arriveremo mai a un riconoscimento”, ha aggiunto spiegando che anche Cina e Russia hanno mostrato prudenza in questo senso. Il ministro ha sottolineato che per fare in modo che l’Afghanistan non diventi uno Stato fallito, potenziale base per i terroristi, occorrono pieno accesso umanitario, investimenti, un governo inclusivo (anche con componenti tagiche e del Panshir), libertà civili e via libera agli afghani che vogliono lasciare il Paese. Le condizioni poste dall’Unione europea e dalla comunità internazionale. Il capo della diplomazia italiana ha quindi aggiunto che “in queste ore insieme ai nostri partner ci stiamo confrontando sul luogo dove ricollocare le ambasciate: prende sempre più consistenza l’idea di ricollocarle, in maniera temporanea, a Doha”. Intanto a Kabul, dove è stato riaperto l’aeroporto grazie al lavoro dei tecnici del Qatar, è arrivato il capo dell’intelligence pakistana, Faiz Hameed, per una riunione con i talebani. Il tutto mentre proseguono violenti scontri nel Panshir. Pesanti combattimenti che assomigliano alla battaglia finale scatenata dai talebani per conquistare l’ultima zona del Paese - 700mila abitanti - rimasta in mano alla resistenza. L’altro ieri i talebani avevano annunciato la loro vittoria, ma fonti della resistenza hanno più volte smentito il fatto parlando di “propaganda” e spiegando che i combattimenti erano ancora in corso. L’ex vicepresidente afghano, Amrullah Saleh, ieri ha però ammesso: “La situazione è difficile, i talebani hanno tagliato le linee elettriche, telefoniche e Internet ma non smetteremo mai combattere”. Si parla di pesanti perdite su entrambi i fronti. Nella notte di ieri, le forze talebane si sono spinte dentro la valle, raggiungendo il villaggio di Anabah, dove si trova l’ospedale di Emergency (ancora in funzione). I combattenti del Fronte di resistenza nazionale (Res) guidati da Ahmad Massud, il figlio del Leone del Panshir, sono sempre più circondati, anche se i talebani non riescono ancora a conquistare Bazaraq, con 700mila abitanti il capoluogo del Panshir. Afghanistan. A Kabul secondo giorno di protesta delle donne. Repressione talebana di Giuliano Battiston Il Manifesto, 5 settembre 2021 Piccole manifestazioni anche a Zaranj. Le spaccature interne bloccano la nascita del nuovo governo. Si combatte nel Panjshir. Le donne tornano a protestare e i Talebani usano le maniere forti per disperdere una manifestazione a Kabul. Il loro governo per ora rimane solo sulla carta, la provincia del Panjshir è ancora in bilico, contesa tra i leader della “resistenza” e le forze dei turbanti neri. E Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, convoca per il 13 settembre una conferenza sulla crisi umanitaria in Afghanistan. Dopo le manifestazioni di Herat e di Kabul, ieri decine di donne sono tornate a manifestare per le strade della capitale, non lontano dall’Arg, il palazzo presidenziale conquistato dai Talebani il 15 agosto. Rivendicavano diritti e libertà, con coraggio. Questa volta i Talebani hanno usato le maniere forti. Prima sottraendo il megafono, poi picchiando alcune di loro. Tra cui l’attivista Rabia Sadat, ripresa dopo la manifestazione con parte del volto insanguinato. Non si nasconde e si dice pronta a tornare per strada. Piccole manifestazioni di donne anche a Zaranj, capoluogo della provincia sudoccidentale di Nimruz, al confine con l’Iran, la prima cittadina a finire sotto il controllo talebano all’inizio dell’offensiva militare che li ha condotti a conquistare Kabul. Dove il governo ancora non c’è. Posticipato l’annuncio, insieme ai relativi festeggiamenti di rito. Dopo tre settimane dalla presa del potere e dopo venti anni di jihad contro gli americani e “l’amministrazione” fantoccio, gli studenti coranici ancora non sono riusciti a trovare un accordo sulla composizione del governo. Diverse le ragioni. La prima è la velocità con qui hanno sbaragliato l’esercito afghano e con cui le istituzioni della Repubblica islamica sono crollate. Poi c’era la necessità di aspettare che le truppe straniere completassero il ritiro. Ora a contare sono perlopiù le divisioni interne. Contenute fino a quando si trattava di cacciare il nemico. Esplose ora che si tratta di spartirsi il bottino. Posti ministeriali, interessi materiali, status e prestigio. Una delle spaccature principali è tra l’area riconducibile a mullah Abdul Ghani Baradar, che rappresenta la vecchia guardia e i militanti del sud del Paese, e quella invece degli Haqqani, i Talebani dell’est, più oltranzisti ma capaci in questi pochi giorni di occupare de facto posizioni di potere, a Kabul e non solo. Che mullah Baradar, il volto diplomatico dei Talebani e l’artefice dell’accordo di Doha con Washington, debba avere un ruolo centrale, pochi lo contestano. Ma sono gli altri posti esecutivi e ministeriali a creare dissidi. Insieme alla spaccatura tra quanti pensano che i Talebani debbano ottenere tutti i posti e quanti invece pensano che ci debba essere almeno una rappresentatività di facciata per gli altri gruppi politici, sconfitti militarmente. Ma tra pochi giorni il governo sarà insediato e al lavoro, assicurano i Talebani. A cui proverà a dare qualche consiglio anche il generale pachistano Faiz Hameed, a capo dell’Inter-Services Intelligence, i potenti e temuti servizi segreti militari del Paese dei puri. In questi anni Islamabad ha sempre coltivato rapporti stretti con i Talebani. Ora cambia passo: dal sostegno sotterraneo a un gruppo di insorti, passa all’appoggio esplicito alle autorità di fatto del Paese. Ieri l’arrivo a Kabul del generale ha fatto storcere il naso a quanti vedono i Talebani come un prodotto d’esportazione di Islamabad. Lettura riduttiva, ma che contiene elementi reali. Come è reale, al di là della guerra di propaganda, quella che si continua a combattere nella provincia del Panjshir. Per la prima volta nella storia del conflitto afghano, i Talebani sono arrivati fino ad Anabah, dove dal 1999 Emergency gestisce un ospedale. Secondo alcuni resoconti, mentre scriviamo i militanti islamisti starebbero puntando verso il capoluogo della provincia, Bazarak. Difficile verificare le informazioni: ormai da molte settimane entrambi gli attori mobilitano, minacciano e rassicurano anche attraverso i media e i social. Ma la partita è simbolicamente cruciale: senza il Panjshir, rimane parziale la pretesa egemonica dei turbanti neri. Che hanno festeggiato la conquista della valle prematuramente, due giorni fa, con spari e razzi: 17 persone uccise e 42 feriti nei festeggiamenti, condannati anche dalla leadership, che comincia a fare i conti con i militanti di basso rango, difficile da inquadrare. L’ultima roccaforte della resistenza, il Panjshir, è isolata dal resto del Paese, denuncia l’ex vicepresidente Amrullah Saleh, per il quale i Talebani impedirebbero l’ingresso nella valle anche di cibo, medicine, aiuti umanitari. E di fronte alla gravissima crisi umanitaria del Paese, ieri Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, ha fissato una conferenza per il 13 settembre. Chiede che la comunità internazionale faccia presto, e di più, per sostenere la popolazione afghana. Una buona metà, 18,5 milioni, ha bisogno di assistenza umanitaria. Afghanistan. Fame, sporcizia e bimbi soli: ecco il lato oscuro dell’evacuazione americana di Anna Lombardi La Repubblica, 5 settembre 2021 Sul New York Times le falle dell’operazione definita da Biden “uno straordinario successo”: nei campi provvisori condizioni ai limiti della sopravvivenza. Negli ultimi giorni di agosto voli privati non autorizzati sono entrati e usciti dall’aeroporto Hamid Karzai di Kabul senza controlli. Come quelli gestiti da Erik Prince: il fondatore della società di contractor Blackwater che ha portato fuori dal Paese chiunque pagasse 6500 dollari a passaggio. Non basta: i badge elettronici inviati dagli americani agli afghani titolati a lasciare il Paese per passare i checkpoint dei talebani sono stati ampiamente condivisi con amici e parenti: mandando in tilt i controlli. Ancora, i voli militari dell’esercito sono spesso partiti con liste passeggeri incomplete o inesistenti. Centinaia di minori sono stati evacuati da soli. E migliaia di profughi sono finiti in hangar e tendopoli dalle precarie condizioni igienico-sanitarie dove sono tuttora stipati. L’evacuazione di Kabul non è stata insomma il “successo straordinario” descritto dal presidente Joe Biden nel discorso del 31 agosto, dove celebrava la fine della presenza americana in Afghanistan. Lo rivela una lunga inchiesta del New York Times, basata sui rapporti spediti a Washington da diplomatici e militari. “Documenti riservati”, sì, ma non secretati e dunque accessibili, rivelano i lati oscuri dell’operazione: non solo i controlli di sicurezza inesistenti, ma anche il fatto che fuori dal loro Paese tantissimi profughi non hanno affatto trovato l’America. Ma condizioni (almeno temporaneamente) infernali. Come quelle della base di Al Udeid, sede del 379esimo battaglione aeronautico, e del vicino campo As Sayliyah, in Qatar. Dove la situazione igienica è stata in alcuni momenti talmente disastrosa da far presagire ai vertici militari un’imminente catastrofe sanitaria: “Feci, vomito e topi sono ormai ovunque”, si legge nei rapporti, che chiedono al più presto almeno l’invio di gabinetti chimici. In queste condizioni - segnalano ancora i documenti - ci sono “tantissime donne incinte bisognose di cure mediche”. E pure 229 minori — alcuni piccolissimi — arrivati soli e abbandonati a sé stessi: bullizzati dai compagni adolescenti che gli sottraggono cibo e abiti. La precarietà della situazione provoca tensioni costanti, “infiammate da qualunque pretesto”. I più indisciplinati sono “maschi single e fra loro numerosi ex militari”. Arrivati con le loro armi “che siamo stati costretti a confiscare”. A discutere della sorte di quei disperati ci penserà, la settimana prossima, il segretario di Stato Antony Blinken, atteso in Qatar e Germania. Ma gli Stati Uniti l’hanno già detto chiaro: accoglieranno solo 50mila afghani. Di questi, 24 mila sono già in America, alloggiati per ora, in basi militari in Virginia, Wisconsin, Texas, New Jersey e Indiana. Molti sono arrivati senza visto e sono sottoposti a una sorta di “libertà vigilata” in attesa di valutare le loro situazioni. Il dipartimento di Stato sta preparando per loro un programma: valido però appena 90 giorni, durante i quali riceveranno “una tantum” uno stipendio di 1250 dollari. Ma niente accesso ai servizi medici, di consulenza e reinsediamento, solitamente a disposizione dei rifugiati. Per ottenerli servirebbero milioni di dollari: e su quei soldi già si profila una battaglia al Congresso. Intanto, racconta il New York Post, fra i rifugiati approdati in America ci sono situazioni che mettono in imbarazzo i funzionari: spose bambine arrivate con uomini molto più grandi e casi di poligamia. Mancano le linee-guida per affrontare situazioni simili e urgono risposte: i problemi dell’evacuazione, per ora, si sono solo spostati altrove. Etiopia. Accuse di atrocità e violenze ai combattenti del Tigray La Repubblica, 5 settembre 2021 Testimoni raccontano di vendette, razzie e bombardamenti dei tigrini passati alla controffensiva dopo la sanguinosa campagna militare dei governativi alleati con le forze eritree. Non si fermano le violenze in Etiopia. Dopo la sanguinosa offensiva condotta dai soldati governativi con l’aiuto di forze eritree nell Tigray, i combattenti tigrini sono passati al contrattacco fuori dai confini della regione. E vengono accusati di compiere sanguinose vendette per gli abusi subiti. In interviste raccolte dall’Associated Press, decine di testimoni hanno raccontato che i ribelli del Tigray da due mesi colpiscono comunità e siti religiosi con l’artiglieria, uccidendo civili, depredando centri sanitari e scuole e costringendo centinaia di migliaia di persone a fuggire. Nella città di Nefas Mewucha nella regione di Amhara, attrezzatura sanitaria è stata ridotta in pezzi, i ribelli hanno rubato medicine a strumenti, lasciando morire più di una dozzina di pazienti. “È una bugia dire che non colpiscono i civili e le infrastrutture”, ha detto il manager dell’ospedale Birhanu Mulu ad AP. La guerra iniziata a novembre, in un primo tempo era confinata nella regione del Tigray, di fatto sigillata dalle forze governative. Racconti di atrocità si moltiplicavano: stupri di gruppo usati come arma di guerra, massacri, la fame utilizzata dai governativi e dai loro alleati eritrei senza pietà per rompere la resistenza di cittadine e villaggi. Migliaia di persone erano morte nel Tigray, anche se nessuno sa esattamente quante, visto che Addis Abeba aveva tagliato gli accessi al Tigray. Stati Uniti e Nazioni Unite hanno fatto appello a tutte le parti per la fine dei combattimenti e per l’apertura di un negoziato. Ma sul terreno in pochi credono alla pace e molti giovani si stanno arruolando per combattere. Il portavoce delle forze tigrine ha assicurato parlando con Ap che i tigrini stano cercando di evitare vittime civili: “Dovunque andiamo in Amhara, la gente ci riserva una calorosa accoglienza”.