Oltre Santa Maria: in altre 8 carceri italiane “violazioni dei diritti umani” di Maria Tornielli Il Domani, 4 settembre 2021 La denuncia della senatrice del Movimento 5 stelle Cinzia Leone, che questa estate ha visitato diversi istituti penitenziari nel nostro paese, parla di “situazioni inaccettabili” e di una “inammissibile” gestione amministrativa e sanitaria. Negligenze nella retribuzione dei detenuti lavoratori e violazioni del loro diritto alla salute. Non c’è solo la situazione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, denunciata da Domani: negli istituti penitenziari italiani si assiste a “situazioni inaccettabili dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e della dignità di ogni persona”, secondo la senatrice del Movimento 5 stelle Cinzia Leone, che ha visitato otto carceri durante questa estate. In diversi istituti penitenziari, come l’Ucciardone di Palermo o il carcere di Siracusa, la senatrice afferma di aver riscontrato un “atteggiamento inammissibile” da parte dei dirigenti sanitari regionali. “Spesso i detenuti sono trattati in modo approssimativo e sbrigativo, se non addirittura sottoposti a trattamenti inumani, con una palese violazione del loro diritto alla salute e al benessere psico-fisico”, dice Leone. “Il risultato è che nei casi più estremi, mentre qualcuno temporeggia sull’interpretazione capziosa delle norme vigenti, i detenuti si suicidano o vengono lasciati morire”. Un’altra delle questioni sottolineate dalla senatrice siciliana è quella delle anomalie nella gestione delle buste paga per i detenuti lavoratori, riscontrata nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. “Negligenze e omissioni determinano una costante riduzione delle loro retribuzioni”, afferma Leone, che ha detto di aver segnalato la questione ai vertici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, nel 2017, sono stati aperti diversi procedimenti per il reato di tortura per episodi di violenze inflitte a carcerati. Nel 2021, oltre alla disposizione di misure cautelari per 52 fra agenti e dirigenti per il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020, sono anche stati rinviati a giudizio due agenti del carcere di Ferrara, per un episodio del 2017, e arrestati tre agenti del carcere di Sollicciano a Firenze. Mani che prudono alla notizia dell’ultimo morto in carcere di Adriano Sofri Il Foglio, 4 settembre 2021 Mercoledì, ore 22, carcere-discarica di Sollicciano, Firenze. “Testa incastrata nello spioncino della cella: detenuto muore”. Come possa accadere, per incidente o per volontà, è difficile e terribile da immaginare. Fottuti bastardi, la conosco questa lingua straniera. “Testa incastrata nello spioncino della cella: detenuto muore”. Davvero? “Stando alle prime informazioni, il 43enne avrebbe infilato la testa tra una sbarra e l’altra dell’ingresso della sua cella, nello spioncino che serve al passaggio dei piatti per il pranzo e per la cena, uno spazio di circa una decina di centimetri” (così un giornale). “Nell’uomo normale di statura media, la testa rappresenta un ottavo dell’altezza totale. La sua lunghezza è di circa 20 cm, la larghezza di circa 18 cm e la circonferenza di 50-60 cm.” (Treccani, “Universo del corpo”). “Il 43enne” è una persona, tunisina, ha un nome e un cognome, Nasser Yussef. Continua la cronaca - una (non) vale l’altra: “Un gesto abbastanza comune tra i detenuti del transito, viene spiegato, che si affacciano per guardare nel corridoio o per chiamare le guardie”. Non è un gesto comune, salvo che lo spioncino sia insolitamente largo: sono le mani ad aggrapparsi al suo bordo. Per chiamare le guardie non occorre affacciarsi, e per guardare nel corridoio si sporge fuori un braccio con la mano che tiene e orienta lo specchietto (mai di vetro, è vietato: di una stupida plastica argentata). Lo spioncino serve a un altro uso: poiché l’interruttore della luce sta sul muro fuori dalla cella, irraggiungibile dal braccio, il detenuto sporge fuori il braccio con la mano che impugna la ramazza e la muove a tentoni fino a spegnere o accendere la luce sull’interruttore che non vede: dopo qualche anno, ero diventato un maestro nell’esercizio. Ancora: a meno che Yussef fosse stato buttato, con la dizione solenne di “transito”, in uno degli sgabuzzini nudi e senza finestre in cui si parcheggiano a vista provvisoriamente (salvo dimenticarli lì) i detenuti di passaggio, la cella ha due cancelli, uno di sbarre d’acciaio, più zoologico, diciamo, con uno spazio appena maggiore all’altezza dello spioncino; un altro, il blindo, il massiccio portone di ferro con lo spioncino che viene alzato o abbassato dall’esterno, e ha al centro uno spioncino minore al quale il guardiano può poggiare l’occhio per guardare (spiare) dentro. Come si possa morire, per incidente o per volontà, con la testa incastrata nell’uno o nell’altro spioncino, è difficile e terribile da immaginare. Per soffocare bisogna che sia il collo a restare strozzato, e il collo è meno largo della testa “nell’uomo normale” - a meno che si pensi anormale “il 43enne”, quale tunisino e detenuto e in transito (suggestiva ambiguità, quel suo essere “in transito”). Continuiamo. Non si passano piatti “per il pranzo o la cena”: i piatti (solo di plastica o di carta plasticata, come le posate) ce li ha il detenuto in cella, e il portavitto col carrello si limita a riempirglieli. Continuiamo: “Per qualche motivo, però, l’uomo non sarebbe riuscito a far uscire la testa dalle sbarre. Sarebbe rimasto incastrato, facendosi prendere dal panico. In pochi attimi - secondo una prima ricostruzione - avrebbe perso i sensi, rendendo più difficili le operazioni di soccorso di una guardia intervenuta per aiutarlo. E avrebbe perso la vita in questo modo, con ogni probabilità per soffocamento: quando sul posto è intervenuta l’automedica del 118, per lui non c’era più niente da fare”. Cioè: un uomo ha la testa incastrata fra le sbarre e ha perso i sensi - nel frattempo “la guardia intervenuta” avrà aperto il cancello, lo avrà soccorso, gli avrà sorretto la testa - e, mentre misteriosamente soffoca, si aspetta che arrivi “l’automedica del 118”! A Sollicciano, col traffico dell’A1! Ma che cosa dite, che cosa scrivete. Non c’era un medico, a Sollicciano, non un infermiere? Il carcere, ha scritto il garante toscano, “avrebbe necessità di una visione umanistica ed antropocentrica (sic!) che esaltasse il dettato costituzionale”. Mancano comandante e direttore titolare, i detenuti sono il doppio della capienza (così il segretario della Uil-Pa), nella stessa sera “un altro detenuto abbatteva i muri della cella” (sic!), lo scorso 11 luglio “otto detenuti della 12ma sezione avevano incendiato i materassi delle loro celle, poi avevano divelto le inferriate delle finestre del locale docce ed infine erano riusciti ad arrampicarsi sul tetto del penitenziario”. Presunti colpevoli di Michele Passione Ristretti Orizzonti, 4 settembre 2021 “Considerato colpevole o innocente, al di là del fatto che fosse colpevole o innocente” (Dürrenmatt). Il 5 agosto scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato uno schema di decreto legislativo recante “disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Fossimo un Paese normale, dovremmo solo chiederci perché ci abbiam messo così tanto. Invece, sebbene la Costituzione preveda la presunzione di non colpevolezza all’art.27/2, c’è chi proprio non si rassegna a che un elementare principio di civiltà venga rispettato e condiviso all’interno dell’Unione. Tra questi, Liana Milella, che su Repubblica del 3 settembre, intervistando Nello Rossi, rivela (semmai ve ne fosse bisogno) una mai celata idea di come secondo lei dovrebbero andare le cose nel campo di cui discutiamo. Così, dolendosi dell’arrivo di “un potente bavaglio per la cronaca giudiziaria” (niente affatto impedita in caso di rilevanti ragioni di interesse pubblico), la giornalista osserva come “prima faceva figo arrestare mafiosi e tangentisti, adesso fa figo dire che tutti, anche costoro, sono sempre presunti innocenti”. Fa figo. Come non bastasse, malgrado gli sforzi del Direttore di Questione Giustizia per evidenziare le buone ragioni della riforma, l’allieva del Prof. Canfora non demorde, ricordando al suo interlocutore (lo fa ad ogni intervista) che questi “è una toga rossa, quindi dovrebbe stare dalla parte degli onesti contro i presunti colpevoli che diventano accertati criminali”. È un mondo rovesciato quello della giornalista marchigiana, un posto dove tutto è più semplice: i rossi con gli onesti, con cattivi a prescindere che aspettano solo la bollinatura, che tanto serve a poco, anzi, chi se ne frega, tanto a noi ci garbano i pm. Le vacanze sono finite, ma c’è sempre tempo per un buon libro (La promessa). Il dirigente di polizia: “ero sempre più persuaso della sua colpevolezza, forse soltanto perché speravo di trovare finalmente il colpevole”. Il sindaco di Magendorf: “colpevole o innocente, ci deve essere ordine”. Perciò va catturato. (Dürrenmatt). Ma siccome non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire ed è aduso ad uniche fonti, la brava giornalista ancora lamenta che “quando il decreto diventa operativo giornalista e magistrato dovranno rinunciare alla libertà di espressione…dovremo metterci la casacca del presunto innocente e via andare”. La casacca. In disparte la risposta sul punto, su cui torneremo alla fine, c’è ancora spazio per altre amenità. In un crescente florilegio, l’invito a “scendere terra terra, verso noi umani” (umano, troppo umano), “perché io non capisco. C’è un pm che ha seguito un’indagine e che ha beccato il colpevole - oddio… sorry… il presunto colpevole - ma non può fare la conferenza stampa con la polizia perché la deve fare il suo capo… cioè mi faccia capire, qui arrestiamo uno, gli mettiamo le manette ai polsi, lo mandiamo in custodia cautelare, ma poi ai cittadini diciamo che comunque è innocente?...le sembra giusto punire disciplinarmente il magistrato che in pubblico vanta il suo lavoro?...si rende conto che giornalisticamente diventerà una guerra? Presunti articoli su presunti colpevoli, pardon…innocenti, su presunti fatti… così si sta decretando la morte degli scoop”. Difficile dire se prevalga lo sgomento o lo sdegno, se sia opportuno il sarcasmo o sia lecito attendersi che qualcuno spieghi a chi strappa la Costituzione ed ogni regola democratica che i processi si fanno in aula, non in caserma, che le manette dovrebbero mettersi il meno possibile, che per fare il proprio lavoro non è necessario vantarsi, che gli scoop (quando mai poi? Bastano i mattinali delle Questure) non ci interessano e non giustificano scempio di vite umane. Io proprio non ce la faccio a restare indifferente; malgrado i buoni propositi estivi ed il tanto esercizio fisico, leggo questo strame del Diritto e ci perdo mezz’ora, con la speranza che prima o poi qualcuno comprenda realmente che non può farsi carriera sparandola grossa, che le regole che ci diamo e ci siamo dati hanno una ragion d’essere, che il processo è una cosa seria, che non ci sono Tribunali del Popolo. Invece ancora una cosa, su quanto detto dal Dott. Rossi (che ancora ringrazio per lo sforzo argomentativo). Sul punto delle motivazioni dei provvedimenti giudiziari, e tanto meno in materia cautelare, non vi sarà necessità di alcuna “acrobazia verbale o esercizi di ipocrisia argomentativa…del tipo questi sono i gravi indizi di colpevolezza del presunto non colpevole”. La scelta del paradosso fa sempre effetto, ma poi ci sono le norme, e l’art.115 bis, che si vorrebbe inserire nel codice di rito, prevede che l’autorità giudiziaria limiti i riferimenti alla colpevolezza dell’indagato o imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento. Tanto basta; ti arresto o ti condanno, e spiego perché. Non mi pare che serva altro, ché “il verosimile è terribile parola né giudizi criminali” (Storia della colonna infame). *Avvocato “Giù le mani, le manette facili sono sacre”. La crociata dei pm di Nicola Quatrano Il Dubbio, 4 settembre 2021 Crociata interessata dei pm contro il referendum. Dietro il no al referendum sulla custodia cautelare c’è la difesa del solo modello di giustizia che la magistratura penale sembra in grado di offrire. Così il carcere preventivo, di cui il quesito referendario vorrebbe limitare l’abuso, maschera i fallimenti del processo. Stando all’intensità del grido di dolore che negli ultimi giorni si è levato da parte di magistrati, ex magistrati, giornalisti al seguito e politici di scorta, a proposito dei rischi per la pubblica incolumità che deriverebbero dall’eventuale approvazione del quesito referendario sulla custodia cautelare, parrebbe proprio che questa sia diventata l’ultima trincea nella quale i Giapponesi del “sistema Palamara” intendano difendere fino alla morte l’iniquo e inefficiente sistema giudiziario che ci è toccato. Sia subito chiaro: non è vero che l’approvazione del quesito comporterebbe rischi per l’incolumità delle persone. Il SI non abolisce le esigenze cautelari connesse al pericolo di fuga, né quelle relative al possibile inquinamento probatorio. Consente di continuare ad arrestare terroristi e mafiosi, e tutti quelli che potrebbero commettere delitti di violenza sulle persone o con uso di armi. Restano inoltre intoccate le attuali norme sull’arresto in flagranza. Dunque non dice il vero chi paventa il rischio di un’impennata dei femminicidi o di altri crimini violenti, perché l’unica ipotesi che il SI abrogherebbe è quella che riguarda il pericolo di commettere “delitti della stessa specie di quello per cui si procede”. È qui che si sono registrati i più gravi abusi di custodia cautelare, documentati dai tanti indennizzi per ingiusta detenzione liquidati ogni anno. La relazione ministeriale dell’aprile 2020 segnala, nel solo 2019, il pagamento da parte dello Stato della somma complessiva di 43.486.630 euro, a fronte di 1.000 istanze accolte. Dunque, in soli 12 mesi, ben 1000 persone sono state ingiustamente private della libertà. E sono solo una parte, perché i criteri adottati dalle Corti sono molto restrittivi. Anche il Parlamento ha più volte avvertito l’esigenza di limitare gli abusi: è sufficiente confrontare la formulazione dell’articolo 274, come era nella prima redazione del codice, con quella attuale, per constatare la notevole quantità di inserimenti e di aggiunte che hanno tentato di dare maggiore determinatezza ed eliminare estensioni abusive. Ma non si è mai riusciti ad ottenere risultati apprezzabili. Perché? Perché una Magistratura incapace di fare processi in tempi ragionevoli (quasi 4 anni la durata media di un processo in Italia, contro quella europea di 1 anno - dati del Consiglio d’Europa), ha bisogno di offrire in pasto alla pubblica opinione un surrogato di Giustizia, che è appunto quello della custodia cautelare. Si dirà che, in questo modo, si scaricano sulla Magistratura responsabilità che non sono solo sue, ma che discendono dall’inefficienza generale del sistema. Non è così. Intanto, l’organizzazione degli Uffici e la distribuzione delle risorse è affidata per la quasi totalità ai magistrati distaccati al Ministero della Giustizia. Inoltre, la causa principale dell’ingolfamento dei Tribunali è in quella obbligatorietà dell’azione penale difesa con le unghie e con i denti dalla corporazione dei magistrati. Infine, i tempi lunghi dipendono anche dal fatto che i Tribunali sono intasati da maxi-inchieste faraoniche (per i costi), bizantine (per l’inconcludenza delle ipotesi accusatorie) e bibliche (per i tempi necessari a tradurre le inchieste in sentenze). La più nota è quell’indagine su un’ordinaria vicenda di mazzette che ha occupato per anni le prime pagine con la pomposa etichetta di “Mafia Capitale”. Sono iniziative che impegnano mezzi colossali e producono pochi altri risultati, oltre quello di dare visibilità a chi le svolge. Pensate poi alla infinita tessitura di trame come quelle disvelate dalle chat di Palamara, tutto tempo sottratto al lavoro e ai processi. La Magistratura si è dunque dimostrata incapace di assolvere alla sua funzione istituzionale: fare i processi in tempi ragionevoli, assolvere gli innocenti e punire i colpevoli con sentenze definitive. In cambio arresta molto, e la custodia cautelare serve ad occultare una incapacità punitiva che sarebbe insostenibile per l’ordine sociale. Quindi, da anni, il sistema sanzionatorio legale, la cui funzione è punitiva (ma finalizzata al recupero sociale), è stato sostituito da un sistema “sanzionatorio reale”, che dispensa le uniche “punizioni” che si riescono a comminare in tempi ragionevoli, ammantandole da presunte esigenze preventive. Sanzioni non irrogate da un Giudice, nel contraddittorio delle parti, ma decise dal Pm. E da un Gip che sempre di più si caratterizza come uno strumento del Pm. Che la custodia cautelare sia solo una forma di punizione mascherata è dimostrato anche dalla sua irragionevolezza ontologica. Se si tratta di punire, infatti, 6 mesi, 1 anno o anno e mezzo di carcere costituiscono un tempo ragionevole. Ma se occorre evitare che un soggetto commetta altri delitti, non ha senso una durata determinata così breve. Più propriamente, bisognerebbe ricorrere ad altre misure specifiche, quelle appunto “di prevenzione”, senza contare che altre - più efficaci della custodia cautelare - potrebbero essere previste, come il licenziamento del funzionario corrotto in modo seriale o l’interdizione da certe funzioni. Alle prefiche che levano (interessate) grida di dolore, va detto quindi che la soluzione non può essere quella di lasciare le cose come stanno. Votare SI a tutti i referendum sulla giustizia aiuterà a rendere equo e civile il sistema penale. Un sistema che deve far seguire la punizione alla definizione di un processo. Nel quale la carcerazione non sia come le esecuzioni extragiudiziarie, decise il giovedì mattina nella Sala ovale, all’esito di alcun’altra procedura che non sia quella di premere un grilletto. Grazia al regista di “Spes contra Spem”: la lotta anti-mafia di Sergio Mattarella di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 settembre 2021 Quello scelto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella è senz’altro il modo migliore che si potesse immaginare per rendere vivida e non solo testimoniale la commemorazione dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso in un agguato mafioso insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro e all’agente della Polizia di Stato, Domenico Russo il 3 settembre del 1982. Il Capo dello Stato, che conosce il dolore dei familiari delle vittime - suo fratello Piersanti venne ucciso sempre da Cosa nostra nel 1980, mentre ricopriva il ruolo di presidente della Regione Sicilia - ha concesso la grazia parziale a due detenuti di cui uno è Ambrogio Luca Crespi, autore di docu-film condannato nel marzo scorso in via definitiva a sei anni di reclusione per concorso in associazione di stampo mafioso, per fatti commessi tra il 2010 e il 2012, anche se Crespi si è sempre dichiarato innocente. Il decreto per la concessione della grazia parziale è stato firmato anche per Francesca Picilli, condannata a dieci anni e sei mesi per omicidio preterintenzionale commesso nel 2012. Sergio Mattarella, che con questo gesto si allontana anni luce dal chiacchiericcio inconcludente della politica giustizialista affezionata allo status quo, ha disposto per Crespi la riduzione della pena di un anno e due mesi e per Picilli di quattro anni, in modo che ai due condannati “rimarrà da espiare - recita la nota del Quirinale - una pena non superiore a quattro anni di reclusione, limite che consente al Tribunale di sorveglianza l’applicabilità dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 dell’ordinamento penitenziario)”. Nell’accogliere la richiesta avanzata dalla moglie di Crespi, con il supporto di nove associazioni, Mattarella ha tenuto conto del giudizio del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha attestato l’”inesigibilità della rieducazione” per il regista che nel frattempo si è fatto testimone della lotta contro le mafie e per ultimo ha ideato e diretto il docu-film Spes contra Spem - Liberi dentro, sponsorizzato dall’associazione radicale Nessuno tocchi Caino, una sorta di manifesto contro l’ergastolo ostativo ma “senza buonismo né posizioni ideologiche”. Quella autorizzata da Mattarella a Crespi “è una grazia parziale che ha però un valore politico e simbolico enorme - commenta Sergio d’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, una delle associazioni che hanno avanzato l’istanza - se teniamo conto della storia e del vissuto di chi l’ha concessa: un Presidente che non aveva di certo abusato di questa sua prerogativa costituzionale (26 grazie, tutte per reati comuni, concesse fino al febbraio del 2015, a fronte - ad esempio - delle 6.095 di Pertini e delle 1.395 di Cossiga); il fratello di una vittima di mafia che grazia un condannato per concorso in associazione mafiosa”. “Il caso di Crespi è emblematico e sintetizza bene i motivi per i quali intendiamo proporre una nuova legge - aggiunge Elisabetta Zamparutti, già componente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura - al fine di restituire una speranza di vita a quei detenuti che nel corso del tempo maturano una condizione esistenziale in cui la pena perde ogni senso”. Piersanti Mattarella, quel delitto nella nebbia. Le anomalie dell’agguato di Miguel Gotor La Repubblica, 4 settembre 2021 L’accertamento compiuto su una targa ritrovata nel 1982 in un covo neo-fascista di Torino è molto importante perché dimostra l’integrità del reperto, che si pensava fosse stato distrutto nel 2004, come già sostenuto nel novembre 1989 dal giudice Gioacchino Natoli che lo aveva avuto tra le mani. Da ciò ne discende l’impossibilità che quella targa possa essere stata composta con residuati di targa rimasti nella disponibilità dei sicari di Piersanti Mattarella come prospettato dal magistrato Loris D’Ambrosio in un’importante relazione del settembre 1989, desecretata soltanto nel 2018. Questa constatazione costituisce un duro colpo a quanti continuano a sostenere la responsabilità dei Nar Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini nell’omicidio Mattarella, da cui entrambi sono stati assolti in via definitiva. Ciò nonostante, la questione dell’individuazione degli esecutori dell’omicidio Mattarella rimane aperta e non è di lana caprina. Infatti, per la giustizia italiana, quel delitto, ideato dai corleonesi, è come se poggiasse sul vuoto, divenendo sempre più etereo e vaporoso quanto più le indagini si avvicinano al livello dei suoi effettivi esecutori. La perdurante anomalia di questo “delitto eccellente” è tutta qui: in simili episodi, di solito, gli autori sono consegnati alla giustizia, mentre i mandanti rimangono avvolti nell’oscurità, ma in questo caso è avvenuto l’esatto contrario. Tuttavia, nel marzo 2016, il pentito Francesco Di Carlo ha indicato nel boss di Resuttana Nino Madonia il killer di Mattarella. Lo ha fatto a partire da una notevole somiglianza tra lui e l’identikit del sicario elaborato nell’imminenza del delitto sulla scorta di precise indicazioni fornite dalla moglie di Mattarella, ma sorprende che l’uomo non sia mai stato messo a confronto con la vedova. Così come stupisce che la magistratura abbia rinunciato a verificare tale accusa che implicherebbe di approfondire la natura “ibrida” del mandamento di Resuttana: crocevia corleonese del rapporto tra quella parte di servizi segreti e di polizia palermitana che giocava di sponda con la mafia e neo-fascisti come Pier Luigi Concutelli, in rapporto sin dai primi anni Settanta con il clan dei Madonia. Quel Concutelli che proprio Fioravanti provò più volte a liberare dal carcere, scendendo per questo a Palermo, per sua stessa ammissione, poi ritrattata, nei giorni dell’omicidio Mattarella. Secondo D’Ambrosio il delitto Mattarella non fu una esecuzione mafiosa classica e l’uso anche di un sicario esterno sarebbe stato funzionale a determinare un depistaggio di confusione. Il disorientamento investigativo scaturito, infatti, sarebbe tornato utile sia ai mafiosi sia ai mandanti nascosti, come peraltro è avvenuto, nel caso in cui le due entità avessero eccezionalmente agito in coabitazione per una pluralità di cause e interessi autonomi ma convergenti. Secondo D’Ambrosio, i Nar sarebbero serviti a soddisfare le esigenze strategiche di un omicidio politico occulto, celato sotto una causale mafiosa, dove abbiamo due coautori come mandanti (i corleonesi e un livello politico/criminale romano): per questo egli, a proposito del delitto Mattarella, ha parlato di un delitto di “politica mafiosa” in cui lo Stato e l’antistato convivono e si compenetrano. Anche Giovanni Falcone denunciò l’esistenza di “ibridi connubi”, ossia di un rapporto incestuoso tra le famiglie mafiose, le formazioni eversive neo-fasciste, i vertici della P2 e una parte degli apparati investigativi e della politica siciliana collusa con Cosa Nostra, resa forte dal rapporto di protezione con i suoi riferimenti nazionali. Per spiegare l’anomalia del delitto Mattarella bisogna continuare a guardare a Roma, ma per capire Roma è necessario continuare ad analizzare il delitto Mattarella, così da rispondere, anche quarant’anni dopo, a una elementare domanda di verità e di giustizia che interroga le dinamiche profonde del potere italiano. Nel farlo è bene tenere a mente una frase di Italo Calvino (annata 1974, ma il vino buono, si sa, migliora con gli anni): “Il piano eversivo fascista è certo un pericolo. Ma più insidiosa e concreta, perché già in atto, è l’instaurazione di un antistato che conviva stabilmente con la nostra democrazia, corrodendo i vertici del potere col ricatto, con le stragi, con i regolamenti dei conti” e, sei anni dopo, uccidendo un uomo come Mattarella, il quale si era messo in testa di combattere Cosa Nostra a casa sua, cioè in Italia, non a parole - come fanno tutti, anche i mafiosi, ovviamente - ma per davvero. La denuncia. Le case all’asta preda di usurai e mafiosi di Paolo Lambruschi Avvenire, 4 settembre 2021 Preoccupa l’avanzata della “pandemia sociale”. Il criminologo Di Gennaro: segnali di infiltrazione delle mafie Gualzetti (Caritas): una white list per chi acquista immobili all’asta. Allarme della Commissione antimafia su usura e aste giudiziarie. L’ultimo documento dell’organismo parlamentare sottolinea sia l’urgenza di proteggere le fasce più deboli della popolazione, che la crescente acquisizione da parte di realtà mafiose dei crediti in sofferenza e degli immobili sottostanti (sottraendoli alle famiglie sovra-indebitate). E conduce un’attenta analisi sul credito malavitoso e sull’usura proponendo soluzioni coraggiose. È l’ennesima denuncia che giunge dalle istituzioni dello Stato sui pericoli di infiltrazioni mafiose nell’economia e nel tessuto sociale sfilacciato dal Covid. La pandemia sociale sta facendo infatti scoppiare nell’ombra l’emergenza al Sud - dove grazie all’enorme liquidità da riciclare le mafie stanno tentando di creare servizi paralleli di welfare - come al Nord, dove nel mirino delle organizzazioni criminali sono finite soprattutto le imprese in crisi. L’allarme della Commissione è stato prontamente rilanciato dalla società civile. L’impoverimento di tanti lavoratori dipendenti e piccoli imprenditori ha spinto infatti la Caritas Ambrosiana, le fondazioni antiusura e l’Università Cattolica a promuovere diverse proposte legislative come una legge sul sovra-indebitamento simile a quella degli altri paesi europei, la possibilità di rinegoziare i mutui pur in situazioni di difficoltà, la proposta di istituire cartolarizzazioni sociali per salvare gli immobili pignorati alle famiglie. La Commissione ha rilevato come nel corso del 2020 le segnalazioni antiriciclaggio siano aumentate dell’11,1 per cento e a causa della pandemia il numero di segnalazioni di operazioni sospette ricevute dall’Unità di informazione finanziaria per l’Italia è cresciuto del 7 per cento rispetto al 2019, in modo particolare nel corso del secondo semestre dello scorso anno. Il deputato Paolo Lattanzio, componente della commissione, coordina il comitato che ha steso il testo, conferma la preoccupazione e sottolinea che è stato preso in esame finora il primo periodo della pandemia. “Vogliamo approfondire nei prossimi mesi l’aspetto delle aste giudiziarie perché sta diventando uno dei principali canali di riciclaggio. Ci sono giunte diverse segnalazioni sul particolare interesse di mafiosi ed evasori fiscali, spesso con la costituzione di società di comodo nei paradisi fiscali, per gli immobili sottostanti i crediti deteriorati”. Un settore che l’Università di Napoli Federico II e la Cattolica, in collaborazione con i tribunali napoletani e milanesi, stanno monitorando da tempo rilevando molte anomalie, come la presenza di prestanome e di reti. “Ma non è una novità. Se ci fu un intervento nel 1991 con la legge 203 lo si deve infatti alla presenza massiccia dei Casalesi con intimidazioni alle aste immobiliari e fallimentari - spiega il criminologo Giacomo Di Gennaro - mentre oggi si segnala l’interesse della ‘ndrangheta e delle ricostituite mafie siciliane. Il sistema normativo ne permette purtroppo la penetrazione e i magistrati accolgono spesso le azioni di notai e commercialisti senza approfondire. Questo è un campo che consente il riciclaggio. Con la distorsione delle organizzazioni criminale si effettua poi una macelleria sociale, dato che dopo la prima battitura d’asta il prezzo cala del 25% ed è interesse di chi acquista effettuarne altre”. Come intervenire? “Basterebbe coordinare le norme. Con una piccola variazione all’articolo 586 del Codice di procedura civile, ad esempio. Invece di lasciare alla discrezionalità del magistrato la sospensione dell’asta allorquando il valore dell’offerta si presenta al di sotto della soglia di accettabilità del valore di mercato, si obbliga il giudice a sospenderla. Basta cambiare la parola ‘può’ con ‘deve’“. Chi determina i valori? “Potrebbe essere l’agenzia delle entrate, che in una compravendita interviene se il valore dichiarato dell’immobile si ritiene sottostimato”. Ultimo passo, che ha attirato l’attenzione della Commissione antimafia, accertare le provenienze dei capitali con un database nazionale dei partecipanti alle aste. Le esecuzioni immobiliari aste e il sovra-indebitamento sono strettamente legate all’usura che, come ha scritto anche la Guardia di Finanza nel documento della Commissione antimafia, ‘matura in un contesto molto prossimo, se non proprio contiguo, ad ambienti riconducibili alla criminalità organizzata’. Proprio sul contrasto dell’usura il documento parlamentare interviene con proposte coraggiose, concrete e pratiche come l’introduzione del ‘codice rosso’, che prevede la possibilità di avere strutture dedicate in grado di intervenire con sollecitudine, ricevere le denunce e attivare le misure di prevenzione previste dalla normativa. Poi con un rifinanziamento adeguato del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime subordinando l’erogazione dei contributi alla nomina di un ‘tutor’ della vittima che la aiuti nell’impiego corretto delle somme. Tutte proposte che Avvenire aveva già ripreso. Il documento della Commissione arriva inoltre mentre riprende al Senato il dibattito sui contenuti della legge delega al Governo per l’efficienza del processo civile che può danneggiare i sovra-indebitati. Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana e presidente della Fondazione San Bernardino, l’ente antiusura promosso dalle diocesi lombarde si augura da un lato che il documento “ispiri i parlamentari che nei prossimi giorni dovranno approvare la Delega al Governo per l’efficienza del processo civile” e dall’altro che “li incoraggi, in particolare, a istituire un database degli acquirenti nelle aste immobiliari e fallimentari. Una white list degli acquirenti sarebbe certamente utile a prevenire l’intreccio sempre più inestricabile fra mafie, evasori fiscali, società anonime costituite nei paradisi fiscali, professionisti asserviti, prestanome che in questi anni ha inquinato il mercato delle aste immobiliari. Se realizzato consentirebbe anche un’attività preventiva per salvare le abitazioni di famiglia e scongiurare tanti drammi”. Quanto alle aste giudiziarie, il direttore dell’organismo diocesano di Milano chiede al Parlamento di “intervenire con coraggio per regolamentare diversamente il sistema e scongiurare drammi per migliaia di famiglie”. Le mani delle mafie sui beni all’asta: sì del governo alla proposta Pd-M5S di una banca dati di Conchita Sannino La Repubblica, 4 settembre 2021 Per combattere l’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore delle vendite giudiziarie, nascerà un “cervellone” collegato con la Direzione distrettuale antimafia. È stato e resta un formidabile territorio di caccia, per le mafie. Usurai e prestanome dei clan, con l’accesso alle aste giudiziarie, hanno portato a casa bottini immediati e facili. Un trend cresciuto nell’Italia della pandemia. Dati peggiorati a causa delle devastanti conseguenze economiche subìte da piccoli o grandi imprenditori, che hanno visto andare in malora i loro beni. Ecco perché l’antimafia istituzionale intende intervenire. E punta a portare a casa un’importante modifica normativa per restringere quelle maglie troppo larghe, grazie alle quali le cosche fanno shopping dei più disparati beni, da nord a sud. Il governo ha quindi accolto la proposta M5S-Pd che prevede, nell’ambito della riforma della giustizia civile, l’istituzione di una Banca dati che raccolga vari e nuovi elementi sulle aste giudiziarie. Un ‘cervellone’ a cui dovranno ovviamente potersi collegare Direzione nazionale antimafia e le 26 procure distrettuali. Quei dati saranno “utili” per consentire agli uffici giudiziari di monitorare un fenomeno che, lo dicono anche le ultime inchieste, è esposto e permeabile. Ed attrae capitali criminali da riciclare. Questo è il testo condiviso col governo: “Istituire presso il ministero della Giustizia la “Banca dati per le aste giudiziali” contenente i dati identificativi degli offerenti, i dati identificativi del conto bancario o postale utilizzato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, le relazioni di stima”. Ed ancora: “I dati identificativi degli offerenti, del conto e dell’intestatario dovranno essere messi a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria, civile e penale”. Per il senatore Pd Franco Mirabelli, da anni impegnato sul fronte delle politiche antimafia e delle criticità (anche della selezione politica) nell’azione di contrasto, “si tratta un fatto nuovo e importante”. Per Mirabelli, “possiamo contare in questo modo su una misura efficace di prevenzione e contrasto contro le mafie. Mettiamo a disposizione delle Procure un nuovo efficace strumento per impedire alle cosche, sempre più transnazionali, sempre più invisibili, di riciclare denaro sfruttando le aste pubbliche”. Lo Stato deve dare più soldi se è un politico a finire in carcere per errore di Manuela D’Alessandro agi.it, 4 settembre 2021 Lo ha stabilito la Cassazione sul caso di un ex vicensindaco dell’Isola d’Elba, assolto da tutte le accuse. Più soldi rispetto al semplice calcolo aritmetico basato sui giorni passati ingiustamente in carcere perché la sua carriera politica agli albori è stata compromessa e come medico ha perso parte dei suoi assistiti tenendo conto che la sua reputazione in una “realtà di piccole dimensioni” potrebbe essere stata compromessa in modo irreparabile. Lo ha deciso la Cassazione con una sentenza del 25 agosto letta dall’AGI in relazione alla vicenda di Enrico Niccolò Graziani, l’ex vicensindaco di Campo dell’Elba, piccolo Comune dell’isola toscana, detenuto dall’ottobre 2005 al febbraio 2006 con le accuse di concussione e abuso d’ufficio dalle quali è stato poi assolto ‘perché il fatto non sussiste’. L’assoluzione non basta a restituire la reputazione - I giudici hanno accolto il ricorso presentato dal suo legale, Filippo Castellaneta, annullando la decisione della Corte d’Appello di Firenze secondo la quale gli andava attribuita a titolo di equa riparazione ‘solo’ la somma di quasi 18mila euro sulla base del “mero calcolo aritmetico dell’ammontare giornaliero moltiplicato per i giorni di custodia cautelare”. Ma in questo caso, dicono gli ‘ermellini’, “la lesione è più grave rispetto alle normali conseguenze derivate da una ingiusta e incolpevole detenzione” perché la carcerazione ha provocato a Graziani “un impoverimento tale da modificare uno stile complessivo di vita”. L’assoluzione non basta, come sostenuto dai giudici d’appello, a risanare la reputazione tenendo presente “una serie di pregiudizi di rilevante natura economica, professionale e familiare (consistente perdita di numero degli assistiti, impossibilità di attendere ad obblighi assunti verso terzi) nonché la compromissione dell’avviata carriera politica”. La parola torna alla Corte d’Appello - Ai giudici fiorentini viene rimproverato di non avere affrontato “il tema della definitività o meno della reputazione derivante dall’applicazione di una misura custodiale in una realtà di piccole dimensioni, come quella in cui si è verificata la vicenda che ha coinvolto tutti gli aspetti della vita personale dell’interessato”. Il provvedimento della Corte d’Appello è stato annullato con rinvio per un nuovo giudizio che dovrà riformulare l’indennizzo per i danni subiti da Graziani. Sardegna. Un’estate molto “calda” per i penitenziari sardi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 settembre 2021 “Il mese di agosto ha fatto registrare in Sardegna un aumento dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, ristretti nei circuiti dell’Alta Sicurezza (AS)”. A riferirlo in una nota è Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. Rivela che primeggia ancora la Casa di Reclusione “Salvatore Soro” di Oristano- Massama, dove è stato superato il numero regolamentare dei posti disponibili. Sono infatti 263 per 259 posti (un mese fa erano 262). Si tratta prevalentemente di ergastolani in AS3. L’incremento maggiore di presenze però si è verificato nel carcere di Tempio Pausania dove in un mese i detenuti sono passati da 153 a 171 per 170 posti. Anche in questo caso il limite regolamentare è stato superato. Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” osserva che “complessivamente le persone private della libertà nelle strutture detentive sono passate in un mese da 1925 a 1961 (416 stranieri - pari al 21, 2%; 27 donne). Un dato particolarmente significativo per il perdurare della pandemia, con i trasferimenti ridotti all’osso, per il mese di agosto, periodo nel quale generalmente si ferma l’andirivieni di detenuti, e per il caldo afoso che ha messo a dura prova anche il personale”. Commentando i dati forniti dalla sezione statistica dell’Ufficio del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’esponente di Sdr osserva che “La situazione non è meno impegnativa a “Badu ‘ e Carros” dove sono reclusi, in regime di AS alcuni esponenti jihadisti e/ o fondamentalisti islamici. Nel carcere nuorese infatti risultano ristrette 276 persone per 375 posti ma in realtà è ancora chiusa, in attesa di ristrutturazione, una sezione detentiva di circa 90 posti con la conseguenza che le celle, anche in questa Casa Circondariale sono piene”. Sottolinea, inoltre, che non si può dimenticare la struttura di Sassari- Bancali dove è ristretta una novantina di detenuti al 41bis in un apposito Padiglione e si trova all’interno della mega struttura una sezione di Alta Sicurezza. Detenuti altrettanto “importanti”, circa una trentina, sono ristretti anche a Cagliari- Uta dove però i numeri dei ristretti sono, temporaneamente, meno pesanti (537 per 561 posti). “A far apparire “rosea” la situazione complessiva della Sardegna rispetto ad altre realtà della penisola (1.961 presenze per 2.605 posti) sono - osserva ancora Caligaris - le Colonie Penali quasi vuote. Le tre Case Circondariali all’aperto dispongono complessivamente di 613 posti ma ne risultano occupati solo 213 cioè appena un terzo. Tra tutte spicca Onanì - Mamone dove sono recluse 99 persone per 320 posti. Si tratta per lo più di stranieri che con 73 presenze rappresentano il 73,7% dei detenuti. Al secondo posto si colloca “Is Arenas” con 176 posti e 54 ristretti (37 stranieri - 68,5%) e infine Isili con 60 presenze (28 stranieri) per 117 posti”. Infine conclude: “È evidente che la situazione delle Colonie Penali è scandalosa. Da anni si parla di una loro valorizzazione per favorire il lavoro carcerario e il reintegro sociale dei detenuti, in realtà finora solo passerelle e uno stato di abbandono generale. Una vergogna anche per la tradizionale cultura agro- pastorale della nostra isola”. Firenze. Un’altra morte tra le sbarre dell’indifferenza di don Vincenzo Russo* Corriere Fiorentino, 4 settembre 2021 Del carcere si parla a volte nelle sedi istituzionali, a vari livelli. Ma è vano ed ipocrita interesse Chi conosce quei luoghi sa e si addolora. Degrado da ogni parte: degrado ambientale, strutturale, sociale, psicologico culturale. L’errore commesso condanna poveri a perdere ulteriormente ogni dignità e diritto, li toglie dalla strada per gettarli in un’altra, là dove non passa più quasi nessuno a tendere una mano, a consolare, ad interessarsi, a prendersi cura, a sostenere in un percorso di svolta e di nuovo inizio. Il povero diventa ancora più povero. Eh sì, perché quasi sempre sono loro ad essere ospitati fra quelle mura (chissà perché!?). Spesso si tratta, in grande parte, di coloro che sono stati attratti dal bagliore di una terra rigogliosa di accoglienza, di integrazione, dal cuore caldo e solidale, per raggiungere la quale hanno lasciato i propri luoghi ed affetti natii esponendosi a rischi incalcolabili. Ma cosa hanno ottenuto? Hanno tentato di sfuggire alla miseria, alla deprivazione, alla negazione dei diritti e delle libertà e hanno finito per non trovare nulla di ciò che si aspettavano. Nessuno, in molti casi, gli sta accanto per guidarli nel processo di integrazione. Facilmente si trovano soli, abbandonati a loro stessi, vittime delle contraddizioni della nostra società e delle proprie personali fragilità. Un disagio che li conduce spesso a varcare le porte di quei luoghi dove si scontano le pene e che diventano quasi l’unica soluzione che, per loro, lo Stato accogliente e democratico riesce ad organizzare. Poi, più nulla: nulla il loro esistere e nulla l’impegno per recuperare e far rifiorire le loro vite. Il disagio, materiale e più ancora psicologico che li ha accompagnati fino a lì qui si alimenta e cresce, determinando condizioni di allucinante sofferenza, favorita e cullata da un degrado strutturale, igienico ed ambientale che, in molti istituti di pena, è al limite, supera il limite delle condizioni immaginabili. Quelle sbarre diventano così sempre più strette, fino ad impedire l’accesso alla luce della speranza e a stritolare quelle povere esistenze, ponendo fine ad ogni ulteriore possibilità di vita, spesso anche solo fisica. Eppure di questi luoghi a voltesi parla, con toni di apparente attenzione e premura, anche nelle sedi istituzionali ai vari livelli di governo locale e nazionale. Ma è vano ed ipocrita interesse, a quanto sembra, non realmente finalizzato ad affrontare e risolvere concretamente i problemi. Il sangue che scorre gronda anche dalle mani, inevitabilmente e soprattutto di chi ha la responsabilità ed il dovere di amministrare la cosa pubblica, di chi può fare e non fa, di chi deve far rispettare la Costituzione mentre ignora tale altissimo compito. Sommersa da questa polvere dell’indifferenza, del consenso politico, dell’interesse di parte e del degrado umano e culturale che riguarda in genere la nostra società contemporanea, giace calpestata la Costituzione. La si declama, la si cita, la si sventola come presidio di civiltà conquistata e poi la si ignora nei fatti. Occorre una rivoluzione delle coscienze, una presa d’atto consapevole da parte di ognuno di noi perché chi è in grado di fare qualcosa sia tenuto a farlo. Occorre far riesplodere in tutta la sua forma dirompente la meravigliosa umanità di don Milani riassunta in quel care (mi interessa) che è in grado di sconfiggere ogni negazionismo, indifferenza ed egoismo. Quante altre volte dovremo assistere ancora impotenti ad una vita stritolata tra le sbarre? Per quanto ancora queste dovranno soffocare e non semplicemente dividere per un po’ per poi riunire per sempre? Soprattutto, quanto, di esse, deve essere rappresentazione di malvagità, indifferenza, abbandono proprio da parte di chi è incaricato di prendersi cura, rieducare, accompagnare? Dietro a quelle sbarre la morsa si stringe e diventa soffocante. Ogni giorno che passa è una nuova alba che illumina un tempo in cui la fievole speranza si fa sempre di più piccolo lume. Ma quella fiammella non può e non deve spengersi! A vari livelli, ma in generale di tutti noi, la responsabilità e il compito di cambiare le cose. Perché anche oltre quelle sbarre la vita, la dignità e la persona umana devono trionfare. *Cappellano di Sollicciano Firenze. L’autopsia esclude violenze. Si dovrà accertare se ci siano stati ritardi nei soccorsi di Valentina Marotta e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 settembre 2021 La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, a carico di ignoti, per la morte del detenuto tunisino avvenuta la sera del primo settembre. L’uomo, 43 anni, è stato trovato con la testa incastrata nella fessura per passare le vivande. Il pm Giacomo Pestelli dovrà accertare le cause della morte e se i soccorsi siano stati tempestivi. Ieri una prima risposta è arrivata dall’autopsia eseguita dalla dottoressa Rossella Grifoni. L’uomo, morto per arresto cardiocircolatorio, non ha subito alcuna aggressione: non ci sono segni sul collo e sulle braccia. La morte sarebbe quindi sopraggiunta a causa di un malore o per un movimento errato mentre cercava di liberarsi dalla morsa delle sbarre. Non si esclude che il malore possa essere collegato all’assunzione di droga ma per escluderlo bisognerà attendere i risultati dell’esame tossicologico che saranno depositati tra 60 giorni. Resta aperta anche l’ipotesi del suicidio. In passato, l’uomo aveva messo in atto gesti autolesionisti. Possibile quindi che anche l’ultimo sia stato un episodio a carattere dimostrativo finito nel peggiore dei modi. La Procura non potrà fare affidamento sui video delle telecamere di sorveglianza perché non sono puntate sulle celle. Preziose per la ricostruzione della tragica fine del detenuto saranno le testimonianze di detenuti, agenti e sanitari. Il tunisino doveva scontare una condanna definitiva per rapina: sarebbe uscito nel 2026. L’altra sera era in una cella della sezione transito, in isolamento perché scontava una sanzione disciplinare per varie infrazioni al regolamento carcerario. Si sarebbe affacciato dallo spioncino, prassi comune tra i detenuti per comunicare. Il primo a dare l’allarme è stato un altro detenuto tunisino nella cella di fianco. Ha sentito i gemiti del compagno e ha lanciato un grido indirizzato agli agenti penitenziari, che però in quel momento erano impegnati con le proteste di un altro recluso che aveva distrutto il muro della cella. E così, quando gli agenti (e poi il medico) sono accorsi, era ormai troppo tardi. Intanto il sindaco Dario Nardella è tornato sul tema della ricostruzione del carcere fiorentino: “Era il 15 agosto 2019 quando, dopo averlo visitato, ho detto che Sollicciano andava raso al suolo e completamente ricostruito. Non c’è più tempo da perdere: occorre un piano strutturale, un direttore stabile, servono interventi contro il sovraffollamento. Sollicciano è una priorità, anche se del carcere si parla poco perché si pensa che non riguardi la società, quando invece la mancata rieducazione è uno costo sociale ed economico. Gli spazi angusti di Sollicciano non permettono neppure le politiche di reinserimento, come denunciato più volte dai garanti dei detenuti”. Giovedì, prima della notizia della morte del tunisino, il sindaco aveva scritto alla ministra della giustizia Marta Cartabia per invitarla a Sollicciano: “Ha risposto che si sta attivando per farlo”. Trani. Detenuto morto in cella: aperto fascicolo di inchiesta e disposta autopsia di Giovanni Di Benedetto norbaonline.it, 4 settembre 2021 Secondo i medici le sue condizioni di salute non sarebbero state compatibili con il regime carcerario. Un uomo di 41 anni, Fedele Bizzoca, originario di Barletta, è morto questo pomeriggio in una cella del carcere di Trani dove era detenuto. Si tratterebbe di un decesso per arresto cardiocircolatorio, ma il magistrato di turno della procura di Trani ha comunque aperto un fascicolo di inchiesta e disposto l’autopsia per sciogliere ogni dubbio. Da quanto emerge il 42enne, che stava scontando una condanna per spaccio di stupefacenti, era da tempo gravemente malato e le sue condizioni di salute, secondo i medici che lo avevano visitato, non sarebbero state compatibili con il regime carcerario. Da fonti interne alla Casa circondariale fanno sapere che più volte la direzione aveva fatto presente la situazione, lo stesso il magistrato di sorveglianza, ma non si era riusciti ancora a trovare una struttura idonea per curare la patologia di cui soffriva il soggetto. Che dunque era rimasto rinchiuso in attesa di una sistemazione idonea, anche fuori regione. Del caso si era interessato anche il garante nazionale per i diritti delle persone detenute. Ferrara. Dopo il suicida in carcere un altro detenuto tenta di togliersi la vita in cella di Daniele Predieri La Nuova Ferrara, 4 settembre 2021 La procura apre inchiesta sulla morte del ragazzo centese arrestato. E l’altra notte straniero salvato dagli agenti di Polizia penitenziaria. Mercoledì pomeriggio la morte del giovane centese di 29 anni che si è tolto la vita a 24 ore dall’arresto per droga, soldi e armi. Nella serata di mercoledì, poche ore dopo, un altro tentativo di suicidio, rimasto tale grazie al pronto intervento di un agente della Polizia penitenziaria. Succede all’interno del carcere cittadino dell’Arginone, e riaccende domande, dubbi e polemiche tra sindacati e polizia penitenziaria sui problemi ormai cronici del carcere cittadino, pressoché presenti in tutte le carceri italiane: sovraffollamento, difficoltà di gestione dei nuovi detenuti e degli stranieri, spesso al centro di azioni di provocazione e tentativi di suicidio “dimostrativi” per ottenere trasferimenti o benefici. Per quanto riguarda gli ultimi due fatti, soprattutto per il suicidio del giovane centese che si è tolto la vita in cella dopo 24 dall’arresto, la procura ha aperto un’inchiesta e come spiegava ieri dalla sede degli uffici giudiziari “l’indagine vuole accertare nel dettaglio le fasi dell’arresto e della detenzione senza tralasciare nulla”. Perché i dubbi restano, purtroppo, sulla tragedia, e riguardano proprio la decisione di trasferire in carcere il ragazzo che - da quanto si appreso e come aveva riferito la stessa madre durante la perquisizione in casa che poi ha portato in carcere il figlio - aveva già manifestato intenti suicidi per motivi sentimentali. Come del resto si è poi scoperto da una lettera scritta dal giovane dalla cella, poi ritrovata dopo la scoperta della tragedia. Occorre ribadire che tuttavia nelle fasi dell’arresto e della detenzione (in attesa della verifica davanti al giudice, - udienza convalida arresto e processo per direttissima che si sarebbe dovuta svolgere, ma non è stato possibile visto il suicidio), non c’era nessun segnale che potesse far pensare alla tragedia poi accaduta: su tutto questo dovrà fare chiarezza l’inchiesta seguita dalla pm Ombretta Volta. Per quanto riguarda l’altro detenuto, un 30enne straniero, definitivo, poco prima della mezzanotte di mercoledì è scattato l’allarme dalla sua cella, per aver tentato di togliersi la vita soffocandosi. Per fortuna, dicevamo, il controllo degli agenti di Polizia penitenziaria di turno hanno scongiurato la possibile doppia tragedia in un giorno: quindi il detenuto è stato soccorso e trasferito al Sant’Anna dai sanitari del 118 intervenuti in carcere. Ora sulle tensioni e il malessere che regna in carcere si interrogano i sindacati di polizia e chiedono risposte alla direzione. Santa Maria Capua Vetere. La pena è solo punizione: mancano spazi e attività di Viviana Lanza Il Dubbio Che carcere è quello di Santa Maria Capua Vetere due mesi dopo la svolta nelle indagini sui pestaggi subiti dai detenuti nell’aprile 2020 e dopo la visita del premier Mario Draghi e della ministra della Giustizia Marta Cartabia? Come si vive nelle celle dell’orrore e in quelle degli altri reparti? Che segni ha lasciato la pandemia e tutto quello che è accaduto? Che significato ha lì la pena? L’Osservatorio regionale dell’associazione Antigone, a fine luglio, ha compiuto un viaggio nell’istituto di pena casertano e nei giorni scorsi ha diffuso la relazione. L’attenzione si è concentrata sulla vita all’interno della struttura che, sebbene sia tra le più recenti del panorama penitenziario campano (risale al 1996), ha molte criticità. Due su tutte: manca una rete idrica (dopo decenni di attesa si è parlato nei mesi scorsi del via ai lavori) ed è molto vicina a un impianto di trattamento dei rifiuti solidi urbani. I fatti di aprile 2020, con tutte le conseguenze giudiziarie che ne sono derivate, hanno inevitabilmente lasciato un ulteriore segno. E così il carcere di Santa Maria Capua Vetere, con i suoi circa 900 reclusi, è apparso come un luogo alla ricerca di un nuovo equilibrio, in camino verso un difficile ritorno alla “normalità” se di normalità si può davvero parlare. “Come per ogni altra struttura detentiva del Paese, la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ha subìto una rimodulazione di spazi e prassi interne in conseguenza dell’epidemia di Covid caratterizzata da un generale irrigidimento delle misure e una compressione ulteriore delle libertà della popolazione detenuta”, sottolineano Paolo Conte, avvocato penalista, e Marco Colacurci, ricercatore in Diritto penale presso l’università Vanvitelli, entrambi componenti dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone per la Campania. “È evidente - aggiungono - che ogni tentativo di analisi del fenomeno debba necessariamente fare i conti con i gravi fatti occorsi il 6 aprile 2020, tornati prepotentemente al centro del dibattito pubblico del Paese”. “In tale scenario - osservano - tentare di tracciare il confine tra gli strascichi degli eventi del 6 aprile 2020 e le conseguenze “ordinarie” della pandemia, già di per sé discrezionali e disorganiche in tutto il Paese, è operazione particolarmente problematica”. L’istituto di Santa Maria Capua Vetere è risultato tra quelli che in Campania “sta incontrando maggiori difficoltà al ripristino di una quotidianità detentiva pre-pandemia”. A eccezione di poche sezioni, i reparti che prima della pandemia erano in regime di celle aperte sono stati convertiti, sin da aprile 2020, al regime di celle chiuse, i passeggi e la socialità sono stati riorganizzati sulla base di un sistema di turnazione e gruppi ristretti di detenuti, mentre i colloqui in presenza sono stati da mesi ripristinati anche se molti detenuti continuano a optare per le videochiamate. “Nonostante si registri una lenta ripresa delle attività trattamentali - affermano i componenti dell’Osservatorio di Antigone nella relazione sulla loro visita nel carcere sammaritano - le persone detenute sono state costrette a fare ritorno al triste passato di un regime esclusivamente custodiale dove l’ozio forzato in spazi angusti e sovraffollati, la sospensione di attività culturali e lavorative, la forzata assenza di educatori già in grave carenza di organico e in rotazione per smart-working e la limitazione dei contatti con gli affetti familiari è probabilmente concausa del cospicuo aumento di suicidi e atti di autolesionismo, di aggressioni nei confronti di altri detenuti e del personale di polizia penitenziaria, di scioperi della fame, di provvedimenti di isolamento disciplinare”. Ed ecco che a Santa Maria Capua Vetere il ritorno alla normalità appare più lento che altrove e la pena sembra convergere verso una prospettiva “assolutamente distante - concludono i rappresentanti di Antigone - da qualsiasi prospettiva risocializzante e compatibile con il dettato costituzionale”. Napoli. Detenuto a 84 anni, Ciambriello invoca i domiciliari ottopagine.it, 4 settembre 2021 L’appello del Garante dopo la visita presso l’Istituto penitenziario di Poggioreale. A seguito della visita effettuata in mattinata presso l’Istituto penitenziario di Poggioreale, il Garante Campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, ha denunciato “le distorsioni del sistema giustizia per due casi di detenuti che ha avuto modo di incontrare oggi al Reparto San Paolo”. Il primo caso riguarda caso “Marrandino G. di 84 anni, nato a Salerno e accusato di usura. Quest’ultimo, infatti, giace inerme nel proprio letto nel centro clinico interno all’Istituto, affetto da vasculopatia cerebrale cronica, insufficienza renale, e reduce da un’operazione al femore presso l’Ospedale Cardarelli in seguito ad una caduta, attualmente assistito solo da un piantone in quanto assolutamente non autonomo. Nella piena consapevolezza che la giustizia debba fare il suo corso - ha sottolineato Ciambriello - nell’accertamento delle responsabilità del detenuto e per le gravi accuse, ritengo che a 84 anni, con un tale quadro clinico, sia necessario ricorrere agli arresti domiciliari con braccialetto, o l’arresto presso una struttura sanitaria che consenta di prestare le cure adeguate a un soggetto così anziano per cui anche la vicinanza dei familiari in grado di poterlo assistere garantisce Il diritto alla tutela della salute e alla dignità. Ritengo infatti questi aspetti prioritari rispetto alle sirene populiste della sicurezza”. Il secondo caso riguarda un 43enne di Catania. “È in carcere, appellante, per reati associati al 416 bis, attualmente ristretto nel centro clinico, reparto San Paolo, poiché affetto da una grave forma di discopatia lombare, cardiopatia ipertensiva e altro. Dal 22 luglio viene dichiarato dal tribunale di Catania incompatibile con il sistema detentivo, e gli sono stati concessi gli arresti domiciliari con il dispositivo del braccialetto elettronico che attualmente non è disponibile, impedendo l’attuazione del provvedimento. Contribuisce a rendere la situazione ancor più paradossale il fatto che il detenuto, dal marzo 2021 non riesce ad accedere ai luoghi in cui si effettua il passeggio a causa della sua ridotta motilità”. Ciambriello, quindi, si è soffermato sull’assenza dei braccialetti elettronici, nonostante sia stata fatta una gara. “In questo anno di Covid diversi magistrati anche campani, si sono avvalsi dell’applicazione di questo strumento per gli arresti e per la detenzione domiciliare. Quest’inspiegabile ritardo, che tanto somiglia ad un “bluff”, finisce inevitabilmente per provocare un surplus di sofferenza che rappresenta una doppia pena per ristretti”. Bari. Giustizia, fra traslochi, Covid e rischio prescrizione inizia un nuovo autunno caldo di Isabella Maselli La Repubblica, 4 settembre 2021 La ripresa dei processi dopo la pausa estiva fa i conti con i nodi irrisolti, ma la nomina di un commissario di governo potrebbe accelerare l’iter per il nuovo Parco nelle ex casermette. Intanto parte degli uffici si prepara al trasferimento nella seconda torre di via Dioguardi ed è prorogata fino al 31 dicembre la limitazione all’accesso in aula causa Covid. Sarà per il quarto anno consecutivo un autunno di giustizia in parte sospesa per Bari. Dopo le tende nel 2018 e tre traslochi in due anni, dal 2020 il Covid ha contribuito a ostacolare una macchina della giustizia che a Bari era già stata sacrificata per via di una situazione strutturale assolutamente precaria. E fra qualche mese potrebbe programmarsi un quarto trasloco, nella seconda torre di via Dioguardi. Ma in questo scorcio d’estate 2021 c’è una nuova prospettiva: l’iter accelerato per il Parco della giustizia. E intanto riprende l’attività dopo la pausa estiva, pur mantenendo alcune limitazioni imposte dalla pandemia per poter garantire l’accesso agli uffici, sempre su appuntamento, e per la celebrazione delle udienze. Parco della giustizia - È sempre più concreta la realizzazione della futura sede degli uffici giudiziari baresi, dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri della norma che consentirà una accelerazione amministrativa, dando poteri straordinari al commissario e prevedendo che eventuali ricorsi al Tar non ostacolino progettazione e lavori. “Finalmente vediamo una attenzione che fa capire che questa volta le promesse potrebbero essere mantenute”, commenta il presidente della Camera penale di Bari, Guglielmo Starace. “Siamo soddisfatti - dice - mai fino a questo momento avevamo visto segnali così importanti e concreti”. “La scelta di affidare la gestione dell’edilizia giudiziaria barese a un commissario speciale è significativa di una presa di consapevolezza da parte delle istituzioni della gravità ed eccezionalità della situazione che stanno vivendo gli uffici giudiziari del capoluogo e potrà così consentire di offrire una soluzione concreta ed efficace in tempi ragionevoli ad un problema ormai improcrastinabile”, è il commento della giunta esecutiva distrettuale dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, di Bari. “Si confida dunque in una pronta e celere gestione della questione edilizia, che consegni alla cittadinanza un Polo della giustizia così a lungo atteso, adeguato alla mole e alla rilevanza dei procedimenti che quotidianamente vengono trattati nelle aule di giustizia del capoluogo”. Prosegue l’iter per raddoppiare le attuali sedi che provvisoriamente ospitano gli uffici penali di primo grado. Oltre ai dieci piani in via Dioguardi, già a partire dall’inizio del 2022 saranno a disposizione anche gli ulteriori 15 piani della attigua torre gemella ex Telecom. La richiesta dei capi degli uffici giudiziari baresi prevede che nell’attuale torre resterà il tribunale. E grazie ai piani che saranno liberati, verranno realizzate per le udienze più grandi (15 complessive rispetto alle attuali 14). Nei 15 piani della seconda torre si trasferiranno la Procura della Repubblica, la polizia giudiziaria, la Corte di assise (per la quale sarà realizzata al piano terra un’aula per le udienze) e il tribunale di sorveglianza. Nel palazzo di via Brigata, che ora ospita la polizia giudiziaria, si sposteranno da piazza Enrico De Nicola l’Unep e alcuni altri uffici e resteranno casellario giudiziario e sala intercettazioni. Dopo la comunicazione che è stata trasmessa al ministero, si è in attesa dell’ok definitivo al progetto e poi, entro fine anno, la realizzazione dei lavori. Sono state prorogate al 31 dicembre - il termine al momento previsto per lo stato di emergenza sanitaria - le limitazioni per l’accesso alle aule di udienza. I presidenti delle sezioni penali del tribunale hanno firmato ieri un nuovo provvedimento che, come novità rispetto alle regole in vigore fino a luglio, aumenta da 20 a 30 le udienze che si potranno celebrare dinanzi al tribunale monocratico e conferma la suddivisione per fasce orarie per evitare assembramenti, con pubblicazione del calendario di udienze almeno sette giorni prima. I processi più complessi di competenza collegiale, con molti imputati liberi e quindi con un numero di parti superiori alle capienze previste dalle norme anti-Covid per rispettare il distanziamento, continueranno a essere celebrati in ambienti video-collegati tra loro, nell’aula bunker di Bitonto o in quella della Corte di assise in piazza De Nicola, oltre ai casi eccezionali di location alternative: il caso emblematico è la Fiera del Levante, che ormai da diversi mesi ospita il processo sulla Banca Popolare di Bari (il 27 settembre c’è la nuova udienza). Le prigioni sono nate con la modernità, ma oggi sono molto antiche di David Romoli Il Riformista, 4 settembre 2021 Le porta la rivoluzione industriale, le inventano gli inglesi. In Italia arrivano nel 700, le costruiscono i Papi. La prima è il San Michele a Roma. Foucault diceva che l’urgenza di riformarle si afferma nel momento stesso nel quale nascono. Il carcere è un’invenzione recente, all’opposto di quel che suggerisce il senso comune. Appena due secoli fa la privazione della libertà non si era ancora davvero affermata come strumento punitivo eminente, e in molti Paesi unico, diffuso ovunque, a ogni latitudine e longitudine. Per la detenzione il discorso è diverso: quella in una certa misura c’è davvero sempre stata ma con funzioni diverse da quella punitiva. La prigione era un “luogo di transito” nel quale il condannato aspettava l’espiazione della pena corporale o pecuniaria, oppure dell’esilio e della “galera” propriamente detta, cioè l’imbarco forzato con funzioni di rematore. Essendo lo scopo della pena essenzialmente vendicativo ed essendo la stessa, a differenza che nell’antichità romana, decisa dal signore feudale, la spettacolarizzazione del supplizio, la messa in scena della punizione applicata con crudeltà teatrale sul corpo del condannato svolgevano una funzione essenziale. La prigione era tutt’al più necessaria, in coppia con la tortura, per estorcere una confessione considerata necessaria per la condanna. A metà del ‘500 l’avvio della Rivoluzione industriale innesca il lunghissimo processo di cambiamento che, nell’arco di tre secoli, porterà al dominio incontrastato dell’istituzione penitenziaria nell’amministrazione della giustizia. L’immenso esercito di vagabondi, mendicanti, briganti e senza tetto, le cui file si andavano ingrossando in seguito alla trasformazione dei processi produttivi, diventa oggetto di una vera persecuzione che dall’Inghilterra si allarga all’intera Europa occidentale. Perché, dunque, non rendere produttiva questa massa indocile che andava scoraggiata dalle abitudini vagabonde, rieducata ma anche adoperata? Nasce così nel 1557, nel palazzo di Bridewell, gentilmente concesso dal sovrano inglese, la prima Workhouse, nella quale vengono concentrati e messi al lavoro vagabondi, poveri e ragazzi abbandonati. La workhouse è il primo esperimento che apre la strada al moderno modello carcerario e trova la più compiuta applicazione nell’Olanda del XVIII secolo, non a caso la nazione nella quale il capitalismo era allora più moderno e sviluppato. L’evoluzione del sistema carcerario e quella del sistema capitalista industriale da un lato, della grande cultura illuminista borghese dall’altro, procedono con lo stesso passo. Si intrecciano, si potenziano vicendevolmente, rinviano di continuo l’una all’altra. Il modello delle workhouse è il convento, da cui riprende l’isolamento nelle celle e la parcellizzazione precisa e metodica dello spazio e del tempo. In Italia, infatti, la prima istituzione del genere nasce ne11704 su ordine dello stesso pontefice Clemente XI, nella casa di correzione del San Michele di Roma. Ma il passo più gigantesco verso la nascita del carcere viene mosso all’altra parte dell’Atlantico, negli Usa, alla fine del XVIII secolo. La definizione del moderno sistema penitenziario si realizza qui attraverso il confronto e lo scontro tra modelli diversi. Il sistema della “vita in comune’, basato sulla convinzione che solo tenendo insieme tutti i detenuti, in modo da sorvergliarli tutti e castigarli appena necessario, si potesse davvero controllarli. Quello opposto, detto “di Philadelphia”, perché nato nel carcere di quella città, che implicava l’isolamento costante del detenuto, che doveva pregare e lavorare in solitudine dal momento che ogni contatto tra elementi pericolosi e devianti avrebbe portato a un potenziamento reciproco delle perniciose tendenze. Il problema era qui l’alto numero di impazzimenti dovuti al totale isolamento, che porto allo sviluppo di un sistema alternativo m un certo scanso a metà ria i due estremi, sperimentato nel carcere di Auburn, nei pressi di New York City il metodo “auburniano” prevedeva l’isolamento notturno, nei pasti e nelle ore di riposo mentre il lavoro era svolto in comune ma con il divieto di comunicare. Il primo istituto di pena costruito in Europa su modello americano fu quello inglese di Pentonville, nel 1842, e si avvicinava maggiormente al sistema “philadelphiano”. Ogni contatto tra detenuti era proibito, i pasti venivano distribuiti singolarmente, i detenuti dovevano indossare una maschera quando lasciavano le celle. In generale, però, in Europa i sistemi americani vennero intrecciati e diversamente coniugati a seconda dei singoli Paesi e delle specifiche carceri. L’istituzione del carcere riflette la trasformazione di un’intera concezione della pena e della sua funzione, veicolata dalla rivoluzione borghese e dall’Illuminismo, che trova la sua compiuta espressione con il Dei delitti e delle pene di Cesare Beccarla, del 1764. Non si tratta più di esercitare la vendetta del signore o del sovrano ma di mettere il corpo sociale al riparo dall’aggressione del reo, dunque di punirlo ma anche di correggerlo in modo che non rappresenti più una minaccia. L’oggetto della punizione non è più il corpo del condannato, che anzi secondo la nuova morale borghese dovrebbe essere preservato e difeso, ma la sua anima, che deve essere trasformata e rieducata dalla pena stessa. Il Panopticon di Ieremy Bentham, del 1791, assolve a questa funzione un modello architettonico (che lo stesso Bentham sperimenterà tre anni dopo concretamente nella sua fabbrica facendoci lavorare proprio carcerati) nel quale un solo sorvegliante doveva essere in grado di controllare tutte le celle e tutti i detenuti, senza però essere visto da loro. Il compito di tenere sotto pressione, condizionare e rieducare non è più affidato al terrore dello scempio del corpo ma alla percezione di una sorveglianza permanente e non controllabile. Anche la visibilità della pena slitta. Non più esempio da ostentare per spaventare e avvertire, da mostrare per ammonire, ma sgradevole necessità da nascondere dietro mura spesse e quanto più invalicabili possibile. Con la prigione si afferma, nella teoria se non nella pratica, il principio della proporzionalità della pena al reato, che però già da subito si estende anche alla disponibilità del prigioniero a lasciarsi rieducare. Il comportamento in carcere diventa così misura che determina sia le condizioni della detenzione che la sua durata, in un percorso che viene coronato dalla legislazione premiale, dalla distribuzione oculata delle misure alternative. A partire dal 1872, i giuristi iniziano a porsi il problema del diritto penale applicato alle prigioni. Nel 1890 viene istituita una Commissione penitenziaria internazionale che sarà seguita ne11929 da una seconda Commissione internazionale penale e penitenziaria. Si occupano, entrambe, di definire un compiuto e codificato “diritto penitenziario”. Il modello che si costruisce sostanzialmente nel XIX secolo non verrà più modificato negli elementi costitutivi. Il problema della riforma delle carceri, che secondo Foucault nasce con l’istituzione stessa delle carceri, non riguarda, o non ha riguardato sinora, la natura o la finalità dell’istituto penitenziario ma solo la sua adesione a quel modello teorico essendo la realtà delle galere molto diversa, ancora oggi e tanto più nei due secoli scorsi, dalla teoria. Ma l’ipo tesi di non adoperare più la privazione della libertà come misura della pena quella ha appena cominciato, molto timidamente, ad affacciarsi. Tutti i diritti (e i doveri) nella lotta al coronavirus di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 4 settembre 2021 Molti problemi scaturiscono dalla mancanza di una legislazione dell’emergenza, che invece in altri Paesi esiste. Ma non era facile prevedere una ribellione contro il green pass. All’inizio della pandemia, benché non vi fossero comprovate ragioni scientifiche per ritenere che in un breve arco temporale si sarebbe potuto scoprire il vaccino per sconfiggerla, era già possibile intravedere lo spettro delle problematiche che la sua somministrazione avrebbe potuto determinare. Questioni organizzative in primo luogo dovute alla strutturazione della campagna vaccinale la quale, dopo le iniziali difficoltà, ha consentito la collocazione del nostro Paese all’apice della classifica europea per il numero di antidoti inoculati contro il coronavirus. Ma anche aspetti diciamo pure di tipo culturale che non eravamo preparati a fronteggiare. Certamente nessuno o comunque soltanto pochi potevano supporre che la questione avrebbe potuto assumere le attuali dimensioni di gravità, testimoniate dalle sempre più frequenti manifestazioni dei contrari ai vaccini, alcuni dei quali, una esigua ma non trascurabile minoranza, hanno messo in atto delle violenze che in alcuni casi da verbali sono diventate fisiche, fino a spingersi a minacciare l’interruzione di servizi pubblici essenziali come i trasporti. Le ragioni di forte ribellione contro il green pass, in larga misura condivise dal variegato mondo dell’antivaccinismo, sono indubbiamente composite anche se principalmente incentrate sulla ritenuta inaffidabilità ovvero pericolosità dell’assunzione del siero, la cui sperimentazione si sostiene sia avvenuta in tempi troppo brevi. In realtà l’ostilità verso i vaccini non è una novità assoluta poiché il fenomeno, se così possiamo definirlo, è sorto con la nascita dei vaccini stessi, tant’è che le prime tracce risalgono alla fine del 1700 quando il medico britannico Edward Jenner, considerato il padre dell’immunizzazione, iniettò il vaccino contro il vaiolo al figlio del suo giardiniere. Un evento che sollevò critiche trasversali sulla base di argomentazioni di carattere religioso e politico, prima ancora che scientifiche. Uno dei temi di opposizione di allora era l’origine animale del vaccino. Altri erano fondati sulla ritenuta limitazione di libertà soprattutto quando, negli anni a seguire, il governo britannico adottò politiche di vaccinazione obbligatoria. Pur tuttavia, ciò che sta avvenendo in questo difficile momento storico è in un certo qual modo più pericoloso poiché la sistematica violazione delle regole, il cui rispetto costituisce, almeno per ora, l’unica vera arma di contrasto all’insorgenza e alla diffusione della pandemia, potrebbe innescare un processo di decadenza e di disgregazione culturale che si ribalterebbe sullo Stato, minandone i principî fondanti della convivenza. Si potrebbe obiettare che una delle cause dei contrasti in atto sia la mancanza di disposizioni legislative a livello costituzionale, volte alla regolamentazione dei casi di emergenza come quello nel quale, nostro malgrado, siamo caduti da quasi due anni. Ciò avrebbe dato luogo alla serie ormai numerosa di provvedimenti governativi, per lo più decreti legge e Dpcm, che nel tentativo di far fronte all’emergenza sanitaria hanno determinato una rilevante contrazione di diritti. Tuttavia negli altri Paesi dove contrariamente al nostro esiste una legislazione dell’emergenza, come la Spagna, la Germania e la Francia, a ben vedere le cose non vanno molto diversamente. La questione deve quindi essere traslata su un altro piano, partendo da alcune conquiste culturali sia nel campo dei diritti che in quello della ricerca scientifica. Per quanto riguarda quest’ultima è importante considerare che seppure con fatica si è gradualmente giunti a riconoscerne il rilievo costituzionale, sul presupposto che la stessa oltre che strumentale alla realizzazione del benessere della persona, tutelato come un valore assoluto, è posta anche a garanzia delle regole a difesa della salute. Ciò ne ha determinato la qualificazione di principio costituzionale che, in quanto tale, deve essere doverosamente rispettato dallo Stato e dai cittadini. Per quanto riguarda i diritti, in primo luogo quello inviolabile di libertà, non si può prescindere dal considerare che gli stessi devono coesistere in un rapporto di pieno bilanciamento con i doveri inderogabili imposti dalla Costituzione, innanzitutto quello di solidarietà, in forza e nel rispetto dei quali tutti devono farsi carico di una parte dei bisogni degli altri, accettando anche una possibile limitazione di propri diritti. Solidarietà tra esseri umani. Si superano soltanto così schiavismo e immigrazione di Roberto Saviano Corriere della Sera, 4 settembre 2021 Nella foto di questa settimana ho pensato di mostrarvi la cosiddetta Porta del Non Ritorno. Si trova in Senegal, sull’isola di Gorée, nell’Oceano Atlantico. Chiamata anche Porta dell’Inferno, ha permesso di costruire l’America: uomini e donne venivano prelevati con la forza, “esaminati” e deportati come schiavi. La Porta del Non Ritorno, la Porta dell’Inferno, la porta che dal Senegal, dall’Isola di Gorée, ha permesso, letteralmente, di costruire l’America. Uomini e donne prelevati con la forza, costretti a emigrare se sani, condannati a morire se deboli. Crani presi tra le mani, tastati per valutarne la resistenza, rivoltati per analizzarne la dentatura: “Sì, questo va bene, lo predo, quanto costa?”. Per 300 anni l’Africa è stata riserva di schiavitù, oltre che di materie prime. Trecento anni che non si cancellano con i nostri buoni propositi. Terra rossa, rossa come le mura che fanno da cornice alla porta del non ritorno. Terra ricca, ricca di oro e bauxite, ricca di ferro. Ma a lavorarla solo mani e strumenti rudimentali. E parlo di oggi, non di venti, cinquanta o cento anni fa. Solo picconi, oggi, e secchi, e pozzi scavati da braccia. Le braccia sono quelle di uomini e donne che, se potessero, si formerebbero per costruire ciò che nel loro Paese manca, ciò che talvolta l’associazionismo porta sotto forma di aiuto, ma non per tutti. Macchine agricole servono, attrezzature per estrarre minerali, non armi. Pace serve e non guerra. Non una politica bellicosa e corrotta, non rivalità tra bande, ma cooperazione. Mani nella terra rossa, così inizia Redemption Song, documentario sull’immigrazione di Cristina Mantis, andato in onda di recente su Raistoria e che vi consiglio di rivedere su Raiplay. È un documentario di qualche anno fa, ma racconta esattamente quello che accade adesso, non solo in Africa ma ovunque non ci sia democrazia. Un documentario rivolto non solo a noi europei, questa volta, ma a chi magari, proprio in questo momento, sta decidendo di partire affrontando l’inferno libico e le insidie del Mediterraneo. E l’assunto non è: non partite perché dall’altra parte del Mediterraneo non c’è nulla per voi. Ma provate a non partire e a pretendere che qui la politica si occupi di voi. Facile a dirsi, difficile a farsi, in una terra schiava per oltre 300 anni, dove la retorica dell’esportazione della democrazia ha prodotto solo danni ulteriori. Dove la storia è sempre quella raccontata dal vincitore, che non dirà mai di come, ancora durante la Seconda guerra mondiale, abbia prelevato senegalesi per renderli miliziani contro l’avanzata dell’esercito hitleriano. Come si ferma l’emorragia, con una vena recisa in profondità e di continuo? Come si ferma l’emorragia dell’Africa? Come, se non troviamo ricette neppure per l’Italia, dove c’è democrazia, elettricità e acqua potabile? Che significa “esportare la democrazia” ora che - e l’Afghanistan lo ha reso evidente - sappiamo che dicevano “democrazia” ma intendevano “armi”? Il protagonista di Redemption Song è Aboubakar Cissoko, una sorta di Ulisse che dopo esser partito dalla Guinea per l’Italia, torna a casa per trovare le cose assai peggiorate. Continua il viaggio sino in Brasile, per trovare le comunità discendenti dagli africani che scappavano dalla schiavitù. E allora tracciamo questa lunga linea che dalla Guinea, attraverso il Mediterraneo, arriva in Italia per tornare in Guinea e ripartire per l’America Latina. Un’unica linea che dimostra come tutto sia collegato, come ciò che accade in Africa produca effetti sulla vita di chi abita finanche a migliaia di chilometri. E ci rendiamo conto che un modo perché il sangue coaguli esiste, ma è un percorso lento fatto di consapevolezza. E si chiama solidarietà. Michail Bakunin era figlio di un aristocratico, sui social gli direbbero: sei ricco, non puoi parlare. Ma Bakunin, come si sa, partecipò ai moti europei del 1848, fu estradato in Russia, fatto prigioniero. Dopo sei anni ottenne la grazia, che consistette nella deportazione in Siberia da dove scapperà. Ecco che Bakunin, nato ricco, anche agli occhi di un moderno leone da tastiera si sarà guadagnato forse la possibilità di parola. Perché cito Bakunin? Perché individua nella solidarietà la chiave di tutto. “Nessun individuo - scrive - può riconoscere la sua propria umanità né per conseguenza realizzarla nella sua vita, se non riconoscendola negli altri e cooperando alla sua realizzazione per gli altri. Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando con lui tutti gli uomini che lo circondano. La mia libertà è la libertà di tutti, poiché io non sono realmente libero, libero non solo nell’idea ma anche nel fatto, se non quando la mia libertà e il mio diritto trovano la loro conferma e la loro sanzione nella libertà e nel diritto di tutti gli uomini miei uguali”. Stati Uniti. In carcere da innocente per 26 anni, ma per la legge deve chiedere perdono di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 4 settembre 2021 È l’11 febbraio 1994, sono le 21.30, un uomo, George Radcliffe, viene ucciso con un colpo di pistola a Grenville, Carolina del nord. La polizia indaga brevemente e in carcere finisce un ragazzo afroamericano di 18 anni, Dontae Sharpe. La sentenza comminata a seguito del processo è implacabile: ergastolo. Da questo momento in poi per Sharpe inizia un calvario giudiziario che durerà fino al 2019 quando viene scarcerato. Il ragazzo ha sempre sostenuto la sua innocenza e nel corso degli anni è emerso che l’accusa si è basata su testimonianze ritrattate o inattendibili e che uno degli investigatori ha tentato di incastrare Sharpe ad ogni costo. Liberato nel 2019 Sharpe ha iniziato una dura battaglia per ottenere quella che per la Costituzione dello Stato della Carolina del nord è il cosiddetto “perdono d’innocenza”. Il governatore, in questo caso Roy Cooper, ha la facoltà di decidere per tre tipi di “grazia”: perdono semplice, d’innocenza e incondizionata. Senza questo tipo di atto, nonostante la fine della detenzione durata più di un quarto di secolo, Sharpe non può riscuotere i 50mila dollari all’anno (per un massimo di 750mila) che fungono da risarcimento per l’ingiusta detenzione, così come non possono essere distrutte le false prove a suo carico e il dna raccolto durante l’indagine. Il caso dunque travalica le normali procedure giudiziarie ed assume il carattere di una vendetta da parte di una giustizia che non ammette di aver sbagliato o che forse fin dall’inizio è stata viziata da pregiudizio razziale. Una petizione per il “perdono d’innocenza” infatti è stata consegnata dalle organizzazioni che sostengono Sharpe (Naacp, Forward Justice) nel 2019 ma ancora il governatore non ha voluto esprimersi. Nonostante il caso Floyd e gli altri venuti alla ribalta la strada per un corretto comportamento di giudici e giurie è ancora in salita. D’altro canto recenti dati forniti dal Registro nazionale delle scarcerazioni dimostrano che gli afroamericani costituiscono solo il 13% della popolazione statunitense, ma sono il 47% delle 1.900 scarcerazioni annue per ingiusta detenzione. Solo il 15% circa degli omicidi da parte di afroamericani coinvolge vittime bianche, ma il 31% dei “neri” scagionati per omicidio è stato condannato per aver ucciso persone bianche. Un afroamericano per vedere riconosciuta la sua innocenza deve aspettare 14 anni di media, un bianco 11. La condanna di Sharpe era stata quasi preordinata: una delle testimoni oculari, Charlene Johnson all’epoca tredicenne, inizialmente si rifiutò di venire al processo e testimoniare; la polizia l’ha arrestata e portata in tribunale perché tossicodipendente. La Johnson però ritrattò e anni dopo ammise di aver ricevuto 500 dollari per il suo racconto dimostratosi ampiamente falso fin nei minimi dettagli. Un’altra testimone, Beatrice Stokes, aveva affermato di aver visto una rissa e poi la scintilla scaturita da una pistola. Si è fermata prima di dire che Sharpe aveva sparato un colpo e non l’ha mai identificato come l’assassino. Anch’essa era una tossicodipendente quasi certamente sotto l’effetto di sostanze al momento dell’episodio e allo stesso modo ha sconfessato le sue parole seppure dopo 20 anni grazie ad un investigatore assunto dalla difesa dell’accusato. Tra l’altro la Polizia, incredibilmente, non ha mai trascritto i suoi interrogatori. Insomma nessuna prova fisica collegava Sharpe all’omicidio ma nonostante ciò fu condannato all’ergastolo. Particolarmente opaca è poi la figura del detective Ricky Best che fin da subito ha assunto un ruolo “paterno” nei confronti della testimone Johnson preoccupandosi per lei e la sua famiglia anche in termini economici. Al momento della ritrattazione la ragazza ha affermato che Best avrebbe più volte detto: “Non posso prenderlo per droga, ma posso prenderlo per omicidio”. Inoltre è anche apparsa l’evidenza che la Polizia non ha voluto ascoltare chi ha riferito di altri possibili sospetti o persone che potevano fornire alibi al ragazzo. Negli anni successivi alla condanna, sul caso è stata prodotta anche una mini serie, un legal drama titolato Appello finale”, tanto da suscitare l’interesse di diversi avvocati impegnati per i diritti civili tra cui quelli della Wrongful Convictions Clinic della Duke Law School e l’Innocence Project, i cui sforzi hanno portato un giudice federale a ritenere innocente il loro cliente nel 2010. Ma poco dopo, senza spiegazioni la decisione è stata annullata dalla Corte di Appello del 4th US Circuit e Sharpe è così rimasto in carcere fino al 2019, fino al momento in cui la dottoressa Mary Gilliland, un ex medico legale che aveva partecipato al processo cambiò la sua precedente perizia balistica sul tragitto del proiettile che aveva ucciso Radcliffe. Libia. Il mistero dei filmati dalle motovedette che l’Ue ora nega di avere mai ricevuto di Nello Scavo Avvenire, 4 settembre 2021 L’Ue aveva fornito microcamere ai natanti libici per monitorare gli interventi. Ad “Avvenire” Bruxelles assicura che i video non sono mai arrivati. Ma è cosi? Nuove rivelazioni sul ruolo dell’Italia. Doveva essere la principale rassicurazione: i filmati con tutti gli interventi della guardia costiera libica. Video che avrebbero dovuto confermare le capacità operative e il rispetto dei diritti umani. Senza quei riscontri l’Unione europea non avrebbe più finanziato l’addestramento dei guardacoste libici. Invece, “nessun file video è stato ricevuto dall’operazione Eunavformed Sophia”. Circa un mese fa “Avvenire” ha chiesto alla commissione Ue che fine avessero fatto le registrazioni video. “Nei sistemi di archiviazione del Seae (il Servizio europeo per l’azione esterna, ndr) e nei database di gestione dei documenti”, viene ora spiegato “nessun documento corrispondente alla richiesta è stato trovato”. E per tentare di sgombrare il campo da equivoci la lettera, firmata da uno dei capi divisione, si conclude con una avvertenza: “Si prega di notare che il Seae è stato informato che nessun file video è stato ricevuto dall’operazione Eunavformed Sophia”. Questa dichiarazione contrasta con altri documenti ufficiali di Bruxelles. Era il 2018 quando Federica Mogherini, allora “ministro degli esteri della Ue” a proposito dei libici aveva sostenuto che “la loro competenza professionale è aumentata, ma - scrisse rispondendo a un’europarlamentare britannica - non è ancora a un livello di autosufficienza”. Le videocamere erano state recapitate. “La consegna delle “Go-Pro camera” è stata completata”, precisava ancora Mogherini. Tuttavia, “la mancanza di una connessione internet affidabile ostacola la capacità della Guardia costiera e della Marina libica di caricare e condividere il materiale registrato”. Nel giro di tre anni, ammesso che quella fosse una spiegazione credibile, si è passati dalla “mancanza di connessione” a un più netto “nessun file video è stato ricevuto”. Ma è davvero così? L’accordo del 2017, con il quale la Commissione Ue autorizzava l’addestramento dei guardacoste di Tripoli, prevedeva la formazione del personale libico anche all’uso di questi sistemi di ripresa. Originariamente si trattava di una condizione essenziale, per rassicurare l’Europarlamento riguardo alla vigilanza che gli uffici dell’Ue avrebbero mantenuto sulle forze marittime libiche. Le immagini delle motovedette raccolte in questi anni dai media e dalle Ong non consentono di confermare se davvero le minicamere siano ancora presenti a bordo. In ogni caso, sempre rispondendo all’interrogazione del 2018, l’allora alto rappresentante della politica estera Ue assicurava: “Le telecamere sono state installate a bordo delle motovedette della classe Bigliani e gli ufficiali hanno ricevuto formazione dedicata sull’uso del materiale”. Quanto ai filmati, però, “la qualità e il numero di video forniti non sono ancora sufficienti per valutare se il meccanismo sia o meno uno strumento di monitoraggio affidabile”. Nel 2018, dunque, alcune immagini erano già nella disponibilità delle autorità europee. Oggi, invece, si esclude che siano mai arrivate. Secondo una fonte di Avvenire, che ben conosce l’intera storia delle complicate relazioni Europa-Roma-Tripoli e ha accesso a informazioni interne, non è da escludere che le registrazioni siano state protette come “restricted”, un “noto escamotage per evitarne l’esibizione a prescindere dal contenuto”. Qualunque sia la risposta, è chiaro che l’Europarlamento non dispone di informazioni esaustive. La ragione la spiega sempre la fonte nell’ammiragliato Ue, che ci ha mostrato alcuni importanti documenti in originale. Su spinta del ministero dell’Interno italiano venne creata l’area di ricerca e soccorso libica. Si trattava, spiega la fonte, “di un mero studio di fattibilità”, che non doveva valutare le capacità Sar (ricerca e soccorso, ndr) della guardia costiera libica, capacità notoriamente insufficienti, ma determinare le condizioni, gli strumenti e le risorse necessarie per realizzare, in una seconda fase, un progetto di Rcc libico (una centrale di coordinamento, ndr) in funzione di una successiva dichiarazione di un’area Sar”. Invece, “lo studio preliminare fu forzatamente incluso nel più generale progetto del Viminale, in quanto gestore nazionale dei fondi europei per la sicurezza Isf”. Marina e Guardia costiera italiane, perciò, sarebbero state usate per redigere una relazione, e poi tagliate fuori da decisioni strettamente politiche. Afghanistan. Il piano dell’industria militare europea per far fruttare il disastro afghano di Francesca De Benedetti Il Domani, 4 settembre 2021 Il complesso dell’industria militare europea, con i colossi di Italia e Francia in prima linea, ha un piano tanto perfetto quanto paradossale: sta tentando con successo di trasformare il fallimento in Afghanistan nella propria rivincita. L’ex ministro Marco Minniti, che ora lavora per Leonardo, scrive editoriali in cui cita Lenin e poi conclude: “All’Europa serve una politica di difesa comune”. Josep Borrell, la Commissione europea e i governi stanno effettivamente lavorando a questo. E chi ne trarrà vantaggio? Finora, l’impegno dell’Ue in quest’ambito è stato fortemente orientato dalle lobby dell’industria ed è andato anzitutto a profitto loro. Il complesso dell’industria militare europea, con i colossi di Italia e Francia in prima linea, ha un piano tanto perfetto quanto paradossale: sta tentando con successo di trasformare il fallimento in Afghanistan nella propria rivincita. “Alcuni eventi catalizzano la storia, e la débacle in Afghanistan è uno di questi eventi”: con queste parole, l’alto rappresentante Ue Josep Borrell argomenta l’urgenza di “rafforzare l’impegno” dell’Unione europea nell’ambito della difesa. Finora i fondi europei dedicati alla difesa, oltre a crescere esponenzialmente, non hanno fatto che alimentare con soldi pubblici i colossi come Thales e Leonardo. Ed è esattamente sotto l’ombrello di una difesa comune europea da rafforzare che si riparano ora le lobby dell’industria. Dietro le citazioni di Lenin (“ci sono settimane in cui accadono decenni”), l’ex ministro degli Interni Marco Minniti, che ora lavora per Leonardo con il ruolo di presidente della fondazione Med-or, scrive editoriali su Repubblica la cui conclusione è: “All’Europa serve una politica di difesa comune, basta con l’unanimità”. Per come si è sviluppato finora però, l’impegno dell’Ue in questo ambito è stato fortemente orientato dalle lobby dell’industria ed è andato anzitutto a vantaggio loro. Ieri Mario Draghi si è incontrato con il presidente francese Emmanuel Macron. Tra le ragioni sostanziali che spingono il premier italiano a volare a Marsiglia per intessere decisioni con l’Eliseo c’è proprio la volontà di “rilanciare la difesa comune europea” e l’interesse in tal senso degli apparati industriali dei due paesi. Sempre ieri, di difesa comune hanno discusso i vari ministri della Difesa dell’Unione europea, che si sono dati appuntamento in Slovenia. Se Borrell parla di “eventi catalizzatori” c’è un motivo: i progetti erano già in cantiere, e “l’evento”, cioè la disastrosa uscita dall’Afghanistan, può favorire il processo. Entro la primavera del 2022 l’Unione europea ha intenzione di adottare un documento strategico, lo EU Strategic Compass (“Bussola strategica dell’Ue”), sul quale hanno lavorato ieri i ministri. Proprio i governi degli stati membri infatti, con il servizio europeo per l’azione esterna (Eeas) al cui vertice c’è Borrell, sono impegnati sul dossier; sul quale invece finora non è stato coinvolto l’Europarlamento, né la società civile. Eppure, a detta di Borrell stesso, “la bussola determinerà con precisione le nostre ambizioni in ambito di sicurezza e difesa per i prossimi 5-10 anni”. L’Europa “deve investire di più in sicurezza”. La crisi in Afghanistan è l’innesco perfetto: come ha dimostrato Joe Biden anche nell’intransigenza sull’uscita entro il 31 agosto a dispetto delle richieste europee, l’Ue “ha tratto una lezione afghana: è cruciale la nostra autonomia strategica”, parole del presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Sugli altri, Usa inclusi, non si può contare troppo: quale alibi migliore per rimpinguare l’apparato industriale made in Europe? E infatti l’ex manager francese Thierry Breton, che si occupa di politica industriale come commissario europeo al Mercato interno, è corso a dire che “bisogna aumentare le capacità di difesa” e che “ormai non c’è alternativa, a una difesa comune europea”. I governi europei, e Borrell, discutono anche l’ipotesi di creare una initial entry force, una truppa targata Ue di 5mila militari: a detta dell’alto rappresentante Ue, “è per agire in modo immediato e robusto in situazioni come quella vista all’aeroporto di Kabul”. Non è detto che l’idea dell’armata europea vada a segno, vista la preferenza di alcuni, come paesi baltici e dell’est, di rimanere ancorati alla Nato. Ma questa è solo la superficie di un progetto più profondo. Storia di una difesa da business Sembra paradossale, se si pensa che l’integrazione europea stessa nasce come antidoto al ripetersi di altre guerre dopo il trauma della Seconda guerra mondiale, e per disinnescare ogni rivalità franco-tedesca a cominciare dalle risorse come carbone e acciaio. Eppure la militarizzazione dell’Unione comincia una ventina di anni fa proprio mentre l’Europa si sta interrogando sul suo futuro: è il 2002, è in corso la Convenzione sul futuro dell’Europa. A discutere delle sorti della difesa europea ci sono prevalentemente lobbisti dell’industria militare, che chiedono - e ottengono - la nascita di un’agenzia europea per la difesa. La missione dichiarata della European defence agency è “rafforzare l’industria della difesa”. L’agenzia nasce “al 95 per cento identica a come la avevamo chiesta”, dirà Michel Troubetzkoy, un’esperienza come lobbista di punta di Airbus, che chiese “personalmente a Valéry Giscard d’Estaing di dare, con questa agenzia, nuova forza alla cooperazione per la difesa”. Quel che segue mantiene l’impronta delle imprese, come ricostruisce un dossier appena stilato da Enaat (la rete europea contro il commercio di armi) e dalla fondazione Rosa Luxemburg, intitolato A militarised Union. Sotto l’egida di quella stessa guerra al terrore che ha giustificato l’intervento occidentale in Afghanistan, nel 2003 la Commissione Ue si avvale di un gruppo di personalità che dovrebbero farle da consulenti in tema di ricerca e sicurezza; su 25 membri, ben otto vengono dall’industria della sicurezza, e ovviamente spingono perché al settore arrivino fondi europei. L’uscita dell’euroscettico Regno Unito dall’Ue accelera il processo. “Nel 2015 le dieci più grandi compagnie di armamenti e le loro lobby hanno avuto ben 327 incontri con Commissione e membri di gabinetto; una cinquantina di lobbisti intanto circolavano indisturbati per l’Europarlamento e nelle istituzioni”, sono i numeri del dossier. Nel 2015 Bruxelles istituzionalizza un nuovo gruppo di personalità sulla ricerca per la difesa, che dovrebbe dare indicazioni di strategia e suggerimenti su come usare i fondi. In quel gruppo non ci sono organizzazioni della società civile né membri dell’accademia, ma in compenso c’è Leonardo, c’è Airbus, ci sono Bae, Mbda, Saab, Indra, Asd… Sette membri su 16 rappresentano l’industria delle armi; gli altri sono politici. La conclusione prevedibile a cui arriva il gruppo è che “bisogna rafforzare la posizione militare europea” dedicando tre miliardi e mezzo alla ricerca militare. E la commissione agisce di conseguenza, a novembre 2016: propone il fondo europeo per la difesa. Quell’anno le dieci principali compagnie del settore dichiarano 55 milioni di spesa per attività lobbistica; Airbus spende più di un milione e mezzo e ottiene ben 157 incontri con l’esecutivo Juncker. Leonardo di meeting ne ha 35; i dati più recenti sulla sua attività lobbistica mostrano un’impennata nel 2016 e poi uno sforzo costante, con una spesa annua nel 2019 tra i 300 e i 400mila euro e 48 incontri con la Commissione. Quando il programma europeo inizia a concretizzarsi, con una “azione preparatoria” 2017-2018 per la ricerca da 90 milioni, guarda caso la metà di quel budget finisce proprio a sette compagnie che erano nel gruppo di personalità; Leonardo è in testa (circa sei milioni). I fondi per lo sviluppo, ancora maggiori (500 milioni del bilancio comune per 2019 e 2020), finiscono in buona parte a otto aziende dello advisory group, coinvolte in 9 progetti su 16. Tra 2017 e 2019 i paesi a beneficiare di più del fondo per la difesa sono Francia, Italia, Germania e Spagna, mentre il 40 per cento di paesi Ue riceve pochi soldi o nulla. Tra le aziende che traggono più vantaggi figurano sempre Thales, Leonardo, Indra e poche altre. Nell’era di Next generation Eu lo schema è lo stesso ma la portata è estremamente più vasta: dal mezzo miliardo dedicato fino al 2020, ora si passa agli otto miliardi per il 2021-2027; da spendere in progetti focalizzati sulla “next generation di armamenti”, come la chiama Enaat (droni e così via). Per la prima volta nella storia di un’Europa che si era messa insieme per disarmarsi, i soldi comuni vengono spesi per rafforzare l’industria delle armi e la sua “competitività”. La sinistra europea, dal suo avamposto in Germania cioè Die Linke, questa estate ha portato in tribunale il fondo europeo per la difesa: sostiene che va contro i trattati europei, e spera nella corte tedesca perché a suo dire con il fondo l’Ue scavalla il passaggio democratico nel bundestag. Il punto, più in generale, è che mentre le grandi compagnie degli armamenti prendono sempre più spazio - e più fondi - non aumenta invece il grado di controllo democratico, anzi. L’agenzia europea per la difesa ad esempio sfugge allo scrutinio dell’Europarlamento. Questa stessa agenzia ha attirato i moniti del difensore civico Ue perché ha autorizzato il passaggio del suo ex direttore esecutivo a Airbus. Le porte girevoli sono l’ennesimo segnale, se mai servisse, della partita che le aziende stanno giocando a Bruxelles. Afghanistan. La sfida delle donne al potere talebano di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 4 settembre 2021 Un coraggio del genere. Le afghane non hanno atteso l’annuncio del nuovo governo per scendere in piazza, l’orientamento dei taleban è apparso chiaro quando sono state respinte dai luoghi di lavoro e le promesse di una possibile partecipazione femminile al governo sono state smentite. L’illusione che i nuovi taleban fossero diversi dai vecchi è durata poco. Almeno nei confronti delle donne, vittime predestinate dei fondamentalisti islamici e dei loro regimi. Del resto le afghane lo hanno sempre saputo e provato. E sulla propria pelle che i diritti se li devono conquistare e difendere. E così, coraggiosamente, decine di donne stanno sfidando gli studenti coranici in piazza, giovedì a Herat e ieri a Kabul e in altre zone del paese. Le afghane non hanno atteso l’annuncio del nuovo governo per scendere in piazza, l’orientamento dei taleban è apparso chiaro quando le donne sono state respinte dai luoghi di lavoro e le promesse di una possibile partecipazione femminile al governo, secondo la sharia, sono state smentite: le donne potranno lavorare nelle istituzioni governative ma non ad alti livelli. È stato Mohammad Abbas Stanikzai un leader taleban, in una intervista alla Bbc pashto, ad affermare che nel prossimo governo “potrebbe non esserci posto per le donne”. E lo ha più autorevolmente confermato il portavoce dei taleban, Zabiullah Mujahid, riconoscendo il ruolo delle donne come infermiere o per altri lavori di cura, ai quali potranno dedicarsi “seguendo i comandamenti del Corano e sotto la legge della sharia, ma non come ministro”. Un Corano e una sharia fatta su misura per i taleban, non essendo com’è noto la sharia una legge, ma un codice di comportamento che deve essere interpretato dalle diverse scuole giuridiche. E comunque per ora le donne devono rimanere a casa “per motivi di sicurezza”, questa giustificazione non è nuova, anche il burqa negli anni 90 lo dovevano portare per motivi di sicurezza. Una sicurezza che non impediva che le donne venissero frustate e lapidate. E allora, come avevamo constatato, non è stato facile per le donne, che avevano introiettato l’insicurezza predicata dai taleban, liberarsi dal burqa. Ma d’altra parte non sarà nemmeno facile per i taleban riportare le donne e tutti gli afghani al 1996. “Noi rivendichiamo i nostri diritti” ha detto ad Al Jazeera Mariam Ebram, una delle organizzatrici della manifestazione di Herat, e comunque “un governo senza donne non durerà”. “Dopo settimane in cui abbiamo cercato contatti con i taleban a tutti i livelli, le donne hanno deciso di far sentire la loro voce. Abbiamo cercato di parlare con loro ma abbiamo visto che, come con i taleban di 20 anni fa, non era possibile. Non c’è nessun cambiamento”, ha aggiunto Mariam. Dopo vent’anni è duro riaprire la piaga prodotta dai taleban quando sono arrivati al potere la prima volta. Non che prima e anche dopo il regime dei taleban non ci siano state violenze contro le donne, ma almeno non erano costrette a vivere senza uscire di casa e se lo facevano, con il loro accompagnatore, il Mahram, da sotto il burqa vedevano solo il mondo a quadretti. Le donne in piazza rivendicano soprattutto il diritto al lavoro, all’istruzione e alla libertà, perché, si leggeva su un cartello alla manifestazione di Kabul, “i diritti delle donne sono diritti universali”. I messaggi equivoci mandati dai taleban al loro arrivo a Kabul e probabilmente diretti all’occidente per ottenere un riconoscimento hanno tratto molti in inganno. Nonostante le constatazioni successive tra le manifestanti di Herat e Kabul c’è comunque chi preme per una partecipazione delle donne nel governo. “Vogliamo lavorare come gli uomini sotto la legge islamica” ha detto Razia una delle attiviste di Kabul a Tolonews. E Shabana Tawana: “Dopo la formazione del governo dei taleban, tutte le donne devono tornare al lavoro. Non dobbiamo permettere a nessuno di sottrarci le conquiste degli ultimi venti anni”. Anche se i vent’anni di occupazione non hanno portato la libertà e la democrazia perché “non ci sarà pace finché ci saranno truppe straniere in Afghanistan”, come ci diceva Malalai Joya, ma non si nascondeva il pericolo del ritorno dei taleban. Ora che sono tornati non si arrende, continua a mandare messaggi attraverso i social diventando per molti un punto di riferimento nella resistenza al nuovo regime. E, per una fatale coincidenza, è uscito alla fine di agosto un docufilm sulla storia degli ultimi 40 anni dell’Afghanistan vista attraverso le vittime delle guerre con Malalai Joya, e Noam Chomsky, dal titolo “In nome del mio popolo”.